parlare al consumatore.
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PARLARE AL CONSUMATORE. MODELLI PER COMPETERE SUL MERCATO ITALIANO DELLE CALZATURE SINTESI PRIMI RISULTATI DELLA RICERCA TERME DI SAN CASCIANO, 15 20141 MILANO - Via Biondelli 9 Tel +39 02 89546251 - fax +39 02 8466743 www.diomedea.it e-mail [email protected] LUGLIO 2011 OBIETTIVI. Il Gruppo Giovani di ANCI ha affidato a Diomedea nell’ambito del progetto “Parlare al consumatore” una ricerca quanti-qualitativa sul mercato italiano delle calzature. Obiettivo dell’analisi è quello di mettere in luce i cambiamenti del mercato italiano delle calzature nell’ultimo decennio e comprendere quali modelli, produttivi e distributivi, si stanno profilando all’orizzonte. In particolare la ricerca ha identificato i cambiamenti avvenuti attraverso l’analisi delle statistiche di consumo nazionale e ha analizzato i rapporti tra distribuzione (dettaglio) e industria, attraverso interviste a operatori che operano sul mercato italiano. PERCHÉ L’ITALIA? La produzione italiana è oggi fortemente orientata ai mercati esteri. Le stime di ANCI che tengono conto delle importazioni di calzature che vengono poi riesportate ci dicono che: 1. solo il 17% della produzione delle aziende italiane (in volume ovvero in numero di paia) è commercializzata sul mercato interno. La quota di mercato in Italia delle aziende italiane è di circa il 18,5%. L’81,5% dei consumi è quindi detenuto da distributori italiani e stranieri che importano calzature. 2. La produzione italiana è ormai fortemente orientata ai mercati stranieri: circa l'82,6% della produzione in volume e circa l'81,1% della produzione in valore è esportato fuori dal mercato italiano. Perché allora ha senso parlare del mercato italiano? Sul mercato interno l’arena competitiva ha visto una intensificazione del numero di competitor: eccellere sul mercato italiano significa confrontarsi con i competitor mondiali e non solo. Quello italiano rimane un consumatore esigente e molto attento ai fenomeni della moda: ciò porta le imprese a sforzarsi di innovare il prodotto ma anche le modalità di comunicazione e di distribuzione. Anche in questo ambito, fatte salve le considerazioni sulla specificità del sistema distributivo italiano, il nostro mercato rappresenta una palestra troppo importante per pensare di rinunciarvi. Al tempo stesso sono ormai diversi anni che la quota delle importazioni è in forte crescita. Ad inizio decennio in termini di quantità le importazioni rappresentavano il 63,3%, quota oggi salita all’81,5%. Gran parte di questo aumento è in realtà dovuto all’importazione di calzature dalla Cina che quindi non sono in diretta competizione con la produzione italiana per ovvie ragioni di costo. In altra misura l’aumento è anche il segnale di una maturazione delle aziende italiane oggi disposte ad integrare la propria produzione anche con calzature acquistate all’estero che completano la gamma offerta con la produzione propria. Sebbene la crescita delle importazioni non rappresenti in sé una rinuncia al mercato interno da parte delle aziende italiane, è forse giunto il momento di chiedersi se non si possa pensare ad innovare il rapporto con il sistema distributivo italiano, se non bisogna pensare ad un dialogo più diretto con i punti vendita e i consumatori italiani, se non occorra ripensare qualcosa nel modo di affrontare il mercato e nelle relazioni con la distribuzione. L’analisi che segue prova a mettere in luce, in una chiave di lettura nuova, alcuni cambiamenti degli ultimi 10-15 anni, partendo da due considerazioni iniziali: il mercato della moda è diventato più costoso e più rischioso. 2 PARTECIPARE AL BUSINESS DELLA MODA È DIVENTATO PIÙ COSTOSO. Il settore calzature è diventato un settore nel quale prevalgono i costi fissi (quelli che le imprese devono sostenere indipendentemente da quanti prodotti vengono realizzati) e i costi non recuperabili (quelli che una volta spesi non possono essere recuperati attraverso la vendita del bene su cui si è investito). Ciò contrasta con l’idea che il settore sia invece fortemente condizionato dai soli costi variabili e in particolar modo dal costo del lavoro: ciò è vero solo se si considera una parte della catena del valore del prodotto (quella strettamente industriale) che però oggi contribuisce in una parte molto limitata al valore finale del prodotto. Le spese di comunicazione, di marketing, della distribuzione sono tutti costi aumentati enormemente negli ultimi anni e allo steso tempo sono funzioni che fanno parte integrante del business al punto che il prodotto uscito dalla fabbrica può essere considerato un semilavorato da ultimare. Solo per fare un esempio, abbiamo stimato che il costo di un negozio in Italia considerando le spese di allestimento, affitto ed escludendo quelle della pura gestione (spese luce e del personale) può arrivare in media al 15% del fatturato del punto vendita, ma per le vie centrali commerciali di alcune grandi città il costo è anche molto superiore. Questi sono costi di distribuzione che in modo diretto o indiretto pesano sul conto economico dell’azienda. PARTECIPARE AL BUSINESS DELLA MODA È DIVENTATO PIÙ RISCHIOSO. Il settore calzature è diventato un settore nel quale i rischi connessi alla creazione di collezioni, la vendita ai distributori e la vendita ai consumatori sono notevolmente aumentati. Una misura di questo maggior rischio è data dall’aumento delle vendite in saldo o a prezzi scontati. In Italia Confesercenti stima che circa un quarto dei punti vendita realizza tra il 40 e il 50% del fatturato nei periodi di saldo, mentre uno studio statunitense sui department stores rivela che se nel 1950 la quota delle vendite scontate era circa il 20% dell’offerta, nel 1998 tale quota è salita al 72%. Sul mercato italiano delle calzature i dati non danno risultati differenti. Il crescere del rischio di invenduto che in parte è collegato all'eccesso di offerta presente sul mercato, è attribuibile alla maggiore imprevedibilità della domanda, a tendenze moda meno definite che in passato. Gli stessi operatori lamentano che le rimanenze stanno ormai raggiungendo percentuali critiche: la percentuale di rimanenze teorica di un punto vendita è tra l'8% e il 12%, ma in alcuni dettaglianti abbiamo registrato quote del 20%. L'aumento del peso dei saldi è la conseguenza di due fattori congiunti: i negozianti, per smaltire le rimanenze, hanno l'incentivo a fare promozioni anticipate o ad aumentare lo sconto dei saldi, mentre è ormai opinione comune che i consumatori "aspettino" i saldi. Entrambi questi comportamenti sono il segnale che il sistema nel suo complesso fatica a mantenere remunerazioni reali sostenibili e lo stesso ricarico del dettagliante è sempre più aleatorio al punto che la componente di rischio appare a molti operatori non più sopportabile senza l’aiuto delle imprese di produzione. Inoltre un rischio così elevato mette alle corde un sistema produttivo che si basa sui “tempi lunghi” di creazione e produzione: il lungo processo che porta alla creazione del prodotto fino alla sua produzione e distribuzione deve fare i conti con il fatto che la vita commerciale della scarpa si è ridotta enormemente, il desiderio di novità e la rapidità dei processi di consumo oggi sono caratteristiche comuni a tutti i mercati del mondo. 3 LA PRODUZIONE INDUSTRIALE È STATA SCHIACCIATA DA QUELLA IMMATERIALE. Dove si costruisce oggi il valore del prodotto? Qual è la fase della filiera nella quale è maggiore la quota di valore prodotta? In altre parole cosa spinge un consumatore a comprare un prodotto: il suo design? la qualità dei materiali e delle lavorazioni? l’ambiente (l’arredo e il layout dei negozi) in cui quel prodotto è comprato? la forza del marchio e l’efficacia della campagna pubblicitaria? il servizio al consumatore prima e dopo la vendita? ecc.. Sono molti più che in passato gli elementi che contribuiscono a creare il valore del prodotto. Molto più che in passato inoltre contano gli elementi immateriali (design, distribuzione, comunicazione, marketing) rispetto a quelli materiali (filatura, tessitura, confezione). Per questa ragione i produttori industriali sono oggi pressati dai costi sempre più bassi richiesti per le fasi di produzione materiale, quelle che nella filiera sembrano dare minor valore al prodotto. I semilavorati sono sempre più considerati delle comodities e giudicati solo in relazione al loro prezzo. Le industrie nazionali del tessile – abbigliamentocalzature finiscono per scontrarsi sempre più solo sulla base del prezzo. Nel recente passato abbiamo visto aziende che impostavano la propria produzione ai costi più bassi possibili per permettere, con il conseguente risparmio, gli alti investimenti richiesti nelle fasi di produzione immateriale. Questa è una strategia che per molti aspetti ha il fiato corto ma quelle filiere che non basano la propria produzione solo sul prezzo ma anche sulla qualità dei materiali e delle lavorazioni devono fare i conti con questo scenario. Esiste una soluzione? Il tessile - abbigliamento e la produzione di calzature mondiale si sposterà solo nelle nazioni con bassi costi di produzione? Questa è una previsione che molti economisti fanno da diverso tempo, ma in realtà ciò è avvenuto solo parzialmente. La capacità di reazione di alcune aziende della moda ha permesso di inventare nuovi modelli di business e nuovi sistemi di organizzazione della filiera. Quelle aziende che negli ultimi dieci anni hanno avuto successo, presentano una caratteristica comune: sono partite guardando al mercato e ripensando da lì modalità distributive, produttive e creative. Pare quindi opportuno enfatizzare alcuni cambiamenti nel modo di consumare le calzature che possono offrire spunti di riflessione. L’ITALIA, UN MERCATO IN STAGNAZIONE DA MOLTI ANNI. Il consumo di calzature in quantità dagli anni 2000 è sostanzialmente stabile. Nell’ultimo decennio infatti non ci sono stati grandi picchi in alto o in basso, ma quando il mercato estero cresceva quello interno cresceva meno, quando invece il mercato internazionale rallentava, l’arretramento era meno consistente ma finiva per incidere in modo strutturale sui consumi. Il 2010 si è chiuso con un consumo interno totale delle calzature pari a 190,3 milioni paia e 3,5 miliardi di euro (prezzi franco fabbrica) che rappresentano rispettivamente un calo dello 0,6% e dello 0,4% rispetto al 2009, anno in cui (a differenza delle esportazioni) i consumi non erano crollati (-1,2% e –0,7% le variazioni del 2009). Questi dati si riferiscono ai consumi totali che tengono conto di quelli delle famiglie italiane, quelli delle comunità (ospedali, forniture ad aziende pubbliche e private ecc..) e quelli dei turisti stranieri presenti in Italia. Se guardiamo solo ai consumi delle famiglie italiane (che costituiscono l’83% dei consumi) i dati confermano un andamento tendenzialmente piatto, con una stagnazione di medio periodo che ha caratterizzato l’intero decennio, al punto che i risultati del 2010 (158,4 milioni di paia e 6,3 miliardi di euro a prezzi al dettaglio) rappresentano più o meno i livelli dell’inizio del decennio (i dati sono quasi identici ai livelli del 2003). 4 Dall'altro lato però aumenta il prezzo medio che, dai circa 34,86 euro del 2000 (prezzi al dettaglio), è salito a 40,02 euro del 2010; i prezzi analizzati tengono conto degli acquisti di tutte le tipologie di calzature (dalle pantofole agli stivali), delle modifiche anche temporanee del paniere di acquisto e degli acquisti fatti con scontistiche particolari (saldi e promozioni). Questo aumento medio, che pure è rimasto al di sotto del livello medio di inflazione ma che certamente sottostima quello che è accaduto in alcune tipologie di calzature, è generato anche da cambiamenti significativi dell'offerta e quindi da un diverso scenario competitivo. Da un lato la crescita delle importazioni a basso prezzo dalla Cina e, dall'altro, l'aumento del prezzo medio generato dalla crescita dell'offerta di calzature dei marchi del lusso e di fascia alta dell'abbigliamento. A questo “upgrade” qualitativo hanno naturalmente contribuito anche le aziende italiane riconvertitesi verso segmenti più alti di produzione. Per le calzature in pelle, specializzazione della produzione italiana, il prezzo medio degli acquisti è cresciuto nel 2010 fino a 60,7 euro (nel 2000 era 50,0 euro). I primi dati del 2011 indicano peraltro che la fase di stagnazione dovrebbe durare anche per quest’anno. Nel primo trimestre 2011 i consumi in quantità sono diminuiti dello 0,9% rispetto allo stesso periodo del 2010 mentre in valore la variazione è positiva con una crescita del 2,2%. Sebbene il dato in termini di spesa è positivo è ancora troppo presto per capire se questo si confermerà nei mesi successivi: in un periodo così breve infatti le variazioni in valore risentono molto di fattori esogeni (variazioni del paniere di beni consumato e variazioni nelle svendite e nei tassi di sconto dei mesi di gennaio e febbraio) che rendono poco significativo il tasso tendenziale. Tra i diversi segmenti di calzature sono soprattutto il segmento donna (-0,2% in quantità e +1,8% in valore) e il segmento bambino (-1,5% e –1,6%) a risentire maggiormente della contrazione degli acquisti mentre la scarpa da uomo è in crescita (+2,9% e + 4,2%) così come le sportive e le sneakers (messe qui in un’unica voce che unisce uomo, donna e bambino) che complessivamente fanno segnare un aumento in quantità dell’1% e in valore del 3,4%. 1. I CONSUMI PER FASCE DI PREZZO: VINCE L’ALTO, PERDE IL BASSO, TIENE IL MEDIO ALTO Dalle interviste effettuate agli operatori della distribuzione emerge con chiarezza la difficoltà di competere sulla fascia bassa e medio bassa sia perché il mercato pur essendo molto grande è in via di contrazione sia perché i margini sono troppo bassi ed è quindi molto rischioso posizionare tutta la propria offerta su un prodotto con quella fascia di prezzo. I dati sui consumi delle famiglie italiane lo confermano. Per rendere maggiormente leggibile il dato statistico abbiamo ripensato e ristimato le fasce di prezzo così come emergono dai dati di rilevazione del consumo. I dati di Sita Ricerca infatti riportano i prezzi effettivi pagati dai consumatori che tengono conto anche di tutto quanto non è venduto a prezzo pieno ovvero saldi, svendite, promozioni, liquidazioni e sconti vari praticati dal sistema distributivo. L’analisi per fasce di prezzo quindi è stata effettuata stimando i prezzi nominali, facendo delle ipotesi sui ricarichi teorici dei distributori e sui tassi di sconto medi applicati da tutti i distributori e per tutti i segmenti di calzature. Sulla base delle nostre stime, che partono dalle classi di prezzo e dai dati di Sita Ricerca, emerge la ripartizione teorica per fasce di prezzo e le rispettive quote di mercato. La fascia bassa del mercato (calzature fino a 56 euro) rimane il segmento con il maggior numero di acquisti in assoluto (il 64,9% degli acquisti in volume e il 27,6% in valore) nel 2010. Rispetto al dato di inizio decennio (2001) si sono però verificati due fenomeni: da un lato è cresciuta l’offerta a prezzo tra i 20 euro e i 40 euro mentre è scesa quella inferiore a 20 euro e quella tra i 40 e i 50 euro, ovvero si è realizzata una sostanziale redistribuzione a favore 5 dell’offerta media all’interno della classe di prezzo basso. In secondo luogo la classe nel suo complesso ha perso quote di mercato sia in volume (-3,7 punti percentuali rispetto al 2001) sia in valore (-7,3 punti percentuali). Questa perdita di quote non ha però premiato la classe di prezzo immediatamente successiva (56-105 euro che possiamo definire medio-bassa); anche in questo caso la quota di mercato è consistente (19,5% in paia e 27,0% in valore) ma altrettanto significativa la riduzione rispetto al 2001 (rispettivamente 2,1 e 8,5 punti percentuali) e soprattutto in valore, la perdita relativa è stata addirittura superiore a quella subita dalla fascia bassa. La fascia che potremmo definire medio-alta (da 105 a 140 euro) ha invece avuto un andamento meno lineare, perché se è vero che in termini di volumi è cresciuta (dalla quota del 6,2% del 2001 è passata nel 2010 a 7,2) in termini di valore è scesa (dal 16,1% di inizio decennio a 15,6% dello scorso anno). Si tratta quindi di cambiamenti poco significativi e che proprio per questo possono essere fortemente legati alla tipologia del paniere di beni acquistati nell’anno. In linea di massima si può quindi dire che questa classe ha tenuto. In crescita sono invece state sia la classe fine (da 140 a 175 euro) sia la classe di prezzo alto (oltre i 175 euro). Per la classe fine c’è stata una crescita delle quote fino ad arrivare nel 2010 a rappresentare il 3,7% dei consumi in quantità e il 10,4% in valore. Analogamente la classe alta oggi rappresenta il 4,6% degli acquisti in volume ma ben il 19,5% degli acquisti in valore. Gli incrementi sono stati consistenti soprattutto per la fascia alta che ha più che triplicato la propria quota in valore. Si tenga conto che i dati sono confrontati a prezzi correnti ma l’effetto inflazione in questo caso ha contato in modo poco significativo essendo invece prevalente uno spostamento in termini reali del mercato. È significativo inoltre notare che la crescita delle quote dei prezzi più alti è stata in parte controbilanciata dalla crescita significativa dell’acquisto a prezzi scontati (saldi e promozioni) come si vedrà nel punto successivo, che ha di fatto ridotto i margini teorici di ricarico. Si noti inoltre che lo spostamento di quote di mercato appena descritto ha caratterizzato in modo trasversale il segmento uomo e quello donna. Prendendo in considerazione le calzature da passeggio uomo e quelle donna in pelle e confrontando le quote delle diverse fasce di prezzo si ottengono le stesse analisi e gli stessi risultati (seppure con accentuazioni leggermente diverse) dell’analisi del totale calzature. 2. IL FINALE DI STAGIONE CONTA SEMPRE DI PIÙ In questo scenario, il consumatore italiano ha però cambiato progressivamente il modo di acquistare il prodotto perché alcune strategie difensive di risposta alla crisi economica e al basso clima di fiducia stanno ormai diventando componente strutturale dei comportamenti di acquisto. Un esempio evidente nasce dall’analisi dell’andamento dei consumi delle famiglie italiane per mese. Nelle due stagioni (primavera-estate e autunno-inverno) i due mesi finali delle rispettive stagioni contano sempre di più sul totale degli acquisti e ciò è particolarmente vero per la stagione invernale (gennaio e febbraio) e per le calzature a più alto valore aggiunto (con tomaio in pelle). All’inizio del decennio la quota degli ultimi due mesi della stagione invernale delle calzature in pelle era del 14,2% se misurata in acquisti in paia e del 14% se misurata in acquisti in euro, mentre nel 2010 ha raggiunto rispettivamente il 15,7% e il 15,4%. In altre parole gli acquisti della stagione si stanno lentamente spostando verso la sua coda in modo strutturale e ciò è vero soprattutto per la stagione invernale visto che il mese di agosto molti punti vendita chiudono per le vacanze estive e quindi il dato risulta in parte falsato. Ma come possiamo interpretare questo spostamento? 6 Si tratta, da parte del consumatore, di un’attesa del momento più favorevole per effettuare gli acquisti che coincide con le vendite scontate. È però evidente che questa attesa non è più una strategia per compensare la crisi, ma rappresenta un cambiamento strutturale del comportamento di acquisto del consumatore italiano. I saldi però non sono solo l’unica spiegazione: una crescita così consistente degli acquisti di fine periodo è legata anche alla percezione del consumatore che in quei mesi si fanno affari, e proprio grazie a questa percezione si accetta di spendere perché si ha comunque la sensazione di risparmiare. I saldi sono quindi determinanti ma non sono solo l’unica spinta all’acquisto: lo dimostra il fatto che paragonando le media dei prezzi effettivamente pagati dai consumatori dei primi mesi della stagione con i mesi finali, il prezzo medio scende ma meno di quanto ci si potrebbe aspettare per effetto dei saldi. In particolare la differenza tra prezzo medio nel periodo settembredicembre e prezzo medio nel periodo gennaio-febbraio è del 10% nel 2010, (14% se si considerano le sole calzature in pelle). In estate la differenza sale rispettivamente al 21% per il totale delle calzature e al 23% per le calzature in pelle. L’abbassamento meno consistente di quanto ci si aspetterebbe del prezzo medio nei mesi finali della stagione è spiegabile in più modi: da un lato si acquistano in saldo le scarpe più care, dall’altro le vendite a prezzo scontato caratterizzano ormai tutta la stagione. L’effetto congiunto di questi due fattori porta a rendere il prezzo medio pagato nei singoli mesi più simile. Si deve però pensare che questo cambiamento è ormai un fatto strutturale se complessivamente il 35,2% delle calzature sono acquistate nel finale della stagione e deve far riflettere su come adattarsi e sfruttare tale cambiamento. 3. I MARGINI EFFETTIVI SI STANNO RIDUCENDO: CRESCONO I SALDI MA CRESCONO ANCHE GLI SCONTI DURANTE L’ANNO Nelle interviste fatte ai distributori italiani è emerso uno stato di generale sofferenza per il conto economico del punto vendita. In generale il margine nelle vendite è nell’opinione dei distributori del tutto insufficiente per coprire i costi. I dati confermano questa considerazione, ma offrono alcuni spunti di riflessione in più. È vero che le politiche di sconto hanno ormai raggiunto livelli significativi e in questi ultimi anni il loro peso è aumentato in modo considerevole. Nel 1995 il prodotto venduto a prezzi scontati (in tutti i periodi dell’anno e non solo durante i saldi) era pari ad una quota del 22,85% in quantità e del 20,54% in valore. Nel 2010 queste quote erano salite rispettivamente al 33,79% e al 32,15% ovvero in 15 anni si è sostanzialmente “eroso” un valore aggiuntivo del 10% del mercato (che prima veniva venduto a prezzo pieno). I dati sono ancora più impietosi su alcuni segmenti: ad esempio la calzatura da bambino è passata da un 17,45% in quantità (vendite scontate su vendite totali) e da un 15,21% in valore a percentuali rispettivamente del 32,65% e del 32,42% nel 2010. Nella sola calzatura in pelle da bambino si sono raggiunti addirittura vendite scontate pari al 41,77% in quantità e al 38,64% in valore nel 2010 (con valori di partenza nel 1995 del 21,32% e 16,65%). Una crescita della scontistica che probabilmente non è avvenuta solo in termini di quantità di scarpe vendute, ma anche in termini di percentuali di sconto. Ma a cosa è dovuto questo incremento delle vendite a “prezzo non pieno”? La colpa è proprio dei saldi e quindi ciò giustifica l’aumento delle vendite nella coda della stagione? La risposta è sorprendentemente un’altra: non sono i saldi ad aumentare il loro peso ma l’aumento delle vendite promozionali negli altri mesi dell’anno, ovvero si è di fronte ad un 7 mercato che “per stare a galla” droga i consumi attraverso la crescita delle vendite in promozione. In altri termini possiamo vedere questo processo come l’affaticamento della filiera produttiva/distributiva nell’intercettare il “desiderio” del consumatore e quindi la necessità di applicare sconti per rendere appetibili i prodotti. I dati infatti ci dicono che nella stagione invernale le vendite scontate nei mesi gennaio e febbraio sono cresciute dal 1995 al 2010 da una quota in quantità del 51,7% ad una quota del 59,2%: si tratta di un aumento significativo che ha caratterizzato anche febbraio (che pure consideriamo come mese di saldo o di fine stagione). Tuttavia negli altri mesi della stagione invernale (settembre-dicembre) la quota di vendite scontate sono salite dal 14,4% al 19,1% ovvero 4,7 punti percentuali (ma erano 9,5 tra 1995 e 2005). La differenza sta però nei numeri assoluti perché nei quattro mesi centrali si vendono circa il doppio delle calzature degli ultimi due mesi: l’effetto complessivo è quindi una crescita in termini assoluti più che proporzionale nei mesi iniziali della stagione. Ciò è sostanzialmente vero per tutti i segmenti di calzature. Si noti inoltre che i mesi in cui la quota di vendite in saldo è cresciuta di più sono quelli di inizio stagione (settembre e ottobre) che probabilmente rappresentano mesi in cui vengono smaltite anche le rimanenze della stagione precedente. I CAMBIAMENTI DI MERCATO E LE OPPORTUNITÀ NEI RAPPORTI TRA FASE CREATIVA, PRODUTTIVA E DISTRIBUTIVA. Dalle interviste realizzate ai produttori di calzature e ai distributori sul mercato italiano emergono alcune indicazioni significative e anche alcune opportunità rispetto ai cambiamenti di mercato che sono stati osservati nell’ultimo decennio. Come è detto il mercato è stato per lo più stagnante né sono previsti cambiamenti molto significativi nei prossimi anni a seguito di una situazione macroeconomica del nostro Paese che necessita tempi lunghi per modificarsi. Eppure ci sono alcune considerazioni che si possono fare. FASE DI CREAZIONE: ci sono ormai due tendenze chiare nel mondo della moda e delle calzature. Vi è una tendenza ad anticipare l’uscita delle collezioni per essere in grado, da parte di chi fa investimenti creativi di una certa consistenza, di poter avere tempistiche di consegna anticipate e vendite più lunghe (per i distributori). In questo processo però è soprattutto la fase di prototipazione e di messa a punto del prodotto a contrarsi. Il combinarsi di questi due effetti tende a mettere sotto pressione quei produttori che offrono servizi alle griffe e ai marchi del lusso. D’altro canto il mercato è oggi meno prevedibile che in passato e gli stessi operatori segnalano che meccanismi troppo rigidi finiscono per produrre risultati economici negativi che si ripercuotono alla lunga su tutta la filiera. Non è un caso che alcuni marchi di alta gamma abbiano scelto di uscire con tre collezioni per stagione e che in diversi casi alcuni capi dell’invernale entrano nella prima collezione estiva e viceversa. Si sta quindi lentamente modificando anche nella calzatura il concetto di stagione, con meccanismi che rendono l’impostazione delle collezioni meno rigida. FASE DI PRODUZIONE: è evidente che la costruzione della calzatura e il numero dei suoi componenti rendono complesso alleggerire e flessibilizzare la filiera. Tuttavia un meccanismo che parte dalla selezione delle tendenze dei componenti e dei semilavorati per arrivare alla selezione dei prodotti finiti richiedendo tempi lunghi di preparazione e di avvio della macchina produttiva, 8 oggi più che nel passato, risulta poco efficace. Non esistono soluzioni facili, ma gli stessi dettaglianti intervistati, pur consapevoli delle difficoltà, chiedono innovazioni soprattutto nella relazione tra punto vendita e produttore. Non meno importanti sono le relazioni di filiera e le caratteristiche di approvvigionamento della materia prima che oggi finiscono per rendere complessa una risposta efficiente al mercato. Essere flessibili richiede forti investimenti, ma i forti investimenti sono resi poco percorribili dai bassi margini realizzati soprattutto nelle fasi a monte della filiera. Anche in questo caso però una partnership di filiera potrebbe abbattere in modo consistente l’investimento e il rischio connesso: le reti di impresa e le recenti normative possono da questo punto di vista essere una via interessante da percorrere. FASE DI DISTRIBUZIONE: il punto vendita multimarca tradizionale specializzato è in forte crisi e non sembra avere la possibilità di modificare il proprio approccio al mercato. I fenomeni nuovi in termini distributivi sono nati negli ultimi anni tra i negozi di abbigliamento e tra quei pochi punti vendita specializzati che possono essere considerati “trend setters” o “trend hunters”. Ciò che però ancora risulta carente nel mercato in termini generali, è la capacità di stabilire un dialogo con il consumatore sia in modo diretto (con strumenti di marketing e non solo attraverso punti vendita diretti) sia in modo indiretto attraverso i punti vendita multimarca (per esempio attraverso l’analisi dei dati di sellout). L’esito di questa mancanza di dialogo è pericolosa tanto più in un mercato nel quale crescono i rischi e cresce la rapidità con la quale si vede dissolvere il valore commerciale del prodotto. La crescita del segmento alto del mercato non può indurre all’unica strategia di puntare verso l’alto, ovvero crescere in termini di posizionamento: in realtà esiste lo spazio per una calzatura di prezzo medio-alto e l’andamento del mercato negli ultimi anni suggerisce proprio la possibilità che in questo mercato si aprano spazi interessanti. In un simile posizionamento però è essenziale che la distribuzione svolga un ruolo di “creatore di valore” e riconquisti la capacità di dialogare con uno specifico target di mercato attraverso un prodotto e politiche di pricing adeguate. Senza una vera condivisione degli obiettivi tra le tre diverse fasi (creazione, produzione e distribuzione) appare assai complesso percorrere strade che invece richiedono una sintonizzazione costante e continuata con il proprio target di mercato. Un’analisi attenta del processo di acquisto del consumatore evidenzia che il 35,2% delle calzature sono acquistate nel finale della stagione e pone interrogativi su entrambi i fronti ovvero quello del punto vendita e quello del consumatore. Per il consumatore si tratta di capire come indurre l’idea della scarsità, ovvero fargli percepire che alcuni prodotti non saranno scontati né potranno essere trovati in saldo, come sono state capaci di fare alcune aziende nell’abbigliamento. Sul fronte distributivo occorre invece comprendere se esistono spazi per offrire un servizio nuovo sul fronte dei rinnovi di collezione, sulle consegne dei riassortimenti e sulle sostituzioni. In un mercato così complesso bisogna capire se e come cambiano le tempistiche di consegna, produzione e persino di creazione visto che un terzo del mercato avviene nei mesi finali di stagione con calzature pensate, prodotte e consegnate molto anticipatamente rispetto alle tempistiche di vendita. 9