RASSEGNA STAMPA FALCRI 24 AGOSTO 2009 A

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RASSEGNA STAMPA FALCRI 24 AGOSTO 2009 A
RASSEGNA STAMPA FALCRI 24 AGOSTO 2009
A cura di Manlio Lo Presti
ESERGO
Il mondo moderno non è una calamità definitiva.
Esistono depositi clandestini di armi.
GOMEZ D’AVILA, Tra poche parole, Adelphi, 2007, p. 87
www.americaoggi,info
Crisi Usa. Bernanke: l’economia riparte. Ma restano da affrontare sfide
cruciali
22-08-2009
Il cauto ottimismo del presidente della Federal Reserve spinge le Borse mondiali
accentuandone i guadagni, anche perché arriva nella giornata dell'inatteso balzo
delle vendite di case esistenti: a luglio sono salite del 7,2% ai massimi da quasi
due anni. Si tratta dell'incremento maggiore dal 1999, cioé da quando è iniziata
la raccolta dei dati
WASHINGTON. L'economia mondiale ha evitato il peggio ed ora inizia a emergere
dalla recessione: "Le prospettive a breve termine per un ritorno alla crescita sono
buone". La ripresa però "all'inizio sarà lenta". E poi restano ancora da affrontare
"sfide cruciali".
Il cauto ottimismo del presidente della Federal Reserve Ben Bernanke spinge le
Borse mondiali accentuandone i guadagni, anche perché arriva nella giornata
dell'inatteso balzo delle vendite di case esistenti: a luglio sono salite del 7,2% ai
massimi da quasi due anni. Si tratta dell'incremento maggiore dal 1999, cioé da
quando è iniziata la raccolta dei dati.
Nonostante i recenti miglioramenti, che porteranno l'Ocse a rivedere nei prossimi
giorni al rialzo le stime di crescita, il presidente della Bce Jean-Claude Trichet ha
invitato indirettamente a non abbassare la guardia e a non lasciarsi prendere da
facili entusiasmi:
"Sono un po' a disagio - ha detto - quando a causa di segnali positivi qua e là,
diciamo che dopo tutto siamo vicini al ritorno alla normalità. Sappiamo che
abbiamo ancora una enorme mole di lavoro da fare e che dobbiamo essere il più
attivi possibile". "Anche se abbiamo affrontato evitato il peggio, molte sfide
ancora ci attendono. L'attività economia sembra stabilizzarsi sia negli Usa sia
fuori e le prospettive di un ritorno alla crescita nel breve termine sembrano
buone" ha spiegato Bernanke a Jackson Hole, in Wyoming, intervenendo al
simposio organizzato dalla Fed di Kansas City con un discorso dal titolo
"Riflessioni su un anno di crisi".
Augurandosi che fra un anno i governatori a Jackson Hole possano constatare i
progressi ottenuti sui mercati e sulle loro regole e sull'economia, Bernanke ha
constato come la ripresa sarà probabilmente "lenta all'inizio con la disoccupazione
che scenderà solo gradualmente dai picchi attuali". Negli Stati Uniti il tasso di
disoccupazione si è attestato in luglio al 9,4%, con alcuni stati, come la California,
saldamente al di sopra del 10%.
Ma, nonostante i miglioramenti, Bernanke ha osservato che restano "grandi
sfide" da affrontare, anche alla luce del persistere delle tensioni sui mercati
finanziari e delle difficoltà di aziende a famiglie a ottenere credito. La crisi - ha
ammesso il presidente della Fed - ha avuto un "costo umano ed economico
enorme". Ma la forte e rapida risposta delle autorità mondiali ha evitato il peggio.
"Dobbiamo attaccare le debolezze strutturali del sistema finanziario, soprattutto
quelle che riguardano la normativa, così da fare in modo di non ritrovarci a dover
sopportare i costi enormi di questi ultimi due anni".
Evocando il "panico" osservato fra settembre e ottobre 2008, Bernanke ha
invitato a proseguire sulla strada della riforma del sistema finanziario, in
particolare nella gestione del rischio di liquidità seguendo le raccomandazioni del
comitato di Basilea.
Gabbie salariali. No dei sindacati. La proposta della Lega bocciata anche
dalla Confindustria
11-08-2009
ROMA. Bocciata da Confindustria e sindacati la proposta della Lega, rilanciata
anche da Silvio Berlusconi, di agganciare i salari al costo della vita tornando alle
"gabbie salariali" degli anni Sessanta. "Siamo contrari, tali questioni devono
essere affrontate dalle parti sociali nell'ambito della contrattazione: la storia è
chiusa", ribadisce il direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli convinto
che lo strumento migliore per cogliere le differenze sia del costo della vita che
della produttività sia la contrattazione aziendale. I sindacati sono tutti contrari.
Secondo il segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni, "Stabilire salari per
legge sarebbe un ritorno all'Unione Sovietica, scavalcando le parti sociali". Renata
Polverini, segretario generale dell'Ugl, definisce le gabbie "un errore che
penalizzerebbe ulteriormente il Sud e vanificherebbe l'obiettivo di premiare la
produttività".
Il leader della Uil, Luigi Angeletti, liquida l'argomento come "una polemica estiva,
una stupidaggine impraticabile tecnicamente". La Cgil, spiega il segretario
confederale Morena Piccinini è "contrarissima" a uno strumento che
"penalizzerebbe le zone più deboli del paese favorendo la disgregazione dell'unità
del mondo del lavoro".
Ma a frenare sulle discusse gabbie (bocciate come "ghetti" dal governatore della
Sicilia Raffaele Lombardo) è anche il ministro per lo Sviluppo economico Claudio
Scajola. "No alle gabbie salariali", precisa, "se queste sono intese come una
discriminazione nei confronti del Sud d'Italia. Sì ad una contrattazione che tenga
presente la produttività e la vicinanza al territorio dello stipendio delle persone".
Secondo il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri "il termine gabbie
salariali va tolto dal dibattito perché ingenera equivoci e giustamente si presta a
polemiche".
Intanto il segretario del Pd Dario Franceschini si scaglia contro il piano per il Sud
di Berlusconi che definisce nulla di più di uno "show mediatico". Le gabbie salariali
sono una idea vecchia e superata ed è anche ingiusto parlare di costo della vita
più basso al Sud "quando i meridionali sono costretti a spendere di più per i figli
perché i servizi sono scadenti". Se il governo insiste lo fa, secondo Franceschini,
perché la Lega e determinante per l'esecutivo. "In un anno", denuncia, "sono stati
tagliati 35 miliardi ai fondi destinati al Sud, in qualche caso per scopi nobili come
l'Abruzzo, in altri più discutibili come il deficit a Catania e Roma o le multe per le
quote latte degli allevatori del Nord".
Per Antonio Di Pietro si tratta di una "soluzione ad effetto che fa esclusivamente
appello al senso comune di chi, vivendo al Centro-Nord ed essendo stato almeno
una volta nel Meridione, ha constatato che un piatto di lenticchie costa tre euro
invece di cinque". Ma è una soluzione "demenziale": "abbiamo gli stipendi più
bassi del Continente e mettiamo sul tavolo la discussione di come ridurli invece
che aumentarli".
Ma la Lega continua la sua battaglia. Il ministro delle Politiche agricole Luca Zaia
sostiene che le gabbie salariali non possono essere un tabù e che sarebbero anzi
un'occasione di riscossa del Sud."Se si vuole il federalismo", avverte, "lo si deve
volere fino in fondo".
www.avvenire.it
In Italia ogni famiglia ha debiti per 15mila euro
Il mutuo per la casa, il prestito per la macchina, fino al finanziamento per
l'acquisto della televisione o per pagarsi la vacanza all'estero. Ecco le voci, spesso
rese necessarie dall'aggravarsi della crisi economica, che hanno fatto lievitare
l'indebitamento medio delle famiglie italiane, salito addirittura dell'81%
dall'introduzione dell'euro.
Alla fine del 2008, come mostra un'analisi della Cgia di Mestre, il debito medio
delle famiglie italiane viaggiava leggermente sopra i 15.000 euro (15.067,6
euro), con punte sopra i 20.000 euro per Lodi (20.960), Roma (20.954) e Milano
(20.857). La presenza di Roma nel podio delle città più indebitate rappresenta
una vera e propria eccezione, visto che tutti gli altri 10 capoluoghi di provincia più
gravati dai debiti appartengono a Regioni del Nord. Dall'altro lato della classifica,
invece, le 10 province più 'virtuosè, sono tutte del Sud ed in particolare della
Sardegna. Olbia, Medio Campidano, Ogliastra e Carbonia-Iglesias sono infatti i
quattro capoluoghi meno indebitati, con il minimo di Carbonia dove le famiglie
hanno un debito medio di circa 2.868 euro.
"Questi dati vanno interpretati, perchè le province più indebitate sono quelle che
presentano anche i livelli di reddito più elevati", sottolinea Giuseppe Bortolussi
segretario della Cgia di Mestre, secondo il quale è comunque "chiaro che tra
queste famiglie in difficoltà vi sono molti nuclei appartenenti alle fasce sociali più
deboli. Tuttavia, appare evidente che la forte esposizione di queste realtà,
soprattutto a fronte di significativi investimenti avvenuti negli anni scorsi nel
settore immobiliare, ci deve preoccupare relativamente".
Un discorso diverso va invece fatto se si analizza un arco temporale più lungo.
"Altra cosa - prosegue infatti Bortolussi - è quando analizziamo la variazione di
crescita dell'indebitamento medio registrato tra il 2002 e il 2008. Al di sopra del
dato medio nazionale troviamo molte realtà provinciali della Puglia, della
Campania e dell'Abruzzo. Ciò sta a significare che questo aumento è
probabilmente legato all'aggravarsi della crisi economica che ha indotto molte
famiglie a ricorrere a prestiti bancari per affrontare questa difficile situazione".
Il record della crescita del debito delle famiglie avvenuta tra il 1 gennaio 2002
(data dell'introduzione dell'euro) e il 31 dicembre 2008, appartiene alla provincia
di Chieti (+117,85%). Segue Piacenza con un aumento del 117,01%, Reggio
Emilia con +115,76 %, Caserta con +115,53% e Napoli con +110,78%.
Chiudono la classifica Bolzano con il +42,76% e Potenza con +39,37%.
www.cdt.ch
Contribuenti fra paradisi e inferni
La guerra fiscale che serve a nascondere i veri problemi
di GIANCARLO DILLENA - Una vecchia regola seguita dai regimi autoritari,
quando si trovano in difficoltà, è di identificare e isolare all’interno una categoria
di «cattivi», cui dare tutte le colpe, o di avviare una guerricciola con qualche
vicino, facendolo diventare il problema prioritario. Spesso le due soluzioni si
combinano e ottengono a breve l’effetto desiderato, ricompattando il fronte
interno e distraendo dalle responsabilità di chi governa.
L’offensiva avviata dagli Stati Uniti e da alcuni paesi europei contro i cosiddetti
«paradisi fiscali» – nel cui calderone è stata prontamente collocata anche la patria
di Guglielmo Tell – richiama per più di un aspetto questa logica. Alle prese con gli
sconquassi provocati da meccanismi finanziari sfuggiti ad ogni controllo – a
dispetto dei macchinosi e costosi apparati creati a questo scopo – e con le
difficoltà, bruscamente aumentate, nel sostenere una spesa pubblica
endemicamente in espansione ed essa pure scarsamente sotto controllo, ecco che
anche governi lontani dai tradizionali modelli dittatoriali hanno prontamente e
significativamente trovato il modo di identificare il capro espiatorio di turno: gli
evasori fiscali e i paesi accusati di offrire loro rifugio.
L’azione presenta indubbi vantaggi, per chi la conduce: si rivolge innanzitutto
contro una minoranza (o quanto meno presunta tale) dei propri concittadini, nel
nome della legalità e della solidarietà; nel contempo contro paesi piccoli, con
limitate possibilità di difendersi e, nella fattispecie, non certo inclini ad adottare
forme di ritorsione estreme. Il risultato pratico è di far pagare a costoro – in
termini finanziari, ma anche e soprattutto politici – una parte della fattura dei
dissesti, facendo bella figura («si ripristina la legalità») e spostando l’attenzione
da altre responsabilità.
Quanto duri questo effetto è tutto da verificare. Ma per ora agli USA (e alla UE)
importa soprattutto di incassare il dividendo della loro vittoriosa
«Strafexpedition». Poi si vedrà. Già, poiché il futuro resta incerto. Non solo per gli
attaccati, che non possono escludere nuove offensive contro di loro. Ma anche per
gli attaccanti, che non possono pensare semplicemente di rilanciare a ripetizione
questo tipo di operazione, fondata sull’enfatizzazione di un aspetto a scapito di
altri.
Nessuno, a quanto ci risulta, ha fin qui sostenuto che per questa via si potranno
risanare i disastrati bilanci statali degli attaccanti. E questa è una prima, dura
realtà con la quale si dovranno fare presto i conti. La quale rinvia a sua volta alla
radice vera del problema, che si può illustrare bene partendo dalla stessa
immagine, tanto abusata, del «paradiso fiscale».
In effetti se si vuole usare quest’espressione d’effetto bisogna essere pronti ad
accettare il suo corollario inevitabile: che cioè a questi «paradisi» si
contrappongono, dall’altra parte della barricata, degli «inferni fiscali», o quanto
meno dei «purgatori», nei quali i contribuenti soffrono per la «colpa» di essere
tali, in un sistema sostanzialmente punitivo e vessatorio. Dal quale cercano
appunto di evadere, non appena ne hanno la possibilità.
Una rappresentazione che, per taluni paesi, va ben oltre la pura allegoria. Un
esempio illuminante l’abbiamo a pochi passi dai nostri confini meridionali, dove
una pressione fiscale elevata, a sostegno di apparati burocratici e livelli di spesa
iperbolici, ha per effetto di stimolare un’evasione diffusa. Non solo, come si tende
talvolta a lasciar credere, da parte dei più abbienti, ma bensì di larghi strati della
popolazione che, se non attingesse ai redditi nascosti di una importante economia
sommersa, sarebbe condannata a livelli di vita ben inferiori a quelli che conosce
oggi. Ma sono costoro i «cattivi», che meritano di essere perseguiti e riportati con
ogni mezzo (comprese le lusinghe) nel recinto infernale, per espiare la colpa di
non assoggettarsi passivamente alle sue regole? O coloro che lo gestiscono, sulla
base di regole che, quelle sì, andrebbero rimesse seriamente in discussione?
Recita un proverbio medievale: «Non dovrai temere il Papa, non dovrai temere
l’Imperatore; solo dovrai temere l’Esattore». Il passare dei secoli non sembra
aver modificato la fondatezza della massima che, di questo passo, promette di
restare d’attualità anche in futuro.
www.corriere.it
Rc Auto, in 15 anni aumenti del 155%
Allarme delle associazioni dei consumatori: nel 2009 rincari medi del 5%
ROMA - I costi medi delle tariffe obbligatorie Rc Auto in 15 anni, cioè dal 1994 a
oggi, sono aumentati di circa il 155% passando dalla tariffa media di 391 euro a
995 euro. La denuncia è delle associazioni dei consumatori Adusbef e
Federconsumatori che evidenziano in una nota che «ancora peggiore è la
situazione che riguarda le polizze obbligatorie per assicurare moto e motorini
sotto i 150 cc di cilindrata, con utenti taglieggiati e che hanno subito impennate
scandalose ed ingiustificate superiori al 400%».
NECESSITA' CLASS ACTION - Le due associazioni puntano il dito anche contro
il governo per il rinvio della class action «che avrebbe avuto l'effetto di deterrenza
e di rivalsa collettiva verso politiche tariffarie di rapina», dicono i presidenti Elio
Lannutti e Rosario Trefiletti. Per il 2009 ci saranno nel settore delle assicurazioni
ulteriori aumenti, sempre secondo Adusbef e Federconsumatori: «più 5% in
media, con un impatto di 47 euro su polizze obbligatorie, mentre gli utenti delle
due ruote subiranno un salasso ulteriore del 7,5% (+30 euro)». «Le richieste di
rincari del 5-9% inviate anche in questi giorni di agosto ad assicurati virtuosi che
non hanno denunciato alcun sinistro da parte di compagnie dominanti sono riporta ancora la nota dei consumatori - scandalose e ingiustificate. Adusbef e
Federconsumatori sospettano che le compagnie rincarino le tariffe sia per pagare
gli alti bonus, le prebende e stock option dei manager che per coprire i buchi
prodotti da investimenti su titoli tossici, swap e derivati avariati»
MOTO E MOTORINI - Ancora peggiore, come detto, per Federconsumatori e
Adusbef, la situazione che riguarda le polizze obbligatorie per assicurare moto e
motorini sotto i 150 cc di cilindrata, con costi medi passati da 98-121 euro
(minimo e massimo) del 1994, a 435-555 euro (minimo e massimo la stima del
2009), e con i costi Rc moto che hanno subito l'impennata del 413,1% ed un
aumento secco di 337 euro, passando da 98 a 435-555 euro.
22 agosto 2009
STUDIO DI BANKITALIA
«La crescita degli immigrati
non toglie lavoro agli italiani»
Evidenziata una «complementarietà tra gli stranieri e gli italiani più istruiti e le
donne»
ROMA- La crescita della presenza straniera in Italia negli ultimi anni «non si è
riflessa in minori opportunità occupazionali per gli italiani», ma ha al contrario
evidenziato una «complementarietà tra gli stranieri e gli italiani più istruiti e le
donne», favorendo maggiore spazi di occupazione.
L'ANALISI - È quanto afferma uno studio della Banca d'Italia contenuto nel
rapporto sulle economie regionali secondo cui l'afflusso di lavoratori stranieri
impiegati con mansioni tecniche e operaie ha accresciuto le opportunità «per gli
italiani più istruiti» impiegati in «funzioni gestionali e amministrative», mentre le
donne avrebbero beneficiato della presenza straniera, nel settore dei servizi
sociali e alle famiglie, come per esempio colf e baby sitter, attenuando «i vincoli
legati alla presenza di figli e l'assistenza dei familiari più anziani e permettendo di
aumentare l'offerta di lavoro» femminile.
ANTIDOTO ALL'INVECCHIAMENTO - L’afflusso di immigrati dall’estero
nell’ultimo decennio - secondo lo studio - ha sostenuto la crescita
dell’occupazione in Italia, «contribuendo a contrastare il progressivo
invecchiamento della popolazione». Gli stranieri, recita lo studio, «hanno un tasso
di occupazione superiore a quello degli italiani e redditi da lavoro
significativamente inferiori». E a questo fenomeno contribuiscono «un più basso
livello di scolarità degli immigrati, una maggiore concentrazione in imprese meno
produttive, il prevalente utilizzo in mansioni a ridotto contenuto professionale».
Gli stranieri residenti nel Mezzogiorno, inoltre, hanno un’istruzione, tassi di
occupazione e redditi da lavoro inferiori rispetto a quelli del Centro-Nord.
ITALIANI PIU' ISTRUITI E DONNE - «La crescente presenza straniera evidenziano, come sottolineato pocanzi, gli studiosi di Via Nazionale - non si è
però riflessa in minori opportunità occupazionali per gli italiani, che al contrario,
sembrano accresciute per gli italiani più istruiti e per le donne. In particolare,
l’offerta di lavoro femminile italiana si è giovata dei maggiori servizi per l’infanzia
e per l’assistenza agli anziani». Per le donne, infatti, «la crescente presenza
straniera attenuerebbe i vincoli legati alla presenza di figli e all’assistenza dei
familiari più anziani, permettendo di aumentare l’offerta di lavoro». L’afflusso di
lavoratori stranieri impiegati con mansioni tecniche e operaie «può inoltre aver
sostenuto la domanda di lavoro per funzioni gestionali e amministrative, che
richiedono qualifiche più elevate, maggiormente rappresentate tra gli italiani».
DIFFICILE INTEGRAZIONE DEI GIOVANI - Le nuove generazioni di stranieri,
avvertono però gli economisti di Bankitalia, «che rappresenteranno una
componente rilevante della futura forza lavoro nel Paese, registrano significativi
tassi di abbandono scolastico e un livello di competenze inferiore a quello, già
modesto nel contesto internazionale, degli italiani». In particolare, «le difficoltà
scolastiche degli stranieri sono più accentuate nel Mezzogiorno». Tuttavia, «il
processo di integrazione economico e sociale degli immigrati migliora con il
perdurare della loro permanenza in Italia».
BANKITALIA, IL RAPPORTO SULLE ECONOMIE REGIONALI
Meno credito alle imprese,
per gli immigrati tassi più alti
Le banche chiedono più garanzie, prestiti più cari per gli stranieri
ROMA - La crisi economica fa stringere i cordoni della borsa agli italiani. Le
imprese chiedono meno finanziamenti e le banche, per parte loro, irrigidiscono i
criteri con cui concedono il credito. Tra i piccoli imprenditori, poi, c'è anche chi,
come molti immigrati, si vede applicare tassi mediamente più alti di oltre mezzo
punto percentuale rispetto al costo del denaro che viene fatto pagare ai colleghi
italiani.
DOMANDA E OFFERTA - Il quadro dettagliato dell'evoluzione del mercato del
credito negli ultimi mesi è illustrato nel rapporto della Banca d'Italia sulle
economie regionali, che mette in luce gli effetti delle turbolenze economiche su
domanda e offerta di prestiti a livello territoriale. Le richieste di finanziamento da
parte delle imprese hanno mostrato una crescita prossima allo zero nel quarto
trimestre del 2008 e una modesta flessione nei primi tre mesi del 2009, diffusa a
tutti i principali settori. Nel complesso, secondo Bankitalia, le richieste di
finanziamento sono cresciute più nel Mezzogiorno che al Centro-Nord. È stata in
particolare quest'ultima area, e soprattutto il Nord Est, a mostrare condizioni di
particolare debolezza della domanda.
RINCARI PER GLI IMMIGRATI - Le note più dolenti arrivano comunque per gli
extracomunitari. Secondo le rilevazioni di Banca d'Italia, infatti, nel loro caso, a
parità di caratteristiche dell'impresa e dell'imprenditore, il costo del credito è
superiore di circa 60 punti base a quello per le ditte costituite in Italia. In
particolare, il differenziale tra i tassi praticati agli imprenditori immigrati e a quelli
italiani è superiore per le ditte insediate al Centro-Nord. Il differenziale di costo
varia anche a seconda del continente d'origine: è più alto per gli immigrati
provenienti dall'Asia e dall'Europa dell'Est. Questa tendenza, rileva Via Nazionale,
è generalizzata per tutti i tipi di banche, sebbene quelle di credito cooperativo
operino delle maggiorazioni relativamente più contenute.
PIU' GARANZIE - Con l'inasprirsi della crisi, le banche intervistate hanno
generalmente ammesso un irrigidimento delle condizioni applicate per erogare i
prestiti alle imprese nel loro complesso, negli ultimi mesi del 2008. Tendenza,
questa, che si è poi leggermente accentuata nel primo trimestre del 2009. Tra i
diversi settori, le costruzioni sono il comparto in cui il grado di restrizione è
risultato circa doppio rispetto agli altri. Con la maggiore selettività delle banche
che ha riguardato in primo luogo le imprese dell'industria e delle costruzioni del
Centro-Nord. Nel primo trimestre del 2009, inoltre, c'è stato un ulteriore
inasprimento delle condizioni applicate dalle banche.
www.denaro.it
Twitter, dietro l'attacco il conflitto nel Caucaso
Il blackout di Twitter che ha colpito ieri anche gli altri principali social network di
Internet potrebbe non essere frutto di un semplice attacco informatico ma
rientrare in una più ampia strategia geopolitica all'interno dello scacchiere russogeorgiano. Secondo gli esperti, gli hacker avrebbero infatti attaccato
originariamente dalla regione dell'Abkhazia, terra contesa da anni tra Mosca e
Tiblisi, e la mossa sarebbe la risposta alla propaganda politica diffusa attraverso il
web. Da quale delle due parti sia partita l'offensiva cibernetica non è chiaro ma gli
ingegneri americani giurano che la paralisi del sito sia l'ultima arma usata nel
conflitto del Caucaso. I pirati informatici hanno agito «ingorgando» il traffico dei
social network convogliando milioni di utenti contemporaneamente attraverso una
catena di mail che ha avviato le pagine di Twitter e Facebook non appena è stata
aperta dai destinatari.
Anche LiveJournal.com e YouTube, il più famoso sito per la condivisione di video
su Internet, sono stati colpiti ma i danni maggiori li ha subiti Twitter, i cui tecnici
sono stati costretti a bloccare l'intero sito per difendersi dall'attacco.
del 08-08-2009 num. 154
www.milanofinanza.it
Cina, allarme ex vice-governatore Banca centrale su crescita impieghi
21/08/2009 18.00
Wu Xiaoling, ex vice-governatore della Banca popolare cinese (PboC), si è
espresso con allarme sul ritmo della concessione di credito in Cina, segnalando
una prevedibile frenata dei volumi nel secondo semestre dell'anno.
Xialoing, che ora siede nel Comitato economico e finanziario del Congresso
nazionale, ha affermato che il volume dei crediti in circolazione dovrebbe
aumentare nel 2009 del 35%, mentre i nuovi crediti dovrebbero raggiungere
quota 11.100 miliardi di yuan (+34% rispetto a un anno prima a 7.730 miliardi a
tutto luglio).
Questo trend potrebbe causare problemi all'economia, scrive Wu Xiaoling in un
documento interno datato 10 agosto, con conseguenze negative per l'inflazione.
L'Autorità di sorveglianza del settore bancario in Cina ha trasmesso alle banche
una serie di nuovi orientamenti sui ratio di capitale e sulla necessità di esercitare
cautela nella concessione di prestiti.
Angeletti, adesso tagliare tasse al lavoro dipendente
21/08/2009 16.30
Il rientro dalle ferie "non sarà una cosa facile e piacevole, in piena recessione",
commenta preoccupato il segretario generale della Uil Luigi Angeletti. "Sono
assolutamente d'accordo con la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia.
Bisogna garantire gli ammortizzatori sociali e ridurre le tasse sui salari".
Su questo punto, il leader della Uil sottolinea: "ridurre le tasse sui salari, non alle
famiglie. L'emergenza adesso è sugli stipendi ed è bene che anche la
Confindustria capisca che ora la priorità è la riduzione delle tasse al lavoro
dipendente, alle famiglie potremo pensare dopo".
Quanto alle imprese, "non penso che oltre che garantire una sufficiente liquidità ci
siano altre cose da fare. Hanno bisogno di finanziamenti e di un mercato, ma
non è che si possa fare molto se non garantire liquidità a tassi bassi".
www.ilmessaggero.it
Crisi, la ripresa non convince i sindacati
Cgil: un milione di posti a rischio
Confindustria: sono tante le imprese in gravissime difficoltà
Pd: sarà un autunno durissimo, il governo apra un tavolo
ROMA (22 agosto) - Autunno duro, per un Paese «in ginocchio», che rischia di
perdere fino ad un milione di posti di lavoro entro la prima metà del 2010.
L'ottimismo, seppure cauto, sull'avvio della ripresa economica, indicato dai
governatori delle banche centrali riuniti a Jackson Hole, in Wyoming, per il
simposio organizzato dalla Fed di Kansas City, non convince i sindacati e trova
cauto anche il direttore generale di Confindustria, Giampaolo Galli («ci aspettano
mesi difficili»).
La Cgil parla di situazione «grave» e chiede all'esecutivo l'apertura, subito dopo le
ferie, del tavolo anticrisi, per dare sostegno ad occupazione, redditi e
investimenti, e invita le altre due organizzazioni confederali a ricostruire l'unità
«per incalzare più efficacemente il governo». Cisl e Uil, nelle parole dei segretari
generali Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, si mostrano d'accordo nel sostenere
che la ripresa non è facile e che le imprese sono «stremate». Anche l'Ugl richiama
alla cautela.
Cgil. «La dinamica negativa del Pil, con un -6% nel 2009, ed il passaggio del
tasso di disoccupazione dal 6,3% al 9,4% quest'anno ed al 10,3% nel 2010
comporta tra gli 800mila ed un milione di posti di lavoro a rischio sino alla metà
dell'anno prossimo. L'autunno sarà pesante», ha detto il segretario confederale
della Cgil, Agostino Megale, sulla base delle stime dell'Ires, l'istituto di ricerche
economiche che fa capo al sindacato. ha aggiunto.
Cisl. Di certo, per Bonanni, «occorre fare tutti gli sforzi ancora e più di prima
perché, anche in presenza di qualche segnale positivo, ci possono essere colpi di
coda di una crisi ancora minacciosa. Le aziende sono stremate. E' un anno e
mezzo che tirano avanti, non licenziano, sono sotto-capitalizzate e con poche
commesse». All'angolo, dunque, c'è la minaccia della perdita di posti di lavoro, ha
evidenziato il numero uno del sindacato di Via Po, che per questo ha sollecitato
«un summit» tra tutte le parti e chiesto, tra l'altro, «la detassazione del salario di
produttività. Anzi - ha detto - chiediamo tasse zero sul secondo livello».
Uil. «Siamo in ginocchio e non sarà facile tornare ai livelli di prima», ha sostenuto
Angeletti, condividendo la lettura sulla «fine del peggioramento delle condizioni
economiche», ma che, intanto, ha segnato il Paese. «C'è il problema delle
imprese, dove la caduta del fatturato ha già fatto perdere il 30-40% dei ricavi; c'è
molta gente in cassa integrazione: bisogna impedire che si trasformi in
licenziamenti».
Ugl. A chiedere «ancora molta cautela» è anche il segretario generale dell'Ugl,
Renata Polverini: «L'allarme occupazione non può dirsi ancora superato e
l'autunno sarà un banco di prova importante per molte imprese», ha detto
parlando di «paralisi del mercato interno» e chiedendo al governo anche di
aiutare i redditi.
Confindustria. Cauto anche il mondo imprenditoriale, con il dg di Confindustria
Galli che sottolinea come «pur in presenza di timidi segnali di ripresa dell'attività
economica ci vorrà tempo per tornare ai livelli pre-crisi. Se da una parte si stanno
attenuando le difficoltà, che comunque rimangono molto grandi dal punto di vista
occupazionale e di tenuta delle imprese, dall'altra vediamo all'orizzonte grandi
rischi. E' una situazione in cui molte imprese si troveranno in gravissime difficoltà
anche a mantenere, purtroppo, i livelli di occupazione».
Pd. «Come Pd concordiamo con l'analisi di Angeletti, Bonanni e Megale a
proposito della crisi - dice Cesare Damiano, responsabile Lavoro del Pd Nonostante il vano ottimismo profuso dal governo è necessario guardare in faccia
la realtà: verrà un autunno durissimo, con quasi 800 mila lavoratori in cassa
integrazione e molte aziende soprattutto piccole, che chiuderanno i battenti.
Inoltre gli strumenti di tutela esauriscono i loro effetti in molti settori produttivi:
in molti casi i periodi di durata delle casse integrazioni ordinarie e straordinarie
sono
giunti al termine e occorrerà passare alle deroghe se non si vuole dare avvio ai
processi di mobilità e ai licenziamenti. Su questo terreno primario è fondamentale
la convergenza di analisi di Cgil, Cisl e Uil e la gestione unitaria delle situazioni di
crisi, che ha fin qui consentito di tutelare efficacemente i lavoratori. Occorre che il
governo apra al più presto un tavolo di concertazione con le parti sociali per
affrontare tempestivamente ed adeguatamente la situazione, sia sul piano delle
tutele che del reddito».
www.ilsole24ore.com
Trichet: ci attendono tempi difficili non siamo ancora alla normalità
Jean-Claude Trichet presidente della Banca centrale europea frena gli entusiasmi
e avvisa: «Ci attendono tempi difficili, nessuno s´illuda che i mercati siano tornati
alla normalità, sarebbe una catastrofe se i governi e le banche non imparassero la
lezione della crisì».
Trichet risponde alle più ottimistiche dichiarazioni rilasciate da Ben Bernanke,
presidente della Fed, durante il summit annuale sullo stato dell'economia a
Jackson Hole, località turistica del Wyoming, dove si sono riuniti in questi giorni i
banchieri centrali (per la Banca d'Italia, Mario Draghi). Le vendite di case a luglio
negli Stati Uniti sono aumentate del 7,3%, ma anche sequestri e pignoramenti
nel secondo trimestre 2009 sono cresciuti del 13%. Le vendite al consumo a
luglio sono state fiacche e deludenti e l'altro ieri si era registrato un rimbalzo nel
numero di nuovi disoccupati. Continuano a fallire le banche di dimensioni mediopiccole - a tal punto che la federal deposit insurance corporation incaricata di
salvarle ha quasi esaurito i fondi statali a sua disposizione. Anche Bernanke ieri
non ha nascosto gli elementi negativi che permangono.
23 agosto 2009
Pechino «teme» per le banche. Stretta sui requisiti di capitale
di Vittorio Carlini
La Cina teme per la solidità delle sue banche e prepara una stretta sui requisti di
capitale. All'interno del programma, lanciato a metà agosto dalla China Banking
Regulatory Commission (Cbrc), sulle nuove regole delle imprese finanziarie
sarebbero infatti compresi precisi passi per restringere le condizioni patrimoniali
delle banche. La Cbrc avrebbe mandato una bozza dei cambiamenti due giorni fa,
definendo nuovi criteri contabili dei prestiti subordinati e delle obbligazioni ibride
all'interno del proprio cosiddetto "supplementary capital" (il Tier 2). Di più.
Sarebbe stato imposto un tetto massimo all'ammontare complessivo di bond ibridi
e postergati che una singola banca può emettere: non potrà essere superiore al
15% del proprio core capital. Una stretta importante che, giocoforza, obbligherà
gli istituti finanziari a ridurre fortemente i prestiti o a emettere azioni per portare
il livello di capitale al ratio del minimo richiesto del 12 per cento.
La mossa dell'agenzia cinese la dice lunga sullo stato d'animo a Beijing rispetto
al proprio sistema bancario. Dopo aver glorificato la crescita del mercato
finanziario, i timori del cattivo utilizzo dell'enorme liquidità immessa nel settore
sono aumentati sempre più. A fronte di un incremento, nel primo semestre del
2008, del "denaro frusciante" del 24% il loan deposit ratio (rapporto tra prestiti e
depositi) è rimasto pressoché stabile al 66%. Un chiaro segno che la liquidità è
stata usata, più che per finanziare le imprese, per realizzare rischiosi investimenti
a leva nel mercato azionario e nella speculazione immobiliare. Insomma, si è
tornati a "razzolare" male. E non è solo questo. La Cbr teme l'eccessiva creazione
di credito. Le banche del Drago, in questa prima parte del 2009, hanno emesso
bond subordinati per un valore di 34,6 miliardi di dollari: una cifra che è già il
triplo di tutte le emissioni del 2008. Se queste sono le novità e le preoccupazioni
del governo cinese, quali le reazioni del mercato? «Io comprendo i timori per
l'eccesso di debito subordinato in circolazione», commenta Rank Newman,
presidente della Shenzen developement bank. Anche se, poi, il manager si augura
che: «Le nuove regole siano aapplicate solo alle vendite di bond futuri». Più
negativo, invece, il parere di Xu Xiaoqing, analista obbligazionario di China
International Capital Corp: «Diventerà molto difficile per le banche commerciali
vendere crediti subordinati. Queste norme, in generale, obbligheranno gli istituti
finanziari a ridurre i prestiti. In particolare, quelli medi o piccoli che hanno meno
capitale». Come dire, insomma, che il giro di vite porterà ad una stretta sul
credito. La speranza è che serva a colpire il cattivo uso della liquidità fatto da
banche ancora a caccia di facili profitti. E non colpisca, invece, il flusso di denaro
verso quell'economia reale che è l'unico motore che potrà permettere una
ripartenza. Non solo in Cina.
21 agosto 2009
Tesoro: crisi taglia spesa famiglie. Giù auto, cibo, abiti e casa
La spesa delle famiglie italiane lo scorso anno si è attestata complessivamente a
922,6 miliardi di euro, segnando in quattro anni una crescita di poco più del 10%.
Ma nel 2008 la crisi ha attaccato pesantemente i consumi e anche se per valore
risulta un aumento della spesa del 2,3% (comunque in frenata rispetto
all'aumento del 3,4% registrato nel 2007 sul 2006), perchè nel dato è inclusa
anche la dinamica dei prezzi, per quantità c'è una marcia indietro: -0,9%, quando
invece nel 2007 c'era stata una crescita, sempre nel volume degli acquisti,
dell'1,2%. Un quadro dettagliato della spesa delle famiglie nel 2008, voce per
voce, è contenuto nella «Relazione generale sulla situazione economica del Paese
2008» del ministero dell'Economia.
Un anno difficile, il 2008, a causa della crisi economica internazionale e gli italiani
hanno letteralmente tirato la cinghia. Se si guarda alle quantità di spesa, voce per
voce, compare il segno meno in quasi tutti i settori: si va dal -15,1% di acquisto
dei mezzi di trasporto (dato che ha spinto quest'anno il governo a sostenere il
settore con gli incentivi alla rottamazione) al 5,7% di spese per articoli ricreativi o
culturali. Giù dal carrello della spesa degli italiani, sempre nel 2008, anche
alimentari (-2,5%), vino e grappa (-3,8%), vestiti e scarpe (-1,9%), giornali e
libri (-2,7%).
Anche la casa che, tra affitto, luce, gas, divani ed elettrodomestici o lavori di
manutenzione, assorbe con i suoi 268,4 miliardi di euro quasi un terzo del
portafoglio annuo delle famiglie italiane, nel 2008 è stata un po' 'trascurata'.
Se sull'affitto e le tariffe c'è poco da risparmiare, gli italiani hanno dovuto fare i
conti soprattutto su oggetti non strettamente indispensabili. Rinviato dunque
l'acquisto degli elettrodomestici o dei servizi di piatti e bicchieri. Nelle case degli
italiani anche meno vasi di fiori e meno cani o gatti di compagnia. Per il comparto
«fiori, piante, animali e altri articoli ricreativi» le famiglie nel 2008 hanno speso
53 milioni in meno rispetto al 2007.
«Nell'ultima parte del 2008 - si legge nel Rapporto del Tesoro - il rapido
deterioramento della congiuntura è stato guidato, oltre che dagli investimenti
residenziali e dal processo di riduzione dei magazzini, anche dalla contrazione dei
consumi delle famiglie, colpite dal simultaneo shock subito dallo stock di ricchezza
e dai redditi da lavoro, dal significativo restringimento delle condizioni di accesso
al credito e dalla crescente incertezza sull'evoluzione della crisi globale».
23 agosto 2009
Banche, che affari per lo di stato Governi in attivo con gli aiuti
di Morya Longo
«Bail out people, not banks!». Nei giorni bui della crisi finanziaria, quando i
Governi dovevano salvare gli istituti di credito a suon di miliardi, in America
montava la protesta con lo slogan «salvate i cittadini, non le banche!». Alla gente
comune, munita di cartelli e striscioni, non andava giù che lo stato spendesse i
soldi dei contribuenti per aiutare banche e banchieri. Ma oggi la realtà appare un
po' meno amara: da quei salvataggi gli stati (dunque i contribuenti) iniziano a
guadagnare.
La Svizzera ha rivenduto per 7,2 miliardi di franchi la quota che aveva acquistato
in Ubs, registrando in pochi mesi una plusvalenza di 1,2 miliardi di franchi (790
milioni di euro). In America il salvataggio di Citigroup sta già fruttando allo stato
potenzialmente più di 11 miliardi di dollari e quello di Bank of America poco più di
un miliardo. In Gran Bretagna una delle due banche nazionalizzate, cioè Royal
Bank of Scotland, sta quasi riportando l'investimento pubblico vicino alla pari.
Ancora in perdita, invece, quello in Lloyds Banking Group. Insomma: quelli che
sembravano soldi buttati via, stanno in alcuni casi tornando. Con gli interessi.
Usa: i primi ritorni
Gli Stati Uniti hanno iniettato nel sistema finanziario, in vario modo, un totale di
8.500 miliardi di dollari: più della metà del Pil statunitense. Una spesa immane.
Che in parte faticherà a essere recuperata. Ma almeno una fetta di questa
montagna di soldi sta – potenzialmente – tornando indietro. Complice il rally delle
borse (giustificato o meno che sia) e le caratteristiche tecniche dei salvataggi.
Le soddisfazioni principali stanno arrivando da Citigroup, dove lo stato ha
iniettato 45 miliardi di dollari nei mesi più bui della crisi. Ebbene: le preferred
shares (particolari titoli simili alle azioni) che il governo ha usato per aiutare la ex
banca più grande del mondo, secondo i calcoli realizzati da Bloomberg a metà
giugno hanno già fruttato interessi per 1,6 miliardi di dollari. Ma il boccone più
grosso è arrivato dopo. Un mese fa lo stato ha convertito 25 miliardi di dollari di
preferred shares in normali azioni ordinarie, al prezzo di 3,25 dollari. Dato che
oggi Citigroup quota a 4,70, Ubs ha calcolato che se lo stato smobilizzasse
l'investimento porterebbe a casa una plusvalenza di circa 10 miliardi di dollari
(pari a 7 miliardi di euro). Insomma: frutta più Citigroup che la furibonda lotta
all'evasione fiscale e al segreto bancario.
Un po' meno munifica è Bank of America, che – sempre secondo i calcoli di
Bloomberg – ha pagato interessi allo stato per 1,1 miliardi di dollari (pari a 760
milioni di euro). Anche Goldman Sachs ha dato qualche soddisfazione ai
contribuenti. A luglio l'istituto ha infatti restituito allo Stato 10 miliardi di dollari
prelevati dal piano Tarp, cioè il piano di sostegno per i titoli tossici. E,
contestualmente, ha riacquistato i warrant che il Governo americano aveva in
mano. Ebbene: alla fine lo stato ha guadagnato un tondo 23% annualizzato. È
invece andata diversamente per altre 11 banche minori che, al pari di Goldman,
hanno restituito i soldi del Tarp e riacquistato il loro warrant. Si tratta di istituti
americani meno noti, come Sun Bancorp, First Niagara Financial o Berkshire Hill.
Secondo i calcoli effettuati dalla Congressional Oversight Panel, cioè l'organismo
Usa che vigila sul programma Tarp, nel caso di queste ultime banche lo stato ha
perso 2,7 miliardi di dollari. Per un motivo molto semplice: ha permesso loro di
riacquistare i warrant al 66% del valore.
Europa a due velocità
Nel vecchio continente l'esito dei salvataggi bancari è più variegato. Se la
Svizzera con Ubs ha incassato un assegno da 1,2 miliardi di franchi, la Gran
Bretagna non è ancora riuscita a portare in attivo il suo investimento. Lo stato il
13 ottobre è dovuto intervenire per salvare Royal Bank of Scotland e Lloyds
Banking Group, nazionalizzandole di fatto. Per la prima ha speso 20 miliardi di
sterline (pari a 23 miliardi di euro) diventando azionista al 70%, mentre per la
seconda ha usato 17 miliardi di sterline (19 miliardi di euro) e ha rilevato una
quota pari al 43% del capitale.
Secondo i calcoli effettuati dalla Uk Financial Investment (l'organismo creato dal
governo per gestire e monitorare i due salvataggi bancari), la Corona britannica
ha rilevato le azioni di Royal Bank of Scotland a un prezzo medio di 50,5 sterline
e quelle di Lloyds a 122,6. Ebbene: considerando che oggi la prima quota 48,48
sterline e la seconda 101,58, si capisce che lo stato è ancora in perdita ma anche
che – grazie al rally delle Borse – ha recuperato molto rispetto al momento
dell'investimento. Ancora – riferiscono dalla Uk Financial Investment – non è in
agenda il disinvestimento, ma quando il governo deciderà di uscire dalle due
banche potrebbe non perderci.
Decisamente peggio, invece, è andata in Germania. Soprattutto con Ikb, la banca
creata negli anni 20 per aiutare l'economia tedesca sfiancata dalla prima guerra
mondiale, lo stato ha perso il perdibile. Non esistono cifre ufficiali, ma quando la
banca è stata venduta al fondo Lone Star i giornali locali ipotizzavano una
minusvalenza pubblica di 10 miliardi di euro. Insomma: la banca che ha tirato
fuori la Germania dalle rovine della Grande Guerra, ora ha fatto pagare il conto ai
tedeschi.
23 agosto 2009
Sicurezza sul lavoro. Da oggi in vigore le nuove norme
di Marco Bellinazzo
I modelli organizzativi e di gestione avranno un ruolo cruciale nella gestione della
sicurezza nei luoghi di lavoro. Il correttivo al testo unico del 2008 (decreto
legislativo 81) – al debutto oggi – anzi, potenzia l'efficacia "esimente" dei modelli
di controllo interno rispetto ai profili di responsabilità che potrebbero colpire i
manager e la stessa azienda in virtù del decreto 231. Il decreto legislativo
106/09, inoltre, punta ad agevolare la diffusione dei modelli organizzativi anche
nell'ambito delle Pmi attraverso una semplificazione delle procedure.
Efficacia esimente
Già con il testo unico del 2008 ai modelli organizzativi da applicare ai fini
antinfortunistici è stata assegnata un'efficacia di protezione rafforzata rispetto agli
altri ambiti nei quali, a partire dal 2001, è stata introdotta in Italia la
responsabilità amministrativa per enti e società a seguito di reati commessi
nell'interesse della persona giuridica.
Se spetta normalmente al giudice valutare l'efficacia dei modelli organizzativi per
sancire l'esonero dalle sanzioni della società, nel caso della violazioni di norme
antinfortunistiche che procurino ai lavoratori la morte o lesioni gravi, la valenza
"esimente" dei modelli è sancita direttamente dalla legge. A patto che i modelli
siano effettivamente adottati e attuati e rispondano ai requisiti fissati dall'articolo
30 del decreto legislativo 81.
Quindi le imprese che realizzino un sistema di misure idonee a scongiurare gli
infortuni sul lavoro e un meccanismo interno di monitoraggio che ne consenta il
costante aggiornamento potranno con maggiori probabilità sfuggire alle
conseguenze della responsabilità amministrativa fissate dall'articolo 300 del testo
unico (da multe che possono arrivare a 1,5 milioni di euro a sanzioni interdittive
come il divieto di contrattare con la Pa per un anno).
Le società, però, dovranno garantito, tra l'altro, il rispetto degli standard tecnicostrutturali di legge relativi a impianti, agenti chimici, fisici e biologici, degli
obblighi connessi alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle
misure di prevenzione, nonché alla sorveglianza sanitaria e alla formazione dei
lavoratori.
Obblighi di vigilanza
Il correttivo ha poi previsto che gli organismi paritetici (imprese-sindacati)
potranno «asseverare» l'adozione e l'efficace attuazione dei modelli di
organizzazione. Non si tratta di una "certificazione" assoluta (come era previsto
nella versione dello schema di decreto approvato in prima lettura a Palazzo
Chigi). Tuttavia, il "bollino" rilasciato dagli organismi servirà ad allontanare le
visite degli ispettori del lavoro e delle Asl, i quali dovranno invece dirigersi
prioritariamente verso quelle aziende i cui modelli non siano stati "asseverati".
Altra novità introdotta dal decreto 106 riguarda lo "scudo" offerto dai modelli
rispetto all'obbligo di vigilanza del datore di lavoro sulle funzioni delegate ad altre
persone. Il nuovo comma 3 dell'articolo 16, infatti, stabilisce che quest'obbligo «si
intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e
controllo di cui all'articolo 30, comma 4».
Una formulazione che – ma questo aspetto andrà verificato nelle aule dei tribunali
– potrebbe estendere la protezione derivante dai modelli organizzativi anche
rispetto al più generale dovere di vigilanza dei datori e dei dirigenti in rapporto al
l'adempimento degli obblighi di preposti, lavoratori, progettisti e altri soggetti.
Piccole e medie imprese
Per favorire la diffusione dei modelli organizzativi, già il testo unico del 2008 ha
previsto per le imprese fino a 50 lavoratori la possibilità di ottenere finanziamenti
da parte del Lavoro e che in sede di prima applicazione garantiranno sufficiente
copertura i modelli conformi alle Linee guida Uni-Inail del 28 settembre 2001 o al
British Standard OHSAS 18001:2007.
Il correttivo affida ora alla commissione consultiva permanente del Welfare il
compito di elaborare procedure semplificate per agevolare l'adozione dei modelli
da parte delle Pmi.
[email protected]
20 agosto 2009
Borse ai massimi dell'anno
ma c'è l'incognita cinese
di Guido Maurino
L'ottimismo di Bernanke sulla ripresa economica, i dati convincenti del settore
immobiliare e i nuovi picchi toccati dal petrolio hanno chiuso ieri una settimana
vissuta pericolosamente sulle Borse. L'altalena delle piazze asiatiche ha fatto
temere più volte che stesse per iniziare la correzione che in tanti temono:
Shanghai ha dato due forti scossoni lunedì e mercoledì con cali di oltre il 4 per
cento. Alla fine il "toro" ha prevalso e i listini europei e americani hanno ritoccato
i massimi dell'anno.
Non tutti i dubbi, però sono stati cancellati. L'andamento della Borsa cinese resta
un punto interrogativo consegnato alle prossime settimane. Shanghai, ieri, ha
chiuso in rialzo dell'1,69%, ma registra comunque la terza settimana consecutiva
in rosso: -2,8% rispetto a venerdì corso e -14,7% dal picco del 4 agosto. Hong
Kong ha ceduto lo 0,6% ieri e il 3,3% negli ultimi sette giorni pagando la
maggiore flessione settimanale negli ultimi due mesi.
L'andamento delle piazze asiatiche è lo specchio di un'economia internazionale
che si chiede se riuscirà a camminare sulle proprie gambe una volta terminata la
fase di stimoli dei governi. La risposta che ha voluto dare il presidente della
Federal Reserve, Ben Bernanke, ieri è che la ripresa è possibile. Agli operatori non
è sfuggita la differenza fra il comunicato della scorsa settimana diffuso dal Fomc,
il braccio di politica monetaria della Federal Reserve, e le dichiarazioni del
governatore di ieri. L'economia americana è «sulla via della stabilizzazione», si
limitava a scrivere il Fomc. Ma Bernanke ha volto aggiungere un altro tassello:
«Le prospettive per un ritorno alla crescita nel breve termine appaiono buone».
Buoni appaiono anche tutti gli indicatori macroeconomici usciti in questa
settimana. Le vendite di case esistenti negli Stati Uniti sono salite a luglio del
7,2% al tasso annuo di 5,24 milioni di unità, cioè ai livelli più alti dall'agosto
2007. In miglioramento anche l'attività economica delle importanti aree di
Filadelfia e New York che si è collocata sui massimi dell'anno. E sono stati letti
come segnali di ripresa anche i cali degli stock di petrolio negli Stati Uniti che
hanno portato ieri il greggio ai nuovi massimi dell'anno, a 74 dollari al barile.
Parlare di superamento della crisi, però, è ancora prematuro. L'attenzione,
adesso, è rivolta alla revisione del dato sul Pil di giovedì prossimo, dopo che la
prima lettura ha evidenziato una flessione dell'1%, giudicata deludente da diversi
analisti. Sul fronte del mercato immobiliare, si attende martedì la pubblicazione
del dato Case Shiller sui prezzi delle abitazioni. Solo quando i valori delle case
torneranno a crescere, infatti, la crisi sarà davvero giunta al punto di svolta
perché cesseranno di deprezzarsi anche le innumerevoli cartolarizzazioni di mutui
che gravano ancora sui bilanci delle banche americane. L'altro perno della ripresa
è rappresentato dall'andamento dei consumi che appare ancora debole come ha
dimostrato il calo dello 0,1% delle vendite al dettaglio di luglio negli Stati Uniti;
una performance che è ancora più negativa (-0,6%) escludendo il settore auto
drogato dagli incentivi che l'amministrazione Obama ha deciso di fermare lunedì.
Il commercio internazionale, poi, resta un'incognita con il calo del 41% rispetto ai
picchi di giugno del Baltic Index che misura i prezzi per il trasporto delle materie
prime ed è considerato un valido barometro dello stato di salute dell'interscambio
commerciale e dell'economia mondiale.
Per il momento, comunque, predomina l'ottimismo che dagli Stati Uniti si sta
propagando anche nella Vecchia Europa. In Germania l'indice Zew sulle
aspettative degli investitori sull'andamento dell'economia è balzato a 56,1 punti in
agosto dai 39,5 di luglio. L'indice Pmi composito dei responsabili degli acquisti
dell'area euro, poi, è salito in agosto a 50 punti, vale a dire sulla soglia
dell'espansione economica. Le Borse hanno apprezzato chiudendo ai massimi
dell'anno. Adesso si attende di ricevere conferme positive a cominciare dalla
pubblicazione mercoledì dell'Ifo che misura la fiducia degli imprenditori tedeschi.
22 agosto 2009
Banche Usa, i fallimenti non sono finiti: ecco Colonial
Colonial Bank viene chiusa dalla Federal Deposit Insurance Corp (Fdic), l'agenzia
federale di assicurazione sui depositi, e diventa la maggiore banca americana a
essere fallita nel 2009, la quinta nella storia americana. Nel chiudere l'istituto, la
Fdic ha raggiunto un accordo con BB&T, in base al quale quest'ultima rileva i
depositi, gli sportelli e parte degli asset della seconda banca dell'Alabama.
L'accordo raggiunto prevede anche una divisione delle perdite di Colonial fra la
Fdic e BB&T su 15 dei 22 miliardi rientranti nell'accordo.
Che Colonial Bank fosse in profonda difficoltà non è una novità: la stessa banca il
mese scorso ha messo in dubbio la propria capacità di continuare a operare in
seguito ai problemi incontrati nel raccogliere capitali. Constatando che l'istituto è
«sull'orlo del collasso», il giudice distrettuale Adalberto Jordan ha accolto giovendì
la richiesta di Bank of America di congelare un miliardo di dollari di asset di
Colonial al fine di tutelare le proprie rivendicazioni nei confronti dei finanziamenti
Colonial.
Colonial ha 355 filiali in cinque stati americani e, al 30 giugno, contava su asset
per 25 miliardi di dollari. La banca ha chiuso il secondo trimestre con una perdita
di 606 milioni di dollari, registrando il quinto trimestre consecutivo in rosso.
Fondata nel 1981 a Montgomery, Alabama, Colonial si è ampliata sotto la guida
del fondatore e amministratore delegato Bobby Lowder in Florida, Georgia,
Nevada e Texas. È l'espansione in Florida, e nel suo mercato immobiliare, ad aver
creato problemi e spinto sull'orlo del fallimento l'istituto.
Se l'accordo con la Fdic andrà in porto, BB&T guadagnerà l'accesso al mercato del
Texas, il più attraente per l'industria bancaria: il Texas, spinto dal settore
energetico, vanta un'economia solida, e sicuramente più in salute di molti altri
stati americani. nel corso della crisi BB&T si è comportata molto meglio di molte
delle banche regionali sue rivali: BB&T è uno dei 19 istituti su cui la Fed ha
effettuato gli stress test, che hanno rivelato che la banca non aveva bisogno di
raccogliere ulteriori capitali.
Il mister Euribor italiano: ecco come nasce il tasso
di Maximilian Cellino
Ore 10,45 di un qualsiasi lavorativo. Al desk deputato al servizio tesoreria di una
delle principali banche europee si lavora con attenzione: alcuni impiegati
osservano i tassi praticati dagli istituti di credito sul mercato interbancario
europeo per prestarsi il denaro. Si discute e si arriva a stabilire un valore unico,
anzi 15 valori (uno per ciascuna scadenza, da una settimana a 12 mesi) che
vengono prontamente trasmessi a Thomson-Reuters. Al quartier generale
londinese della società di servizi la scena si ripete ogni mattina per 43 volte, una
per ogni banca che fa parte del panel di rilevazione dell'indice.
I dati affluiscono direttamente al cervellone elettronico, che scarta il 15% delle
rilevazioni più alte e il 15% di quelle più basse. «Via la testa, via la coda, resta
soltanto il cuore», come recitava in Carosello lo spot di una nota grappa: un
modo per escludere rilevazioni anomale e possibili errori. Il tempo di attendere e
sollecitare gli eventuali ritardatari e l'Euro Interbank Offered Rate – meglio
conosciuto attraverso l'acronimo Euribor – è pronto per essere pubblicato e
consultato dai banchieri, dagli operatori di mercato, dagli investitori e magari
anche da qualcuna delle 3 milioni di famiglie italiane che si trovano alle prese con
un mutuo a tasso variabile.
In fondo quella dell'Euribor è una storia relativamente recente, iniziata nel 1999
come l'Unione monetaria europea. Paolo Bosio, responsabile del servizio di
Tesoreria accentrata del gruppo Monte dei Paschi di Siena e unico rappresentate
italiano nell'Euribor Steering Committe – l'organismo che soprassiede al corretto
funzionamento del sistema di rilevamento dei tassi interbancari – non ci tiene a
essere chiamato «Mister Euribor», ma accetta volentieri di ricordare i primi passi:
«Con la creazione dell'euro in sostituzione delle valute locali – racconta – si era
virtualmente conclusa anche l'epoca dei vari Ribor, Fibor, Pibor, i tassi
interbancari dei singoli Paesi».
«Si avvertiva chiaramente - continua Paolo Bosio - la necessità di introdurre un
parametro di riferimento unico per misurare l'andamento dei mercati del denaro
dell'Eurozona».
Per la verità già da alcuni anni la British Banking Association (Bba) aveva esteso
le rilevazioni del Libor (London Interbank Offered Rate) alla zona dell'Euro, ma i
neomembri dell'Unione monetaria, soprattutto l'asse Parigi-Francoforte, finirono
per spingere verso la soluzione "autarchica". «Per le modalità con le quali veniva
e viene ancora rilevato – conferma Bosio – il Libor si riferisce a scambi effettuati
sul mercato londinese da banche britanniche e statunitensi, noi volevamo invece
un tasso che rappresentasse in modo più fedele ciò che avviene all'interno
dell'Eurozona».
A raccogliere il testimone fu la Federazione bancaria europea (Fbe),
l'organizzazione che rappresenta gli interessi di circa 5mila istituti di credito che
operano nel Vecchio Continente, che insieme alla Financial markets association
(Aci) selezionò allora per la rilevazione quotidiana dei tassi un panel di 47 banche
(oggi ridotte appunto a 43, anche per effetto dell'intensa attività di fusioni degli
ultimi anni). Tra di esse figurano i principali gruppi finanziari della zona euro e
anche altri soggetti provenienti da altri Paesi europei e dal resto del mondo. La
predominanza di francesi e tedeschi, con rispettivamente 6 e 10 presenze, è
netta e dovuta in parte alle oggettive dimensioni dei gruppi bancari e in parte
all'effettivo potere che il nucleo storico dell'euro continua a detenere, mentre per
l'Italia sono attualmente inclusi, oltre a Montepaschi, Intesa Sanpaolo e UniCredit.
«L'ampiezza del panel di banche che rilevano il tasso e il costante controllo dei
contributi che vengono inviati sono il vero punto di forza e la garanzia stessa
dell'affidabilità dell'Euribor» osserva con una certa compiacenza Bosio. E il
confronto, anche se non manifesto, lo si fa con il Libor, sistema che prevede un
limite massimo di 16 banche e che nelle fasi più acute della tempesta finanziaria
innescata dalla crisi subprime, resa poi ancora più violenta dal crack di Lehman
Brothers, è finito nell'occhio del ciclone. Quasi infamante l'accusa mossa alla Bba
e alle banche britanniche: essersi messe d'accordo per comunicare tassi più bassi
di quelli normalmente osservati sul mercato, in modo da ridurre il costo della
provvista e soprattutto nascondere le difficoltà attraversate da molti istituti di
credito. Erano del resto i giorni in cui nessuna banca si fidava più a prestare
denaro senza garanzie alla propria vicina e le voci di fallimento di grandi gruppi
finanziari rimbalzavano con insistenza.
Da tutte queste polemiche l'Euribor è riuscito a sottrarsi: in fondo il sistema di
rilevazione in sé si è rivelato affidabile in virtù proprio dell'elevato numero dei
contributori che rende, se non impossibile, almeno abbastanza complicata la
creazione di una sorta di cartello in grado di guidare ogni giorno i valori dei tassi.
Quantomeno perché al momento di comunicare i dati alla Reuters nessuno può
conoscere i valori inseriti dall'altro e soprattutto perché al termine della giornata
sul sistema della stessa agenzia vengono resi pubblici e confrontabili i singoli
contributi delle banche.
Ciò che invece continua a sollevare dubbi è il funzionamento stesso
dell'interbancario: la fase acuta della crisi è di sicuro alle spalle e oggi non si parla
più di «mercati congelati», ma festeggiare ritorno alla normalità sarebbe
francamente un azzardo. «Le grandi banche europee che fanno parte del panel di
rilevazione dell'Euribor - spiega Vincenzo Mioccio, direttore generale di e-Mid,
unico mercato interbancario elettronico d'Europa – riescono effettivamente a
scambiarsi il denaro al tasso rilevato, ma spesso gli istituti di credito di
dimensione minore, anche in ragione degli importi inferiori trattati, ottengono
denaro a prezzi meno competitivi».
L'Euribor sarebbe dunque un tasso avvicinabile da molti, non da tutti. «L'aria che
tira sui mercati interbancari – conferma Mioccio – non è certo quella che si
respirava dopo Lehman, ma ciò non toglie che il rischio di controparte resti un
fattore preponderante e che si faccia sempre molta attenzione al nome della
banca cui si presta il denaro». Del resto, che il mercato interbancario si sia
fortemente ridimensionato non è certo un mistero: i 26 miliardi di euro che in
media venivano quotidianamente scambiati su e-Mid prima della tempesta
finanziaria si sono ridotti oggi a poco più di 8 miliardi.
Le banche preferiscono lasciare il denaro che ottengono a prezzo di favore dalla
Bce in deposito presso lo stesso istituto di Francoforte, pur a tassi irrisori, e il
grosso degli scambi avviene ormai sui mercati collateralizzati che prevedono, a
differenza dell'interbancario, il prestito del denaro dietro forme di garanzia (in
genere titoli di Stato). In futuro, sostengono pressoché all'unanimità gli esperti, si
andrà sempre più verso questa direzione, tanto che c'è chi è pronto a intonare il
de profundis per i mercati interbancari così come li abbiamo conosciuti prima
della grande crisi. L'Euribor, invece, resterà nel bene e nel male sempre il punto
di riferimento per banche e clienti. Resta da chiedersi se riuscirà a conservare la
sua reale affidabilità.
22 agosto 2009
«La Borsa cinese è come un gigantesco schema Ponzi»
di Andrea Franceschi
L'Asia sarà la locomotiva della ripresa globale? Il tonfo delle borse asiatiche in
avvio di settimana (il peggiore da cinque mesi a questa parte per l'indice MSCI
Asia Pacific) ha forse riportato con i piedi per terra quanti in questi mesi
avevano scommesso sul Far East. «An astonishing rebound» (Un rimbalzo
sorprendente) titola l'ultimo numero dell'Economist. La ripresa dell'economia
globale - questa la tesi - sarà trainata dalle economie di Cina, Indonesia, Corea
del Sud e Singapore. Nell'articolo di compertina, a supporto della tesi, vengono
citati i brillanti risultati raggiunti in questi ultimi mesi dalle economie delle tigri
asiatiche. Anche il Giappone (che ha registrato il primo aumento del Pil degli
ultimi cinque trimestri, anche se minore del previsto) viene citato come una delle
economie che prima di altre uscirà dalla recessione.
La frenata delle Borse asiatiche, con le sue conseguenze sui mercati globali, ha
freddato gli entusiasmi. La più colpita è stata soprattutto la Borsa cinese, che ha
perso il 5,79 per cento. Lo Shanghai composite index ha fatto registrare il
peggior calo dal 18 novembre del 2008 (anche se mantiene un rialzo del 58%
dall'inizio dell'anno). Cosa ha contribuito a questo brusco risveglio? Tanti fattori, a
partire dalle perdite riportate nel primo semestre dal gigante dell'industria
metallurgica Yunnan Copper (terzo produttore di rame del Paese). Ma
soprattutto ha inciso il crollo degli investimenti stranieri di luglio (-35,7% a luglio
e -20,3% nei primi sette mesi dell'anno). Tutti elementi che hanno rafforzato la
convinzione, condivisa da molti analisti, che dietro il rally di Shanghai (salita in
un anno di quasi il 100%) non ci sia altro che una bolla speculativa e non una
solida ripresa dell'economia reale.
Il timore è quello che i bassi tassi d'interesse e le forti iniezioni di liquidità della
Banca centrale cinese abbiano incoraggiato la speculazione (nel mercato azionario
e in quello immobiliare) più che un sano impegno nel credito alle imprese. Tra i
maggiori sostenitori di questa tesi c'è Andy Xie, ex capo-economista per l'area
Asia Pacifico di Morgan Stanley, oggi indipendente. «Nella prima parte dell'anno la
liquidità immesa nel sistema bancario è aumentata del 24% - si legge in un suo
report pubblicato dal blog di Barry Ritholtz (uno dei guru della finanza più
ascoltati negli Usa) - ma il loan deposit ratio (rapporto tra prestiti e depositi) è
rimasto pressoché stabile al 66%». Questo significa che la liquidità è stata
utilizzata, più che per finanziare le imprese, per investimenti a leva nel mercato
azionario e nella speculazione immobiliare.
L'eccesso di liquidi in circolazione, sostiene Xie, ha dato origine a una bolla
definita metaforicamente «un gigantesco schema Ponzi» (lo stesso meccanismo
adottato dal finanziere-triffatore Bernie Madoff). Il mercato azionario cinese è
quindi drogato e il valore delle azioni, secondo l'economista, sono sopravvalutate
del 50-100%. Quando scoppierà la bolla? Secondo Xie ci sarà un'importante
correzione di rotta a partire dal quarto trimestre dell'anno. Staremo a vedere se il
tonfo di Shanghai è solo un temporale estivo, oppure è l'annuncio di una più
grave tempesta.
Il consumatore acquista quello che vuole l'impresa
di Vittorio Carlini
«Il consumatore è al centro del business». Oppure: «In tempi di crisi è la
domanda che influenza l'offerta». Ancora: «L'azienda siete voi». Quante volte
abbiamo ascoltato simili affermazioni. Per carità: coglieranno anche una parte
della verità. A ben vedere però, la scelta di noi poveri acquirenti non è
certamente così libera come si pensa. Da decenni, e anche di più, il marketing
sfrutta le più disparate tecniche per influenzare le nostre scelte. Il Sole24Ore.com
ha fatto "quattro passi" in questo mondo riportando, senza alcuna pretesa di
completezza, alcuni esempi divertenti e illuminanti.
Abbocchiamo all'esca
Daniel Ariely, esperto di economia comportamentale, nel suo libro
"Prevedibilmente irrazionale", ed. Rizzoli, ci ricorda come le nostre scelte sono
tutte relative e fa un esempio. L'economista riporta l'offerta, ritrovata in Internet,
per l'abbonamento ad un noto settimanale americano. Una proposta che, nei suoi
elementi essenziali, si riassume così:
Abbonamento annuale solo all'edizione online, 59 $
Abbonamento annuale all'edizione cartacea, 125 $
Abbonamento annuale sia all'edizione cartacea sia a quella online, 125 $.
Non stupisce apprendere che, dopo avere sottoposto quest'offerta a 100 studenti
della Sloan School of Management del Mit, la maggioranza di loro (84) sceglie
l'abbonamento da 125 $ valido sia per Internet sia per la carta. Una minoranza,
16 studenti, opta per il solo online e mentre nessuno decide per l'offerta cartacea
a 125 $. «Fin qui - scrive Ariely - davvero brillanti questi studenti, non c'è che
dire». Poi, però, il simpatico professore cambia le carte in tavola. Realizza una
nuova proposta che, nei suo caratteri essenziali, può riassumersi così:
Abbonamento annuale solo all'edizione online, 59$
Abbonamento annuale sia all'edizione cartacea sia a quella online, 125 $
E qui, salta fuori la sorpresa. Nella sostanza, infatti, tra le due offerte nulla è
cambiato: la scelta degli studenti dovrebbe essere la stessa o, perlomeno, simile.
Invece, questa volta, ben 68 studenti scelgono la singola opzione Internet (a 59
$) e solamente 32 decidono per il pacchetto online più carta (125$). Cos'è
successo? Arely risponde in maniera semplice: «I maghi del marketing del
settimanale - scrive l'economista- sanno una cosa importante sul comportamento
umano: raramente le persone scelgono in termini assoluti». Per i comuni mortali,
cioè, non è facile dire qual'è il prezzo "giusto" di un bene senza avere un punto di
riferimento. Ci orientiamo meglio quando: «Mettiamo a fuoco il vantaggio relativo
di una cosa rispetto ad un'altra». Così, non possiamo sapere con sicurezza se
l'offerta da 125$ (per la sola carta) sia meglio di quella da 59$ solo per Internet.
Ma, certamente, possiamo dire che l'offerta Internet più carta a 125$ è più
vantaggiosa di quella per la sola edizione cartacea allo stesso prezzo. Gli esperti
di marketing, insomma, ci hanno gettato un'esca (di raffronto). Ovviamente,
l'hanno buttata dove loro volevano: cioè, vicino alla proposta da 125$ per l'online
e la carta. E gli studenti del Mit hanno abboccato: hanno scelto, in maggioranza,
l'abbonamento più caro. E noi, probabilmente, avremmo fatto lo stesso.
Aggrapparsi all'ancora
Ma non ci sono solo le esche. Esistono anche le ancore. Gli economisti
comportamentali, infatti, sottolineano un altro aspetto interessante. Quale? Il
fatto che i prezzi di partenza, quelli rispetto ai quali noi realizziamo i
nostri paragoni, spesso possono essere arbitrari. E i consumatori,
comunque, spesso li accettano anche se sono ingiustificati. Diversi
esperimenti hanno mostrato che avvicinando un bene (di cui ancora non si è ben
definito il prezzo) ad un altro oggetto già "prezzato", il valore di quest'ultimo
tende a giustificare il nuovo prezzo. Famosissimo è l'esempio (citato nel suo
libro dallo stesso Ariely) delle perle nere di Tahiti che
nessuno voleva acquistare. Fino a quando non furono messe nella vetrina di un
notissimo gioielliere di New York, a fianco di pietre preziose e costosissime. Da
quel momento il loro prezzo, altissimo, fu accettato come normale. Era stata
gettata l'ancora e l'acquirente, dopo poco tempo, aveva iniziato a considerare
le quotazioni delle perle nere di Tahiti come "normali". Le persone si erano
"ancorate" a quei valori che sarebbero diventati, nel tempo, un punto di
riferimento. Ora, questo tipo di comportamenti si concretizza molto più di quanto
si pensi nel mondo dell'economia dei consumi. E, con buona pace dei costi
marginali aziendali, è uno dei meccanismi che i signori del marketing conoscono
(e usano) per indurci a spendere quello che loro vogliono.
L'acquisto come esperienza
Fin qui le esche e le ancore. Ma è anche una questione di «esperienza». E sì,
perché ci sono alcune tipologie di acquisto, come per esempio il bere un caffé o
una cioccolata, dove "creare un'atmosfera" può essere fondamentale per indurre
all'acquisto. Ne sanno qualche cosa alla ScentAir, un'azienda che produce
profumi di ogni tipo da "spruzzare" nell'aria, nell'ambiente circostante. Nel parco
giochi, in Inghilterra, di Legoland questa società ha sperimentato,
piazzandola vicino alla porta di un coffe shop, una macchinetta che,
periodicamente, spruzza nell'aria un sapore di cioccolato. Non il tipico
gusto di caffé, troppo forte per i ragazzi, bensì un odore più dolciastro. Il tutto,
ovviamente, all'insaputa dei clienti. All'inizio lo scettiscimo regnava incontrastato.
Poi, i numeri (gli incassi) hanno dato ragione all'idea di ScentAir: le vendite della
dolce e calda bevanda sono aumentate, e di molto. Cosa è accaduto? Semplice: è
successo che il buon sapore di cioccolata, all'interno del bar, invogliava
inconsciamente al consumo.
D'altra parte, che colpire i sensi (l'olfatto ma anche la vista) fosse importante,
l'ha capito da molto tempo negli Usa la stessa Starbucks. Il suo creatore,
Howard Shultz, si è impegnato moltissimo a differenziare i suoi caffé da quelli già
esistenti in America. Offrire bavende dai nomi altisonanti (Frapuccino, Caffé
macchiato) , con un'ampia varietà di dolci, serviti in locali in stile europeo ha
contribuito a «trasformare - scrive Ariely - l'esperienza di bere un caffé in
un'esperienza unica». Con un ulteriore risultato fondamentale: ha fatto passare in
secondo piano il maggiore costo del caffè di Starbucks rispetto alle altre catene di
bar. In un altro locale, magari, la gente avrebbe confrontato il prezzo di una
tazzina d'Espresso con quella di un altro bar (non lo facciamo, noi, spesso?). E,
accorgendosi di pagare di più, avrebbe seguito una strategia razionale: non
entrare più da Starbucks. Ma, evidentemente, l'emozione non ha prezzo. Un
risultato di poco conto? Non sembra proprio.
Dov'è finito l'homo economicus?
Secondo l'economia tradizionale, i prezzi dei prodotti sono determinati
dall'incrocio dell'offerta e della domanda. Due "forze", tra di loro,
considerate indipendenti. In realtà, come gli esempi sopra citati mostrano
(e se ne potrebbero fare molti altri), questa indipendenza è solo un
miraggio. A dar retta ai classici, l'elemento fondante della domanda ( la
diponibilità a pagare da parte del consumatore), sarebbe libera. Come si è visto
non è asolutamente così: questa disponibilità può essere facilmente manipolata.
Anche perché le nostre scelte hanno ben poco di razionale. Sono molte volte
influenzate da ciò che ricordiamo di più: un'esperienza, negativa o positiva, che ci
ha segnati e cui attribuiamo un forte significato affettivo (l'esperienza del coffe
shop di Legoland).
La domanda, alla fine, non è "libera" di esprimersi nel modo che vuole ma è ben
indirizzata dall'offerta. Forse, il consumatore non è poi così al centro
dell'azienda, né è così importante nel determinare il business delle
imprese. Anche se fa comodo farlo credere.
[email protected]
12 agosto 2009
www.repubblica.it
Per la "Generazione 1.000 euro" per arrivare alla fatidica soglia servono
due impieghi
Storie di giovani e meno giovani che sbarcano il lunario sdoppiandosi in
attività diverse
Pochi soldi, due lavori
Cavarsela in tempi di crisi
Il fenomeno interessa almeno 3,5 milioni di italiani
Il secondo mestiere è molto spesso svolto in nero
di PAOLO RIBICHINI
RICERCATORI di giorno, camerieri di notte, webmaster la mattina, autisti il
pomeriggio. Lavorare, lavorare, lavorare. Si fa presto a dire "Generazione 1000
euro". Per arrivarci, spesso, bisogna fare contemporanemente due attività. Tra i
giovani precari (e non solo) i soldi non sono mai abbastanza, soprattutto se non
si vive più con i genitori. Mille euro sono un traguardo non facilmente
raggiungibile. Allora è necessario arrotondare in qualche modo.
Le storie
Adriana F., ricercatrice bergamasca di 28 anni, lavora in un ospedale di Brescia e
si occupa di neuroscienze. Una borsa di ricerca, rinnovata anno dopo anno, che le
consente di portare a casa poco più di 800 euro al mese che, soprattutto nelle
ricche province del nord, non permettono di vivere. Di conseguenza, ha portato il
suo curriculum ad una palestra a poche centinaia di metri dalla struttura
sanitaria. Così, oggi, di giorno continua il suo lavoro nell'ospedale, "di sera faccio
l'istruttrice di spinning". "La cosa che fa più riflettere - dichiara Arianna con un
po' di amarezza - è che guadagnerei di più in palestra a tempo pieno che con
l'attività per la quale ho studiato. E pensare che dopo la laurea ho anche preso il
dottorato di ricerca".
Marinella R., psicologa di 26 anni, ex collega e amica di Arianna, ha rinunciato al
suo sogno. "Sin da quando ero piccola volevo fare la psicologa e, durante gli studi
universitari, capii che la mia strada era quella della ricerca. Quando mi proposero
una borsa di ricerca a Brescia non ero nella pelle. Al tempo". Però, nel tempo si
era resa conto che i soldi erano pochi e che senza l'aiuto dei suoi genitori,
sarebbe stato impossibile andare avanti: "Il mondo attorno a me non girava nel
verso giusto e, pur se vedevo uscire le mie prime pubblicazioni, non ero affatto
appagata". Il problema per la giovane, nata in un paese della Puglia, si è
presentato alla scadenza del primo contratto. "Ero rimasta senza stipendio per tre
mesi. Anche se avevo messo da parte qualche soldo, decisi di lavorare la sera
come cameriera in due ristoranti, quando non dovevo fare il turno di notte.
Dormivo 3 ore ogni giorno". Passano alcuni mesi e decide di cambiare tutto: "Più
che per uno stipendio minimo, ciò che più mi ha fatto prendere questa decisione è
stata quella situazione totalmente precaria. Vedevo i miei colleghi più esperti che
a 36 anni di età e con 10 anni di esperienza, guadagnavano poco più di mille euro
con contratti annuali. Così decisi di inviare il mio curriculum ad alcune aziende".
In pochi giorni è stata chiamata da un'azienda marchigiana come stagista nelle
risorse umane. "Mille euro lorde al mese per 8 mesi ma nessuno mi aveva detto
che due terzi del rimborso sarebbero arrivati solo alcuni mesi dopo la conclusione
dello stage". Così la giovane pugliese ha dovuto arrotondare con un lavoretto che
è stato "un vero sollievo". "Per anni mi sono occupata di tradurre articoli
scientifici dall'inglese e così mi sono detta: 'perché non farlo diventare un
lavoro?'. Ho messo gli annunci nella facoltà dove mi sono laureata e ho iniziato a
fare traduzioni per i laureandi".
Valentina da Crema, 29 anni di Milano, non ha mai pensato di fare la
ricercatrice. Dopo la laurea in materie umanistiche, ha mandato il proprio
curriculum a varie aziende. Le hanno offerto solo stage. "Sono stata chiamata
dall'Adecco per un tirocinio di 6 mesi come data entry: per i primi tre non sono
stata pagata, nell'ultima fase prendevo 300 euro più i buoni pasto", racconta la
ragazza meneghina. "Finito lo stage mi hanno mandato via così ho mandato il mio
curriculum all'azienda di lavoro temporaneo Metis. Anche qui mi hanno offerto
solo uno stage: 250 euro al mese". Dopo poco più di quattro mesi ha ricevuto la
chiamata da parte di Kone, azienda per la produzione di scale mobili e ascensori.
"L'ennesimo stage di 6 mesi, ma mi devo ritenere fortunata per ricevere 700 euro
al mese". I pochissimi soldi ricevuti negli ultimi due anni hanno spinto Valentina a
cercare dei secondi lavori. "Ho fatto di tutto: baby sitter, ripetizioni, call center
part-time e correttrice di bozze editoriali. Ancora oggi collaboro con una casa
editrice. Leggo le bozze e verifico che non ci siano errori grammaticali. Lavoro la
notte o durante i finesettimana ma lo faccio volentieri perché sono una bibliofila
incallita", spiega. Lo scorso anno riusciva a portare a casa 900-1000 euro l'anno,
"ma la crisi sta colpendo il settore e nel primo semestre del 2009 ho guadagnato
solo 250 euro". Per questo l'aiuto dei genitori è ancora necessario.
L'arte di arrangiarsi diventa anche creativa. Emanuele Geniale, 37 anni, web
master romano, insieme ad un suo amico ha deciso qualche mese fa di aprire un
servizio di chauffeurs speciale, dedicato a chi beve troppo. Il servizio è semplice
ma geniale: l'autista arriva a bordo di un motorino pieghevole, guida l'auto del
malcapitato e lo riaccompagna a casa. Riprende il motorino, posizionato nel
bagagliaio, e torna alla base. Un'idea "rubata" ai londinesi. Tuttavia, il servizio
"Mario ti porta a casa" non riesce a prendere piede: "I giovani romani non sono
disposti a pagare 25 euro per il servizio, mentre dalle istituzioni non otteniamo
alcun finanziamento. Eppure questo è un servizio sociale: si tratta di prevenzione
degli incidenti". Cristopher Nissanka Arachchige, cingalese 43 anni è uno degli
autisti di "Mario". "Da alcuni giorni lavoro come autista di pullman turistici",
mentre continuerà a lavorare di notte sui motorini ripiegabili: "5-600 euro al
mese mi fanno comunque comodo", spiega.
I dati
Queste le storie di giovani e meno giovani alle prese con il precariato e stipendi
bassi. Ma si tratta di un piccolissimo spaccato di una realtà vastissima.
Rielaborando i dati Istat per il 2008, risulta che almeno 3,5 milioni di lavoratori
italiani hanno un secondo impiego. Considerando che circa 2,5 milioni hanno uno
o più lavori part-time (anche autonomi), circa un milione di italiani ha bisogno di
lavorare la sera o nei week-end, dopo le otto ore giornaliere di chi è impiegato a
tempo pieno. Tuttavia, anche il part-time, in aumento nel 2008, è caratterizzato
per i due terzi dal cosiddetto "part-time involontario", ovvero impieghi a tempo
parziale, accettati in attesa di lavori a tempo pieno. Secondo l'Eurispes sarebbero
addirittura 6 milioni i doppiolavoristi tra i soli dipendenti, concentrati nella
ristorazione e negli alberghi, nei servizi domestici e nei lavori della
comunicazione. Buona parte di queste attività secondarie è svolta in nero.
Secondo l'Eurispes si tratta di un fenomeno in crescita: l'aumento del costo della
vita e la difficoltà ad arrivare alla quarta settimana del mese, hanno incentivato
questa scelta. Tuttavia c'è anche chi ricerca "momenti lavorativi" che valorizzino
competenze, sminuite dal primo lavoro.
"Con la crisi il fenomeno potrebbe tendere a crescere ulteriormente", spiega
Claudio Treves, responsabile del dipartimento per il mercato del lavoro della Cgil.
"I redditi delle persone tendono a calare soprattutto quando si ricorre alla Cassa
integrazione o alla mobilità. In particolare al sud la crisi porta all'aumento
dell'economia sommersa e irregolare. Tuttavia, la crisi può portare anche ad una
contrazione delle opportunità di lavoro. Sono, quindi, tendenze che si
contraddicono". Infatti, secondo il bollettino economico "Luglio 2009" della Banca
d'Italia, aumenta la disoccupazione, in particolare tra i giovani e diminuiscono le
ore lavorate. Per questo, forse, a chi vuole arrotondare con un secondo impiego,
nel momento in cui manca il lavoro, non resta che inventarselo.
(22 agosto 2009)
www.lavoce.info
Troppi equivoci sul decentramento
di Tito Boeri e Pietro Garibaldi 24.07.2003
C’è molta disinformazione riguardo al decentramento della contrattazione in
Italia. Tre le domande più frequenti, cui cerchiamo di dare risposta: 1. Decentrare
la contrattazione significa ripristinare le cosiddette “gabbie salariali”? 2. Quanto
rilevanti sono i divari di produttività fra Nord e Sud nel nostro paese? 3. Posto che
sia desiderabile, può il Governo fare qualcosa per incoraggiare il decentramento
della contrattazione?
La disinformazione
Il problema numero uno del nostro mercato del lavoro è il divario fra un Nord in
cui mancano i lavoratori e un Mezzogiorno in cui mancano i lavori. Per questo
motivo, mentre si celebrava il decennale del protocollo Ciampi, diverse voci si
sono levate per un maggiore decentramento della contrattazione nel nostro
paese. Il decentramento dovrebbe tenere conto dei profondi differenziali di
produttività fra imprese e aree geografiche. Fra queste voci anche quella del
Fondo Monetario che, al termine della sua missione in Italia, ha incoraggiato "le
parti sociali ad assicurare che i salari riflettano in modo più adeguato i
differenziali di produttività fra regioni e gruppi di lavoratori". Messaggio passato in
secondo piano dal TG1 che ha riportato spassionati elogi del Fondo Monetario alle
riforme del mercato del lavoro varate da questo Governo, che avrebbero creato
molti posti di lavoro. Nessuna traccia di questo passo nel documento lasciato al
Governo italiano dalla delegazione. Non a caso; la cosiddetta "riforma Biagi", più
precisamente il decreto n.30, non è ancora entrata in vigore e, quindi, non può
aver creato posti di lavoro.
Quesiti ricorrenti
Ma torniamo alla proposta di decentrare la contrattazione e poniamoci due
domande volte a chiarire alcuni equivoci ricorrenti e a porre in termini corretti il
confronto:
1. Decentrare la contrattazione significa ripristinare le cosiddette "gabbie
salariali"?
2. Quanto rilevanti sono i divari di produttività fra Nord e Sud nel nostro paese?
3. Posto che sia desiderabile, può il Governo fare qualcosa per incoraggiare il
decentramento della contrattazione?
L'incubo delle gabbie
Contrariamente a quanto riportato da diversi giornali, né il documento del Fondo
Monetario, né le tesi favorevoli al decentramento della contrattazione di settori
del Sindacato e studiosi di relazioni industriali fanno riferimento alle cosiddette
"gabbie salariali", i rigidi differenziali retributivi per macro aree geografiche
contemplati dagli accordi interconfederali dei primi decenni del Dopoguerra.
Decentrare la contrattazione non significa neanche necessariamente smantellare
la struttura della contrattazione a due livelli uscita dall'accordo del luglio 1993. Un
allargamento dei ventagli retributivi fra regioni può essere ottenuto anche solo
allargando la portata del secondo livello di contrattazione, il livello aziendale -che attualmente incide in media per poco più del 3-4 per cento della retribuzione
per gli operai -- e ampliando ulteriormente le esperienze di contrattazione
territoriale avviate nell'ambito della programmazione negoziata. Molti paesi della
UE hanno, del resto, avviato in questi anni processi di "decentramento
controllato" della contrattazione in cui si mantiene in vita la contrattazione
nazionale, ma si contemplano "clausole d'uscita", deroghe ai minimi contrattuali
capaci di tenere conto della minore produttività del lavoro in specifiche imprese o
regioni, come ad esempio ampiamente avvenuto nel caso della Germania Est. Il
problema, tuttavia, è che col doppio livello i datori hanno pochi incentivi a
condurre la contrattazione decentrata (perché ha solo un "effetto sommatoria":
aggiunge incrementi salariali a quelli nazionali). E' non è forse un caso che nella
relazione di Antonio D'Amato all'ultima assemblea di Confindustria il termine
"decentramento della contrattazione" non trovi cittadinanza alcuna. Il sindacato,
dal canto suo, non sempre ha la forza per imporre contratti decentrati. Infatti
oggi solo circa il 10% delle imprese (il 25% tra quelle con più di 10 addetti) attua
un secondo livello di contrattazione. Pochissime le imprese coinvolte nel
Mezzogiorno.
L'entità delle differenze nel costo del lavoro per unità di prodotto
L'Indagine sulla struttura delle retribuzioni -- condotta dall'Istat secondo gli
standard comunitari e finalmente in grado di rilevare i salari effettivi anzichè
quelli formalmente stabiliti dal contratto di categoria -- mostrano che nel
comparto manifatturiero i salari al Sud sono mediamente inferiori di circa il 9 per
cento alla media nazionale. Questo a fronte di una produttività del lavoro nel
Mezzogiorno di circa un quinto (attorno ai 19 punti percentuali) inferiore alla
media, il che significa un aggravio del costo del lavoro per unità di prodotto al
Sud di circa il 10 per cento rispetto al resto del paese.
Non è tutto. Il processo di determinazione dei salari in Italia non sembra tenere
conto dei divari nelle condizioni del mercato del lavoro. Come documentato da
Pellizzari e Hernanz, da noi non c'è una vera e propria "curva dei salari": la
relazione fra disoccupazione e salari è piatta, anziché essere decrescente come
negli altri paesi, dove i salari sono più bassi nelle regioni ad alta disoccupazione.
Una volta che si tenga conto delle differenze strutturali nei mercati del lavoro
nelle diverse regioni, anche quei modesti divari retributivi di cui sopra
scompaiono.
Non c'è perciò da stupirsi se il sommerso è concentrato nel Mezzogiorno: un
quinto delle posizioni lavorativi al Sud sono irregolari contro meno del 10% (si
tratta tra l'altro soprattutto di immigrati) al Centro-Nord.
Può il Governo aiutare il decentramento?
Il Governo, lo ha fatto più volte il Ministro del Welfare Maroni, in genere si astiene
da commenti sui livelli e le forme della contrattazione ritenendo che questi
devono essere liberamente stabiliti dalle parti. Principio condivisibile. Ma questo
non vuol dire che un decentramento della contrattazione non possa essere
incentivato. Almeno tre i modi per farlo.
1. Introducendo un salario minimo intercategoriale. Questo offrirebbe un nuovo
riferimento alla giurisprudenza, diverso dai minimi contrattuali settoriali, nella
determinazione del "salario equo". Al tempo stesso tutelerebbe molti lavoratori
che hanno forme contrattuali flessibili.
2. Favorendo il decentramento della contrattazione nel pubblico impiego o anche
solo stabilendo che i salari ai pubblici dipendenti riflettano le differenze nel costo
della vita fra diverse aree geografiche (storicamente salari nominali uguali su
tutto il territorio nazionale a fronte di differenze nel costo della vita fino al 30%
sono state un modo per sussidiare il pubblico impiego nel Mezzogiorno).
3. Mediante la decontribuzione dei salari più bassi; stimolerebbe il decentramento
della contrattazione perché ridurrebbe il costo del lavoro al Sud (dove sono in
genere pagati i salari più bassi) più di quanto si riducano i salari netti, rendendo
in questo modo più conveniente per imprese e lavoratori il decentramento della
contrattazione.