Ethiopian Airlines
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Conoscere l’Etiopia L’Etiopia è un paese affascinante molto più di quanto le immagini che vedrete e le parole che leggerete sanno esprimere. Perché la carta non sa rendere la dolcezza dell’aria, il profumo della sua natura, i sapori intensi della cucina e il misticismo sottile che trapela dai luoghi di culto, soprattutto durante le feste religiose. Difficile rendere su carta la vitalità e varietà dei popoli della Valle dell’Omo, l’emozione delle Chiese Rupestri di Lalibela, le architetture medievali di Gondar, il misticismo dei monasteri del Lago Tana, le atmosfere lunari della Dancalia, i misteri di Harer e –non ultimo – il pulsare moderno di Addis Abeba, città in perenne trasformazione. Non era facile, ma abbiamo voluto e dovuto provarci: l’Etiopia è un paese meraviglioso e ci auguriamo che questa breve guida che abbiamo elaborato con il supporto dell’Ambasciata della Repubblica Federale e Democratica dell’Etiopia in Roma, grazie ai testi e alle foto di Andrea Semplici, vi stimoli a visitare questo splendido e antichissimo paese. Da parte nostra, facciamo del nostro meglio per rendere il vostro viaggio indimenticabile e ricco – sin dalla partenza – dell’antico senso dell’ospitalità etiopica, abbinandolo a un impeccabile servizio a bordo dei nostri modernissimi aeromobili. Vi auguriamo buona lettura e... buon viaggio! Ethiopian Airlines www.ethiopianairlines.com Addis Abeba: la Ginevra d’Africa Addis Abeba, “il nuovo fiore”, dolcissimo nome scelto alla fine dell’ ‘800 dalla regina Taytu, moglie di Menelic II°, il Negus destinato a sconfiggere l’esercito coloniale italiano ad Adua, è una città nuova. Non ha storia. Non ha leggende. Ha un urbanistica cresciuta a strappi. Ha una vitalità imprevista, un’urgenza quasi continua di cambiamento. Forse perché, davvero, è una città giovane e impaziente nonostante sia sorta a duemila quattrocento metri di altezza. In fondo non si può essere sorpresi: Addis Abeba ha poco più di un secolo di vita ma forse ben più dei tre milioni di abitanti che indicano i censimenti. L’urbanistica della nuova capitale ha strani ritmi. Crebbe subito con una frenesia da neonata, ma la città rischiò di scomparire dopo pochi decenni. Divenne città imperiale negli anni del regno di Haile Selassie, l’ultimo Negus, ma fu travolta dai progetti degli architetti italiani nei pochi anni di occupazione italiana. Nel 1960 diventò sede dell’Organizzazione dell’Unione Africana: furono costruiti, per ragioni di prestigio internazionale, i primi grattacieli; la città si dilatò lungo la fertile piana vulcanica. In questi ultimi anni sta subendo l’ultima irruente metamorfosi: sta cambiando la sua sky-line. Sono sorti come funghi decine di palazzi in vetro-cemento. Addis Abeba è spesso luogo di incontri interafricani e internazionali, nonché sede africana di molte rappresentanze occidentali. Sono nati quartieri-alveari di “condomini”, mentre il tessuto dei vecchi sobborghi-villaggio sembra scricchiolare sotto la nuova spinta a costruire. Ma Addis Abeba rimane una città diversa, differente da ogni altra metropoli africana: qui, nel cuore dell’Etiopia, poveri e ricchi vivono ancora fianco a fianco, i quartieri umili sfiorano la mole sfarzosa dell’hotel Sheraton e dell’Hilton. Non vi sono veri ghetti: i quartieri, anche i più centrali, appaiono come paesi di campagna dove ancora si allevano animali e si pesta il caffè nei mortai. Merita sicuramente una visita il Merkato, il quartiere-mercato che porta ancora il nome coloniale italiano, uno dei più vasti di tutta l’Africa. Ogni città del mondo andrebbe conosciuta a piedi. Impresa difficile ad Addis Abeba: le distanze sono eccessive, e le piazze spianate senza fine apparente. Ma provate lo stesso a camminare per le strade di Addis Abeba. Afferrate il profumo intenso degli eucalipti dopo la pioggia, godetevi il suo cielo di cristallo, cercate i quartieri-villaggio che ancora si nascondono dietro il sipario dei nuovi grattacieli. Le città hanno un’anima profonda. Amatela, Addis Abeba. Nel regno del berberè In Etiopia si mangia seduti in cerchio. Con le mani, strumento ben più utile di una semplice forchetta. Si mangia in silenzio attorno al mosob, un cesto cilindrico di fibre intrecciate e colorate, su cui è poggiato il grande piatto delle vivande. Sulla ‘njera, la focaccia acidula e spugnosa fatta utilizzando il teff, il cereale più pregiato dell’altopiano etiopico, vengono poggiati gli stufati di carne e le verdure dei piatti vegetariani nei giorni del digiuno dei cristiani dell’altopiano. Non si rinuncia mai alla salsa, al wot, intingolo piccantissimo, composto da cipolle rosse macinate assieme al berberé, una polvere di peperoncino rosso mischiata, a sua volta, con altre decine di spezie. Il rito del caffè Il caffè è un rito in Etiopia. Non è solo una ricchezza della sua economia: è una cerimonia dall’aria magica, importante e beneaugurate nei giorni di festa. È un gioco di erbe, profumi, presagi, fumo, desideri, sapori. Il caffè viene tostato sul fuoco, gli ospiti ne assaporano il profumo agitando le mani e spingendo il fumo sotto il proprio naso. Il caffè, una volta pestato, viene bollito in un’anfora di argilla. La bevanda, nera e bollente, viene versata in ogni tazzina, e bisogna berne almeno tre. Il rito del caffè, spiegano le donne più anziane, invoca gli spiriti: ogni giorno ha il suo folletto. L’Etiopia è un paese di pietra. In ogni senso: la civiltà dei suoi altopiani è cristiana, severa, conservatrice, in bilico perenne fra modernità e medioevo. Le chiese scolpite nelle sue montagne ne sono la testimonianza perfetta. L’Etiopia è terra di una grandiosa antichità (i regni di Axum) e di un medioevo stupefacente (le basiliche rupestri di Lalibela, i monasteri del lago Tana, i castelli di Gondar). La sua geografia (un altopiano quasi inaccessibile) e geopolitica (un’isola cristiana accerchiata dal mondo musulmano) avevano decretato per mille e più anni il suo isolamento. L’altopiano è una terra immensa, vasta quasi metà dell’intero paese. Allaccia la scarpata – che precipita nel mar Rosso e nella depressione dancala – alle grandi pianure alluvionali del Nilo Bianco. Ha un’altezza media di oltre duemila metri. La sua vetta più alta, il Ras Dashan, al centro della catena dei monti Simien, supera i quattromila e cinquecento metri. Questa è la regione di una grandiosa civiltà cristiana. I contadini dell’altopiano hanno vissuto da quasi duemila anni in bilico fra una impensabile fatica quotidiana e la sacralità testarda della loro religione. Chi vuol conoscere l’antica Etiopia deve lasciare la sua capitale e andare verso Nord. Verso le montagne più alte, i pianori più nascosti, le terre più impervie. Deve percorrere in giorni di viaggio le strade imperiali che, in un grande cerchio, abbracciano il lago Tana (e le sorgenti del Nilo Azzurro), la corte sorprendente dei castelli di Gondar, la foresta di stele di Axum e le cattedrali rupestri di Lalibela. Chi si incammina lungo queste strade sacre attraversa paesaggi impressionanti, scavalca i canyon del Nilo e si arrampica fino al disordine di montagne che solo divinità geologiche possono aver modellato. Questo è un viaggio nella storia più antica dell’Africa. Dove però è possibile anche giocare: come nuovi Indiana Jones, si può andare alla ricerca dell’Arca dell’Alleanza, dell’Arca Perduta, lo scrigno dove Mosè custodì le Tavole della Legge, le pietre sacre dei Dieci Comandamenti che Dio gli aveva affidato sul monte Sinai. Indiana Jones cercava l’Arca in Egitto. Si sbagliava: era qui. In Etiopia. Alla ricerca dell’Arca Perduta Le acque sacre del Lago Tana Il mare interno dell’Etiopia è un lago grande otto volte la superficie del Garda. È un cerchio alpino di acque limacciose, vasto oltre tremilacinquecento chilometri quadrati. Da qui nasce, con una corrente placida e tranquilla, il Nilo Azzurro. Il lago Tana è un confine sacro, una frontiera del cristianesimo. Quasi ognuna delle trentasette isole nasconde un monastero, una chiesa a forma di tukul, un eremo ortodosso. Sono le roccaforti dell’evangelizzazione cristiana dell’Etiopia, rifugi irraggiungibili durante i secoli delle incursioni musulmane. Tana Kirkos è isola lontana dal rassicurante porto di Bahr Dar. È un’isola solitaria. Vietata alle donne. È un artiglio roccioso lungo le sponde nord-orientali del lago. Qui, ad ascoltare le mitologie etiopiche, avrebbe trovato rifugio la Vergine Maria durante la sua fuga dall’Egitto. Qui, a prestar fede ai racconti dei monaci, sarebbe stata custodita l’Arca dell’Alleanza dopo il suo trafugamento da Gerusalemme. Tutta la geografia di acqua e terra del lago Tana è leggenda. A mezz’ora di navigazione da Bahr Dar, la “casa del mare”, unica vera città del lago, si trova l’isola di Kebran. La grande chiesa ellittica dedicata all’arcangelo Gabriele è stata costruita sul pianoro sommatale dell’isola. L’arcangelo Uraél – guardiano delle porte del Paradiso – invece, fu capace di intercettare un fulmine che avrebbe incenerito la grande chiesa di Ura Khidanemehret santuario dedicato alla Madonna. Dek, al centro del lago, è l’isola più grande. La chiesa di Narga Selassie, la basilica della Trinità di Narga, conosciuto come il santuario del miele, sorge su un istmo di roccia sulle sue sponde occidentali. Ma il più grande spettacolo del Nilo è a poco più di trenta chilometri da Bahr Dar. Il Nilo Azzurro, dopo la quiete della sua uscita dal lago Tana, si incassa in una stretta gola, si scava un cammino nella roccia, cerca una strada per raggiungere il fiume fratello che sta discendendo le immense savane del Sudan. È così che il Nilo etiopico, rotto ogni indugio, compie il grande salto di Tis Issat, le sue acque sembrano volare per trasformarsi nel “fumo di un incendio” (questo significa il suo nome in lingua amhara). Alla fine della stagione delle piogge, nelle prime settimane dell’autunno etiopico, le cascate sono imponenti: è una muraglia di acqua che precipita da un fronte largo quasi mezzo chilometro. In alcuni punti il balzo è alto quarantacinque metri. Gli sguardi dei cherubini di Debre Berhan Selassie, la chiesa della Trinità, non ti abbandonano un solo minuto. Sono volti di angeli dipinti sul soffitto e davvero sembrano seguire, con espressione attenta e stupita, ogni movimento all’interno della chiesa. La chiesa della Trinità fu fatta costruire da uno dei grandi re di Gondar: Iyasu I°, nipote di re Fasilidas, fondatore delle città. La chiesa di Debre Berhan fu consacrata nel 1694. Gondar aveva poco meno di sessanta anni di vita. Gondar è sorprendente. Per chi risale l’altopiano dal cratere del lago Tana, la conca dove sorge questa città appare improvvisa, popolata di eucalipti e castelli. Una doppia foresta di alberi e pietre basaltiche a disegnare un’architettura medioevale che lascia senza parole. Gondar, la Camelot Africana Gondar è una Camelot africana. Fu la prima capitale “fissa” dell’Etiopia dopo oltre mille anni, scelta da re Fasilidas e costruita con architetture che risentono di influenze europee. Fasilidas fece erigere il suo grande castello merlato al centro di una radura e, oltre il torrente Qaha, ordinò la costruzione dello stabilimento dei suoi Bagni, luogo di delizie, utilizzato come grande vasca sacra durante le cerimonie dell’Epifania ortodossa. Sotto il regno di Iyasu I°, Negus dal 1682 al 1706, Gondar divenne città ricca, lussuosa, crocevia di commerci con il mar Rosso. “Più bello della casa di Salomone”, scrissero antichi visitatori del Palazzo della Sella, il nuovo castello di Iyasu. Qui il sovrano ricevette gli inviati di Luigi XIV, re di Francia. Oltre Gondar, la strada si impenna nella regione dei monti Simien. Un uomo di queste montagne molti anni fa, mi raccontò una grande storia: in tempi antichi, sulla cima più alta dei Simien, si ritrovavano una volta anno gli Dei dell’Olimpo greco. Passavano il tempo giocando a scacchi. “Una delle tante partite finì in una rissa tumultuosa”, mi disse l’uomo. Fu così che la scacchiera venne ribaltata e alfieri, torri e cavalli si trasformarono in guglie di pietra, in ambe (alture) trapezoidali, in pinnacoli appuntiti. Bella leggenda, figlia di altri racconti, di altre mitologie. Ora la strada che lascia Gondar verso Nord attraversa uno scenario degno di un maremoto pietrificato di montagne: è il cammino verso Axum, la capitale del più antico regno dell’antichità a Sud del Sahara. Axum la città delle stele Fu un altro contadino tigrino, avvolto nel suo shamma, tradizionale scialle di cotone bianco e grezzo, a farmi capire Axum. Nel 1937 Abebe Alemayehu era un bambino: assisté, con i suoi occhi, al “furto” di quella stele spezzata da parte dell’esercito coloniale italiano. Abebe, contadino analfabeta, mi spiegò: “Fu come se gli italiani si fossero portati via una madre di pietra”. Nella primavera del 2005, dopo sessantotto anni e un infinito braccio di ferro diplomatico, l’Italia ha finalmente restituito quel bottino di una guerra coloniale. Il monolite di pietra vulcanica (un fonolite), alto 24 metri e del peso di 160 tonnellate, è tornato a casa dopo aver passato decenni nel traffico che scorreva attorno al Circo Massimo a Roma. A leggere i documenti dell’Unesco ad Axum vi sono 176 stele disseminate in tre parchi archeologici. Le stele più celebri (solo sei sono scolpite) si trovano sotto la collina di Beta Giyorgis: simboleggiano, con i loro bassorilievi, palazzi nobiliari a più piani con finte porte e finestre fasulle. Sono monumenti funebri, blocchi unici, cavati dalla collina di Goual-Doura, ad occidente della città. Furono eretti fra il II° e il III° secolo dopo Cristo, epoca del maggior fulgore di Axum. In quei secoli, questa città era la capitale di un regno potente, capace di controllare i commerci del mar Rosso. Regno da mitologia: per il Kebra Nagast, il libro-saga dei negus etiopici, scritto in anni medioevali, Axum era l’impero della leggendaria regina di Saba. Qui, figlio della mitologica regina e di re Salomone, sarebbe nato Menelic I°, il “figlio del sapiente”, l’uomo che avrebbe trafugato, da Gerusalemme, l’Arca dell’Alleanza. Già, l’Arca dell’Alleanza: secondo la tradizione religiosa etiopica, si trova ad Axum. Invisibile a occhio umano (tranne la venerazione del suo guardiano), è custodita in una brutta cappella a fianco della chiesa di Mariam Sion, la prima chiesa cristiana a sud del Sahara: venne distrutta per due volte e solo nel 1655 il re gondarino Fasilidas ne ordinò una nuova ricostruzione. Axum è lontanissima, ai confini con l’Eritrea, nell’estremo Tigray. Quattro/cinque giorni di viaggio da Addis Abeba. È tempo di affrontare il cuore di pietra dell’altopiano etiopico, di attraversare il paese fino alla meraviglia di Lalibela. Questa terra, oceano di montagne, per secoli è stata il rifugio-nascondiglio della civiltà rupestre del cristianesimo etiopico. Scomparsa Axum, i monaci fuggirono in montagna, si rintanarono in chiese aeree, scavate nella roccia di pareti scoscese. Sono monasteri rupestri che annunciano il prodigioso progetto di ricostruire una Gerusalemme africana nel cuore dell’Etiopia: la città di Lalibela. Lalibela, preghiere di pietra Lalibela, a 2360 metri di altezza, orizzonti chiusi da montagne aspre ed aride, è un labirinto rupestre di undici chiese divise in due complessi. Un solo santuario, Bete Ghiorgis, è isolato, ai confini del villaggio. Dedali di gallerie sotterranei, di passaggi segreti, di tunnel in parte crollati collegano ogni chiesa all’altra. Attorno al 1100, questo era un piccolo villaggio conosciuto come Roha dove nacque un bimbo da una famiglia nobile: pochi giorni dopo la sua nascita fu avvolto da uno sciame d’api. La madre, invece di esserne impaurita, gridò dalla felicità: era un segnale divino. Lalibela significa “Le api riconoscono la sua sovranità”. Quel bambino in fasce non sarebbe diventato re invano: avrebbe dovuto ubbidire a un ordine celeste e costruire nelle terre del suo regno chiese che nessuno, fino ad allora, aveva mai osato nemmeno pensare. Una “nuova Gerusalemme” era destinata sorgere in quegli altopiani così lontani dalla Palestina. Non furono gli angeli ad aiutare Lalibela nel suo immenso progetto: dall’Egitto, dicono le cronache, arrivarono cinquecento operai. Dovevano essere artigiani straordinari, manovali capaci di scavare le montagne, di scolpire pareti rocciose, di modellare basiliche lavorando a rovescio. Gli architetti e gli operai di Lalibela hanno “svuotato” pareti di tufo, hanno ricavato, scalpellando direttamente nel macigno, colonne, capitelli, navate, finestre, pilastri, archi, decorazioni, pareti sacre. Le chiese di Lalibela non sono semplici edifici, ma sculture. Quattro santuari sono saldati alla montagna dal pavimento. Bete Abba Libanos, fatta costruire dalla moglie di Lalibela in suo ricordo, è unita alla roccia attraverso il soffitto. Le altre chiese sono ipogee, fuse con la montagna, da una o più pareti. Medianialem, la chiesa del Salvatore del Mondo, è un monolite lungo 33 metri e largo 23. Ventotto colonne sorreggono il suo tetto. Sono numeri che testimoniano la magnificenza del lavoro di quegli operai egiziani. Nel nascondiglio sacro di Bete Golgotha si trova la tomba di re Lalibela e il luogo del riposo simbolico di Cristo. La chiesa più bella è Beta Ghiorgis: isolata, invisibile, massiccia. Non ti accorgi della sua mole fino a quando non rischi di cadere nella trincea che la nasconde. È a pianta cruciforme, sprofonda per 13 metri sotto la superficie della montagna. Tre croci concentriche ne decorano il tetto. I costruttori di Lalibela non avevano limiti nella loro ambizione: tagliarono perfino la montagna attorno alla quale sorgeva il loro villaggio. Ne ricavarono un canyon in cui far scorrere un fiume. Non poteva essere che il Giordano. Le acque dove Giovanni battezzò Gesù Cristo e Timkat, la festa dell’Epifania degli ortodossi d’Etiopia, ricorda questo battesimo. È il giorno più sacro del calendario religioso di questi altopiani. Da allora, il 19 di ogni gennaio del calendario occidentale, all’alba, qui, come in tutto il paese, si compie nuovamente il miracolo del gesto di Giovanni. E a Lalibela il sole che sorge è un lampo di luce sulle chiese rupestri. Il tufo delle loro pareti si arrossa, la folla dei pellegrini ha un brivido, i preti alzano le loro croci, l’acqua viene benedetta. Poi, ha inizio la baraonda sacra di Lalibela. Il grande Sud Africa-mosaico, melting-pot di etnie. Manuali, guide e saggi di antropologia non coincidono: le fonti ufficiali dell’Etiopia federale contano 45 popoli in questa regione. Vi sono studiosi che raddoppiano questi calcoli. Qui si parlano un’ottantina di lingue, oltre cento dialetti. Qui vivono agricoltori sedentari, cacciatori seminomadi, pastori transumanti, mandriani per le quali le vacche sono tutto, guerrieri armati più di fucili che di lance. Le donne, come ovunque in Africa, tengono assieme famiglia e società. Le genealogie dei popoli dell’Omo risalgono sempre a capostipiti mitologici. Ritualità e cerimonie, feste, lutti e appuntamenti annuali (le lotte con i bastoni, le cerimonie del salto del toro per gli hamer, le danze nei momenti di felicità) sono eventi rurali, semplici e complessi allo stesso tempo. In questa valle somiglianze e contrasti, avversioni e alleanze si rincorrono e si sovrappongono, ma il puzzle etnico appare, a occhi profani, inestricabile: genti nilotiche e sudanesi, ceppi omotici e cuscitici vivono a poca distanza uno dall’altro. “Qui non ci sono purezze etniche e linguistiche – ha sempre osservato Alessandro Triulzi, docente di storia dell’Africa Subsahariana a Napoli – Questi popoli vivono mischiati e si plasmano gli uni sugli altri, gli uni contro gli altri”. Siamo noi, viaggiatori occidentali, a cercare di imprigionarli dentro schemi elementari: i galeb sono eleganti e vanitosi, le donne mursi sono celebri per le loro impressionanti deformazioni labiali, i konso sono gli scultori di totem raffinati, ma anche contadini esperti, fabbri provetti, artigiani apprezzati. Gli hamer sono tranquilli, disponibili, affascinanti: colpisce la loro socialità e bellezza, sorprendono i loro mercati, straordinario luogo di libertà per decine e decine di donne. I surma, popolo di mandriani della sponda occidentale dell’Omo, invece, sono bellicosi, orgogliosi, diffidenti. Capaci di vivere, come comunità, senza un vero sistema di potere organizzato. I karo spesso sono nervosi e scontrosi. Le loro donne si traforano il labbro inferiore con un chiodo. A oriente della valle dell’Omo, vivono i sidamo. Agricoltori e pastori, conosciuti come “i figli della saggezza” per il rispetto cocciuto dell’anzianità come valore supremo. Più a Nord, i dorze sono considerati i migliori tessitori dell’Etiopia. Le loro abitazioni attirano l’attenzione: sono capanne ad alveare, alte una dozzina di metri con un ingresso che ricorda la forma di un naso. Quando si accende il fuoco, il fumo trasuda oltre la volta di fogliame. I borana, sempre verso Est, ma dispersi lungo la frontiera con il Kenya, sono il più importante dei gruppi oromo dell’Etiopia meridionale. Sono diventati celebri, nell’iconografia dell’Africa Nera, per i loro “pozzi cantanti”. Ma il mosaico dell’estremo sud dell’Etiopia appare composto da tasselli infiniti: ecco i bodi, i bume, i nyangatom, i me’en, i tishena, i banni, gli ari, gli arborè. Altre etnie sono microscopiche. Alcuni popoli raggruppano poche centinaia di persone. Tremila sono i bodi, cinquemila i mursi come i galeb. Konso e hamer (15mila persone) sono più numerosi, sull’orlo della estinzione i karo. Ventimila sono i Surma. Altre etnie, invece, sono nazioni di centinaia di migliaia di persone: i loro spazi (i sidamo, i borana) non sono racchiusi nell’alveo dell’Omo, ma dilagano nelle savane del Grande Sud dell’Etiopia. Le terre dell’Omo meritano pazienza, itinerari fuori dalle rotte del turismo. Ci vorrebbe tempo. Più tempo di quello che è concesso ai turisti. Nell’ultima valle dell’Omo il corpo è una tela, una pietra, una ceramica dove dipingere. Le terre della Rift Valley regalano argille e fanghi con i quali costruire una tavolozza impressionista: i pittori dell’Omo trovano nella natura il giallo, le infinite sfumature del bianco, il verde e i pittori-modelli passano, così, le ore più felici nel dipingere e nel farsi dipingere il corpo. Ed è una pittura esplosiva, dolcissima, improvvisata. Mai uguale, audace fino alla seduzione senza pudori, bellissima. Piercing africano: le donne mursi sono le più celebri: un disco labiale deforma il labbro inferiore. Le donne karo sono belle con il chiodo di osso o di avorio a forare lo stesso labbro, che sembra spuntare dal mento. Scarificazioni addominali incidono il loro corpo: sono un irresistibile richiamo sensuale. Dolcissime le ragazze hamer con il disco di alluminio fra i capelli: sta a significare che sono ragazze ancora nubili. Possono essere corteggiate. Le donne hamer sposate, invece, quasi si imprigionano il collo in pesanti bracciali-collana. Gli oggetti del mondo occidentale si trasformano in “gioielli” di questa Africa: le donne borana si modellano collane con l’alluminio delle lattine di bibite. Scatolette di rotolini fotografici si trasformano in orecchini. Tappini di bottiglia sono appesi ai polpacci: fanno un bel rumore durante i balli. I surma quasi non conoscono vesti, ma i loro corpi, spesso, sono tavolozze di ghirigori e di geometrie della savana. Estetica dell’Africa profonda: quasi un confronto con i piercing dei ragazzi dell’Occidente. Nella valle dell’Omo, come altrove, modificare il proprio corpo è un messaggio che informa sul proprio status sociale, l’età, il gruppo di appartenenza. Ma è anche un tentativo spesso riuscito per farsi notare. Per attirare sguardi, attenzioni, desiderio. Dancalia. Il senso della Terra Il vulcano Erta Ale, ‘la montagna che fuma’, è alto 613 metri. Ma le sue pendici sorgono in una depressione profonda almeno 70 metri sotto il livello del mare. La Dancalia è una profonda depressione terrestre; un fondale marino che, complici immani terremoti oligocenici, si è prosciugato almeno 20mila anni fa lasciando alle sue spalle un deserto di sale vasto seicento chilometri quadrati che sprofonda ben sotto il livello del mare per oltre cento metri. La coltre salina ha, nei punti più profondi, uno spessore di almeno tre chilometri. In questa depressione i vulcani si sono come allineati in una impressionante dorsale di fuoco. Qui mugghia, in un irrequieto lago racchiuso nel cerchio instabile di un cratere, la lava perenne dell’Erta Ale, “la montagna che fuma”, uno dei quattro vulcani al mondo incapace, da sempre, di assopirsi. In Dancalia gli occhi dei geologi possono assistere – senza doverla immaginare al computer – alla formazione di un nuovo oceano, alla deriva dei continenti: qui comincia il suo viaggio africano la Rift Valley, qui si incrociano tre faglie tettoniche. Fra la Dancalia e Gibuti, l’Africa si sta spezzando in due alla inesorabile velocità di 16 millimetri ogni anno e si allontana di due centimetri all’anno dalla penisola arabica. Fra trenta milioni di anni un nuovo oceano separerà l’Africa orientale dal resto del continente. La Dancalia scomparirà dalla geografia terrestre. Inch’allah, mi avvertirebbe un afar con lo sguardo severo: solo se Dio lo vorrà. La Dancalia è una terra di frontiera. È la regione settentrionale dei territori degli Afar (conosciuti, dalle cronache coloniali, come Dancali), popolazione di origini cuscitiche e di religione musulmana che vive fra le terre d’Etiopia, Eritrea e Gibuti. Un milione e mezzo di persone disperse in clan seminomadi in una regione vasta oltre 150mila chilometri quadrati. La letteratura coloniale e i diari dei viaggiatori bianchi hanno rinchiuso gli afar negli stereotipi delle “tribù ostili”. Anni fa, con paziente gentilezza, un vecchio afar mi spiegò che il loro nome, tradotto nella mia lingua, stava a significare “libero”. Non ho mai chiesto a un antropologo se la spiegazione del vecchio avesse qualche fondamento: mi era sembrata un’ottima traduzione. Gli afar hanno la forza, la bellezza, la durezza, i modi bruschi e scontrosi, i silenzi eterni e la imprevista generosità della loro terra. Quando gli afar si incrociano è come se avvenisse una cerimonia omerica: si baciano quattro volte il dorso delle mani, si scambiano racconti e notizie [dagu] sulla sicurezza dei cammini e sullo stato dei pozzi. Si informano sui matrimoni, sui funerali, sulle nascite dei bambini. Le dagu sono più affidabili di Internet. A poche ore di cammino da Berhale, città carovaniera, ci appare un giovane afar seduto sotto un acacia spinosa: magrissimo, dai muscoli nervosi e un sorriso allegro nascosto sotto un groviglio di capelli arricciati e lunghi. Ha aperto qui, nel nulla della scarpata, il suo shop: passano le carovane e lui vende tè e zucchero. Nella sua capanna vi è foraggio e farina: “Buoni affari lungo questa strada: ogni giorno vendo cinque chili di zucchero e tutti coloro che passano mi raccontano quello che succede nel mondo”. Ci fermiamo anche noi. Il giovane ci offre tè bollente e belle chiacchiere. Penso ai mille titoli di riviste che hanno descritto la crudeltà di questa terra e la ferocia degli afar: si sono mai fermati sotto l’acacia di Mohamed? Hanno mai portato qui caffé, zucchero e scatolette di tonno come dono ben accolto? Le divinità dei vulcani qui hanno scolpito il loro capolavoro. Hanno dato sfogo alla loro creatività. Dio e Allah si sono davvero divertiti, alla fine della creazione, a costruire in un angolo di Terra una geografia irreale ed anarchica. Qui le pietre sono diventate sculture di fiori, labirinti degni della fantasia di Alice nel paese delle Meraviglie. Microisolotti di sale, rotondi come torte nuziali, formano arcipelagi da fantascienza. Qui sei su Marte. E poi su una Luna colorata. Forse Venere è così. Stai guardando scenografie rubate al film Alien o stai vivendo in un racconto di Jules Verne? La terra qui si apre in “uova” screziate di bianco dalle quali si attende che escano creature fantastiche. I colori sono estremi: verde giada, giallo zolfo, azzurro cobalto si intrecciano in un arlecchino geologico attorno al quale il vento fa ruotare minacciose nuvole sulfuree. Il poeta e la luna di Harer Harer è un frammento di Arabia Felix sorto ai margini della Rift Valley etiopica. È come un grande castello abbarbicato a 1856 metri di quota. È una città murata (le mura, una poderosa fortificazione dalla forma ovale, furono costruite nel XIV° secolo) che racchiude grappoli di case, bianchissime e fresche, che si accalcano una sull’altra. I suoi abitanti oggi sono 120mila. Fra loro gli Aderè, i “protetti”, una popolazione a parte: vivono all’interno della cinta muraria e parlano una lingua propria, popolando un reticolo di vicoli sconnessi e labirintici. Per secoli, Harer è stato un sultanato indipendente, una città-stato, un regno teocratico, ma anche un emporio del caffé e della tratta degli schiavi. Un centro commerciale strategico: era la roccaforte che controllava la via di accesso all’Africa Nera, un avamposto musulmano verso il cuore del continente. Harer era (ed è ancora) una città sacra per i musulmani dell’Africa orientale, la quarta città santa dell’Islam, centro di pellegrinaggi, sede di scuole coraniche, interdetta, per secoli, ai cristiani. “La Timbuctù dell’Oriente”, la definì un ammirato etnografo austriaco, Philipp Paulitschke. Harer, soprattutto dopo l’apertura del canale di Suez, aveva attirato le avidità e i sogni di ricchezza e avventura di ogni mercante che avesse uffici fra Bombay ed Aden: volevano avere il controllo sui traffici di pelli, resine, gomme, avorio, caffé e armi. Ogni anno, nella stagione dei grandi mercati, cinquemila carovane di dromedari lasciavano la costa somala per raggiungere Harer, avamposto di un’Africa da sfruttare. Mercanti indiani, armeni, greci, inglesi, francesi, arabi e turchi risalirono nella seconda metà dell’800 le piste che conducevano alla città e aprirono case commerciali fra quei vicoli protetti dalle mura. Nel dicembre del 1880 anche Rimbaud varcò una delle porte di Harer. Scrisse alla famiglia: “Sono arrivato in questo paesi dopo venti giorni di cavalcate attraverso il deserto”. E ancora: “Non ci sono strade e quasi nessuna possibilità di comunicazione”. Venti giorni a dorso di mulo: Rimbaud aveva trovato l’ultima isola in cui nascondere al mondo il suo genio, dove avrebbe passato gli ultimi undici anni della sua vita. E il suo passaggio per questa superba città murata è diventato, decenni e decenni più tardi, leggenda, storia, alibi: centinaia e centinaia di viaggiatori che si sono messi in cammino sulle strade dell’Etiopia orientale solo per ritrovare le tracce di quel perduto poeta francese. Raccontano che siano 326 i vicoli di Harer. E 82 moschee. E 102 santuari. È un dedalo inestricabile, questa città. A guardarla dal cielo è come una ragnatela bellissima. Il gioco dei viaggiatori, smarriti in questa città, è trovare il filo di Arianna che conduce alla casa dove Rimbaud aveva vissuto. “Bet Rimbo, Bet Rimbo”: è il grido che rincorre ogni bianco che attraversa la porta della Vittoria e si avventuri nel labirinto di Harer. I bambini-guida sanno cosa vuol vedere il viaggiatore che arriva fino a qui: la casa di Rimbaud, la casa del poeta. Ti afferrano per mano, si lanciano a capofitto fra i ciottoli sconnessi della Makina Girgir, nome perfetto per la strada dei sarti, saltano per gradini imbiancati, deviano per vicoli larghi come la cruna di un ago e infine aprono una porta. Eccola la Bet Rimbaud. Casa di lusso, una cattedrale di tek, uno sfarzo degno di un impossibile sogno gotico africano, davanzali cesellati, vetrate colorate come un arcobaleno, fregi in ferro battuto. Una casa che, negli ultimi anni, si è trasformata in museo. All’ultimo piano una stanza è disegnata da una balaustra ovale che si affaccia su una grande sala come un loggione teatrale. I bambini raccontano a memoria: questo era lo spazio riservato all’orchestra durante i ricevimenti dell’ultimo padrone indiano della casa. I bambini sanno di mentire, noi sappiamo di ascoltare bugie. Il mercante dei fratelli Bardey non poteva abitare in questo palazzo da notabile. Questa non è la Bet Rimbo: è solo la casa più bella di Harer. Il fascino della devozione Le grandi feste religiose cristiane Il Capodanno etiopico, secondo l’antico calendario Giuliano (diviso in dodici mesi di trenta giorni e uno di cinque – o sei, negli anni bisestili), cade l’11 settembre. È il giorno di Enkutatash e, simbolicamente, coincide con la fine della stagione delle piogge. Nelle campagne, nel giorno di Capodanno, i bambini vanno di tukul in tukul cantando e portando mazzi di fiori. Appena due settimane dopo Capodanno, la festa di Maskal ricorda il ritrovamento della Croce di Cristo ad opera di Elena, la madre dell’imperatrice Costantino. Nelle piazze e nelle radure dell’Etiopia si accendono grandi falò fra lunghi canti religiosi. Il Natale ortodosso, Genna, cade il 7 gennaio. È il tempo dei grandi pellegrinaggi verso la città santa di Lalibela, mentre Timkat, l’epifania ortodossa, è la festa religiosa più importante del cristianesimo etiopico: grandiose le processioni che si svolgono a Lalibela, a Gondar, ad Axum. Si celebra il 19 gennaio e, a differenza dell’epifania cattolica, non ricorda l’arrivo dei Magi a Betlemme, ma il battesimo di Cristo ad opera di San Giovanni Battista nelle acque del fiume Giordano. È necessario arrivare puri a Fasika, la Pasqua ortodossa. Il buon cristiano osserva, prima della festività, 56 giorni di digiuno. Dovrà astenersi dal cibo dalla mezzanotte fino alla sera successiva. Il pellegrinaggio di Sheik Hussein Un santuario abbagliante, imbiancato di calce, è accecante sotto i raggi del sole. Drappi colorati ne coprono la cupola. La tomba dello sceicco Hussein, nelle savane del bacino del fiume Webe Shebele, nella regione del Bale, è il luogo del mistero dell’Islam, la meta del più grande pellegrinaggio musulmano d’Etiopia. A febbraio, anniversario della morte dello sceicco, decine di migliaia di pellegrini lasciano i loro villaggi e, a piedi, a dorso di mulo, camminano per centinaia di chilometri pur di raggiungere questo remoto santuario sacro. La tradizione vuole che Hussein sia stato il primo predicatore islamico, un mistico sufi che nel XIII° secolo lasciò alle sue spalle le coste somale e risalì il corso del Webe Shebele fino alle savane del Bale. Visse con grande dignità in terre di culti animisti. Le avanguardie delle popolazioni oromo approdarono in questi territori solo tre secoli più tardi: furono contagiati dalla fede che circondava la leggenda di quel vecchio sceicco santo. Fu allora che la venerazione di Sheik Hussein si diffuse per tutti i territori dei bassopiani. Nessun albero può essere abbattuto attorno alla tomba dello sceicco. I pellegrini appendono ai loro rami strisce di pelle, visitano la Gotta del Serpente e la Grotta del Miele. Entrano all’interno del santuario, vi siedono per ore, si cospargono il corpo di polvere bianca. La folla mormora ossessivamente infinite litanie. Il pellegrinaggio a Sheik Hussein è un’estasi della fede. Maratoneti all’alba L’aria di Addis Abeba, all’alba, è una nebbia leggera. L’odore degli eucalipti è dovunque. Centinaia di ragazzi, nel buio delle loro case, stringono i lacci delle loro scarpe da ginnastica e si preparano a rincorrere le leggende di due uomini: Abebe Bikila e Haile Gebreselassie. Sono davvero un piccolo esercito i ragazzi etiopici che, ad Addis Abeba come nei più lontani villaggi dell’altopiano, si svegliano prima che sorga il sole, escono di casa e cominciano a macinare chilometri. All’alba si culla più facilmente il sogno di poter un giorno salire sul podio più alto delle Olimpiadi. Di corsa! Due uomini da leggenda Nella regione dell’Arsi, nel Sud dell’Etiopia, deve esserci qualcosa nell’aria. Haile Gebreselassie, figlio di una povera famiglia di contadini, a scuola non sapeva che andarci di corsa. Haile è stato il primo uomo al mondo a scendere sotto i 13 minuti nei 5mila metri, ha vinto due Olimpiadi e fatto infuriare i kenioti che se lo vedevano sempre scappare davanti negli ultimi trecento metri, quando già credevano di avere la vittoria in mano. Sono figli dell’Arsi anche Fatuma Roba (oro nella maratona femminile ad Atlanta) e Hailu Mekonnen, primatista mondiale del doppio miglio. Come Kenenisa Bekele, l’erede di Haile, oro ad Atene nel 2004 nei 10mila metri. Ma la leggenda reale dell’Etiopia è un uomo che corre, a piedi scalzi, sul selciato dell’Appia Antica. Accadeva quasi mezzo secolo fa: Abebe Bikila aveva la maglietta numero 11, troppo larga per lui. Era il 1960, l’anno delle indipendenze africane, e Bikila ne divenne il simbolo imperioso: un africano, all’ombra del Colosseo, divenne l’eroe delle Olimpiadi moderne. Quattro anni dopo, avrebbe compiuto un’impresa considerata impossibile: nessuno aveva mai vinto due volte la maratona olimpica, nessuno ne è stato più capace.
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