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jonathan kellerman
La colpa
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Janet L. Dubbini
Dello stesso autore abbiamo pubblicato:
Vittime
Ossa
Prima edizione: settembre 2013
Titolo originale: Guilt
© 2013 by Jonathan Kellerman
© 2013 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Timecrime è di proprietà
di Sergio Fanucci
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384
Indirizzo internet: www.timecrime.it
This translation is published by arrangement with Ballantine Books,
an imprint of The Random House Publishing Group,
a division of Random House llc
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
jonathan kellerman
La colpa
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Tutto mio!
La casa, la vita che stava crescendo dentro di lei.
Il marito.
Holly completò il quinto giro della stanza sul retro che si
affacciava sul giardino. Si fermò per riprendere fiato. La pic­
cola – Aimee – aveva cominciato a premerle sul diaframma.
Dalla stipula del compromesso, di giri Holly ne aveva fatti
un centinaio, fantasticando. Adorava ogni centimetro di quel
posto, nonostante gli odori sgradevoli che impregnavano
l’intonaco vecchio di novant’anni: orina di gatto, muffa, mi­
nestrone rancido. Persona anziana.
Nel giro di pochi giorni sarebbe iniziata la tinteggiatura, il
profumo della vernice acrilica avrebbe coperto tutto e dei co­
lori vivaci avrebbero fatto sparire quel grigio-beige deprimen­
te dalle pareti del suo sogno a dieci stanze. Più i bagni.
La casa di mattoni in stile Tudor si trovava su un lotto di
mille metri quadrati sul confine meridionale di Cheviot Hills.
Costruita quando gli edifici venivano fatti per durare, era or­
nata di modanature, rivestimenti in legno, porte ad arco in
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Jonathan Kellerman
mogano e pavimenti in abete rigatino. Per non parlare del
parquet nel grazioso studiolo che sarebbe diventato l’ufficio
di Matt quando avrebbe avuto bisogno di portarsi del lavoro
a casa.
Holly avrebbe potuto chiudere la porta e non sarebbe sta­
ta costretta a sentirlo che si lamentava di clienti idioti incapa­
ci di tenere in ordine i registri. Mentre lui lavorava, lei se ne
sarebbe stata su un comodo divano, accoccolata con Aimee.
Aveva saputo il sesso del nascituro dall’ecografia morfo­
logica del quarto mese e aveva deciso subito il nome. Matt
non lo sapeva ancora. Aveva appena iniziato ad abituarsi
all’idea della paternità.
A volte Holly si domandava se Matt sognasse sotto forma
di numeri.
Le mani appoggiate sul davanzale di mogano, strizzò gli oc­
chi per cancellare le erbacce e il prato secco, cercando con tutte
le sue forze di immaginare un paradiso verde colmo di fiori.
Difficile raffigurarselo con quell’enorme albero che occupa­
va tutto lo spazio.
Il platano alto quanto un edificio di cinque piani era stato
pubblicizzato come una delle attrattive della casa, con il tronco
spesso come un fusto di petrolio e il fogliame fitto che creava
un’atmosfera tetra, quasi spettrale. La fantasia di Holly si era
subito scatenata, vedeva già un’altalena fissata a quel ramo che
sporgeva più in basso.
Aimee che ridacchiava mentre si sollevava in volo e grida­
va che Holly era la mamma migliore del mondo.
Due settimane dopo la stipula del compromesso c’era sta­
to un fortissimo temporale, insolito per quella stagione, e le
radici del platano avevano ceduto. Grazie a dio, quel mostro
aveva ondeggiato ma non era caduto. La traiettoria lo avreb­
be fatto atterrare proprio sulla casa.
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E così avevano stilato un accordo: i venditori – il figlio e la
figlia dell’anziana proprietaria – avrebbero pagato per far ab­
battere e rimuovere quell’obbrobrio, ridurre in polvere il cep­
po e spianare la terra. Ma invece, nel tentativo di risparmiare,
avevano pagato una ditta specializzata solo per abbattere il
platano e si erano lasciati dietro un orrore indicibile di rami
secchi che occupava tutta la metà posteriore del giardino.
Matt era andato su tutte le furie, minacciando di far salta­
re l’accordo.
Revocare. Che brutta parola.
Holly era riuscita a calmarlo, promettendogli che si sareb­
be occupata lei di tutto, avrebbe fatto in modo che li risarcis­
sero debitamente e lui non avrebbe dovuto pensare a niente.
D’accordo. A patto che tu lo faccia davvero.
Adesso Holly se ne stava lì a fissare quella montagna di le­
gno, sentendosi scoraggiata e un po’ impotente. Una parte del
platano, pensò, poteva essere ridotta in legna da ardere. I fram­
menti, le foglie e i pezzi sparpagliati di corteccia avrebbe potu­
to raccoglierli da sé con il rastrello, creando magari un cumulo
di compost. Ma quei rami enormi...
Pazienza, avrebbe trovato una soluzione. Nel frattempo, c’e­
ra quel cattivo odore di orina di gatto/minestra rancida/muffa/
persona anziana di cui occuparsi.
La signora Hannah aveva vissuto in quella casa per cinquan­
tadue anni. Ma anche con ciò, come riuscisse l’odore di una per­
sona a permeare l’intonaco e i listelli era un mistero. Non che
lei avesse nulla contro gli anziani. Benché non ne conoscesse
molti.
Eppure doveva esserci qualcosa per darsi una rinfrescata
– un deodorante speciale – arrivati a una certa età.
In un modo o nell’altro, Matt si sarebbe placato. Gli sareb­
be passata, come sempre.
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Era stato così anche con la casa. In vita sua, non aveva mai
manifestato alcun interesse per il design, poi, tutto d’un trat­
to, si era trasformato in un appassionato dello stile contem­
poraneo. Holly aveva visitato una quantità infinita di noiose
scatole bianche, sapendo che Matt avrebbe trovato sempre
una ragione per dire di no, perché era così che faceva lui.
Quando la casa dei sogni di Holly si materializzò, non fu
lo stile a colpire Matt, ma solo il prezzo vantaggioso.
Incredibilmente, l’acquisto era andato in porto senza intop­
pi, come quando tutte le congiunzioni astrali sono favorevoli
e il karma è perfettamente in equilibrio: l’anziana signora era
morta, i figli avidi, che volevano riscuotere subito l’eredità,
avevano contattato l’immobiliare Coldwell e casualmente e­
rano stati messi in contatto con Vanessa, la quale aveva chia­
mato Holly prima che la casa fosse messa sul mercato, per­
ché era in debito con lei: tutte quelle notti in cui Holly l’aveva
consolata e l’aveva ascoltata lamentarsi senza sosta dei suoi
problemi personali.
Se a ciò si aggiunge che era in atto la peggiore crisi del mer­
cato immobiliare degli ultimi decenni, che Holly era stata
una vera formichina, lavorando dodici ore al giorno come pr
da quando, nove anni prima, si era diplomata, che Matt era
persino più spilorcio di lei e in più aveva avuto un aumento,
che quei titoli nei quali avevano investito grazie a uno degli
amici tecnologici di Matt avevano fruttato bene, ecco che si
erano trovati ad avere giusto i soldi sufficienti per l’anticipo e
per ottenere il finanziamento.
Mio!
Compreso l’albero.
Armeggiò con una vecchia maniglia di ottone difettosa –
serramenti originali! –, con una spinta aprì la porta-finestra
imbarcata e uscì in giardino. Facendosi strada lungo il per­
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corso a ostacoli di rami abbattuti, foglie morte e pezzi frasta­
gliati di corteccia, giunse alla staccionata che separava la sua
proprietà da quella dei vicini.
Era la prima occhiata seria che dava a quel disastro ed era
persino peggiore di quanto avesse immaginato: la ditta ave­
va segato in lungo e in largo senza alcun criterio, lasciando
che i grossi pezzi di legno cadessero sul terreno senza pro­
tezioni. Il risultato era una gran quantità di buche – crateri,
anzi –, un vero disastro.
Magari poteva essere il pretesto per minacciare di fargli
una bella causa se non avessero portato via tutto e ripulito
per bene.
Avrebbe avuto bisogno di un avvocato. Uno che avrebbe
accettato l’incarico se per caso... Cielo, quelle buche, dalle qua­
li spuntavano un mucchio di radici spesse e piene di vermi,
erano orrende.
Si inginocchiò ai bordi della voragine più grossa e tirò con
forza le radici. Niente da fare. Si spostò verso una buca più
piccola, ma smosse solo polvere.
Alla terza buca, quando riuscì a strappare un ciuffo di radici
più piccole, con le dita sfiorò qualcosa di freddo. Di metallico.
Un tesoro sepolto, signorsì, un bottino di pirati! Ma allora
c’era una giustizia a questo mondo! Ridendo, rimosse la ter­
ra e i sassi, rivelando una chiazza blu pallido. Poi una croce
rossa. Ancora qualche altro colpo e le si presentò allo sguar­
do tutto il coperchio dell’oggetto di metallo.
Una scatola, simile a una cassetta di sicurezza ma più gran­
de. Blu, fatta eccezione per la croce rossa al centro.
Qualcosa di sanitario? O solo dei bambini che avevano se­
polto chissà cosa in un contenitore abbandonato?
Holly tentò di spostarla. La scatola si mosse un po’, ma
rimase ben piantata lì dov’era. La mosse avanti e indietro,
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Jonathan Kellerman
fece qualche progresso, ma non riuscì a liberare quel dan­
nato affare.
Poi si ricordò e andò in garage a recuperare la vecchissima
vanga dal mucchio di attrezzi arrugginiti che i vecchi pro­
prietari avevano lasciato lì. Un’altra promessa mancata, si
erano impegnati a ripulire tutto, ma poi avevano addotto la
scusa che gli attrezzi erano ancora utilizzabili e stavano solo
cercando di essere gentili.
Come se Matt avrebbe mai usato un tosasiepi, un rastrello
o un tagliabordi.
Tornata alla buca, Holly infilò la lama della vanga tra il
metallo e la terra e fece leva. Si sentì uno scricchiolio ma la
scatola si spostò solo di pochissimo, razza di testarda. Ma­
gari poteva far saltare il coperchio per vedere cosa ci fosse
all’interno... No, era tenuto ben saldo dal terreno. Armeggiò
ancora un po’ con la vanga, con gli stessi scarsi progressi.
Ai vecchi tempi avrebbe premuto con più forza. Quando
praticava zumba due volte a settimana, yoga una, correva
dieci chilometri e non doveva evitare il sushi, il carpaccio, il
latte macchiato o lo chardonnay.
Tutto per te, Aimee.
Adesso, con il passare delle settimane, si sentiva sempre
più affaticata e tutte quelle cose che aveva dato per scontate si
rivelavano invece delle vere e proprie imprese. Si fermò per
riprendere fiato. Okay, era giunto il momento di escogitare
un piano alternativo: inserì la vanga centimetro per centime­
tro lungo tutto il bordo della scatola e aprì una serie di piccole
fessure, lavorando in modo metodico, attenta a non sforzarsi.
Dopo due giri, ricominciò. Aveva appena iniziato a fare
pressione sulla vanga quando il lato sinistro della scatola si
sollevò di scatto e l’oggetto fu libero. Holly barcollò all’indie­
tro, presa alla sprovvista.
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La colpa
La vanga le scivolò di mano mentre con le braccia cercava
di recuperare l’equilibrio.
Sentì che stava per cadere, si impose di non farlo e riuscì
a restare in piedi.
C’era mancato poco. Ansimava come un cavallo con l’asma.
Finalmente si riprese abbastanza da trascinare la scatola blu
sul terriccio.
Nessun lucchetto sulla serratura, solo una cerniera e un
gancio, completamente arrugginiti. Il resto della scatola era
diventato verde a causa dell’ossidazione e da un punto in cui
la vernice blu era completamente scrostata Holly poté capire
perché: bronzo. Massiccio, a giudicare dal peso. La scatola
da sola avrà avuto chissà quale valore.
Inspirando profondamente, diede qualche colpetto alla
cerniera finché non si aprì.
«Et voilà» disse, sollevando il coperchio.
Il fondo e i lati della scatola erano rivestiti con la carta scu­
rita di un vecchio giornale. Adagiato sul letto di ritagli c’era
qualcosa arrotolato in un panno sfilacciato, un tempo blu, ora
scolorito sino a diventare più che altro beige e verde pallido,
con delle chiazze violacee lungo i bordi in seta.
Qualcosa che meritava di essere avvolto. Sepolto. Elettriz­
zata, Holly tirò fuori l’involto dalla scatola.
Fu subito delusa, perché qualunque cosa contenesse, non
pesava praticamente niente, addio dobloni, lingotti d’oro o
diamanti.
Posato a terra il fagotto, afferrò un lembo del panno e sro­
tolò.
La cosa che vi si trovava avvolta le stava sorridendo.
Poi cambiò forma... Oh, cielo! Holly lanciò un grido e la
cosa si sfasciò davanti ai suoi occhi, perché a tenerla insieme
era la tensione del panno in cui era avvolta.
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Jonathan Kellerman
Uno scheletro minuscolo, ora una manciata di ossa spar­
pagliate.
Il teschio le era finito proprio davanti. Sorrideva. Le orbite
nere assurdamente penetranti.
Due specie di minuscoli dentini sulla mascella inferiore
sembravano sul punto di mordere.
Holly si sedette, incapace di muoversi, di respirare o di
pensare.
Un uccello cinguettò.
Poi il silenzio piombò su di lei.
Un osso della gamba rotolò di lato, quasi fosse dotato di
volontà propria, e Holly si lasciò sfuggire un suono inartico­
lato di paura e disgusto.
Il che non scoraggiò il teschio. Continuava a fissarla. Come
se sapesse qualcosa.
Holly fece appello a tutte le sue forze e gridò.
Continuò a gridare.
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La donna era bionda, carina, pallida e incinta.
Si chiamava Holly Ruche ed era seduta ricurva su un cep­
po, uno fra i tanti che la circondavano, enormi sezioni taglia­
te del tronco di un albero che occupavano buona parte del
malandato giardino sul retro. Respirava affannosamente e si
teneva stretta la pancia, gli occhi chiusi.
Tra il pollice e l’indice della mano destra teneva uno dei bi­
glietti da visita di Milo, spiegazzato sino a essere irriconosci­
bile. Per la seconda volta da quando ero arrivato, con un gesto
della mano respinse il soccorso dei paramedici.
Gli operatori sanitari rimasero comunque nei paraggi,
prestando scarsa attenzione agli agenti in divisa e alla squa­
dra del coroner. Tutti che vagavano con l’aria di chi si sente
inutile; ci sarebbe voluto un antropologo per capirci qual­
cosa.
Milo aveva chiamato prima i soccorritori. «Priorità. Per il
resto la situazione non presenta emergenze.»
Il resto era un assortimento di ossa marroni, che un tempo
erano state lo scheletro di un bambino, sparpagliate su una
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Jonathan Kellerman
vecchia coperta. Non in modo casuale, ma a formare un pic­
colo corpo umano disarticolato.
Le suture craniche aperte e un paio di denti che spuntavano
dalla mandibola mi facevano supporre che avesse dai quattro
ai sei mesi, ma non ho il dottorato di ricerca giusto per questo
genere di congetture. Le ossa più piccole – le dita delle mani
e dei piedi – non erano tanto più spesse degli stuzzicadenti.
Guardare quella povera creatura mi faceva male agli occhi.
Spostai l’attenzione sui particolari.
Sotto il panno che l’aveva avvolta c’era un mucchietto di ri­
tagli di un giornale del 1951 che rivestivano una scatola di me­
tallo blu lunga circa sessanta centimetri. Il giornale era il Daily
News di Los Angeles, non più in stampa dal 1954. Su un’eti­
chetta adesiva apposta sul lato della scatola c’era scritto pro­
prietà dello swedish benevolent hospital and infirmatory,
232 central avenue, los angeles, ca., un istituto che, secondo
quanto aveva appena confermato Milo, aveva cessato l’attività
nel ’52.
La casa semplice e bassa in stile Tudor che si affacciava sul
giardino sembrava più vecchia, risaliva probabilmente agli
anni Venti, periodo in cui buona parte di Los Angeles aveva
preso forma.
Holly Ruche si mise a piangere.
Un paramedico le si avvicinò di nuovo. «Signora?»
«Sto bene...» Gli occhi gonfi e i capelli a caschetto scom­
pigliati dalle mani nervose, la donna si concentrò su Milo,
come se lo vedesse per la prima volta, poi spostò l’attenzione
su di me, scrollò il capo e si alzò.
Incrociando le braccia sul pancione, chiese: «Quando pos­
so riavere la mia casa, detective?»
«Non appena avremo finito di esaminare la scena, signora
Ruche.»
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La colpa
Mi guardò di nuovo.
«Questo è il dottor Delaware,» fece Milo «il nostro consu­
lente psicologo...»
«Uno psicologo? Qualcuno si preoccupa per la mia salute
mentale?»
«A volte chiamiamo il dottor Delaware quando...»
«Grazie, ma sto bene.» Rabbrividendo, si voltò a guardare
il punto in cui aveva trovato le ossa. «Che cosa orribile.»
«Quanto in profondità era sepolta la scatola?» chiese Milo.
«Non saprei... Non molto, in fondo sono riuscita a tirarla
fuori, no? Non penserete mica che si tratti di un vero crimine?
Uno nuovo, intendo. Ѐ un fatto che risale al passato, non è di
competenza della polizia, giusto? La casa è stata costruita nel
1927, ma la scatola avrebbe potuto essere lì da ben prima, la
terra un tempo era coltivata a campi di fagioli e viti, se scavaste
nel quartiere – in qualsiasi quartiere – chissà cosa trovereste.»
Si portò una mano al petto. Sembrava facesse fatica a re­
spirare.
«Forse dovrebbe sedersi, signora» disse Milo.
«Non si preoccupi, le assicuro che sto bene.»
«Che ne dice se lasciamo che i paramedici le diano un’oc­
chiata...»
«Sono già stata visitata» rispose. «Da un medico vero, ieri,
il mio ostetrico-ginecologo, va tutto alla perfezione.»
«A che punto è la gravidanza?»
«Al quinto mese.» Il sorriso era distante. «Cosa mai potreb­
be andare storto? Ho una casa magnifica. Anche se la state e­
saminando» aggiunse con tono contrariato. «Ѐ tutta colpa loro,
volevo solo che si sbarazzassero di quell’albero, se non lo aves­
sero fatto in modo così superficiale, tutto questo non sarebbe
mai successo.»
«I proprietari precedenti?»
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Jonathan Kellerman
«Gli Hannah, Mark e Brenda, la casa apparteneva a loro
madre, è morta, non vedevano l’ora di vendere per intascare
l’eredità... Ehi, ecco un’informazione per lei, detective... Mi
scusi, come ha detto che si chiama?»
«Tenente Sturgis.»
«Ecco un’informazione per lei, tenente Sturgis: l’anziana
donna aveva novantatré anni quando è morta, ha vissuto qui
per molto tempo, la casa ha ancora il suo odore. Perciò po­
trebbe benissimo essere stata lei a... fare quello.»
«Indagheremo, signora Ruche.»
«Cosa significa esattamente esaminare?»
«Dipende da cos’altro troviamo.»
Holly si infilò una mano nella tasca dei jeans, tirò fuori un
telefono e si mise a premere con rabbia sui tasti. «Forza, ri­
spondi una buona volta... Ah, ti ho trovato. Finalmente. Sen­
ti, ho bisogno che tu venga qui... alla casa. Non crederai mai
a cosa è successo... Cosa? No, non posso... Va bene, appena
termina la riunione... No, non chiamare, vieni e basta.»
Riagganciò.
«Suo marito?» domandò Milo.
«Ѐ un commercialista.» Come se quello spiegasse tutto. «Al­
lora, che vuol dire esaminare?»
«Come prima cosa porteremo dei cani per fiutare in giro
e, a seconda di quello che troveranno, forse un sistema geo­
radar per vedere se c’è dell’altro sepolto là sotto.»
«Dell’altro?» chiese Holly Ruche. «Perché mai dovrebbe
esserci dell’altro?»
«Per nessun motivo, ma dobbiamo essere scrupolosi.»
«Sta dicendo che casa mia è un cimitero? Ѐ disgustoso. Tut­
to ciò che avete sono delle vecchie ossa, non c’è ragione di pen­
sare che ce ne siano altre.»
«Sono sicuro che lei abbia ragione...»
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La colpa
«Ma certo che ho ragione, questo posto appartiene a me. La
casa e la terra.»
Si portò nervosamente una mano sull’addome. Lo massag­
giò. «La gravidanza procede benissimo.»
«Ѐ fantastico, signora Ruche.»
Holly fissò Milo ed emise un lieve squittio. Strabuzzò gli
occhi, spalancò la bocca e cadde all’indietro.
Io e Milo l’afferrammo al volo. Aveva la pelle fredda e umi­
da. Appena si accasciò, i paramedici accorsero con aria strana­
mente soddisfatta.
Facevano cenni con il capo come a dire ‘te l’avevo detto’.
Uno di loro dichiarò: «Capita sempre a quelle più ostinate.
Ora ci pensiamo noi, tenente.»
«Non ne dubito» rispose Milo, e andò a chiamare l’antro­
pologo.
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Liz Wilkinson aveva appena finito di tenere una lezione
all’università, sarebbe arrivata in venti minuti. Milo andò a
fare altre telefonate e io rimasi seduto con Holly Ruche.
Secondo i paramedici tutti i parametri vitali erano a posto,
ma la donna aveva bisogno di riposare e di assumere liquidi.
Mi affidarono una bottiglietta di Gatorade, raccolsero le lo­
ro cose e se ne andarono per una chiamata d’emergenza nei
pressi dell’autostrada 405.
La prima volta che offrii a Holly la bottiglietta, lei serrò le
labbra e fece cenno di no con il capo. La seconda volta, la accet­
tò. Diversi sorsi dopo, sorrise e abbassò la mano destra sino ad
appoggiarla sulla mia mano sinistra. Aveva ripreso colore. «Mi
sento molto meglio...» disse. «Lei è uno psicologo per il soste­
gno alle vittime?»
«Faccio quello che serve, non ho un compito prestabilito.»
«Immagino di essere una vittima. Una specie.»
«Dev’essere stata un’esperienza difficile.»
«Ѐ stato orribile. Crede che il tenente abbia intenzione di
scavare per tutto il giardino?»
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Jonathan Kellerman
«Non farà niente che non sia necessario.»
«Detta così, sembra che stia mettendo le mani avanti per
conto suo.»
«Lo dico per esperienza.»
«Quindi lavora spesso con lui.»
«Già.»
«Dev’essere... Ah!» Sussultò e si toccò la pancia. Il maglion­
cino di jersey nero che indossava si mosse. «Si sta agitando co­
me una pazza... È una femmina.»
«Congratulazioni.»
«Il mondo è delle donne.» Fece un gran sorriso. «Non ve­
do l’ora di avere una migliore amica in miniatura.» Un’altra
smorfia. «Wow, si sta muovendo parecchio... Oh, cielo... que­
sta volta mi ha fatto un po’ male, mi sta dando dei calci sulle
costole.»
«Ѐ il primo figlio?» chiesi.
«Si vede? Ho l’aria di una principiante, eh?»
«No, affatto. Ѐ che è giovane.»
«Non così giovane» disse. «Ho trentun anni.»
«Non sono molti.»
«Mia madre ne aveva diciotto quando ha avuto me.»
«Quelli sono ancora meno.»
Rise, poi si fece seria. «Non era quello che volevo io.»
«Avere un figlio così giovane?»
Alzò gli occhi al cielo. «Il modo in cui l’ha fatto lei... Ma
l’ho sempre desiderato.»
«Un figlio.»
«Un figlio, la casa, il giardino, tutta quella storia dell’an­
gelo del focolare... Sarà meraviglioso.» Guardando dietro di
me, osservò i tecnici della scientifica che stavano studiando
le sezioni di albero. Erano lì da quindici minuti e stavano a­
spettando l’arrivo di Liz Wilkinson. Nel frattempo avevano
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La colpa
posizionato un telo bianco sopra la scatola blu. Sembrava un
costume da fantasma afflosciato.
«Non posso permettere che combinino qualche disastro
nella mia proprietà» disse Holly Ruche «So che adesso non è
propriamente in ordine, ma ho dei progetti.»
Neanche una parola sulle piccole ossa. Mi domandai per
quale ragione una donna sposata evitasse di parlare al plu­
rale.
«Stava filando tutto liscio» disse. «Poi quello stupido albe­
ro doveva essere...»
Un movimento nel vialetto d’accesso ci fece voltare entram­
bi. Un uomo più o meno dell’età di Holly, magro ma flacci­
do, calvo e con la barba, si fermò a studiare i resti dell’albero
abbattuto prima di avvicinarsi. Indossava una camicia blu a
maniche lunghe, pantaloni grigi e scarpe marroni. Aveva il
cercapersone alla cintura, l’iPhone in mano e occhiali da sole
da aviatore sulla testa rasata.
«Ciao» disse Holly.
«Ciao» rispose lui.
Le loro fedi nuziali erano abbinate. Non si scambiarono
altro saluto all’infuori di quello. Lui aveva una di quelle fac­
ce allergiche al sorriso. Si tenne a una certa distanza da Holly,
aveva l’aria esausta.
«Matt?» lo richiamò lei.
L’attenzione dell’uomo si spostò sulla mano che Holly con­
tinuava a tenere sulla mia.
Mi alzai e mi presentai.
«Un dottore?» chiese lui. «Holly ha qualche problema?»
«Lei sta bene, tutto sommato.»
«Ottimo. Matt Ruche. Sono il marito.»
«Dottore nel senso di psicologo» precisò Holly. «Mi sta dan­
do sostegno.»
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Jonathan Kellerman
Matt Ruche socchiuse gli occhi. «Va bene.»
La moglie gli lanciò un sorriso largo e inespressivo. «Mi
sento molto meglio, adesso. Ѐ stato pazzesco. Trovarlo.»
«Immagino... Allora, quando possiamo ripulire?»
«Non lo so, ci faranno sapere.»
«Ѐ una seccatura.»
«Devono fare il loro lavoro, Matt.»
Lui toccò il cercapersone. «Che scocciatura.»
«Quello stupido albero...» disse lei. «Nessuno poteva im­
maginare...»
«Pazienza.» Gettò un’occhiata al cellulare.
Feci per andarmene.
«Aspetti, un secondo» disse Holly Ruche.
Si alzò. «Ha un biglietto da visita, dottor Delaware?»
Ne trovai uno. Matt Ruche allungò la mano per prender­
lo. Lei lo afferrò per prima. Matt divenne tutto rosso sino al
cuoio capelluto. Fece spallucce e si mise a mandare un sms.
Holly mi prese la mano tra le sue. «Grazie.»
Le augurai buona fortuna proprio quando Liz Wilkinson
entrò a grandi passi nel giardino, portando con sé due valiget­
te rigide. Indossava un tailleur pantalone del colore del cioc­
colato scuro; lo stesso della sua pelle, un paio di tonalità più
chiaro. Aveva un camice sul braccio. I capelli lunghi erano stati
lisciati di recente e li portava sciolti. Mi vide, mi fece un cenno
di saluto e proseguì.
Qualcuno doveva averla già istruita, perché andò dritta
verso il telo, indossò il camice, raccolse i capelli, si infilò i
guanti, si chinò e con un gesto svelto lo sollevò.
«Oh, ma guardate questo povero esserino.»
Le ossa sembravano persino più piccole. In alcuni pun­
ti erano dello stesso colore del burro rosolato, in altri nere.
Fragili come porcellana. Riuscivo a vedere delle minuscole
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La colpa
sporgenze lungo entrambe le arcate dentali. Denti non an­
cora spuntati.
Liz sporse il labbro inferiore. «Sepolto sotto l’albero?»
Indicai la buca. Liz esaminò la scatola blu.
«Lo Swedish Hospital? Non ne ho mai sentito parlare.»
«Lo hanno chiuso nel ’52. Per cosa pensi venisse usata in
origine quella scatola?»
«Probabilmente proprio per questo» rispose.
«Un contenitore dell’obitorio?»
«Forse la usavano per trasportare spoglie.»
«Il bambino è morto per cause naturali all’ospedale e
qualcuno si è preso il corpo?»
«I corpi non rimangono negli ospedali, Alex. Vengono por­
tati alla camera mortuaria. Dopodiché, chi può sapere cosa
succede? A quell’epoca le disposizioni erano meno rigide.»
«La scatola è di bronzo massiccio» dissi. «Forse veniva u­
tilizzata per trasportare campioni di laboratorio, qualcuno
avrà pensato che con il ferro o l’acciaio il rischio di ossidazio­
ne sarebbe stato maggiore.»
Liz si girò verso lo scheletro, indossò degli occhiali da ingran­
dimento e si portò a un paio di centimetri dalle ossa. «Niente
fili metallici né fori di trapano, probabilmente nessun tratta­
mento sbiancante o chimico, per cui escluderei che si tratti di
uno di quei modelli anatomici usati a scopo didattico.»
Toccò le gemme dentali. «Non è un neonato, non con que­
sti incisivi mandibolari pronti a spuntare, direi che abbia dai
quattro ai sette mesi, il che è compatibile con la lunghezza
complessiva dello scheletro. Ma se il bambino è stato trascu­
rato o maltrattato, potrebbe anche essere più grande... niente
fratture o segni di distorsione... non ci sono segni evidenti di
corpi contundenti, nessun genere di ferita... le ossa del collo
sembrano intatte, quindi escluderei lo strangolamento... non
27
Jonathan Kellerman
c’è neppure nessuna malformazione ossea evidente, come
per il rachitismo o qualche altra deficienza... per quanto ri­
guarda il sesso, è troppo giovane per il dimorfismo sessuale.
Ma se riusciamo a prelevare del dna, possiamo determinare
se è maschio o femmina, e forse un minimo di origine razzia­
le. Sfortunatamente c’è parecchio lavoro arretrato e non verrà
data alcuna priorità a un fatto vecchio e senza sbocchi come
questo. Per quanto riguarda il momento del decesso, posso
ricorrere al metodo del radiocarbonio per la datazione delle
ossa, ma il mio istinto mi dice che non si tratta di un reperto
antico.»
«La scatola non è più in uso dal ’52, quei ritagli di giornale
risalgono al ’51 e la casa è stata costruita nel ’27. So che que­
sto non determina la finestra temporale...» dissi.
«Ma è un buon punto di partenza, sono d’accordo. Quindi,
invece di mettere in campo sin da subito la tecnologia avan­
zata, forse Milo dovrebbe consultare i registri immobiliari,
trovare chi ha vissuto qui e andare a ritroso. Se lui riuscisse a i­
dentificare un indiziato, noi potremmo dare la priorità al dna.
A meno che l’indiziato non sia deceduto, il che è piuttosto pro­
babile se stiamo parlando di un crimine di sessanta, settanta
anni fa. In quel caso, magari qualche parente sarà disposto a
collaborare e potremmo ottenere un profilo parziale.»
Una voce profonda alle nostre spalle brontolò: «Milo ha
già cominciato a consultare i registri immobiliari. Buon po­
meriggio, Elizabeth.»
Liz sollevò lo sguardo. «Salve, non l’ho vista quando sono
arrivata.»
«Ero dentro a fare alcune telefonate» rispose Milo.
E a fare un giro di perlustrazione della casa vuota. Dalla
sua espressione era chiaro che non era emerso niente di lam­
pante. «Allora, Liz, che ne pensa?»
28
La colpa
Liz ripeté le sue impressioni iniziali. «Non che abbiate bi­
sogno di me per questo.»
«Il giovane Moses ha bisogno di lei, e io apprezzo molto il
suo contributo» disse lui.
Il detective Moses Reed era il grande amore di Liz. Si era­
no incontrati in una palude piena di cadaveri.
Lei rise. «Anche Moses mi apprezza. Me lo saluti quando
lo vede, il che sarà probabilmente prima che lo veda io.»
Si tirò su. «Allora, cos’altro posso fare per lei?»
«Prenda in custodia le ossa e faccia la sua solita magia. Se
le occorre la scatola può averla, altrimenti andrà al laborato­
rio della scientifica.»
«La scatola non mi serve» disse lei. «Ma non sono sicura
di poterle dire molto di più.»
«E per quanto riguarda l’età della vittima?»
«Cercherò di essere il più precisa possibile» rispose. «Possia­
mo anche usare i raggi X per vedere se emerge qualche danno
alle ossa, sebbene sia improbabile. Di sicuro non c’è niente di
evidente che indichi un’aggressione o peggio. Perciò si potreb­
be trattare di morte naturale.»
«Naturale ma poi qualcuno ha sepolto l’esserino sotto un
albero?» Milo corrugò la fronte. «Odio quella parola... esserino.» Gli si era sbottonata la camicia sopra la grossa pancia. La
sistemò, si tirò su i pantaloni.
«Forse la sepoltura nascosta implica davvero una sorta di
senso di colpa» ipotizzò Liz. «E il fatto che non ci siano segni
visibili non esclude l’omicidio: asfissiare un bambino è sem­
plicissimo. E non è raro negli infanticidi.»
«Uccisione dolce» disse lui.
Liz sbatté le palpebre. «Mai sentito dire prima.»
«Ho un pessimo senso dell’umorismo.»
29
4
Io e Milo tornammo da Holly Ruche. Il marito se n’era an­
dato. «Aveva una riunione» comunicò.
«Roba di commercialisti.»
«Non molto entusiasmante, eh?»
«La maggior parte dei lavori è piuttosto noiosa.»
Holly diede un’occhiata al giardino. «Sono curiosa di sa­pere
per quale ragione sia stato chiamato uno psicologo. Pensate
forse che chiunque abitasse qui fosse un maniaco?»
«Nient’affatto.» Milo si voltò verso di me: «Dottore, sei li­
cenziato.»
«Finalmente» risposi.
Holly Ruche sorrise per un istante.
«La donna con il camice bianco è un’antropologa forense.»
«La donna di colore? Interessante...» Strinse i pugni. «Spero
solo che questo non si riveli uno di quei casi di assassini seriali
fuori di testa, con cadaveri dappertutto. Se fosse così, non ci
potrei più vivere qui. Saremmo incastrati in tribunale, sarebbe
un disastro.»
«Sono sicuro che andrà tutto bene.»
31
Jonathan Kellerman
«Solo un piccolo scheletro?» scattò lei. «E questo lei lo de­
finisce bene?»
Si guardò la pancia. «Mi scusi, tenente, è solo che non sop­
porto di vedere casa mia invasa da estranei.»
«Lo capisco. Non c’è ragione che lei rimanga qui, Holly.»
«Casa mia è questa, l’appartamento dove stiamo adesso è
solo una sistemazione provvisoria.»
«Dovremo far sgomberare l’area per i cani.»
«I cani» disse lei. «Se trovano qualcosa, porterete qui i mac­
chinari e romperete tutto.»
«Preferiamo metodi non invasivi come il georadar, l’anali­
si dell’aria e del suolo.»
«Come si analizza l’aria?»
«Si infilano dei tubicini flessibili nelle bolle d’aria, ma con
qualcosa di così vecchio, è improbabile che si riescano a rile­
vare odori di decomposizione.»
«E se troverete qualcosa di sospetto, porterete qui i macchi­
nari e comincerete a demolire e a distruggere. Okay, me ne va­
do, ma per favore, se accendete le luci, assicuratevi di spegner­
le dopo. Abbiamo appena intestato le utenze a nome nostro e
l’ultima cosa di cui ho bisogno è di pagare la bolletta dell’ener­
gia elettrica del dipartimento di Polizia.»
Si allontanò, con quella deliziosa andatura ondeggiante
tipica delle donne in gravidanza. I pugni chiusi e il collo ri­
gido.
«Ragazza emotiva» disse Milo.
«Non deve essere stata la migliore delle sue giornate. In
più ho l’impressione che il suo matrimonio non vada troppo
bene.»
«Ah... hai notato come ho evitato di dirle per quale motivo
sei qui? Non c’è ragione di disilludere la cittadinanza.»
32
La colpa
La maggior parte degli omicidi è ordinaria e viene risolta
nell’arco di uno o due giorni. Qualche volta Milo mi chiama
per i casi ‘interessanti’.
In quella circostanza particolare, però, a portarmi lì era
stato un pranzo.
Bistecca, insalata e scotch, per la precisione, in un locale
appena fuori dal centro. Avevamo trascorso entrambi la mat­
tinata nell’ufficio del procuratore distrettuale, lui a riesami­
nare il fascicolo di un pluriomicidio raccapricciante, io nella
stanza accanto a rivedere la mia deposizione testimoniale in
relazione allo stesso omicidio multiplo.
Milo aveva cercato in tutti i modi di evitare quell’esperien­
za, prendendosi le ferie e ignorando i messaggi. Ma quando
il viceprocuratore distrettuale John Nguyen lo aveva chia­
mato nel cuore della notte, minacciando di andarlo a trovare
con del take-away vegano vecchio di una settimana, si era
arreso.
«Saggia decisione, e non pensi di tirarmi un bidone» aveva
minacciato Nguyen. «E chieda a Delaware se nel frattempo
vuole occuparsi della sua deposizione, sono appena arrivate
le bozze.»
Milo era venuto a prendermi alle nove di mattina, alla gui­
da della Porsche 928 di proprietà sua e del suo compagno,
Rick Silverman. Indossava un’orribile camicia hawaiana gri­
gio lucido con dei leoni marini dall’espressione malvagia e
pesci angelo depressi, pantaloni cachi larghi e sgualciti, e un
paio di scarponi consumati. La camicia non donava affatto
al suo colorito pallido da vita al chiuso, ma lui amava le Ha­
waii, per cui, perché no?
La risoluzione del pluriomicidio lo aveva provato dura­
mente, soprattutto perché era quasi morto nel corso delle
indagini. Ero stato io a salvargli la vita ed era una cosa che
33
Jonathan Kellerman
nessuno dei due aveva mai creduto possibile. Erano passati
mesi da allora e non avevamo ancora affrontato l’argomen­
to. Ritenevo che toccasse a lui sollevarlo e sino a quel mo­
mento non lo aveva fatto.
Una volta finito al palazzo di giustizia, aveva un’aria tutt’al­
tro che gioiosa. Ma aveva insistito per portarmi a mangiare
una combinazione tra una lombata e una costata da settanta
dollari e ‘tutto il Chivas che riesci a mandare giù, ragazzo,
visto che sono io a guidare’.
Un’ora dopo, non avevamo fatto altro che mangiare, bere
e scambiare quelle chiacchiere che non funzionano bene tra
amici veri.
Avevo rifiutato il dolce, ma lui si era preso una coppa con tre
palline di gelato pralinato affogato al caramello caldo e al succo
di ananas. Aveva perso un po’ di peso da quando aveva visto la
morte in faccia, era alto un metro e novanta e pesava centodieci
chili, la maggior parte dei quali erano allocati intorno alla vita.
Guardarlo mentre massimizzava le calorie era un invito a teo­
rizzare di ansia, negazione, depressione mascherata, rimorso,
scegliete voi il parolone che più vi piace. Lo conoscevo da ab­
bastanza tempo per sapere che a volte la sua ghiottoneria era
una consolazione, altre un’espressione di gioia.
Aveva finito due palline di gelato quando il suo cellulare a­
veva segnalato la ricezione di un messaggio. Si era pulito il
mento, aveva scostato una ciocca di capelli spessi e neri dalla
fronte butterata e l’aveva letto.
«Bene, bene, bene. Meno male che non mi sono preso un
superalcolico. Ѐ ora di andare.»
«Un nuovo caso?»
«Una specie» aveva detto. «Ossa sepolte in una vecchia
scatola sotto un vecchio albero, stando alle dimensioni, di un
bam­bino.»
34
La colpa
«Una specie?»
«Da quanto dicono sembra si tratti di un caso vecchio, per
cui probabilmente non ci sarà molto da fare a parte rintrac­
ciare i proprietari dell’immobile.» Si era alzato, lasciando ca­
dere i soldi sul tavolo. «Vuoi che ti porti a casa?»
«Dove si trova la proprietà?»
«Cheviot Hills.»
«Non c’è bisogno che mi porti sino a casa e poi torni in­
dietro.»
«Come vuoi. Probabilmente non ci metterò molto.»
Tornati alla macchina, si era infilato la camicia hawaiana
nei pantaloni e aveva preso un triste giaccone sportivo marro­
ne di tweed dal baule, ritrovandosi un abbigliamento che era
la fusione tra lo stile delle Highlands scozzesi e quello dell’i­
sola di Oahu.
«Un bambino» avevo detto.
Non aveva risposto.
35
5
Poco dopo che Liz Wilkinson se ne fu andata con le ossa,
arrivò Moe Reed, suonando il clacson.
«Questi due sono come due navi che si incrociano nella
notte» borbottò Milo, e mise il cellulare in modalità silenziosa.
«Ho trovato i nomi di tutti i proprietari, tenente» disse Reed.
«Per quando sarà di ritorno alla stazione di polizia, dovrei ave­
re l’elenco. Altro?»
«Ѐ tutto per adesso, Moses. Ti porto i saluti della tua in­
namorata.»
«La mia cosa?»
«Il tuo grande amore. Era qui poco fa.»
«Ah» disse Reed. «Già, ovvio, ossa. Ha detto niente?»
«Solo che pensa che tu sia meraviglioso.»
Reed scoppiò a ridere. «Speriamo che non cambi idea, per­
ché usciamo insieme stasera. A meno che non ci sia bisogno
che io lavori sino a tardi o qualcosa del genere.»
«Neanche per sogno» rispose Milo. «Questo caso non co­
stringerà nessuno a fare gli straordinari.»
37
Jonathan Kellerman
Reed stava aspettando fuori dall’ufficio di Milo, reggendo
un fascio di documenti e sorseggiando una bottiglietta d’ac­
qua. I capelli biondi gli erano cresciuti di qualche centimetro
rispetto al suo solito taglio e il viso giovane era rosa e liscio, in
contrasto con il suo approccio alla vita molto maturo. Sotto
la giacca sportiva blu si intravedevano i muscoli. I pantaloni
erano sgualciti, le scarpe tirate a lucido. Non l’avevo mai visto
vestito diversamente.
«Ho appena ricevuto una chiamata, tenente, devo scap­
pare. Un morto per trauma contusivo in un bar su Washing­
ton Boulevard, non lontano dagli studi della Sony.»
«Vai a investigare.»
«Sembra che non ci sia molto da investigare» rispose Reed.
«Il colpevole è ancora sulla scena del crimine, la pattuglia l’ha
trovato in piedi sul bancone che urlava di essere stato indotto
a farlo dai demoni dello spazio. Ѐ più un caso di competenza
sua, dottore.»
«No, a meno che io non abbia offeso malamente qualcuno.»
Reed scoppiò a ridere e se ne andò in tutta fretta. Milo aprì
la porta del suo ufficio.
Uno dei benefici extra che Milo aveva ottenuto con la sua
promozione a tenente, negoziato anni prima in uno scambio
con un ex capo della polizia corrotto, è il suo ufficio persona­
le, separato dalla grande sala operativa. Un altro è la possibi­
lità di continuare a investigare sui casi, invece di occuparsi di
pratiche amministrative come la maggior parte dei tenenti.
Il nuovo comandante avrebbe potuto revocare l’accordo, ma
era stato abbastanza astuto da controllare la percentuale dei
casi risolti da Milo e, anche se si diverte a chiamarlo continua­
mente ‘signor cosiddetto fenomeno’, non è il tipo che aggiu­
sta ciò che non è rotto.
38
La colpa
L’aspetto negativo in tutto ciò è che l’ufficio è uno spazio di
lavoro privo di finestre e delle dimensioni di uno sgabuzzi­
no. Milo è corpulento e ha braccia e gambe lunghe, e quando
si stira spesso sbatte contro la parete. Nei giorni in cui è irre­
quieto, la stanza sembra la gabbia di uno zoo vecchio stile,
uno di quei claustrofobici recinti a sbarre che venivano utiliz­
zati prima che si iniziasse a pensare che gli animali avessero
un’anima.
Milo si lasciò cadere sulla sedia, provocando una lunga
serie di cigolii, lesse l’elenco e lo passò a me.
La casa dei sogni di Holly Ruche era una residenza uni­
familiare con un terreno di circa mille metri quadrati, situa­
ta in quella che un tempo era la zona residenziale di Monte
Mar-Vista. Fu completata il 5 gennaio 1927 e venduta tre mesi
dopo al signor Jacob Thornton e signora. Dopo dieci anni la
proprietà passò alla figlia dei Thornton, Marjorie, che la ven­
dette tredici mesi più tardi al dottor Malcolm Crowell Larner
e signora.
I Larner vi abitarono sino al 1943, quando la proprietà fu
trasferita al dottor George J. Del Rios e signora. I Del Rios vis­
sero nella casa sino al 1955, dopodiché l’immobile fu trasferi­
to al fondo fiduciario di famiglia. Nel 1961 la proprietà passò
al fondo fiduciario di Robert e Alice Hannah e nel ’74 Alice
Hannah, da poco rimasta vedova, divenne l’unica proprie­
taria, condizione che era durata sino a sessanta giorni prima,
quando i suoi eredi avevano venduto la casa al signor Mat­
thew Ruche e signora.
Grazie alla recessione, Holly e Matt si erano aggiudicati l’af­
fare a novecentoquarantamila dollari, con un anticipo di cen­
tosettantacinquemila e il resto finanziato con un mutuo a tasso
ridotto.
Milo diede due colpetti sul foglio. «Dal dottor Larner al dot-
39
Jonathan Kellerman
tor Del Rios. Il periodo corrisponde, la scatola proviene da un
ospedale e un camice bianco disonesto avrebbe potuto sot­
trarre forniture mediche per uso personale.»
«Partirei dal periodo di quei ritagli di giornale, dopo il ’51»
dissi. «Questo restringe il campo ai Del Rios.»
«D’accordo. Vediamo cosa riusciamo a sapere di queste
persone.»
Digitò la sua password del dipartimento e si mise a scrivere
ininterrottamente al computer, masticando un sigaro spento
sino a ridurlo in polpa. I database ufficiali non diedero nulla
sul dottor George Del Rios all’infuori del certificato di morte,
avvenuta nel 1947 a sessantatré anni per cause naturali. Una
ricerca di altri defunti con lo stesso cognome produsse Del
Rios Ethel A., deceduta nel 1954, età sessantaquattro, cancro,
e Del Rios Edward A., morto nel 1960, età quarantacinque,
incidente d’auto.
«Partirei da Edward A.» disse. «Il fondo ha venduto la ca­
sa un anno dopo la sua morte, per cui c’è una discreta possi­
bilità che fosse il figlio di George ed Ethel e che abbia eredi­
tato la proprietà.»
«Un ragazzo sui trent’anni che forse dava a George ed E­
thel qualche preoccupazione, tanto che hanno deciso di tra­
sferire la casa alla società fiduciaria piuttosto che lasciarla
subito in eredità a lui. E anche se l’amministratore fiduciario
l’ha avuta solo dopo il ’55, il figlio avrebbe potuto accedere
alla proprietà anche prima di allora, quando la madre viveva
lì da sola.»
«Lei va al club di bridge, lui scava una piccola buca.»
«Forse la mancanza di fiducia dei signori Del Rios era do­
vuta allo stile di vita del figlio.»
«Eddie è un poco di buono.»
«A quei tempi un poco di buono con i soldi poteva evi­
40
La colpa
tare il marchio d’infamia, per cui ‘incidente d’auto’ poteva
essere una sorta di codice usato per i casi di guida in stato di
ebbrezza. Ma ci sono alcuni marchi d’infamia dei quali ci si
deve occupare da soli. Come l’imbarazzo sociale di un figlio
illegittimo.»
«Eddie è sposato e la madre non è la dolce mogliettina?»
ipotizzò Milo. «Questo sì che solleverebbe qualche imbaraz­
zo al country club.»
«Quella di seppellire un incomodo sociale sarebbe potuta
sembrare un’ottima idea anche se Eddie fosse stato un play­
boy scapolo.»
Milo rifletté. «Mi piace, Alex, scoviamo gli scheletri nell’ar­
madio di questo seduttore, ironia voluta.»
Cercò i necrologi di tutti e tre i membri della famiglia. Quel­
lo del dottor George Del Rios era sul Times e sull’Examiner.
Era stato uno stimato, e sicuramente compianto, cardiologo
del St Vincent Hospital, così come un docente della scuola di
medicina in cui qualche volta insegnavo anche io. Nessuna
nota biografica nel necrologio della vedova. Su di lei niente
di niente.
Padre Edward Del Rios, direttore dell’orfanotrofio Good
Shepherd di Santa Barbara, era deceduto quando un auto­
bus che trasportava dei bambini del suo istituto allo zoo era
uscito di strada su Cavillo Boulevard il 6 luglio 1960. Diversi
bambini erano rimasti feriti, alcuni in modo grave, ma erano
tutti guariti. Il sacerdote e l’autista non erano stati altrettanto
fortunati.
Il News Press di Santa Barbara aveva riportato la notizia
dell’incidente in prima pagina.
Alcuni dei bambini terrorizzati raccontano di aver visto l’au­
tista, Meldrom Perry, accasciarsi improvvisamente sul volan­
41
Jonathan Kellerman
te, facendo uscire l’autobus di strada. I bambini dicono anche
che ‘padre Eddie’ ha cercato eroicamente di riprendere il con­
trollo del mezzo. Sia Perry, 54 anni, di Vista, sia padre Del Ri­
os, che avrebbe compiuto 46 anni tra pochi giorni, sono morti
dopo essere stati sbalzati fuori dell’abitacolo dell’autobus. Ma
i valorosi tentativi dell’uomo di Dio potrebbero aver evitato
un disastro ancora peggiore. Ѐ stata avviata un’indagine: pa­
re infatti che Perry soffrisse di precedenti problemi cardiaci,
fatto noto alla ditta di noleggio dell’autobus, un’azienda con
un curriculum di passate violazioni.
«Ma quale playboy e playboy» disse Milo. «Il pover’uo­
mo è stato un vero eroe.»
«Viveva a Santa Barbara,» riflettei «per cui probabilmente
nel periodo in cui la casa era di sua proprietà veniva affittata.»
«Come se fosse cosa semplice trovare un affittuario. Okay,
è ora di andare a battere il quartiere, magari qualche anziano
si ricorderà di fatti così indietro nel tempo.»
«La casa potrebbe essere stata trasferita al fondo fiducia­
rio anche per un’altra ragione: padre Eddy era il responsabi­
le, ma aveva dei fratelli.»
«Nel senso che era cattolico?»
«Nel senso che la maggior parte delle persone ha dei fra­
telli. Se riesci ad accedere a uno qualunque dei documenti del
fondo, ti indicherà chi sono gli altri beneficiari.»
Ci volle un po’, ma finalmente, in un’appendice ben nasco­
sta nei registri delle imposte, trovammo le informazioni che
stavamo cercando.
Due fratelli e una sorella, tutti più giovani di padre Eddy.
Ferdinand e Mary Alice erano deceduti decenni prima all’età
di circa sessant’anni, in modo coerente con il patrimonio ge­
netico trasmesso dai genitori.
42
La colpa
Il più giovane della famiglia, John Jacob Del Rios, figurava
come residente a Burbank. Età: ottantanove anni.
Milo cercò il numero e lo chiamò. In genere attiva il viva­
voce, così posso ascoltare. Questa volta si dimenticò o scelse
di non farlo e io rimasi seduto lì mentre lui si presentava,
spiegava la ragione della telefonata in relazione a un fatto
accaduto alla vecchia casa di famiglia di John J. Del Rios, a­
scoltava, diceva: «Grazie, signore» e riattaccava.
«Sembra giovane per la sua età ed è ben felice di parlare
dei bei vecchi tempi. Ma dobbiamo fare domani, sta riceven­
do ‘un’amica’. Mi ha anche detto che è stato un collega.»
«Polizia di Los Angeles?»
«Sceriffo.»
Continuò a scrivere al computer. Il comandante John J.
Del Rios aveva diretto il penitenziario della contea dal 1967
al 1974, era andato in pensione e aveva ricevuto un encomio
del capo per aver prestato servizio con onore. Da ulteriori
indagini emerse un periodo di dieci anni presso una ditta di
sicurezza privata. Dopodiché, nulla.
Milo fece qualche telefonata ai contatti che aveva tra le
guardie carcerarie. Nessuno si ricordava di Del Rios.
«Sta ricevendo un’amica?» domandai. «Forse è lui il no­
stro playboy. Avrebbe avuto circa vent’anni all’epoca, il picco
per una vita sessuale attiva.»
«Scopriremo tutto su di lui domani. Alle undici di matti­
na. Dopo la sua partita a golf.»
«Il golf, le donne, la bella vita» dissi. «Bella e lunga.»
«Il prete muore giovane, l’edonista cresce rigoglioso? Già,
adoro quando regna la giustizia.»
43
6
La mattina seguente, andai a prendere Milo all’incrocio
tra Butler Avenue e Santa Monica Boulevard, appena a nord
della stazione di polizia di West Los Angeles.
Le ossa erano la notizia del giorno, sulla carta stampata e
alla tv, ma nei vari servizi il nome di Holly Ruche non veni­
va menzionato e del quartiere si diceva solo che si trattava di
una ‘zona ricca del Westside’. Milo aveva una copia del Times
ripiegata sottobraccio. Indossava un completo di cotone gri­
gio, una camicia verde alga e una cravatta di poliestere color
rosso sangue. Il sole era impietoso con il suo viso butterato; tra
quello, la statura e lo sguardo torvo, avrebbe messo in fuga
qualsiasi passante.
Come ogni altro detective di esperienza, Milo apprezza il
valore della pubblicità. Ma vuole anche controllare le infor­
mazioni che vengono passate e mi aspettavo che fosse arrab­
biato per la fuga di notizie. Salì sulla Seville, si stiracchiò, sba­
digliò e disse: «Notizia top della giornata.» Aprì il giornale
e andò all’articolo che gli interessava. Scorrendo le colonne,
mormorò con tono allegro: «Stupidi, stupidi, stupidi e indo­
vina un po’... ancora stupidi.»
45
Jonathan Kellerman
Piegò il giornale e lo lanciò sul sedile posteriore.
«Sono arrivate segnalazioni dopo la notizia?» domandai.
«Sinora nulla di serio. Moe e Sean stanno raccogliendo le
telefonate. La cosa positiva per i signori Ruche è che i cani
non hanno trovato nient’altro, idem per il radar e per i tubi
di aspirazione. Niente di neanche lontanamente sospetto in
casa, per cui sembra che si tratti di un caso isolato, non di un
giardino degli orrori.»
Si stiracchiò ancora.
«Ѐ tutto okay con la fuga di notizie?» chiesi.
«Ѐ come chiedermi se è tutto okay con i terremoti. Che
scelta ho?»
Chiuse gli occhi, e li aveva ancora chiusi quando imboccai
la 405. Non feci in tempo a passare le colline, scendere nel­
la Valley e prendere la 101 East, che stava già russando con
soddisfazione.
Burbank è molte cose: un sobborgo delle classi operaia e
borghese, la sede di set cinematografici e di studi televisivi.
Ѐ anche vicino alla zona ben più frivola delle case signorili e
delle tenute di Toluca Lake, dove Bob Hope, William Hol­
den, I Tre Marmittoni e altre celebrità hanno costruito un fa­
moso avamposto contro la gentaglia del Westside. Inoltre, si
trova a ridosso di Griffith Park e ha il suo centro equestre e i
suoi sentieri per cavalli. John Jacob Del Rios abitava appena
a nordest del parco, su una strada di ranch costruiti su lotti di
duemila metri quadrati. Si vedevano i recinti in fondo ai via­
letti di accesso. Nell’aria c’era un aroma di letame di cavallo
stagionato. L’assenza di alberi lasciava filtrare il sole e, man
mano che si avvicinava mezzogiorno, l’asfalto ribolliva. Un
odore di bruciato, come quando si lascia il ferro da stiro trop­
po a lungo sulla lana, si mescolava a quello dei cavalli.
L’abitazione di Del Rios era circondata da sequoie, aveva il
46
La colpa
tetto rivestito di scandole e si affacciava su un prato appena
rasato. La vecchia ruota di un carro era appoggiata a sinistra
della porta d’ingresso. Una Suburban bianca era parcheggiata
all’imbocco del vialetto di accesso, appena dietro un rimor­
chio per cavalli. Nessun recinto in vista, ma uno spazio de­
limitato da pannelli metallici ospitava una splendida cavalla
nera con una macchia bianca sul petto. Mentre ci avvicinava­
mo, la cavalla ci guardò, sbatté velocemente le palpebre due
volte e agitò la coda.
Mi fermai per guardarla più attentamente. Sollevò la testa
con fare civettuolo.
Mantello lucido, occhi dolci. Anni addietro, quando lavo­
ravo nei reparti di oncologia, ero solito prendermi delle pau­
se per andare su al Sunset Ranch, vicino all’insegna holly­
wood. Amavo i cavalli. Quanto tempo.
Le sorrisi. Chiuse gli occhi.
«Coraggio, Hopalong Cassidy,» disse Milo «è ora di in­
contrare John Wayne.»
L’uomo che ci aprì la porta era più Gregory Peck che John
Wayne: un metro e ottanta, tratti aristocratici con una pro­
fonda fossetta sul mento, naso arrogantemente all’insù e folti
capelli bianchi come albumi sbattuti a neve. Aveva gli occhi
celesti, la pelle ambrata percorsa da un intrico di rughe sottili
e il fisico ancora atletico e proporzionato, a parte una leggera
curvatura delle spalle e un allargamento dei fianchi. Prossi­
mo ai novanta, John J. Del Rios dimostrava quindici anni di
meno.
Indossava una camicia a scacchi bianchi e blu a maniche
lunghe, pantaloni blu e mocassini neri di vitello. Il Rolex di
acciaio con il quadrante blu che aveva al polso sinistro era
massiccio e importante. Gli occhiali esagonali senza mon­
47
Jonathan Kellerman
tatura gli davano un’aria da professore stimato. Emerito da
anni, ma che veniva invitato spesso a tornare al campus.
Oppure ricordava uno di quegli attori ingaggiati dalle com­
pagnie di assicurazioni sulla salute per ricoprire la parte del­
l’uomo anziano ma in forma nelle loro pubblicità inganne­
voli.
Porse la mano, più grande di quella di Milo. «Tenente? J.J.
Del Rios, lieto di conoscerla. E lui è...»
«Il dottor Alex Delaware, il nostro consulente psicologo.»
«Ho studiato anche io psicologia, alla Stanford.» Rivolto a
me: «Con il professor Ernest Hilgard, immagino ne abbia sen­
tito parlare.»
«Certamente» risposi.
Si girò verso Milo. «Ho letto del suo ‘fatto’ stamattina. O al­
meno presumo si tratti del caso al quale sta lavorando. Ѐ così?»
«Sì, signore» rispose Milo.
«Una scatola con le ossa di un bambino. Che cosa triste. L’ar­
ticolo diceva che probabilmente sono ossa vecchie, immagino
sia qui per risalire al possibile colpevole tramite i registri im­
mobiliari. Ho ragione?»
Milo sorrise.
«Non posso biasimarla per questo tipo di approccio, è com­
prensibile» osservò John J. Del Rios. «Ma perché l’aspetto psi­
cologico?»
«Per i casi che sono fuori dall’ordinario, riteniamo che il con­
tributo del consulente psicologo sia utile» replicò Milo.
«Autopsia psicologica?»
«In sostanza. Potremmo entrare, signore?»
«Ma certo» rispose Del Rios. «Non penserete che vi lasci
fuori al caldo.»
Con un cenno ci invitò a entrare in un salotto verde lime con
le travi a vista, rinfrescato da un rumoroso condizionatore a
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La colpa
finestra. La moquette arancione bruciato era sintetica, imma­
colata e fissata in modo impeccabile. C’erano dei mobili mo­
dulari in rovere degli anni Settanta, di quelli che si acquistava­
no in serie, posizionati in modo classico. Delle foto di cavalli
ritagliate da riviste erano la sola forma di arte. L’unico segno
di modernità era uno schermo piatto sulla parete, appeso
con cura, in modo che non si vedessero i fili. Un passavivan­
de conduceva in una cucina priva di suppellettili. La casa era
pulita e in ordine, ma impregnata di quell’odore penetrante
di sudore stantio/caffè bruciato/dopobarba di lunghi anni di
celibato.
J.J. Del Rios si diresse verso un frigorifero color avocado.
«Qual­cosa da bere? Io mi prendo un bicchiere di succo d’uva.
Se gradite, ho del cabernet.» Scoppiò in una risata roca. «Trop­
po presto per il mio infuso di alcol giornaliero, ma gli antiossi­
danti nella buccia dell’uva sono salutari, l’alcol neanche serve.»
Afferrò una bottiglia piena a metà di un liquido color magenta.
«Roba buona, niente zuccheri aggiunti.»
«L’acqua andrà benissimo, signore.»
«Signore. Ѐ passato un po’ da quando ho sentito qualcuno
dirlo sul serio.» Un’altra risata bassa e breve. «Non sento la
mancanza del lavoro, ma mi piaceva il suo ordine, sapevano
tutti qual era il loro posto.»
«Dirigeva la divisione carceraria.»
«Un vero spasso» commentò Del Rios. «Tenere i farabutti sot­
tochiave e assicurarsi che sapessero di non stare all’Hilton.»
«Per quanto tempo l’ha fatto?» volle sapere Milo.
Del Rios tornò con due bicchieri d’acqua in una mano e il
succo d’uva nell’altra. Ci sedemmo.
«Cosa sono questi, convenevoli per rompere il ghiaccio? Se
sa che l’ho diretto, sa anche per quanto tempo.»
«Non ho indagato così a fondo, signore» rispose Milo.
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Jonathan Kellerman
Del Rios liquidò l’argomento con un grugnito. «Mi dica
delle ossa.»
«Bambino» lo informò Milo. «Sei mesi, più o meno.»
«Questo era sul giornale.»
«Questo è quanto ne sappiamo sinora.»
«Avete ristretto il periodo a quando era la mia famiglia a
possedere la casa?»
«Sì, signore.»
«Come mai?»
«Temo di non poterglielo dire, signore.»
Del Rios sorrise. «Adesso questa cosa del ‘signore’ non mi
piace più così tanto.»
Milo sorrise a sua volta.
Il calore generato da quello scambio avrebbe potuto scal­
dare un cucciolo di moscerino.
«Non ha senso tirarla per le lunghe. La mia famiglia non
ha nulla a che fare con questa storia, ma non posso assicura­
re altrettanto per nessuno degli affittuari. E non posso nean­
che darvi dei nomi, non ho idea di chi abbia preso in affitto
la casa, mi tenevo completamente fuori da quelle faccende.»
«Fuori dalla proprietà?»
«Fuori da qualsiasi cosa mi impedisse di divertirmi.» Del
Rios bevve il succo. Schioccò le labbra e le tamponò con un
fazzoletto di lino. La macchia color magenta che vi rimase
impressa sembrò affascinarlo.
«Abbiamo ristretto il periodo a quando nella casa viveva
sua madre» spiegò Milo.
«E che periodo sarebbe?»
«Dal 1950 al 1952.»
«Bene,» replicò Del Rios «sono sicuro che pensiate di es­
sere in gamba. Il problema è che vi sbagliate. Dopo la morte
di nostro padre, nel 1947, nostra madre visse sì nella casa da
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La colpa
sola, ma solo sino a quando non le furono diagnosticate sia la
malattia cardiaca sia il cancro.» Le rughe che aveva sulla fron­
te si fecero più profonde. «Era una donna devota, fu un vero
colpo basso da parte di un dio misericordioso. Fu nell’inver­
no del ’49, subito dopo il secondo anniversario della morte
di nostro padre. Tenne duro per quattro anni, gli ultimi due
furono un vero calvario, l’unico dubbio era quale malattia
l’avrebbe stroncata per prima. Ci provammo a farla stare nel­
la casa con un’infermiera, ma a un certo punto la situazione
si fece troppo complicata e nella primavera del 1950 andò a
vivere con mio fratello Frankie – il suo vero nome era Ferdi­
nand, ma lo odiava così si faceva chiamare Frank. Lui e sua
moglie abitavano a Palo Alto, all’epoca Frank stava facendo
l’internato in medicina all’epoca, ortopedia. Questo sino agli
inizi del ’52, quando fummo costretti a trasferire nostra ma­
dre in un istituto vicino a Stanford. Nell’ultimo anno di vita
era sostanzialmente in stato vegetativo, morì nel 1954. Prima
di andare ad abitare al Nord con Frankie e Bertie, aveva tra­
sferito la casa a un fondo per noi quattro. Ma nessuno di noi
ci voleva abitare, troppi ricordi tristi. Frankie viveva a Palo
Alto, mia sorella Mary Alice studiava medicina a Chicago e
io, il ragazzaccio fallito, ero nei marines e non me ne poteva
importare di meno. Così Eddie – il maggiore, era un prete
– ingaggiò una società di gestione immobiliare e demmo la
casa in affitto per anni. Come ho detto, non so dirvi chi fos­
sero gli affittuari, nessuno di loro. E i miei fratelli sono morti,
perciò è sfortunato, figliolo.»
«Si ricorda il nome della società?»
«Tanto per cominciare, non posso ricordare una cosa che
non ho mai saputo» rispose Del Rios. «Sto cercando di dir­
glielo: non mi interessava nient’altro che il divertimento.
Per me quella maledetta casa era solo una fonte di reddito.
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Jonathan Kellerman
Ogni mese Eddie mi mandava un assegno per la mia parte
di affitto che io prontamente scialacquavo. Poi Eddie morì
in un incidente stradale e noi tre ci sbarazzammo della ca­
sa, non so neanche dire chi l’abbia comprata, ma di sicuro lei
lo sa.»
Finì il succo d’uva. «E questa è tutta la storia, amico mio.
Non credo che la renda felice, ma non posso farci niente.»
«Chiarisce le cose» fece Milo.
Del Rios si tolse gli occhiali. «Un uomo che vede il lato
positivo? Strano, non dà quest’impressione.»
Si alzò. Io e Milo lo imitammo.
«Grazie del suo tempo, direttore» ringraziò Milo.
Alla porta, Del Rios disse: «Quando ho capito cosa stava
cercando, il pensiero che la mia famiglia fosse sospettata mi
ha davvero contrariato. Benché, se il caso fosse stato mio, a­
vrei fatto la stessa cosa. Poi mi sono reso conto che non po­
tevo aiutarla e ho cominciato a provare pietà per lei, figliolo.
Costretto a scavare così indietro nel tempo.» Strizzando l’oc­
chio: «Si fa per dire. Allora ecco un’altra notizia ghiotta che
probabilmente è irrilevante, ma non voglio che pensi che J. J.
non è gentile con un collega. Prima di farsi prete, Eddie an­
dava pazzo per le macchine, fu uno dei primi piloti di hot
rod, appassionato di qualsiasi cosa avesse quattro ruote e un
grosso motore. Si era anche fatto comprare una Ford coupé
da nostro padre che truccò e trasformò in un dragster. Ad o­
gni modo, un giorno io e Eddie stavamo pranzando in città.
Era viceparroco alla St Vibiana su Main Street, fu prima che
lo trasferissero a Santa Barbara. All’epoca nostra madre abi­
tava già con Frankie. Comunque, Eddie disse: ‘Johnny, sono
passato in macchina davanti alla casa un paio di sere fa, per
assicurarmi che i gestori immobiliari stiano facendo tagliare
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La colpa
il prato meglio dell’ultima volta, e non crederai mai cosa c’era
parcheggiato nel vialetto. Una Duesie.’»
«Una Duesenberg» dissi.
«In persona» sottolineò Del Rios. «O meglio, in metallo. La
cosa non aveva alcun significato per me, non mi interessava­
no le macchine all’epoca, non mi interessano neanche oggi,
ma Eddie era elettrizzato, e continuava a dire che non era
una semplice Duesenberg, ma una con grossi tubi di scappa­
mento cromati laterali, a quanto pare una cosa meravigliosa.
Mi informò che era la macchina migliore che fosse mai stata
costruita, che ne erano stati realizzati pochissimi esemplari,
per cui già all’inizio erano rare, ma a distanza di vent’anni
erano un vero e proprio tesoro. Mi disse che una macchina
come quella sarebbe costata più della casa e si domandava
come facesse l’affittuaria ad avere tutti quei soldi, probabil­
mente aveva un fidanzato ricco. Poi arrossì e chiuse la bocca,
ricordandosi di essere un prete, niente pettegolezzi. Io risi
come un matto, gli dissi che avrebbe dovuto prendersi una
hot rod di nascosto e se la cosa lo preoccupava, avrebbe sem­
pre potuto confessarsi. Nel frattempo poteva lasciare segni di
sgommata proprio davanti alla chiesa, la cosa peggiore che
poteva capitare era che al cardinale venisse un infarto. Lui
rise, pranzammo, fine della storia. Okay?»
«Un affittuario di sesso femminile.»
«Ѐ quello che disse» ribatté Del Rios. «Una lei. Una donna
è compatibile con un bambino. Un fidanzato ricco è compa­
tibile con un bambino indesiderato. Che ne pensa, figliolo?»
«Penso, signore, che lei sia ancora in ottima forma.»
«Sempre stato. Okay, bene, ora ve ne dovete andare, ho un
appuntamento galante e alla mia età prepararsi è una vera
impresa.»
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