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L’uovo e la gallina europea. Commento di Sandro Calvani1sulla Brexit. Il 23 Giugno scorso, la domanda secca del referendum nel Regno Unito, chiamato imprecisamente Brexit, è stata: “Il Regno Unito dovrebbe restare membro dell’Unione Europea o lasciare l’Unione Europea (UE) ?”. La maggioranza della popolazione del Regno Unito ha votato per lasciare l’UE. I dettagli del voto dimostrano che i cittadini del Regno Unito, non sono stati affatto uniti o unanimi in quanto a questa scelta. Dei quattro paesi dell’Unione, hanno votato per lasciare la UE l’inghilterra e il Galles, e hanno votato invece per restare nella UE la Scozia e l’Irlanda del Nord. Inoltre le grandi città dell’Unione, i giovani e i laureati hanno votato fortemente a favore del restare membri della UE; i meno-giovani, le campagne e i non laureati hanno votato per lasciare la UE. L’analisi del voto è molto importante per capirlo e per ipotizzare le scelte future per la UE. Per ogni nazione, l’essere membro dell’Unione Europea significa sottoscrivere almeno i punti fondamentali dei suoi dodici trattati di associazione e i 27 protocolli che ne specificano alcuni aspetti importanti. È ovvio che le migliaia di pagine di tali accordi internazionali limitino la sovranità delle nazioni che li hanno sottoscritti. Inoltre sessant’anni di processi di integrazione europea hanno creato un sistema molto complesso di diritti e doveri europei. Ci sono inoltre nazioni come la Norvegia e la Svizzera che, pur non essendo membri dell’UE, hanno negoziato e firmato accordi molto simili a quelli tra i paesi membri della UE e hanno ugualmente accettato una limitazione della loro sovranità. Nel caso del Regno Unito, la sovranità nazionale appartiene al suo Parlamento, come stabilito da un complesso sistema di leggi e decisioni delle corti di giustizia, dato che il Regno Unito non ha una costituzione nazionale. Curiosamente però il primo ministro David Cameron ha voluto un referendum popolare sul restare o lasciare la UE, anche se legalmente la decisione che ne deriva non può essere automaticamente vincolante, dato che dovrebbe essere il Parlamento a deciderlo. Allo stesso tempo Cameron ha ripetuto per anni di essere filo-UE, ma di volere allo stesso tempo condizioni speciali per il Regno Unito, migliori di quelle accordate nei trattati per gli altri paesi membri della UE. Tale aspirazione del Regno Unito ad essere una classe speciale nella UE era stata sempre dichiarata dai leaders britannici durante i quarantatré anni di associazione con la UE. In qualche modo il Regno Unito ha di fatto ottenuto dalla UE un trattamento davvero favorevole e speciale dal 1973 fino ad oggi. Passando al popolo la gran decisione se o no lasciare la UE, Cameron si è in pratica lavato le mani e ha lavato quelle del Parlamento circa una decisione così importante. I referendum nel Regno Unito sono molto rari: a parte il referendum sull’adesione alla Comunità Europea nel 1975, non ci sono precedenti simili nella storia del Regno Unito su questioni internazionali ugualmente difficili e complesse. Per esempio nel 1939 il primo ministro (PM) Neville Chamberlain decise -con l’approvazione del Parlamento- di dichiarare guerra alla Germania e il PM Winston Churchill decise nel 1943 di invadere l’Italia e altre parti dell’Europa, senza chiedere l’opinione del popolo. Allo stesso modo nel 2003, il PM Tony Blair decise l’intervento armato contro l’Irak, con l’approvazione del 1 Docente di affari Internazionali e politiche dello sviluppo sostenibile, consigliere senior della Mae Fah Luang Foundation, sotto patrocinio reale, Bangkok, Thailandia. www.sandrocalvani.it . Questa opinione è personale. parlamento, per eliminare armi nucleari, senza consultare la gente. La storia ha poi dimostrato che le prime decisioni di Chamberlain e Churchill furono quelle giuste per il Regno Unito e per l’Europa, quella di Blair fu sbagliata per tutti. Ma in tutti e tre i casi il governo e il parlamento, difronte a una decisione storica, difficile e complessa hanno fatto la scelta che ritenevano migliore, onorando la leadership che era stata loro affidata. I fatti storici dimostrano che i governi e i parlamenti devono -senza eccezioni- esprimere la loro responsabilità ed accettare il rischio di sbagliare esercitando delle precauzioni ausiliari che non possono sempre essere sottoposte al voto popolare diretto. Infatti che succederebbe se si sottoponesse a referendum in ogni paese del mondo una riduzione del 90% delle tasse, oppure gli accordi globali stabiliti a Parigi per il controllo del cambio climatico? Il risultato del referendum dimostra, anche nell’analisi del voto, che difronte a questioni così complesse i cittadini si limitano a scegliere in base a poche impressioni che sembrano loro certe, ovviamente in base alla loro esperienza e al loro specifico interesse. Per esempio se l’UE promuove il multiculturalismo, la parità dei diritti delle donne, la questione ambientale, è comprensibile che ai più anziani sembrino tutte idee che accelerano un eccessivo allontanamento dalle tradizioni. La campagna referendaria a favore del Brexit ha poi fatto più rumore su questioni più emotive come la paura delle migrazioni e il contributo alle istituzioni europee, presentandole come tasse ingiuste per ingrassare i funzionari di Bruxelles. L’informazione e la comunicazione sui benefici dell’UE è stata invece parziale e di basso profilo, anche perché, per esempio, è obbiettivamente molto più difficile spiegare quali vantaggi possano derivare dal sistema universitario Erasmus o dalla libera circolazione dei professionisti nell’UE a gente che non va all’università, vive in campagna o si preoccupa di più della propria scarsa pensione. Sono queste osservazioni che discriminano il voto meno informato, facendolo passare per un voto di serie B? Assolutamente NO. Piuttosto io credo fermamente che una scelta su complesse questioni collettive e addirittura internazionali, non può essere degradata al livello di una scelta di pura opinione o preferenza personale, come se fosse scegliere il the con il limone invece che con il latte. Dato che la globalizzazione ha indiscutibilmente messo tutta l’umanità sulla stessa barca, non si può rischiare di affondare tutti insieme solo per permettere a questo o quel gruppetto di fare un esperimento democratico nel fare dei buchi nello scafo. Se democrazia, benessere, diritti e felicità sono collegati in serie come anelli di una catena a livello continentale e planetario, è inutile chiedere a ciascuno di decidere qual è l’uovo e quale la gallina, ma certo bisogna difendere la fragilità delle uova che garantiscono il futuro di tutti. Come argomentò molto bene Aristotele, le precauzioni ausiliari devono essere forti proprio per mantenere credibile la democrazia. In non pochi casi infatti la democrazia male informata e miope ha fatto colossali errori, che sono stati pagati da più di una generazione. Non dimentichiamo che sia il partito nazista che quello fascista raggiunsero il potere per vie democratiche, approfittando degli umori della gente dovuti alla depressione economica. Allo stesso modo, regimi democraticamente eletti, come per esempio quello in Venezuela e altri in alcuni paesi africani, si sono rapidamente trasformati in dittature di fatto. È dunque una responsabilità prioritaria dei governanti e dei parlamenti avere ed usare una buona etica e offrire possibilità di scelta al popolo solo con una dovuta precisione nell’informazione e considerando i macro-rischi. In tempi di incertezza sul futuro, una buona leadership dovrebbe dunque evitare di sottoporre a scelta popolare quelle decisioni che vanno verso il tribalismo, cioè di porre ogni piccolo gruppo omogeneo contro tutti gli altri. Non è etico chiedere se la grande economia del Regno Unito deve o no pagare tasse all’UE per aiutare i paesi più poveri dell’UE, come non sarebbe etico per un comandante fare un referendum tra l’equipaggio della sua nave per chiedere se prendere a bordo dei rifugiati che stanno affogando. Altrettanto non è etico chiedere in un referendum alla ricca Lombardia o alla Catalogna se vogliano o no continuare a pagare le tasse che servono a pagare università e la salute pubblica nella parte più povera del paese. Nella storia della nazioni e delle federazioni, queste garanzie di base del sistema politico sono sempre state scritte nella costituzione. Il Regno Unito non ne ha una e nemmeno l’UE è mai riuscita a scrivere in poche pagine i suoi fondamenti ed obiettivi politici. Forse sarebbe ora che l’Europa lo facesse. Significherebbe anche decidersi una volta per tutte se davvero integrare pienamente il mercato comune dell’UE, con un sistema comune fiscale e monetario, un vero sistema comune di difesa e di controllo delle frontiere esterne, e una corte suprema di giustizia che possa dirimere le grandi differenze senza sottoporle ogni volta a referendum popolare. Ogni adesione di un paese membro potrebbe essere poi decisa in via definitiva dai parlamenti nazionali, senza possibilità di futura secessione. Sessant’anni sono un tempo abbastanza lungo di incubazione per pretendere di veder schiudere le uova della democrazia europea e rendere evidente a tutti i suoi cittadini se il sogno di unione europea scritto nel trattato di Roma del 1958 era una gallina oppure un’aquila.