L`aiuto ambivalente in una prospettiva psicosociale

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L`aiuto ambivalente in una prospettiva psicosociale
UNIVERSITÀ TELEMATICA INTERNAZIONALE
UNINETTUNO
FACOLTÀ DI PSICOLOGIA
Corso di Laurea in Discipline Psicosociali
Elaborato finale
in Psicologia Sociale
L’aiuto ambivalente in una prospettiva
psicosociale
Relatrice:
Dott.ssa Francesca D’Errico
Candidata:
Francesca Malerba
Matricola 2310HHHCLDIPSI
Anno Accademico 2014/2015
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Introduzione
Capitolo 1: Perché si aiuta?
1.1: Cosa attiva il comportamento d’aiuto?......................................................................3
1.2: Teoria evoluzionistica ……………………………………………………………...4
1.3: Teorie psicologiche ………………………………………………………………...5
1.3.1: Approccio individualistico ………………………………………………………5
1.3.2: Approccio interpersonale ………………………………………………………...7
1.3.3: Approccio culturale ………………………………………………………………8
1.4: Confronti ……………………………………………………………………………8
Capitolo 2: La relazione d’aiuto
2.1: Relazione d’aiuto: una prospettiva nuova ………………………………………...10
2.2: Il modello di reazione all’aiuto: ricevere aiuto e relativi costi ……………………11
2.3: Il modello IHSR …………………………………………………………………..12
2.4: Relazioni d’aiuto benevole ………………………………………………………..15
2.4.1: Il rapporto madre-figlio malato: aiuto strumentale o che crea dipendenza? ……15
2.4.2: Insegnante-alunno in difficoltà: ansia ed eccesso di aiuto, effetti negativi ……..17
Capitolo 3: Relazioni d’aiuto tra gruppi dominanti e dominati
3.1: Chiedere aiuto è un segno di forza o di debolezza? ………………………………18
3.2: Lo status di chi chiede aiuto influenza il tipo d’aiuto fornito? ……………………19
3.3: Status e aiuto ………………………………………………………………………21
3.4: Sovraiuto e conseguenze sociali …………………………………………………..26
3.5: Conclusioni ………………………………………………………………………..27
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Introduzione
Nel corso della vita, quando incontriamo persone che si trovano in uno stato di bisogno,
proviamo molte emozioni, anche in contrasto tra loro.
Aiutare significa anche comprendere cosa pensa e sente l’altro, l’intersoggettività si
forma non solo a livello psicologico, nello scambio fra due menti che si osservano, ma
implica anche una base neurobiologica: il cervello umano è predisposto ad interagire e
ad avere una intersoggettività.
La scoperta dei “neuroni specchio” ha permesso di capire che nell’interazione tra due
persone, si crea un meccanismo di simulazione incarnata, cioè si simula nel cervello lo
stato d’animo altrui, quindi si comprende l’altro simulando il suo stato d’animo
(Gallese, Rizzolati, 1996, 2007).
La comprensione dell’altro avviene quindi in uno stadio preverbale, dove svolge una
funzione fondamentale la comunicazione corporea: è l’azione dell’altro che innesca il
processo empatico, cui segue l’azione d’aiuto; i bambini, già ad un anno e mezzo
riescono a cogliere questi segnali, anche in mezzo a molti altri, a decifrarli, e quindi a
trasformarli in una richiesta d’aiuto che sarà soddisfatta (Bischof-Kohler, 1988).
Nell’età adulta l’azione di aiuto è più facilmente preceduta, oltre che dalla
comprensione dello stato altrui, anche da una serie di considerazioni, che vanno ad
influire su quello che sarà il comportamento. Infatti, intervengono diversi fattori che
possono determinare scelte differenti, in contrasto con quelle spinte psicologiche e
neuronali che porterebbero all’azione d’aiuto; ci si chiede quindi cosa può spingere una
persona a evitare l’atto altruistico, nonostante questi stimoli interiori.
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di analizzare cosa spinge una persona ad aiutare, o
a rimanere passiva, sia all’interno di relazioni individuali o tra gruppi, di diverso status.
Nel primo capitolo si tratteranno le principali teorie che spiegano il comportamento
prosociale, quindi nel secondo si analizzeranno il modello di reazione all’aiuto, i costi e
i benefici del ricevere aiuto, il modello IHSR (Nadler, 2002, Nadler e Halabi, 2006),
che si occupa delle dinamiche nelle relazioni d’aiuto intergruppo, e le relazioni d’aiuto
benevole. Infine il terzo capitolo sarà focalizzato su una ricerca molto interessante
(Nadler, Chernyak-Hai, Lily, 2013), che prende in esame il legame status–aiuto fornito,
nella relazione tra gruppi di status alto e gruppi di status basso.
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Capitolo 1: Perché si aiuta?
1.1: Cosa attiva il comportamento d’aiuto?
Il tema dell’aiuto ha iniziato a interessare i ricercatori di psicologia sociale in tempi
abbastanza recenti, quando si è cominciato a porsi delle domande sui motivi che
spingono una persona ad aiutare l’altro, che si trova in stato di difficoltà. Inizialmente,
intorno agli anni sessanta circa (Darley, Latanè, 1968), si è cercato di capire e
comprendere quali fossero le ragioni del “dar aiuto”, soprattutto verso persone non
conosciute, ovvero conosciute solo superficialmente: tre filoni di ricerche si sono mossi
per capire questo fenomeno, focalizzando la loro attenzione su tre aspetti diversi.
Ci si è chiesti quale sia l’origine della volontà di prestarsi agli altri, e quindi si è
ipotizzato che questo comportamento fosse legato a sentimenti ancestrali legati al
principio di sopravvivenza, piuttosto che a processi evolutivi influenzati da esperienze
di socializzazione personali;
anche il quando si realizza maggiormente questa propensione all’aiuto, ha interessato
diversi ricercatori, se in situazioni di felicità interiore o tristezza, ovvero quando sono
presenti terzi osservatori del comportamento d’aiuto; casi eclatanti hanno suggerito
quanto sia importante il fattore situazionale nella decisione di aiutare il prossimo. Un
esempio emblematico è quello offerto dal famoso caso Perlasca, in cui il giovane
italiano, in un momento storico particolare come quello di una guerra mondiale, avesse
corso molti rischi personali per salvare migliaia di ebrei dalla deportazione in lager
nazisti. Egli stesso spiega come il suo eroico comportamento fosse strettamente legato
alla situazione contingente, non avesse nulla di eccezionale. In realtà, forse, non tutte le
persone, nella medesima situazione, si sarebbero comportate allo stesso modo, tuttavia
la situazione stessa ha favorito quel tipo d’azione. Numerosi esperimenti di psicologi
sociali hanno evidenziato come gli elementi situazionali rappresentino un fattore che
influenza in maniera importate la decisione di comportamento. Tuttavia queste
considerazioni non permettono di esaurire in maniera efficace le domande sulle ragioni
del comportamento altruistico.
Si analizzano di seguito le principali teorie che contribuiscono a spiegare il
comportamento prosociale.
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1.2. Teoria evoluzionistica
La teoria evoluzionistica riprende gli studi di Darwin, relativi alla selezione naturale e
sessuale; essa ritiene che il comportamento prosociale abbia radici biologiche molto
importanti, tanto da essere una regola di vita sociale. Ciò significa che si sono evoluti i
geni della bontà verso la parentela (Miller, 2001), si parla quindi di “selezione
parentale”. Questa teoria spiega che il successo riproduttivo di ogni persona è legato alla
distribuzione dei suoi geni nella generazione successiva, e l’adattamento complessivo è
dato dall’insieme di due fattori:
 il proprio successo riproduttivo
 il successo riproduttivo dei parenti, rafforzato dal comportamento d’aiuto del
soggetto.
Queste asserzioni hanno trovato conferma empirica, infatti, si è visto che in generale
ogni persona ha una maggiore volontà di aiutare una sorella o un fratello rispetto ad un
nipote o un cugino, o addirittura un conoscente, dove l’inclinazione è notevolmente più
bassa.
Tuttavia si è visto che esiste anche una forte propensione ad aiutare anche nei casi in
cui il legame parentale non c’è, ossia gli amici: si parla in questi casi di altruismo
reciproco, i comportamenti prosociali vengono spiegati sulla base della reciprocità
(Trivers, 1971).
Ne consegue che oltre ad un patrimonio genetico condiviso che sostiene questi
comportamenti, secondo gli studiosi sociali esiste questa norma culturale universale che
è la reciprocità.
In particolare Gouldner (1960) afferma che tale norma sociale si basa su due assunti:
-
ogni persona dovrebbe aiutare chi l’ha aiutata
-
chi è stato aiutato non dovrebbe danneggiare la persona che si è prodigata.
Pertanto i sostenitori di questa teoria riconoscono una base genetica alla guida
del comportamento prosociale, sia verso i familiari, sia verso gli amici.
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1.3 Teorie psicologiche
1.3.1 Approccio individualistico
- L’importanza degli stati emotivi
Questo primo tipo di teoria individualistica ritiene che aiutare gli altri dipende da una
tendenza individuale, legata agli stati d’animo e alle emozioni provate da una persona in
un determinato momento.
E’ noto che le emozioni cambiano durante la giornata, secondo gli eventi vissuti: si
muovono da un polo positivo ad uno negativo, e sembra che l’umore positivo favorisca
il comportamento d’aiuto. Il “modello dello stato d’animo come informazione”
(Schwartz, 1990) teorizza che le persone usino il proprio stato d’animo come
informazione, come un’euristica che influenza il giudizio relativo ad un determinato
evento o ad una certa persona, e quindi vada a sostituire un ragionamento più analitico e
attento. In pratica l’umore diventa l’indice di sicurezza di una certa situazione, e dal
momento che il comportamento prosociale è favorito da situazioni tranquille (Cacioppo
e Gardner, 1993), essere di buon umore spinge maggiormente ad aiutare. Tuttavia
diversi studi su questo legame stato d’animo – propensione all’aiuto, hanno dato
risultati contradditori, poiché talvolta gli stati d’animo negativi favoriscono l’aiuto (a es.
Thompson, Cowan e Rosenhan, 1980).
Si è visto però che separando il sentimento di tristezza da quello di colpa interpersonale
i risultati sono più chiari: infatti, la colpa spinge verso comportamenti prosociali, e ciò
pare sia dovuto ad una sorta di compensazione dei sentimenti negativi, compiendo
buone azioni. Dopo aver ferito un amico o un partner nelle relazioni sociali, nasce
l’esigenza di riparare il comportamento negativo, e questo sentimento spinge a mettere
in campo azioni d’aiuto per ristabilire un equilibrio nei rapporti sociali (Baumeister,
Stillwell e Heatherton, 1994).
-La personalità prosociale
In questo caso sono prese in esame caratteristiche della personalità durature, al contrario
quindi di caratteristiche mutevoli come gli stati d’animo.
Le caratteristiche individuate come fondamentali nel favorire il comportamento
prosociale sono quattro: empatia, responsabilità sociale, locus of control interno e
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autoaccrescimento. Queste qualità sono state riconosciute in molti studi sia di
laboratorio sia sul campo, e la relazione che le lega è molto forte (Penner et al., 2005).
Nella relazione è fondamentale entrare in comunicazione empatica con chi si trova in
stato di bisogno: a questo proposito una serie recente di ricerche (Warneken, Tomasello,
2006) ha evidenziato come bambini molto piccoli, dell’età di un anno e mezzo circa,
siano in grado di cogliere lo stato di difficoltà di un adulto, e quindi di agire per
aiutarlo, senza essere in alcun modo sollecitati a farlo. Il comportamento è lo stesso
osservato in primati nella stessa situazione: questo sembra suggerire che il
comportamento altruistico si sia perfezionato nel corso dell’evoluzione, perché aiutare
l’altro in difficoltà, è complementare alla sopravvivenza della specie, sempre che si
colga il bisogno.
E’ stato dimostrato che l’empatia è la prima emozione sociale che si sviluppa nel
bambino (Bischof-Kohler, 1988), ed emerge nel momento in cui il piccolo è in grado di
riconoscersi allo specchio: è la rappresentazione di sé, la sua consapevolezza che gli
consente di cogliere l’intenzione dell’altro, ma l’intuizione del bambino è compresa
all’interno di un linguaggio corporeo preverbale, infatti, è il comportamento dell’altro
che muove l’emozione empatica. E’ stata, infatti, scoperta l’esistenza dei “neuronispecchio” (Gallese, Rizzolati, 1996, 2007), che permette, durante l’osservazione, quindi
la percezione dell’azione altrui, l’attivazione di meccanismi di simulazione motoria che
portano a rispecchiare l’azione osservata, quindi accanto ai neuroni motori dell’altro si
attivano i neuroni specchio propri, che portano a completare mentalmente l’azione
iniziata dall’altro. Questa attivazione dei neuroni specchio è una sorta di simulazione
incarnata,
che può essere considerata come “il correlato funzionale dell’empatia”
(Leone, 2009).
Nel bambino agisce in maniera automatica, mentre nell’adulto compaiono dei c.d.
“rumori”, dei condizionamenti sociali e culturali che si sovrappongono a questa capacità
spontanea, provocando inerzia invece di azione.
Questi rumori sono molti, è possibile individuare
ora alcuni meccanismi che
interferiscono con la capacità empatica, e che risiedono nel fatto che essa è costituita da
empatia parallela ma anche da disagio empatico: si rivive lo stato emotivo dell’altro, ma
si vive anche una reazione diversa e personale come risposta agli effetti di questo
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rivivere, e questo può portare a risultati diversi, anche a negare quel comportamento
d’aiuto che viene implicitamente richiesto.
Infatti il disagio empatico, ossia la capacità di gestire le tensioni interne, scatenate dal
rivivere le emozioni altrui, è fondamentale per capire se la persona, al richiamo
empatico, darà una risposta positiva, ovvero lo lascerà cadere. Molte possono essere le
situazioni emozionali da affrontare in secondo piano: il forte dolore di una persona
vicina colpita da un grave lutto, che può far emergere paure o insicurezze, che diventano
troppo dolorose o intollerabili per essere gestite, e spingono alla fuga; oppure, si può
arrivare addirittura a provare disprezzo per la vittima di una violenza, che non ha saputo
evitarla o prevenirla. L’empatia è la reazione automatica, spontanea, ma poi viene
mediata da tante altre emozioni che possono essere prevalenti e contrastanti con essa.
Alcuni studi (Dickert et al., 2011) suggeriscono che la spinta più forte ad aiutare
provenga dal fatto di sentirsi meglio, l’autoaccrescimento risulta costituire una buona
spinta anche in quei soggetti che si dedicano al volontariato.
La responsabilità sociale, che comprende l’adempimento morale alle aspettative altrui,
ha una correlazione molto alta con il comportamento prosociale, un esempio è costituito
dalle persone che aiutarono gli ebrei nel periodo nazista (Oliner e Oliner, 1988).
Infine il locus of control interno correla positivamente con le azioni d’aiuto: ritenere che
il proprio mondo sia prevedibile e controllabile può spingere ad aiutare chi ha bisogno
d’aiuto.
1.3.2 Approccio interpersonale
Ogni persona ha relazioni interpersonali di tipo diverso, e ciò è collegato al fatto che
alcune di esse sono con persone con cui si ha una relazione profonda, mentre altre sono
con persone con cui il rapporto è superficiale. Nel primo caso si parla di relazioni di
condivisione, e sono quelle tra partner, familiari e amici, mentre nel secondo caso ci si
riferisce a relazioni di scambio, tra conoscenti o estranei (Clark e Mills, 1993).
Nelle relazioni di condivisione è importante il benessere altrui, aiutare l’altro, alleviare
la sua sofferenza, il suo disagio mentre in quelle di scambio rileva il massimo guadagno
di uno dei due, la motivazione egoistica. A questo proposito, è interessante il caso in cui
le persone ritengono che il comportamento prosociale sia nel loro interesse: è la finzione
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di scambio, ossia ad esempio in situazioni di grave bisogno può aiutare ad aumentare la
volontà delle persone ad aiutare.
1.3.3 Approccio culturale
Il comportamento sociale di persone appartenenti alla stessa società è regolato da norme
culturali, valori e rituali condivisi da tutti. Una delle norme più importanti è quella della
responsabilità sociale, la quale afferma che ogni persona dovrebbe aiutare coloro che
dipendono dal suo aiuto. Infatti, si ritiene che il comportamento prosociale sia in
relazione diretta con il senso di responsabilità di ogni persona in una situazione sociale
(Berkowitz, 1978), e si è visto che le persone lavorano tanto duramente per il partner,
quanto maggiore è la dipendenza di questo. Latanè e Darley (1970) idearono un modello
di comportamento prosociale in cinque passi: il primo è costituito dalla consapevolezza
che qualcosa sta accadendo, che il soggetto deve maturare, successivamente interpreta
l’evento come un’emergenza e riconosce il bisogno dell’altro, quindi avviene la
creazione di un senso di responsabilità personale; a questo punto la persona pensa a
come assistere, e intervenire, ed infine realizza l’azione di aiuto.
La responsabilità personale si basa su valori sociali, ossia credenze relative a stati
desiderabili (Schwartz, 1994) che guidano la selezione e la scelta dei comportamenti,
delle persone e dei fatti. Schawrtz ne ha individuati dieci, ma che correlano con il
comportamento prosociale sono principalmente due: benevolenza, relativa al benessere
di altri a noi vicini, e l’universalismo, relativo al benessere di tutte le persone nel
mondo.
1.4 Confronti
In questo capitolo sono state affrontate diverse teorie che possono spiegare il
comportamento prosociale, e tutte contribuiscono alla comprensione di cosa spinge una
persona ad aiutare.
Non sono in contrasto tra loro, al contrario, sono complementari: sicuramente nel
comportamento d’aiuto intervengono tanti fattori, tutti ugualmente importanti. Il
comportamento prosociale ha sicuramente una base genetica, ma questa da sola non può
spiegare le diverse sfaccettature del comportamento d’aiuto. Sono molte le dinamiche e
i sentimenti in gioco, e la reazione positiva di fronte ad una situazione di bisogno trova
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origine in molti fattori, alcuni fanno parte del corredo genetico di ogni persona, altri
derivano dal possedere una personalità prosociale, o nei valori culturali con cui si è
cresciuti, e che vengono condivisi nella società in cui si vive.
Molti sono anche gli elementi transitori che portano ad agire in soccorso dell’altro: stati
emotivi particolari legati al momento che si vive, oppure elementi situazionali peculiari.
Tutte le teorie sopra analizzate costituiscono uno strumento valido e unico per
interpretare ed anche prevedere il comportamento delle persone.
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Capitolo 2: La relazione d’aiuto
2.1 Relazione d’aiuto: una prospettiva nuova
Attualmente la ricerca si muove seguendo una prospettiva nuova, cioè ponendo
l’accento sulle relazioni d’aiuto, e quindi passando da un considerare il dar aiuto a
sconosciuti, ad analizzare le emozioni che stanno alla base di una relazione d’aiuto
duratura e significativa, con persone emotivamente vicine.
La relazione d’aiuto che lega due o più persone è di tipo ambivalente. Dal punto di
vista del ricevente, le emozioni in gioco sono varie e contrastanti: sicuramente è
presente l’apprezzamento per l’interessamento altrui alla propria causa, dall’altro lato
essere destinatario dell’azione altrui rende evidente l’incapacità del ricevente di
risolvere in maniera autonoma i propri problemi, e porta a provare
sentimenti di
imbarazzo e vergogna. Non solo, un eccesso di aiuto può condurre a situazioni di
dipendenza che spengono l’iniziativa dell’aiutato verso l’autonomia, anche parziale,
relegandolo al ruolo perenne di “incapace a fare da sé”.
E’ necessario però distinguere le diverse situazioni in cui si realizza una situazione
d’aiuto, distinguendo a priori il caso di aiuto benevolo da quello di aiuto malevolo:
sicuramente siamo nell’ambito dell’aiuto c.d. benevolo quando parliamo dei casi di
relazione madre-figlio malato cronico, ovvero insegnante-alunno con difficoltà.
Rientra invece nella categoria di aiuto interessato o malevolo quello relativo a situazioni
lavorative in cui l’aiutante è interessato a mantenere nella dipendenza l’aiutato, ovvero
nelle relazioni intergruppi, in cui il gruppo dominante o prevalente ha come interesse
mantenere la subalternità del gruppo dominato.
La ricerca in psicologia sociale ha iniziato a notare il legame che esiste tra aiuto e status:
aiutare nell’ambito del gruppo è legato al desiderio di chi aiuta di ottenere lo status del
gruppo (Van Vugt e De Cremer, 1999; Hardy e Van Vugt, 2006), inoltre si è visto che
le persone per compensare ad attacchi alla loro autostima aiutano gli altri (Brown e
Smart, 1991).
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2.2 Il modello di reazione all’aiuto: ricevere aiuto e i suoi costi
La ricerca sulle reazioni all’aiuto e la volontà di cercarlo indicano che il ricevere aiuto
comporta un senso d’inferiorità tale, che chi è in stato di bisogno preferisce rimanere in
una situazione di disagio, piuttosto che cercare un aiuto che minacci l’autostima. L’idea
di essere dipendenti da altri può implicare relativa debolezza, mentre dare aiuto implica
status più elevato, ed il modello di reazioni all’aiuto (Nadler e Fisher, 1986) ha come
base concettuale sottostante proprio la minaccia all’autostima. Da un lato l’aiuto può
costituire un’esperienza di supporto per chi lo riceve, grazie al fatto che quest’aiuto gli
permette di superare la situazione di difficoltà; in questo caso i destinatari rispondono
favorevolmente al ricevere l’aiuto, si sentono bene con se stessi e provano sentimenti
positivi verso che li aiuta. D’altra parte, l’aiuto può costituire una minaccia per chi è in
difficoltà, poiché può contenere il messaggio che chi viene aiutato è in posizione
inferiore rispetto a chi aiuta, di conseguenza sarà visto negativamente chi aiuta, e chi è
in difficoltà, cercherà di interrompere questo rapporto. La ricerca, nell’ambito di questo
modello, su questi diversi aspetti dell’aiuto, del destinatario e di chi aiuta, spiega
quanta minaccia può esserci nell’aiuto, e l’inclinazione, la disponibilità a cercare o
ricevere aiuto, e le conseguenze di questo.
I costi per il destinatario dell’aiuto, quindi, possono essere molto alti, sia a livello
individuale, come minaccia all’autostima, sia a livello sociale, in quanto essere oggetto
di aiuto, implica un riconoscimento, anche davanti agli altri, dell’incapacità di risolvere
in maniera autonoma i propri problemi.
Dal punto di vista di chi aiuta la situazione è migliore, poiché chi aiuta, è visto
positivamente, sia perché compie un’azione socialmente desiderabile, sia perché
dimostra la sua superiorità rispetto a chi aiuta.
La relazione d'aiuto può essere vista come un comportamento sociale complesso,
piuttosto che come un comportamento uniforme e positivo che ha bisogno di essere
incoraggiato.
Il modello IHSR (Nadler, 2002; Nadler e Halabi, 2006) ha esteso tale visione dalle
relazioni d'aiuto, all'analisi delle relazioni intergruppo. Il modello si basa su
un’integrazione tra i concetti chiave sulle relazioni d'aiuto, e la prospettiva d’identità
sociale (Turner e Reynolds, 2001): quando l'identità sociale è un tratto saliente nel
comportamento delle persone, essa è spiegabile con l’appartenenza al gruppo e risulta
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utile analizzarla con gli strumenti concettuali delle teorie riguardanti le relazioni
intergruppo.
2.3 Il modello IHSR – Intergroup Helping as Status Relations
Il modello stabilisce che la disponibilità a ricevere aiuto da un altro gruppo implica, per
il gruppo che riceve, l'accettazione di avere uno status inferiore; inoltre il rifiuto di
chiedere o ricevere aiuto dall’outgroup, da parte dei membri del gruppo di basso status,
rappresenta una sfida alla diseguaglianza sociale esistente.
La riluttanza a essere dipendenti dal gruppo di status elevato, è la manifestazione della
volontà tesa verso l’uguaglianza, da parte dei gruppi di basso status, rispetto a quelli di
alto status.
Come nel caso di aiuto interpersonale, anche l'aiuto intergruppo rappresenta un
fenomeno multiforme che può essere spinto da empatia e cura (Sturmer, Snyder e
Omoto, 2006), oppure dal desiderio di mantenere il vantaggio sociale.
Secondo questo modello, le dinamiche nelle relazioni d'aiuto intergruppo dipendono da
diversi fattori: da caratteristiche della struttura sociale, cioè dalla sicurezza sullo status
delle relazioni, dal tipo di aiuto fornito, e dal membro individuale del gruppo.
-
Sicurezza dei rapporti di status intergruppo: le teorie sull’identità sociale
spiegano che rapporti di status sicuri sono visti come stabili e legittimi, mentre
rapporti di status insicuri, sono percepiti come illegittimi e instabili.
-
Caratteristiche dell'aiuto: aiuto strumentale e aiuto che crea dipendenza: l'aiuto
orientato alla dipendenza consiste nel fornire soluzioni complete al problema, a
chi si trova in difficoltà. I destinatari di tale aiuto sono visti come relativamente
deboli, e incapaci di aiutare se stessi,
e si considerano essi stessi come
cronicamente dipendenti da fonti esterne per superare le difficoltà.
E’ necessario
distinguere tra aiuto dipendente dato come risposta ad una
richiesta di chi ha bisogno, oppure dato in automatico, senza aspettare che il
ricevente si attivi (Schneider, Luthanen e Crocker, 1996). Nel primo caso la
percezione del destinatario sarà positiva, e la minaccia all’autostima sarà bassa
rispetto al secondo caso, in cui tale minaccia sarà alta.
Invece l'aiuto orientato all’autonomia consiste nel dare gli strumenti a chi si
trova in situazione di bisogno, in modo che possa risolvere i problemi da solo.
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Quando chi aiuta fornisce tale tipo d'aiuto è motivato dal fatto che vede chi è in
difficoltà come in grado di aiutare se stesso. L'aiuto strumentale è l'unico tipo di
aiuto che permette di evitare la minaccia all'autostima che è insita nella
dipendenza.
Il destinatario viene aiutato ma conserva l'autocontrollo e
l’autonomia. Il modo in cui i membri del gruppo utilizzano la relazione d'aiuto,
per mantenere o sfidare i rapporti di status intergruppo, dipende dal tipo di aiuto
fornito. Poiché gruppi di status elevato sono motivati a mantenere il loro
vantaggio sociale, si prevede che forniranno ai gruppi di status basso un aiuto
orientato alla dipendenza, piuttosto che all'autonomia.
Dall’altro lato i gruppi di basso status accetteranno l'aiuto di tipo dipendente,
quando i rapporti di status sono visti come sicuri. Quando i rapporti di status sono
percepiti come insicuri, ci si aspetta che i membri di gruppi di basso status
rifiuteranno questo tipo di aiuto,
e saranno disposti ad accettare solo l'aiuto
orientato all'autonomia, che serve come strumento per accelerare in futuro
l'indipendenza e la pari dignità.
-
Caratteristiche dei singoli membri del gruppo
Il terzo livello del modello
suggerisce che queste relazioni saranno influenzate dalle caratteristiche
individuali dei membri del gruppo. Coerentemente con gran parte della ricerca
nella prospettiva dell'identità sociale, questi modelli sono influenzati dal livello
di identificazione ingroup (Ellemers, Spears e Doosje, 1999). Infatti, utilizzare
l’aiuto come strumento per difendere il gruppo dalle minacce all’identità sociale
può essere una soluzione, soprattutto quando i membri hanno un alto livello di
identificazione ingroup.
Sono stati fatti degli studi che sostengono queste affermazioni, e che hanno fornito
prova della validità delle stesse.
In particolare un primo esperimento in cui degli studenti di scuola superiore possono
aiutare uno studente di un’altra scuola che costituisce una minaccia all’identità sociale
dei partecipanti, oppure un altro studente sempre di un’altra scuola che però non
costituisce una minaccia all’identità sociale (Nadler, 2008). L’esperimento conferma
l’ipotesi: gli studenti aiutano maggiormente lo studente che rappresenta una minaccia
all’identità sociale, rispetto all’altro che non rappresenta una minaccia. E’ quindi
confermata la presenza di aiuto difensivo, non solo, emerge anche che questo è
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indipendente dalla reale necessità di chi lo riceve. Un secondo esperimento è stato
eseguito (Halabi, Dovidio, Nadler, 2008)
tra gruppi di alto status nella società
israeliana. Ne è emerso che i gruppi di status alto sono determinati a mantenere la loro
posizione, all’interno della società di riferimento, e per fare ciò forniscono aiuto che
crea dipendenza al gruppo di status basso.
Infine si segnala un ultimo esperimento, molto interessante, in cui si è messa a fuoco
l’interazione delle tre variabili del modello IHSR: è stato coinvolto un gruppo di
studenti di un liceo, solo una parte di essi era stata indotta a identificarsi con la propria
scuola, ed il compito era cercare aiuto strumentale o dipendente da uno studente di
un’altra scuola, di status più elevato del loro. Metà degli studenti riteneva che le
differenze tra le due scuole stessero diminuendo, mentre l’altra metà riteneva che queste
differenze fossero stabili negli anni. I risultati hanno confermato le aspettative: in
presenza di alti identificatori e situazione instabile, gli studenti hanno evitato di cercare
aiuto dipendente dallo studente dell’altra scuola. Invece in presenza di situazione stabile
nei rapporti fra scuole, gli studenti hanno cercato l’aiuto, di tipo dipendente, dallo
studente di status elevato Per quanto riguarda la ricerca di aiuto strumentale non si sono
verificate differenze tra i due gruppi (Nadler, 2008).
Il modello IHSR ci mostra quindi, supportato da molti studi, come la relazione d’aiuto
possa diventare anche uno strumento di cambiamento, attraverso cui i membri di gruppi
differenti, possono consolidare o sfidare relazioni gerarchiche, di status, esistenti.
Soprattutto in
condizioni di instabilità nei rapporti, l’aiuto, sicuramente quello
dipendente, può diventare un modo per sfidare un rapporto di potere preesistente e
cercare di invertirlo; i gruppi che sono in una posizione inferiore o sfavorevole, possono
utilizzare il rifiuto dell’aiuto offerto dal gruppo più forte, per cercare di migliorare la
propria posizione, e puntare verso il raggiungimento dell’autonomia.
Il fornire aiuto è sempre un atto che può avere due tipi di conseguenze per chi lo riceve:
può essere un’umiliazione oppure un valido sostegno, dipende dalla situazione sociale
sottostante. Quando la relazione tra chi aiuta, e chi riceve, sia gruppo o individuo, è
chiara e stabile, come ad esempio quella tra genitori e figli, la natura dell’aiuto assume
per entrambe le parti una connotazione positiva, è un’esperienza piacevole sia per chi
offre sia per chi accetta.
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La prospettiva cambia se la relazione sociale sottostante non è chiara e stabile, in altre
parole se la differenza di status fra i due attori non è chiara o legittima: in questo caso
l’aiuto può arrivare a costituire, come visto, una minaccia per l’autostima, se individuo,
o all’identità sociale, se gruppo di chi lo riceve. In questo caso vi sarà il rifiuto a
ricevere l’aiuto.
2.4: Relazioni d’aiuto benevole
2.4.1: Il rapporto madre-figlio malato: aiuto strumentale o che crea dipendenza?
La prima relazione presa in esame è quella forse più importante e più speciale nella vita
di una persona, ossia quella con la propria madre, in particolare, la relazione d’aiuto che
si viene a creare tra una mamma e il figlio malato cronico. La ricerca che si prende in
esame (D’errico, Leoni, Mastrovito) è originale e stimolante, perché è stata condotta
con la metodologia del video-feedback, ossia sono riprese da una telecamera diverse
coppie madre-figlio, con lo scopo non solo di capire le dinamiche che muovono l’azione
d’aiuto della madre, ma anche con il fine di aiutare la madre a comprendere le proprie
emozioni, ed eventualmente a riflettere e modificare il proprio comportamento.
Infatti in una situazione di questo tipo la relazione può svilupparsi in diversi modi,
secondo il seguente modello teorico (Nadler, 1997, 1998): l’aiuto offerto è strumentale,
ovvero è minimo, fornisce dei suggerimenti, degli spunti, poi, però è il bimbo che deve
attivarsi, sempre all’interno delle sue potenzialità, nell’obiettivo a lungo termine della
sua futura autonomia; invece, nei due casi estremi di sottoaiuto, ovvero di sovraiuto, in
cui l’aiuto offerto è troppo poco, quando non assente, ovvero, troppo, addirittura con la
sostituzione nella soluzione del problema. Quest’ultima ipotesi, che a prima vista può
sembrare una soluzione positiva, in realtà a lungo termine è deleteria, bloccando lo
sviluppo dell’iniziativa e della competenza del bimbo.
La presenza della malattia può spingere la madre a mettere in atto un comportamento di
iperprotezione (Senatore Pilleri, Oliverio Ferraris, 1989, Eiser, 1990), che può trarre
origine da sentimento di urgenza e di gravità del bisogno del bambino: infatti,
l’intervento stabile e continuo della madre può portare ad allargare l’azione anche in
aree in cui non vi sarebbe necessità di intervenire (Darley, Latanè, 1968). Il bambino,
dal canto suo, può reagire a questa situazione in due modi: adeguarsi alla situazione
15
arrivando a un rapporto di dipendenza dal genitore, che si perpetua nel tempo, fino ad
arrivare alla ricerca di aiuto in maniera costante, per la risoluzione di ogni problema,
anche il più superabile, oppure sfidando la madre, alla ricerca della sua autonomia.
L’atteggiamento di sfida, che di solito inizia a emergere in età pre-adolescenziale, porta
da un lato a problemi di adattamento sociale, dall’altro, a livello interiore, di mancata
accettazione e fiducia in se stessi (Holmbeck el al., 2002); quindi il sovraiuto porta
sempre a conseguenze negative, nonostante sia animato, nei genitori, dal desiderio di
proteggere il figlio da possibili stress o risultati negativi. In realtà il figlio farà sua una
“percezione del controllo causale” delle situazioni bassa, a scapito della sua propensione
all’autonomia.
Se queste sono le emozioni che il bimbo può mettere in campo in una situazione di
questo tipo, è utile analizzare quali sono invece le emozioni che spingono una madre a
comportarsi in maniera iperprotettiva, sovraiutando proprio figlio.
Quando un figlio è colpito da una malattia cronica, la famiglia intera ne è coinvolta: le
dinamiche che si vengono a creare riguardano tutti i membri, che cercano di adattarsi
alla nuova situazione; infatti, superato lo shock iniziale, se non prevalgono sentimenti di
aggressività e rabbia, la famiglia cerca di riorganizzarsi per adattarsi alla nuova realtà, e
trovare una nuova routine che permetta di convivere in maniera serena con la malattia.
Solitamente è la madre che si fa carico di questa nuova organizzazione e della gestione
delle nuove esigenze del figlio: ella, nel tempo, rendendosi conto della cronicità della
malattia, può arrivare ad aiutare troppo, portando il rapporto con il bimbo ad un livello
di dipendenza: questa tensione interna (Hornstein, 1982), che si divide tra la
soddisfazione di aver risolto un problema, e l’incertezza sulle potenziali capacità del
figlio nel futuro, può essere il risultato di emozioni negative negate, per paura di non
trovare una soluzione accettabile a questo conflitto, e di conseguenza alla situazione del
figlio. L’ansia e la vergogna, che sono le emozioni negative maggiormente coinvolte in
questo processo, vengono gestite in maniera diversa, cercando di affrontare l’evento
critico: è il modo personale che ogni persona ha di reagire all’evento critico, gestendolo,
evitandolo o prevenendolo. Emerge, infatti, dalla ricerca in esame, che le madri
sovraiutanti, provano maggior ansia e vergogna rispetto a quelle meno intrusive, e
quindi hanno maggiore difficoltà a regolare tali emozioni. E’ stato dimostrato quindi,
che aiutando le madri a riflettere sui propri comportamenti di sovraiuto, e quindi a
16
mettere in secondo piano il proprio sentimento di ansia, esse riescono a riportare al
centro della propria azione comportamenti che permettano al figlio di esercitare
maggiormente la propria autonomia. La tecnica del video-feedback, cioè l’osservazione
insieme con un ricercatore, della situazione d’interazione con il figlio, le permette di
comprendere e modificare il proprio comportamento e la percezione dei bisogni dei
figli: diventa quindi centrale il punto di vista del figlio, senza svalutare la madre, ma
aiutandola a riprendere possesso di quell’obiettività che il sopraggiungere della malattia
aveva offuscato.
2.4.2: Insegnante-alunno in difficoltà: ansia ed eccesso di aiuto, effetti negativi
Questo tipo di relazione rientra nell’ipotesi di aiuto benevolo, dove l’aiutante ha un fine
positivo, autentico, dato anche dal fatto che l’educatore ha fra i suoi obiettivi quello di
aiutare i propri alunni, soprattutto quelli in difficoltà.
Infatti, l’educatore si pone a fianco dell’alunno per aiutarlo e sostenerlo nella
risoluzione dei problemi, diminuendo gradatamente con l’andare del tempo e la crescita
delle competenze, il proprio intervento. Tuttavia può accadere che nel caso di alunni
stranieri, si realizzi una situazione in cui l’aiuto offerto è superiore alle esigenze reali
dell’aiutato, entrando così nel caso di sovraiuto.
Una ricerca molto interessante (D’Errico, Mastrovito, Leone) indaga queste interazioni
in una scuola pubblica primaria, utilizzando il metodo della simulazione e del videofeedback, mettendo a confronto il comportamento delle insegnanti nel caso di alunni
italiani e rumeni; le dinamiche in gioco sono quelle dinamiche di gruppo in cui sono
presenti elementi svantaggiati. Il sentimento indagato è quello dell’ansia intergruppo,
che nel caso di aiuto benevolo porta a un’ipercompensazione dello svantaggio
dell’alunno straniero. La ricerca ha dimostrato come la relazione tra nazionalità e ansia
sia presente e influenzi l’azione delle maestre: infatti, il loro comportamento è stato più
intrusivo rispetto a quello messo in campo verso i bambini italiani, portando ad un
risultato negativo, ossia i bambini rumeni si sentono meno capaci di quello che
potrebbero essere, con conseguente meno iniziativa e peggioramento della propria
immagine di sé. E’ bastata però una sola seduta di video-feedback con le insegnanti per
vedere modificato il loro atteggiamento, e quindi per aiutarle a comprendere gli effetti
dannosi del loro comportamento di sovraiuto.
17
Capitolo 3 : Relazioni d’aiuto tra gruppi dominanti e dominati
3.1: Chiedere aiuto è un segno di forza o di debolezza?
Gli autori di questa ricerca
(Nadler, Chernyak-Hai, Lily, 2013) si pongono
l’interessante domanda: la richiesta d’aiuto è un segno di forza o debolezza?
Nelle relazioni all’interno di un gruppo o fra appartenenti a gruppi diversi, solitamente
la richiesta d’aiuto è vista come un segno di debolezza e incapacità: Nadler si chiede se
invece la capacità di riconoscere il proprio stato di bisogno, e quindi di cercare
all’esterno gli strumenti per la soluzione del problema, non rappresenti una forza in più,
rispetto a persone bisognose che non richiedono assistenza; da questo punto di vista, la
ricerca di aiuto non indicherebbe passività, debolezza, o rassegnazione ma coping
piuttosto attiva.
A sostegno di questa tesi richiama le ricerche sull’aiuto riguardo alle differenze di
genere, ed in particolare quelle sulla capacità delle donne di chiedere aiuto, e di contare
su quest’aiuto (Addis, Mahalik, 2003, Eagly e Johnson, 1990, Rosner, 1990): è stata,
infatti, superata l’idea che questo comportamento sia segno di incompetenza e
dipendenza, mentre si è appurato che è una forma di coping attivo e sociale, ad esempio
le manager di successo sono inclini a cercare e utilizzare l’aiuto di colleghi per
raggiungere i propri obiettivi (Greenglas, 1993; Hobfoll, Dunahoo et al. 1994, Nadler,
1998).
Inoltre si è visto che bambini cresciuti in situazioni di disagio, ma resilienti, hanno
migliorato la loro condizione proprio chiedendo aiuto: è la consapevolezza di avere un
problema e cercare gli strumenti per risolverlo, e questa ricerca non è un segno di
debolezza o dipendenza, ma una forma di coping attivo, di abilità nella ricerca degli
strumenti per risolvere la situazione (Milgram e Palti, 1993).
Pertanto ne deriva che l’interpretazione della richiesta di aiuto come segno di debolezza,
oppure, al contrario, come segno di forza e iniziativa, può portare l’azione di aiuto a
mostrarsi in due diversi modi: come un aiuto che crea dipendenza, ovvero nell’offerta di
strumenti che permettano di raggiungere l’autonomia.
Sono molto importanti il punto di vista e il giudizio di colui che aiuta: lo status della
persona che chiede un intervento determina molto spesso la percezione del tipo di aiuto
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richiesto, e di conseguenza, come sarà l’azione d’aiuto offerta. Infatti, persone che sono
percepite come appartenenti a gruppi svantaggiati, solitamente vengono considerate
deboli e in difficoltà, incapaci di risolvere i propri problemi in maniera autonoma, e
quindi l’aiuto offerto sarà quello di tipo sostitutivo, che genera dipendenza (Correll e
Ridgeway, 2006). Invece, se a chiedere aiuto è una persona appartenente a un gruppo
vincente, la richiesta viene vista come la messa in campo di un comportamento di
coping attivo (Wagner e Zelditch, 1985), quindi la percezione della richiesta sarà
positiva. Ne deriva che la percezione del tipo di persona che si trova davanti da parte di
chi aiuta è determinante nello sviluppo successivo della relazione.
Un altro elemento che va a influire sul tipo di aiuto messo in campo è quello
concernente la posizione della persona in difficoltà: secondo il modello di Weiner
(1980) se la persona si trova in difficoltà per cause indipendenti dalla propria volontà, la
disponibilità a intervenire sarà maggiore e più ricca di comprensione, mentre nel caso in
cui la situazione problematica sia dovuta totalmente o parzialmente a una mancanza del
soggetto da aiutare, allora ci saranno anche sentimenti di rabbia nei confronti di costui, e
probabilmente l’azione d’aiuto non sarà così sollecita.
3.2: Lo status di chi chiede aiuto influenza il tipo di aiuto fornito?
Gli autori di questa ricerca
(Nadler, Chernyak-Hai, Lily, 2013), partono dal
presupposto che colui che aiuta sia influenzato dalla posizione di chi si trova in
difficoltà, quindi se lo status dell’aiutato sarà svantaggiato, inconsapevolmente l’azione
d’aiuto sarà una di quelle che creano dipendenza cronica, che non aiuterà il soggetto ad
arrivare all’autonomia; al contrario, con persone di status elevato l’aiuto offerto sarà
solo strumentale, di conseguenza, si arriverà alla situazione paradossale per cui l’aiuto
offerto va a rinforzare la situazione di disuguaglianza già esistente.
Nella ricerca vengono presi in considerazione tre casi per verificare queste ipotesi, ed un
quarto per dimostrare che i collegamenti tra aspettative, status, sentimenti e tipo d’aiuto
fornito non sono così rigidi.
E’ opportuno ricordare che questa ricerca prende in esame l’interazione tra chi cerca
aiuto e appartiene ad entrambi i tipi di gruppo e chi aiuta che invece appartiene solo a
gruppi di status medio-elevato. Questo perché non era opportuno mettere persone
19
appartenenti a gruppi svantaggiati ad aiutare persone appartenenti a gruppi di alto status,
poteva generare sentimenti contrastanti quali ad esempio rabbia.
I risultati dello studio hanno confermato le aspettative: i partecipanti all’esperimento
hanno fornito aiuto di tipo strumentale a soggetti appartenenti a gruppi di alto status,
mentre hanno fornito aiuto che genera dipendenza ai soggetti appartenenti a gruppi di
basso status.
Chi aiuta può interpretare la richiesta di aiuto in due modi opposti: come un segno di
inabilità, passività e cronica dipendenza di chi si trova in stato di bisogno, e quindi
l’aiuto fornito sarà di risoluzione diretta del problema; invece se la richiesta di aiuto
viene da una persona vista come tesa a compiere uno sforzo per far fronte a una
situazione transitoria di difficoltà, chi aiuta fornirà un aiuto di tipo strumentale che
spinge verso l’indipendenza.
I primi tre esperimenti (Nadler, Chernyak-Hai, Lily, 2013) confermano le ipotesi che lo
status della persona che chiede aiuto influenza la scelta del tipo di aiuto da mettere in
campo da parte di chi aiuta.
I primi due casi valutavano anche i sentimenti di chi aiuta verso chi chiede aiuto: è
emerso che spesso essi provavano compassione per le persone che appartenevano a
gruppi svantaggiati mentre quando in difficoltà vi era un soggetto di status elevato essi,
s’identificavano con la loro situazione imbarazzante, e offrivano aiuto di tipo
strumentale. Poiché i soggetti chiamati ad aiutare appartenevano a gruppi di status
medio-alto, questo facilitava l’identificazione con i soggetti in difficoltà appartenenti a
loro volta a gruppi di alto status, e permetteva di fornire l’aiuto richiesto (Rudolph,
Roesch, Greitermeyer, e Weiner, 2004).
Questa identificazione portava a ritenere con certezza che l’aiuto strumentale fosse il
tipo di aiuto appropriato da fornire in questa situazione di “high status help seeker”. E di
conseguenza che l’aiuto necessario per un “low status help seeker” era quello che
portava dipendenza. Questi risultati fanno accrescere la possibilità che quando l’aiuto è
di tipo strumentale è presente empatia, mentre quando viene fornito aiuto dipendente no.
Il primo esperimento (Nadler, Chernyak-Hai, Lily, 2013) comportava diverse
aspettative di performance; il secondo ed il terzo manipolavano informazioni riguardanti
lo status socioeconomico e scolastico del partecipante: ci si aspettava quindi che gli
stessi risultati venissero ottenuti quando gli indicatori di status erano diffusi,
20
relativamente più specifici e molto specifici. Questo significa che ne esce rinforzata la
visione dello status come un contenitore di variabili che determina come interpretare la
richiesta di aiuto e di conseguenza la risposta.
La richiesta di aiuto per individui appartenenti a gruppi di status elevato o svantaggiato
ha avuto un effetto opposto sulla probabilità percepita della loro necessità futura di
aiuto. Le persone di status basso che hanno richiesto aiuto sono state viste come
dipendenti dall’aiuto anche in futuro, mentre le persone di status elevato sono state viste
come meno dipendenti dall’aiuto in futuro.
3.3 Status e aiuto
Le ipotesi e i risultati esposti sopra sono stati provati nei seguenti quattro esperimenti
(Nadler, Chernyak-Hai, Lily, 2013). Il primo esperimento prevedeva un disegno
sperimentale 2 (richiesta di aiuto- nessuna richiesta) X 2 (alta o bassa aspettativa sulla
persona che chiede aiuto). I partecipanti erano 48 uomini e 18 donne israeliane, di età
media 27 anni, contattati via e-mail, e invitati a partecipare alla risoluzione di un
problema online, insieme ad un’altra persona, assegnata a loro a caso.
Sono stati
informati che era uno studio riguardante le interazioni sociali, in cui una persona guida
un’altra, e i ruoli di guida e guidato erano stati assegnati in maniera casuale, inoltre ai
soggetti scelti come guida sarebbero state comunicate informazioni di base su chi
risolveva il problema. Quindi sono state fornite le caratteristiche di quest’ultimo, ed
anche il tasso di successo nella precedente risoluzione di problemi analoghi (alte e basse
aspettative di performance). Ai partecipanti veniva chiesto anche di valutare tre aspetti
del soggetto che risolveva il problema. Era stato anche detto che non vi sarebbero stati
contatti fra guida e guidato.
I risultati confermano le ipotesi: i partecipanti hanno fornito aiuto di tipo strumentale ai
soggetti che avevano aspettative alte, mentre hanno fornito aiuto che crea dipendenza a
quelli che avevano aspettative di performance basse. Rispetto alla condizione di non
richiesta d’aiuto, la persona che godeva di alte aspettative e che aveva chiesto aiuto è
stata valutata in modo più positivo, rispetto alla persona di basse aspettative nella stessa
situazione, che invece è stata valutata meno positivamente.
21
Il secondo esperimento ha esaminato l'ipotesi che lo status sociale delle persone che
cercano aiuto possa essere una variabile che influenza le percezioni e i sentimenti di chi
fornisce aiuto, e di conseguenza anche la scelta del tipo di aiuto da mettere in campo.
Sono state formulate diverse ipotesi:
-ai soggetti di status sociale basso sarebbe stato offerto aiuto che crea dipendenza.
Inoltre la richiesta di aiuto di questi sarebbe da attribuire a cause incontrollabili, stabili,
derivanti da una mancanza di abilità e bassa motivazione. Chi fornisce l’aiuto dovrebbe
provare sentimenti di pena e responsabilità sociale nei loro confronti.
-i soggetti appartenenti a status sociale alto, al contrario, chiederebbero aiuto a causa di
una difficoltà transitoria, e chi aiuta s’identificherebbe con l'altrui situazione, per questa
ragione lo aiuterebbe. In linea con i risultati del primo esperimento, una richiesta attiva
di aiuto avrebbe dovuto costituire un comportamento stigmatizzabile.
Questo esperimento prevedeva un disegno sperimentale 2 (status economico alto-basso)
X 2 (richiesta o non richiesta d’aiuto), è stato condotto on-line, e i partecipanti erano 50
donne israeliane e 36 uomini israeliani, di età media di 26 anni. Con l'eccezione della
manipolazione di status, le procedure erano identiche a quelle impiegate nel precedente
esperimento. I partecipanti hanno quindi compilato un breve questionario che chiedeva
di indicare il loro quartiere, e di conseguenza era possibile individuare in base a questo
lo status economico di ognuno. Sono state quindi fornite le generalità del soggetto che
chiedeva aiuto, ed è stato richiesto di fornire una valutazione, in una scala da 1 a 7, dello
status di questo.
I risultati forniscono due modelli distinti di tipo di aiuto dato, secondo lo status sociale
di chi chiede aiuto. Un primo modello si è focalizzato sulla percezione di chi si trova in
stato di bisogno come persona cronicamente dipendente, che per mancanza di abilità
non è in grado di risolvere i propri problemi, cioè di status sociale basso.
Di
conseguenza chi aiuta prova sentimenti di pena e responsabilità sociale verso di essa, e
tende a fornirle aiuto che crea dipendenza.
Il secondo modello è associato con la percezione delle persone in cerca di aiuto come in
grado di aiutare se stesse, e la richiesta di aiuto come il riflesso di situazione transitoria,
che dipende da cause incontrollabili ed esterne. Questo modello è utilizzato quando la
22
richiesta proveniva da una persona di status alto, considerato come un individuo
tipicamente capace e motivato, e il tipo d’aiuto fornito era strumentale.
Quando la richiesta di aiuto proveniva da una persona di status alto, è stato visto come
prova di forza e motivazione, non solo, rispetto a un altro che non aveva cercato aiuto,
del medesimo status, è stato visto come più capace e probabilmente come autonomo in
futuro.
Quando la stessa richiesta proveniva da un individuo di basso status, è stata vista come
prova della sua relativa debolezza, e come mancanza di motivazione. Rispetto a una
persona di basso status che non aveva cercato aiuto, chi aveva chiesto è stato visto come
meno motivato e con più probabilità di essere indipendente in futuro.
Il terzo esperimento ha cercato di replicare ed estendere i risultati dei primi due
esperimenti ed ha esaminato il ruolo di (a) attribuzioni d’aiuto e (b) i sentimenti come
mediatori degli effetti di status sul tipo di aiuto dato. Lo studio consisteva di un disegno
sperimentale (alto o basso status scolastico) 2 × 2 (in cerca o non cerca di aiuto), i
partecipanti erano 64 donne israeliane e 43 uomini israeliani, con un'età media di 27,75
anni.
Le procedure sperimentali erano simili a quelle utilizzate nel primo e secondo
esperimento. Dopo che i partecipanti erano entrati nel sito sperimentale, avevano
ricevuto spiegazioni circa lo studio e il loro ruolo di guide, quindi avevano dovuto
compilare un questionario che chiedeva il loro punteggio SAT (è un test utilizzato in
Israele per l’ammissione all’università), tutti presentavano un punteggio medio-alto.
Quindi sono stati informati che il soggetto chiamato a risolvere il problema era maschio,
in un caso con punteggio SAT basso, in un altro con punteggio alto.
Questo esperimento replica ed estende i risultati degli studi precedenti. I risultati
indicano che una richiesta di aiuto da una persona di basso status è attribuita alla
mancanza di capacità e motivazione, suscita sentimenti di pietà, e porta a ricevere aiuto
orientato alla dipendenza.
La stessa richiesta di aiuto da parte di una persona di status alto è attribuita a
momentanea mancanza di concentrazione, suscita sentimenti di identificazione, e porta
a fornire aiuto di tipo strumentale. Questi risultati rafforzano l'idea che lo status delle
23
persone che chiedono aiuto influisce sull’opinione che si forma nella mente di chi
fornisce aiuto.
Quando chi è in difficoltà, ha status elevato, la richiesta di assistenza indica difficoltà
transitoria, alta motivazione per superarla, e la capacità di farlo. Viceversa, quando il
loro stato è relativamente basso, la stessa richiesta indica incapacità cronica.
Inoltre i risultati indicano che l'identificazione con la situazione della persona stimolo
svolge un ruolo chiave nella decisione del tipo di aiuto da fornire, strumentale o che
crea dipendenza.
Come nei precedenti esperimenti i soggetti di status alto che avevano chiesto aiuto sono
stati visti come più capaci, con meno probabilità di avere bisogno di aiuto in futuro, e
più apprezzati rispetto a quelli che non avevano chiesto aiuto. D'altra parte, gli individui
di basso status che avevano cercato aiuto sono stati classificati come meno in grado, con
più probabilità di dipendere da aiuto in futuro, e meno apprezzato rispetto alle loro
controparti che non avevano chiesto aiuto.
I primi tre esperimenti hanno valutato gli effetti dello status sul tipo di aiuto dato, nel
quarto esperimento il tipo di aiuto era la variabile indipendente. Questo studio ha
esaminato gli effetti della richiesta di aiuto strumentale o dipendente, da parte di
persone di alto e basso status, e le percezioni di chi fornisce aiuto. In questo caso la
ricerca di aiuto strumentale scinde il legame tra basso status e l'attribuzione di una
richiesta di aiuto che porta a dipendenza cronica.
Nel caso di persona di status alto, questo suggerisce che, rispetto a una persona che non
ha cercato aiuto o che ha richiesto aiuto strumentale, quella che chiede aiuto dipendente
sarà considerata come relativamente meno motivata e meno competente.
Per valutare queste possibilità, i partecipanti dovevano guardare un breve video, dove
una studentessa, di basso o alto status, chiedeva aiuto strumentale o dipendente, al fine
di risolvere un problema accademico; quindi erano valutati la percezione di aiuto, le
attribuzioni del suo bisogno di aiuto, e le aspettative della sua performance futura.
Questo esperimento consisteva in un 2 (alto o basso status) × 3 (Domanda di aiuto
strumentale o dipendente, o nessuna richiesta). I partecipanti erano
israeliani di psicologia, età media di 23 anni.
24
118 studenti
I risultati indicano che una richiesta di aiuto strumentale ha avuto effetti positivi sul
modo in cui i partecipanti hanno percepito e valutato la persona in difficoltà. In
particolare si segnala il caso di un soggetto di basso status che richiede
aiuto
strumentale: è stato visto più favorevolmente, e come più efficace di quando aveva
richiesto aiuto dipendente. Inoltre, la richiesta della persona di status basso di aiuto
strumentale, è stata attribuita alla sua motivazione a riuscire, più di quella della persona
di status alto che aveva cercato aiuto strumentale. La persona di status alto è stata vista
più negativamente quando chiedeva aiuto dipendente.
Le variabili individuali indagate nei vari esperimenti sono principalmente due:
-Alta/Bassa aspettativa di performance: nel primo esperimento è stato dimostrato il
legame tra bassa aspettativa di performance e aiuto che crea dipendenza, mentre nel
caso di alta aspettativa di performance il legame dimostrato è con l’aiuto strumentale. In
particolare nel caso di bassa aspettativa il 78% dei partecipanti ha fornito aiuto
dipendente, e il 22% aiuto strumentale. Nel caso di alta aspettativa l’88% ha fornito
aiuto strumentale ed il restante 12% aiuto dipendente. Inoltre dai risultati è emersa
anche un’interazione importante fra l’aspettativa di performance e la ricerca di aiuto,
collegata alla considerazione che i soggetti con alta aspettativa sono più abili quando
cercano aiuto, rispetto a quando non lo fanno. Il contrario nel caso di bassa aspettativa,
poiché gli esecutori del compito venivano considerati meno abili, e quindi quando
cercavano aiuto venivano considerati meno positivamente.
-Status alto/basso: nel secondo esperimento è provata l’influenza dello status sociale di
chi cerca aiuto su chi lo fornisce, in particolare sulla scelta del tipo di aiuto da fornire.
E’ stato dimostrato che a persone di status sociale basso viene fornito aiuto che crea
dipendenza, mentre a persone di status sociale alto l’aiuto fornito è di tipo strumentale.
Nel dettaglio, i partecipanti all’esperimento che hanno dato aiuto a persone di basso
status, nell’88% dei casi erano di tipo dipendente, mentre nel 12% dei casi era
strumentale; nel caso di soggetti di alto status l’aiuto messo in campo era nel 76% dei
casi strumentale, mentre nel rimanente 24% era dipendente.
Il terzo esperimento ha rafforzato l'idea che lo status delle persone che chiedono aiuto
influisce sull’idea che si forma nella mente di chi fornisce aiuto, quindi che esiste un
legame significativo fra lo status di chi si trova in difficoltà e il tipo di aiuto elargito.
25
3.4: Sovraiuto e conseguenze sociali
Questi risultati suggeriscono che le reazioni di chi aiuta di fronte a richieste di aiuto da
parte di persone di status diverso potrebbero inavvertitamente rinforzare le
disuguaglianze sociali.
Quando chi cerca aiuto è di status basso, la sua richiesta è vista come uno dei tanti
passaggi in una situazione di dipendenza cronica. E’ visto come evidenza di
un’incapacità e induce chi aiuta a fornire un aiuto che crea dipendenza, e questo rinforza
ulteriormente lo status di chi sta cercando aiuto.
Queste percezioni portano a valutazioni inferiori e a una minore propensione a chiedere
aiuto da parte di un soggetto di basso status che ne ha bisogno (Nadler, Chernyak-Hai,
Lily, 2013). Questi effetti sulla richiesta di aiuto da parte di un soggetto con status alto
sono diametralmente opposti. La sua richiesta di aiuto è vista come una necessità
transitoria, ed è considerato come generalmente capace e motivato a superare le
difficoltà, di conseguenza colui che aiuta fornisce un aiuto strumentale orientato
all’autonomia che è coerente con queste percezioni. Inoltre, il soggetto di status alto che
ha cercato aiuto è stato più apprezzato di quello che non ha cercato aiuto. Questo
modello di reazioni comportamentali e percettive verosimilmente sostiene il precedente
status sociale alto.
Queste dinamiche sociali rappresentano un importante aspetto della connessione tra le
interazioni di aiuto e le ineguaglianze nelle relazioni interpersonali e inter gruppo. Esse
amplificano le affinità tra persone di status basso e le persone dal ruolo sociale di
dipendente, e tra soggetti di status alto e individui dal ruolo sociale autonomo.
I risultati del quarto esperimento mostrano che una richiesta d’aiuto strumentale ha un
effetto positivo sul modo in cui chi offre aiuto percepisce e valuta chi chiede aiuto.
Una persona di basso status è vista positivamente quando chiede aiuto di tipo
strumentale, più di una persona di status alto nella medesima situazione. Essa è
percepita come motivata ed efficace e la sua richiesta viene vista come un momento di
difficoltà transitoria.
Quando il tipo di aiuto richiesto contrasta con le aspettative concernenti lo status, chi
aiuta giudica la richiesta di chi cerca aiuto osservando il comportamento più recente più
che con le aspettative collegate allo status. Infatti, la relazione tra status sociale e
situazione di bisogno è collegata al tipo di aiuto richiesto, e questo suggerisce che la
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connessione tra inferiorità sociale e dipendenza cronica è più tenue e malleabile di
quanto suggerito dai risultati dei primi tre esperimenti.
In questa ricerca, la richiesta di assistenza orientata all’autonomia è stata la nota positiva
nell’insieme di caratteristiche negative associate con una persona in difficoltà
appartenente a un gruppo sociale svantaggiato.
Questa ricerca offre molti spunti interessanti e originali, soprattutto nel confronto tra
richiesta d’aiuto strumentale e di tipo dipendente, in relazione allo status sociale di
appartenenza; inoltre, considera anche le condizioni nelle quali questa connessione non
c’è. Essa evidenzia anche le conseguenze di tali aspettative sul confermare e riprodurre
disuguaglianze sociali esistenti.
3.5 Conclusioni
La ricerca (Nadler, Chernyak-Hai, Lily, 2013) si pone l’obiettivo di analizzare se la
richiesta di aiuto possa essere considerata un segno di forza. Infatti, considera che chi si
trovi in una situazione di bisogno può mettere in campo, fra le altre risorse, anche la
richiesta di supporto esterno, qualora ritenga che per risolvere il suo problema necessiti
dell’intervento di un altro. Al fine di verificare se ci siano le condizioni che inibiscono
la richiesta d’aiuto in quanto segno di particolare debolezza, prende in esame diverse
situazioni ove la persona che chiede aiuto abbia uno status alto o basso e indaga se
esista una relazione tra status e tipo di aiuto che è fornito.
L’aiuto strumentale di solito è dato a persone che, anche se sono in difficoltà, sono
considerate generalmente capaci, abili, mentre l’aiuto che crea dipendenza è riservato a
soggetti considerati poco efficaci, non autonomi che di solito per riuscire richiedono
l’intervento altrui.
Chi aiuta, che si trova in una posizione privilegiata, percepisce come incapace colui che
presenta uno status basso, in quanto in situazioni analoghe a quella considerata ha
fallito, o ha avuto un percorso scolastico poco brillante, oppure appartiene a gruppi
sociali svantaggiati. In questi casi chi fornisce aiuto prova pena e tende a dare un tipo
d’aiuto che crea dipendenza, risolve il problema, sostituendosi a chi si trova in
difficoltà, e quindi consolida la situazione di disagio e bisogno che difficilmente
cambierà in futuro.
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I risultati confermano che la relazione tra status e aiuto è forte: chi aiuta tende a fornire
aiuto di tipo dipendente a persone di status basso, mentre con persone di status alto
l’aiuto fornito è prevalentemente di tipo strumentale.
Dal lato di chi fornisce l’aiuto i sentimenti provati sono diversi, in relazione allo status
di chi chiede supporto: infatti, il soggetto di status basso induce sentimenti di pena,
pietà, mentre il soggetto di status alto suscita empatia e identificazione. Il sentimento di
identificazione ha permesso di ritenere in modo sicuro che un soggetto di status alto
avesse bisogno di aiuto strumentale, e uno di status basso aiuto dipendente. Sembra
quindi che quando viene dato aiuto strumentale sia più alta la presenza di empatia
rispetto a quando viene dato aiuto dipendente. I risultati infine supportano l’ipotesi che
lo status di chi si trova in difficoltà influisce sull’opinione che si forma nella mente di
chi aiuta.
Tuttavia nell’ultimo esperimento, il quarto, emerge che una persona di status basso che
chiede aiuto di tipo strumentale invece di aiuto dipendente, è valutata positivamente da
chi fornisce l’aiuto, in quanto vista come più efficace e capace e quindi motivata a
riuscire, e a modificare la situazione di bisogno in cui si trova, in maniera autonoma,
con forti possibilità di poterlo fare anche in futuro, rispetto a una persona di alto status
nella stessa situazione.
Non solo, quando il tipo di aiuto richiesto non è coerente con lo status posseduto, chi
aiuta considera la richiesta valutando il comportamento più recente del soggetto, e
tenendo in secondo piano le aspettative relative allo status.
In conclusione la situazione di chi si trova in difficoltà è modificabile, e la connessione
tra situazione svantaggiata e aiuto dipendente è più malleabile, nonostante il legame
significativo tra status e aiuto.
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Bibliografia:
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