La Repubblica.it – Sulla fame un`abbuffata di

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La Repubblica.it – Sulla fame un`abbuffata di
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PNR - PRESI NELLA RETE
di Riccardo Staglianò
5 MAG 2016
Sulla fame un'abbuffata di ipocrisia
05/05/2016
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Blog
PNR - PRESI NELLA RETE
di Riccardo Staglianò
5 MAG 2016
Sulla fame un'abbuffata di ipocrisia
Sabato 7 maggio, a Udine, Martín Caparrós riceverà il premio Terzani 2016
per il libro La fame (Einaudi), di cui qui si parla.
Che colossale abbuffata di ipocrisia si consuma intorno alla fame. Prima l'hanno ribattezzata «insicurezza alimentare», come se
depotenziarla linguisticamente la rendesse meno micidiale. Poi hanno truccato le statistiche, per vantare inesistenti progressi in questa
lotta che è di Sisifo solo per il sostanziale disinteresse di chi la combatte. Intanto i misteri abbondano: produciamo cibo per dodici miliardi
di persone e tuttavia quasi un miliardo su sette di quelle che abitano sulla terra non ha di che riempire il piatto. La scomoda verità è che
chi fa la fame oggi non lo deve tanto alla povertà propria quanto alla ricchezza altrui. Succede perché i due terzi di aiuti all'India vanno a
finire nelle tasche dei funzionari corrotti. O perché la stessa percentuale dei soldi stanziati dagli Stati Uniti in realtà resta a ingrassare
l'economia americana. O perché la Monsanto ha messo in piedi uno schema ricattatorio per lucrare sui semi. O perché i derivati sul grano
valgono cinquanta volte di più della produzione del grano e questa e altre speculazioni hanno fatto triplicare il prezzo dei cereali,
rendendoli proibitivi per chi ne aveva un bisogno vitale. Tutto questo, assai genericamente, lo sappiamo. Salvo poi dimenticarlo il giorno
dopo. È un meccanismo di difesa normale quello di scrollarsi di dosso fardelli insopportabili per continuare a vivere. Sino a quando non
arriva qualcuno che ci rispiega tutto a un livello di risoluzione inedito, offrendo il contesto storico che ci ha portati sin qui, e la storia
prende un senso nuovo, più nitido e urgente. È successo per la camorra con Roberto Saviano. Succede per La fame (Einaudi, pag. 722,
e. 26) con Martín Caparrós, un cinquantottenne giornalista e romanziere argentino con dei baffi a manubrio che lo fanno assomigliare a
un domatore di leoni. Nel suo libro monumentale, frutto di cinque anni di studio robusto e viaggi in alcuni dei paesi più disperati del
pianeta, compie una specie di ambiziosissima cronaca di milioni di morti annunciate. Intervallando i capitoli con delle specie di vox pop,
discorsi veri o verosimili che la gente pronuncia sulla mancanza di cibo, per poi ripetere come un mantra: «Come cazzo facciamo a vivere
sapendo tutto questo?».
Ho intervistato Caparrós, fresco vincitore del Premio letterario internazionale Tiziano Terzani 2016, quando è stato ospite del Festival
Letteratura di Mantova. Aveva presentato il libro nella Basilica Palatina di Santa Barbara che aveva fatto quasi venir giù con un paio di
bordate sul suo connazionale Papa Francesco («Cosa potrebbe fare contro la fame? Dimettersi») e su Madre Teresa («Ha fondato circa
Sabato 7 maggio, a Udine, Martín Caparrós riceverà il premio Terzani 2016
per il libro La fame (Einaudi), di cui qui si parla.
Che colossale abbuffata di ipocrisia si consuma intorno alla fame. Prima l'hanno ribattezzata «insicurezza alimentare», come se
depotenziarla linguisticamente la rendesse meno micidiale. Poi hanno truccato le statistiche, per vantare inesistenti progressi in questa
lotta che è di Sisifo solo per il sostanziale disinteresse di chi la combatte. Intanto i misteri abbondano: produciamo cibo per dodici miliardi
v
cinquecento conventi in cento paesi e non ha mai aperto una vera clinica a Calcutta»). Noi però ci siamo incontrati al primo piano del
trecentesco Palazzo Castiglioni, in un salottino così bello, con un vassoio di uva così succosa, inneschi ideali per una serie di sensi di
colpa rispetto al tema da affrontare. Tanto per non chiamarci fuori dalla catena delle responsabilità, ho iniziato la conversazione
leggendogli una sua frase sulla nostra categoria: «Sono morti che non finiscono sui giornali. Non sarebbe possibile: farebbero collassare i
giornali. Sui giornali finiscono i fatti inconsueti, straordinari». La fame, ho azzardato, avrebbe bisogno di un miglior ufficio stampa?
«Intanto è il problema altrui per antonomasia. Non è mai direttamente nostro. Non siamo mai noi – noi che ci preoccupiamo
dell’ecosistema, dei diritti sessuali, della libertà d’espressione, della pace in Medio Oriente – a soffrirne. Perché dovrebbe importarcene?
Se ne avessi il potere, però, pubblicherei una storia di fame al giorno. Anche non lunga, e soprattutto non astratta, ma con un nome e un
volto. Guardate cosa è successo con la foto del piccolo Aylan trovato morto su una spiaggia turca mentre cercava rifugio in Europa. Ha
cambiato radicalmente la discussione pubblica sui rifugiati. Sono convinto che lo stesso potrebbe accadere parlando di affamati, piuttosto
che di fame». Esattamente ciò che lui fa lungo settecento pagine. Il libro inizia in Niger, dove ogni donna ha in media sette figli (il tasso di
fertilità più alto al mondo) e dove uno su sette muore prima di compiere cinque anni. È lì che chiede alla trentenne Aisha «il naso da
rapace, gli occhi di tristezza, la stoffa lilla a coprire tutto il resto» se avesse potuto chiedere quello che voleva, qualunque cosa, a un
mago capace di dargliela, che cosa gli avrebbe chiesto? E lei gli risponde: una vacca. Il cronista non ci crede: «Ma davvero? Guarda che
puoi chiedere qualsiasi cosa». Al che l'intervistata rilancia: «Due vacche. Con una ci sfameremo noi, con l'altra produrrei cose da vendere
e non avrei fame mai più». Una vacca, per la cronaca, costa l'equivalente di 500 dollari. Il perimetro estremo dei sogni di questi esseri
umani non si spinge oltre il valore di una bici elettrica. La parte terribile è che uno su mille li corona. Forse. Ma questo non è affatto, sia
chiaro, un libro lacrimevole. È un trattato sulle umane contraddizioni intorno al tema più frusto, globale e ritualizzato che esista. Così
eroso da parole vuote che anche a Miss Venezuela, quando viene laureata Miss Mondo, viene spontaneo dire che il suo augurio
principale è proprio «combattere la fame nel mondo» (che è sempre meglio di aspirare, come ha fatto l'incauta omologa italiana, di vivere
durante la seconda guerra mondiale per vedere l'effetto che fa).
Il possente racconto si snoda intorno ad alcune date chiave. La prima: anni 80. «È allora che si impone il cosiddetto Washington
Consensus con cui la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale convincono, a forza di minacce riguardo i loro debiti esteri, la
maggior parte dei governi africani a ridurre l’ingerenza statale su vari settori, a partire dall'agricoltura. In caso di raccolti scarsi o carestie, i
ministeri competenti non avrebbero più potuto combatterle sovvenzionando alcuni alimenti oppure regolando i prezzi per legge». Senza
queste ragionevoli armi in Niger, negli anni successivi, migliaia di persone che avrebbero potuto essere salvate morirono di fame. Una
circostanza che, col tempo, avrebbe sgretolato il consenso. «Al punto che più tardi la stessa Banca mondiale avrebbe affermato che i
sussidi all’agricoltura servono quattro volte tanto rispetto a ogni altro sussidio nella riduzione della fame. Ma tra il 1980 e il 2010 la
proporzione degli aiuti internazionali all’Africa destinati all’agricoltura passò dal 17 al 3 per cento». La sagra delle parole vuote, dalle
bellezze in bikini ai funzionari internazionali in grisaglia, impazza tragicomica. Con un'aggravante specifica e particolarmente odiosa che
a Caparrós non sfugge: «Mentre dicevano all'Africa che era peccato farlo, Stati Uniti ed Europa sovvenzionavano i loro agricoltori con
circa 300 miliardi di dollari l’anno. Le vacche europee sono le creature con la maggiore sicurezza alimentare del pianeta. Per loro si
spendono circa 2,70 dollari al giorno. Perciò quando a un leader contadino di Vidarbha domandarono quale fosse il sogno dell’agricoltore
indiano, questi rispose: "Il sogno dell’agricoltore indiano è reincarnarsi in una vacca europea"».
Un'altra data importante, dalla fissazione ancora più vaga, è quella in cui il
mondo ha cominciato a essere in grado di produrre cibo per tutti. Parla
Caparrós: «Mi sono fatto l'idea che succeda a cavallo tra anni 80 e 90, ma
mi piacerebbe che gli storici raccogliessero la sfida per una datazione
accurata. Oggi viviamo nel paradosso che produciamo cibo per 12 miliardi
di persone eppure quasi un miliardo è ancora denutrito. Dove vanno a
finire i sei miliardi mancanti? Nei paesi ricchi il 30­40 per cento lo buttiamo.
Poi ci sono altri sprechi, tipo che per produrre un chilo di salmone in
allevamento servono otto chili di altri pesci che lui si mangia. Quindi il cibo
c'è, ma è distribuito molto iniquamente. Per consentire a noi di sbafarci un
salmone o una bistecca serve che qualcuno che potrebbe mangiare altro
non lo faccia. L'aveva già fatto notare l'attivista Lester Brown ogni volta che
gli domandavano quanta gente è in grado di nutrire il nostro pianeta: «Se
tutti mangiassimo come gli americani, che ingurgitano tra gli 800 e i 1000
chili di cereali a testa l’anno, soprattutto attraverso le carni prodotte con
quei cereali, il raccolto mondiale di cereali potrebbe nutrire 2,5 miliardi di
persone. Se tutti mangiassimo come gli italiani, che consumano due volte
meno carne, si potrebbero nutrire 5 miliardi di persone. Se tutti seguissimo
la dieta vegetariana degli indiani potremmo nutrire 10 miliardi di persone».
Quindi dipende. Ciò che è fuor di dubbio invece sono gli enormi passi
avanti fatti nella produzione alimentare a partire dagli anni '60 (decenni
dopo le intuizioni del genetista Nazareno Strampelli) quando il biologo
Norman Borlaug scopre, tra l'altro, un gene che faceva contrarre lo stelo
del grano. Lo stelo più corto e più spesso consentiva alla pianta di
sopportare molti più chicchi. In poco tempo la resa di ogni appezzamento si
triplicò o quadruplicò». La stessa idea, applicata al riso, risparmiò milioni di
vite umane in India quando lo scienziato americano venne chiamato come
consulente del governo alla vigilia di una carestia imponente. Genetica,
chimica, tecnologia sotto forma di fertilizzanti e nuovi sistemi di irrigazione
moltiplicarono i raccolti. Per questo a Caparrós fanno arrabbiare certe
posizioni che trova un po' caricaturali, alla Vandana Shiva, sulla difesa
della via naturale all'agricoltura: «Da diecimila anni l'agricoltura è una lotta contro la natura, perché non prenda il sopravvento, per
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sviluppare le astuzie di scegliere la pianta che resiste meglio delle altre e così via». Il tentativo di fare della natura una religione è tanto
antico quanto pericoloso. L'autore cita la seguente frase: «L’uomo che tenta di ribellarsi alla ferrea logica della natura è coinvolto nella
lotta contro i fondamenti cui deve la sua stessa esistenza come uomo, perciò la sua azione contro la natura lo porta inevitabilmente alla
rovina» (lo scriveva Adolf Hitler in Mein Kampf, ma avrebbe potuto tranquillamente copiarlo­incollarlo un benintenzionato fricchettone dei
tempi nostri). Il problema, dunque, non sono affatto gli ogm che possono aiutare e molto nella lotta contro la fame, ma il loro sfruttamento
economico. Il fatto che la Monsanto controlli il 90 per cento dei semi transgenici e che sia nella condizione di dettare condizioni capestro
ai contadini che vogliono usarli. In questo schema, spiega lo scrittore porteño, il progresso tecnologico non è un tentativo di migliorare la
vita, ma di fare in modo che alcuni accumulino più ricchezza: «Si tratta, dunque, di inventare un modo per impossessarsi di questi nuovi
ritrovati: di individuare azioni politiche per mettere le nuove tecnologie al servizio di molti».
L'ultima data è l'unica precisa: 1991. Fu in quell'anno che Goldman Sachs decise che «il nostro pane quotidiano sarebbe potuto diventare
un ottimo investimento». I loro quant ruppero l'ultimo tabù creando una specie di paniere finanziario che riproduceva l'andamento delle
principali materie prime alimentari. Nacque così il Goldman Sachs Commodity Index e la gente cominciò a comprare le sue azioni. Nel
2003 gli investimenti valevano circa 13 miliardi di dollari. Nel 2008 invece 317. E i prezzi, sia dei titoli che dei cereali sottostanti (i due terzi
delle nostre calorie provengono da riso, mais e grano), in quella sorta di profezia autoavverante che è il mercato, salirono alle stelle. I
fortunati azionisti festeggiavano a ostriche preferendo non rendersi conto che quegli aumenti significavano la contestuale condanna a
morte per milioni di persone meno fortunate per cui anche la palla di miglio era di colpo diventata una chimera. Nell'ultimo anno i prezzi
dei cereali sono scesi di parecchio. C'entra il rallentamento dell'economia cinese e soprattutto la caduta del prezzo del petrolio, grazie al
fracking e altre variabili, che serve per far funzionare i trattori. «La cosa mostruosa» aggiunge Caparrós «è che sebbene siano arrivate a
costare anche la metà di soli pochi anni fa, nei Paesi poveri questa riduzione non si è vista. Si è misteriosamente fermata prima del livello
dei consumatori». Tra le tantissime cose che non sapevo prima di leggere questo libro rientra anche l'andamento del numero dei denutriti
nel tempo. Nel senso: ero convinto che si riducessero di anno in anno. È vero il contrario. Nel 1970 si calcolava che fossero 90 milioni
solo in Africa, nel 2010 oltre 400 milioni. Come se non bastasse nel 1990 la Fao rinnega il metodo statistico usato sin lì e, rifacendo i
calcoli, sostiene che gli affamati del '70 nel mondo non erano 460 milioni ma 941 milioni. «La cosa permetteva di affermare che i 786
milioni di quel momento, il 1990, non significavano un aumento della fame ma una diminuzione: 155 milioni di affamati in meno, un
grande risultato». Totò e Peppino al Palazzo di Vetro.
In questa opera mondo c'è così tanta roba che si rischia di perdersi. Caparrós ha un occhio aguzzo per le disuguaglianze. Mette a
confronto un ettaro americano che produce fino a 2000 tonnellate di cereali contro un ettaro del Sahel che ne produce a stento uno, poco
meno di quanto faceva un contadino della Roma antica. Oppure denuncia la contraddizione interna indiana, decimo paese più ricco del
mondo e primo per denutriti, che ogni tanto prova a mettere sul problemino delle goffe pezze simil­etiche («Pensano di avere scelto di
essere vegetariani»). La verità è che siamo tanto più umani quanto più siamo sazi. E siamo tanto più umani quanto minore è il tempo che
dobbiamo dedicare a saziarci (quasi tutto per gli animali, circa una settimana all'anno per i norvegesi: l'autore lo chiama «grado di
umanizzazione»). Omero usava «mangiatori di pane» come sinonimo per uomini. La fame è anche una delle ragioni principali che
spiegano la differenza tra gli 82 anni di aspettativa di vita di un italiano contro i 41 di un mozambicano o dei 38 di uno zambiano. Eppure
quelle vite dimezzate avranno un senso, nel grande schema delle cose, se Franklin Delano Roosevelt aveva ragione a dire che «gli
uomini bisognosi non sono uomini liberi. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature». Da allora il criterio per
definire la classe media (che anche da noi si sta riducendo) è sempre stato che essa spende, in cibo, meno di un terzo dei propri introiti.
Gli chiedo, nei tanti gironi di privazione che ha visitato, cosa l'abbia colpito di più. «Sono così tante che non sempre do la stessa risposta.
Oggi mi viene in mente quella donna del Bangladesh che faceva bollire delle pietre in un marmitta per dare l'illusione ai figli che c'era
qualcosa da mangiare. Così drammatico, e così inutile. Una metafora tra tante degli inganni che si accettano». E quindi, alla fine, come
cazzo facciamo a vivere sapendo tutto questo? Ci pensa un po', si liscia il baffo e con tutto il coraggio del domatore di leoni dice:
«Illudendoci di fare, ognuno per la sua parte, qualcosa che riduca il problema. Anche se servirà a poco o a nulla. Anche se, come mi
hanno spiegato dei ragazzi di Medici senza frontiere, è come sperare di fermare un'emorragia femorale con un cerotto. Eppure quel
cerotto ce lo mettono. Sempre. Giorno dopo giorno. Così dobbiamo fare noi. Non tanto per l'etica del risultato, ma per la necessità che
sentiamo di farlo. La storia ci ha abituati alle sorprese. Perché dovremmo escludere di averne delle belle anche qui?». Già, perché.
Sbaglia ancora, sbaglia meglio è l'esergo beckettiano del libro. Il finale è aperto. Mai come questa volta tutti possono contribuire a
scriverlo.
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26 APR 2016