Ethiopian Airlines

Transcript

Ethiopian Airlines
Conoscere l’Etiopia
L’Etiopia è un paese affascinante molto
più di quanto le immagini che vedrete e
le parole che leggerete sanno esprimere.
Perché la carta non sa rendere la dolcezza
dell’aria, il profumo della sua natura, i
sapori intensi della cucina e il misticismo
sottile che trapela dai luoghi di culto,
soprattutto durante le feste religiose.
Difficile rendere su carta la vitalità e
varietà dei popoli della Valle dell’Omo,
l’emozione delle Chiese Rupestri di
Lalibela, le architetture medievali di
Gondar, il misticismo dei monasteri del
Lago Tana, le atmosfere lunari della
Dancalia, i misteri di Harer e –non ultimo
– il pulsare moderno di Addis Abeba, città
in perenne trasformazione.
Non era facile, ma abbiamo voluto e
dovuto provarci: l’Etiopia è un paese
meraviglioso e ci auguriamo che questa
breve guida che abbiamo elaborato
con il supporto dell’Ambasciata della
Repubblica Federale e Democratica
dell’Etiopia in Roma, grazie ai testi e
alle foto di Andrea Semplici, vi stimoli a
visitare questo splendido e antichissimo
paese. Da parte nostra, facciamo del
nostro meglio per rendere il vostro
viaggio indimenticabile e ricco – sin dalla
partenza – dell’antico senso dell’ospitalità
etiopica, abbinandolo a un impeccabile
servizio a bordo dei nostri modernissimi
aeromobili.
Vi auguriamo buona lettura e... buon
viaggio!
Ethiopian Airlines
www.ethiopianairlines.com
Addis Abeba:
la Ginevra d’Africa
Addis Abeba, “il nuovo fiore”, dolcissimo nome
scelto alla fine dell’ ‘800 dalla regina Taytu,
moglie di Menelic II°, il Negus destinato a
sconfiggere l’esercito coloniale italiano ad
Adua, è una città nuova. Non ha storia. Non ha
leggende. Ha un urbanistica cresciuta a strappi.
Ha una vitalità imprevista, un’urgenza quasi
continua di cambiamento. Forse perché, davvero,
è una città giovane e impaziente nonostante sia
sorta a duemila quattrocento metri di altezza.
In fondo non si può essere sorpresi: Addis
Abeba ha poco più di un secolo di vita ma forse
ben più dei tre milioni di abitanti che indicano i
censimenti.
L’urbanistica della nuova capitale ha strani ritmi.
Crebbe subito con una frenesia da neonata, ma
la città rischiò di scomparire dopo pochi decenni.
Divenne città imperiale negli anni del regno di
Haile Selassie, l’ultimo Negus, ma fu travolta
dai progetti degli architetti italiani nei pochi anni
di occupazione italiana. Nel 1960 diventò sede
dell’Organizzazione dell’Unione Africana: furono
costruiti, per ragioni di prestigio internazionale,
i primi grattacieli; la città si dilatò lungo la fertile
piana vulcanica. In questi ultimi anni sta subendo
l’ultima irruente metamorfosi: sta cambiando la
sua sky-line. Sono sorti come funghi decine di
palazzi in vetro-cemento.
Addis Abeba è spesso luogo di incontri
interafricani e internazionali, nonché sede
africana di molte rappresentanze occidentali.
Sono nati quartieri-alveari di “condomini”, mentre
il tessuto dei vecchi sobborghi-villaggio sembra
scricchiolare sotto la nuova spinta a costruire. Ma
Addis Abeba rimane una città diversa, differente
da ogni altra metropoli africana: qui, nel cuore
dell’Etiopia, poveri e ricchi vivono ancora fianco a
fianco, i quartieri umili sfiorano la mole sfarzosa
dell’hotel Sheraton e dell’Hilton. Non vi sono veri
ghetti: i quartieri, anche i più centrali, appaiono
come paesi di campagna dove ancora si allevano
animali e si pesta il caffè nei mortai.
Merita sicuramente una visita il Merkato, il
quartiere-mercato che porta ancora il nome
coloniale italiano, uno dei più vasti di tutta l’Africa.
Ogni città del mondo andrebbe conosciuta
a piedi. Impresa difficile ad Addis Abeba: le
distanze sono eccessive, e le piazze spianate
senza fine apparente. Ma provate lo stesso
a camminare per le strade di Addis Abeba.
Afferrate il profumo intenso degli eucalipti dopo la
pioggia, godetevi il suo cielo di cristallo, cercate
i quartieri-villaggio che ancora si nascondono
dietro il sipario dei nuovi grattacieli. Le città
hanno un’anima profonda.
Amatela, Addis Abeba.
Nel regno del berberè
In Etiopia si mangia seduti in cerchio. Con le mani, strumento ben più utile
di una semplice forchetta. Si mangia in silenzio attorno al mosob, un cesto
cilindrico di fibre intrecciate e colorate, su cui è poggiato il grande piatto delle
vivande. Sulla ‘njera, la focaccia acidula e spugnosa fatta utilizzando il teff,
il cereale più pregiato dell’altopiano etiopico, vengono poggiati gli stufati di
carne e le verdure dei piatti vegetariani nei giorni del digiuno dei cristiani
dell’altopiano. Non si rinuncia mai alla salsa, al wot, intingolo piccantissimo,
composto da cipolle rosse macinate assieme al berberé, una polvere di
peperoncino rosso mischiata, a sua volta, con altre decine di spezie.
Il rito del caffè
Il caffè è un rito in Etiopia. Non è solo una
ricchezza della sua economia: è una cerimonia
dall’aria magica, importante e beneaugurate
nei giorni di festa. È un gioco di erbe, profumi,
presagi, fumo, desideri, sapori. Il caffè viene
tostato sul fuoco, gli ospiti ne assaporano il
profumo agitando le mani e spingendo il fumo
sotto il proprio naso. Il caffè, una volta pestato,
viene bollito in un’anfora di argilla. La bevanda,
nera e bollente, viene versata in ogni tazzina,
e bisogna berne almeno tre. Il rito del caffè,
spiegano le donne più anziane, invoca gli spiriti:
ogni giorno ha il suo folletto.
L’Etiopia è un paese di pietra. In ogni senso: la civiltà
dei suoi altopiani è cristiana, severa, conservatrice, in
bilico perenne fra modernità e medioevo. Le chiese
scolpite nelle sue montagne ne sono la testimonianza
perfetta. L’Etiopia è terra di una grandiosa antichità
(i regni di Axum) e di un medioevo stupefacente (le
basiliche rupestri di Lalibela, i monasteri del lago
Tana, i castelli di Gondar). La sua geografia (un
altopiano quasi inaccessibile) e geopolitica (un’isola
cristiana accerchiata dal mondo musulmano) avevano
decretato per mille e più anni il suo isolamento.
L’altopiano è una terra immensa, vasta quasi metà
dell’intero paese. Allaccia la scarpata – che precipita
nel mar Rosso e nella depressione dancala – alle
grandi pianure alluvionali del Nilo Bianco. Ha
un’altezza media di oltre duemila metri. La sua vetta
più alta, il Ras Dashan, al centro della catena dei
monti Simien, supera i quattromila e cinquecento
metri.
Questa è la regione di una grandiosa civiltà cristiana.
I contadini dell’altopiano hanno vissuto da quasi
duemila anni in bilico fra una impensabile fatica
quotidiana e la sacralità testarda della loro religione.
Chi vuol conoscere l’antica Etiopia deve lasciare la
sua capitale e andare verso Nord. Verso le montagne
più alte, i pianori più nascosti, le terre più impervie.
Deve percorrere in giorni di viaggio le strade
imperiali che, in un grande cerchio, abbracciano il
lago Tana (e le sorgenti del Nilo Azzurro), la corte
sorprendente dei castelli di Gondar, la foresta di
stele di Axum e le cattedrali rupestri di Lalibela. Chi
si incammina lungo queste strade sacre attraversa
paesaggi impressionanti, scavalca i canyon del Nilo
e si arrampica fino al disordine di montagne che
solo divinità geologiche possono aver modellato.
Questo è un viaggio nella storia più antica dell’Africa.
Dove però è possibile anche giocare: come nuovi
Indiana Jones, si può andare alla
ricerca dell’Arca dell’Alleanza,
dell’Arca Perduta, lo scrigno dove
Mosè custodì le Tavole della
Legge, le pietre sacre dei Dieci
Comandamenti che Dio gli aveva
affidato sul monte Sinai. Indiana
Jones cercava l’Arca in Egitto. Si
sbagliava: era qui. In Etiopia.
Alla ricerca
dell’Arca
Perduta
Le
acque
sacre
del
Lago
Tana
Il mare interno dell’Etiopia è un lago grande
otto volte la superficie del Garda. È un
cerchio alpino di acque limacciose, vasto oltre
tremilacinquecento chilometri quadrati. Da qui
nasce, con una corrente placida e tranquilla, il
Nilo Azzurro.
Il lago Tana è un confine sacro, una frontiera del
cristianesimo. Quasi ognuna delle trentasette
isole nasconde un monastero, una chiesa
a forma di tukul, un eremo ortodosso. Sono
le roccaforti dell’evangelizzazione cristiana
dell’Etiopia, rifugi irraggiungibili durante i secoli
delle incursioni musulmane. Tana Kirkos è isola
lontana dal rassicurante porto di Bahr Dar. È
un’isola solitaria. Vietata alle donne. È un artiglio
roccioso lungo le sponde nord-orientali del
lago. Qui, ad ascoltare le mitologie etiopiche,
avrebbe trovato rifugio la Vergine Maria durante
la sua fuga dall’Egitto. Qui, a prestar fede ai
racconti dei monaci, sarebbe stata custodita
l’Arca dell’Alleanza dopo il suo trafugamento da
Gerusalemme.
Tutta la geografia di acqua e terra del lago
Tana è leggenda. A mezz’ora di navigazione da
Bahr Dar, la “casa del mare”, unica vera città
del lago, si trova l’isola di Kebran. La grande
chiesa ellittica dedicata all’arcangelo Gabriele è
stata costruita sul pianoro sommatale dell’isola.
L’arcangelo Uraél – guardiano delle porte del
Paradiso – invece, fu capace di intercettare
un fulmine che avrebbe incenerito la grande
chiesa di Ura Khidanemehret santuario dedicato
alla Madonna. Dek, al centro del lago, è l’isola
più grande. La chiesa di Narga Selassie, la
basilica della Trinità di Narga, conosciuto come
il santuario del miele, sorge su un istmo di roccia
sulle sue sponde occidentali.
Ma il più grande spettacolo del Nilo è a poco più
di trenta chilometri da Bahr Dar. Il Nilo Azzurro,
dopo la quiete della sua uscita dal lago Tana, si
incassa in una stretta gola, si scava un cammino
nella roccia, cerca una strada per raggiungere il
fiume fratello che sta discendendo le immense
savane del Sudan. È così che il Nilo etiopico, rotto
ogni indugio, compie il grande salto di Tis Issat, le
sue acque sembrano volare per trasformarsi nel
“fumo di un incendio” (questo significa il suo nome
in lingua amhara).
Alla fine della stagione delle piogge, nelle prime
settimane dell’autunno etiopico, le cascate sono
imponenti: è una muraglia di acqua che precipita
da un fronte largo quasi mezzo chilometro.
In alcuni punti il balzo è alto quarantacinque metri.
Gli sguardi dei cherubini di Debre Berhan
Selassie, la chiesa della Trinità, non ti
abbandonano un solo minuto. Sono volti di
angeli dipinti sul soffitto e davvero sembrano
seguire, con espressione attenta e stupita, ogni
movimento all’interno della chiesa. La chiesa
della Trinità fu fatta costruire da uno dei grandi
re di Gondar: Iyasu I°, nipote di re Fasilidas,
fondatore delle città. La chiesa di Debre Berhan
fu consacrata nel 1694. Gondar aveva poco
meno di sessanta anni di vita.
Gondar è sorprendente. Per chi risale l’altopiano
dal cratere del lago Tana, la conca dove sorge
questa città appare improvvisa, popolata di
eucalipti e castelli. Una doppia foresta di alberi
e pietre basaltiche a disegnare un’architettura
medioevale che lascia senza parole.
Gondar,
la Camelot Africana
Gondar è una Camelot africana. Fu la prima
capitale “fissa” dell’Etiopia dopo oltre mille anni,
scelta da re Fasilidas e costruita con architetture
che risentono di influenze europee. Fasilidas
fece erigere il suo grande castello merlato al
centro di una radura e, oltre il torrente Qaha,
ordinò la costruzione dello stabilimento dei suoi
Bagni, luogo di delizie, utilizzato come grande
vasca sacra durante le cerimonie dell’Epifania
ortodossa. Sotto il regno di Iyasu I°, Negus
dal 1682 al 1706, Gondar divenne città ricca,
lussuosa, crocevia di commerci con il mar Rosso.
“Più bello della casa di Salomone”, scrissero
antichi visitatori del Palazzo della Sella, il nuovo
castello di Iyasu. Qui il sovrano ricevette gli inviati
di Luigi XIV, re di Francia. Oltre Gondar, la strada
si impenna nella regione dei monti Simien.
Un uomo di queste montagne molti anni fa, mi
raccontò una grande storia: in tempi antichi,
sulla cima più alta dei Simien, si ritrovavano una
volta anno gli Dei dell’Olimpo greco. Passavano
il tempo giocando a scacchi. “Una delle tante
partite finì in una rissa tumultuosa”, mi disse
l’uomo. Fu così che la scacchiera venne ribaltata
e alfieri, torri e cavalli si trasformarono in guglie di
pietra, in ambe (alture) trapezoidali, in pinnacoli
appuntiti. Bella leggenda, figlia di altri racconti, di
altre mitologie. Ora la strada che lascia Gondar
verso Nord attraversa uno scenario degno di un
maremoto pietrificato di montagne: è il cammino
verso Axum, la capitale del più antico regno
dell’antichità a Sud del Sahara.
Axum
la città
delle
stele
Fu un altro contadino tigrino, avvolto nel suo
shamma, tradizionale scialle di cotone bianco e
grezzo, a farmi capire Axum. Nel 1937 Abebe
Alemayehu era un bambino: assisté, con i suoi
occhi, al “furto” di quella stele spezzata da parte
dell’esercito coloniale italiano. Abebe, contadino
analfabeta, mi spiegò: “Fu come se gli italiani
si fossero portati via una madre di pietra”. Nella
primavera del 2005, dopo sessantotto anni e
un infinito braccio di ferro diplomatico, l’Italia
ha finalmente restituito quel bottino di una
guerra coloniale. Il monolite di pietra vulcanica
(un fonolite), alto 24 metri e del peso di 160
tonnellate, è tornato a casa dopo aver passato
decenni nel traffico che scorreva attorno al Circo
Massimo a Roma.
A leggere i documenti dell’Unesco ad Axum
vi sono 176 stele disseminate in tre parchi
archeologici. Le stele più celebri (solo sei sono
scolpite) si trovano sotto la collina di Beta
Giyorgis: simboleggiano, con i loro bassorilievi,
palazzi nobiliari a più piani con finte porte e
finestre fasulle. Sono monumenti funebri, blocchi
unici, cavati dalla collina di Goual-Doura, ad
occidente della città. Furono eretti fra il II° e il III°
secolo dopo Cristo, epoca del maggior fulgore di
Axum. In quei secoli, questa città era la capitale
di un regno potente, capace di controllare i
commerci del mar Rosso. Regno da mitologia:
per il Kebra Nagast, il libro-saga dei negus
etiopici, scritto in anni medioevali, Axum era
l’impero della leggendaria regina di Saba. Qui,
figlio della mitologica regina e di re Salomone,
sarebbe nato Menelic I°, il “figlio del sapiente”,
l’uomo che avrebbe trafugato, da Gerusalemme,
l’Arca dell’Alleanza. Già, l’Arca dell’Alleanza:
secondo la tradizione religiosa etiopica, si trova
ad Axum. Invisibile a occhio umano (tranne la
venerazione del suo guardiano), è custodita
in una brutta cappella a fianco della chiesa di
Mariam Sion, la prima chiesa cristiana a sud
del Sahara: venne distrutta per due volte e solo
nel 1655 il re gondarino Fasilidas ne ordinò una
nuova ricostruzione.
Axum è lontanissima, ai confini con l’Eritrea,
nell’estremo Tigray. Quattro/cinque giorni di
viaggio da Addis Abeba. È tempo di affrontare
il cuore di pietra dell’altopiano etiopico, di
attraversare il paese fino alla meraviglia di
Lalibela. Questa terra, oceano di montagne, per
secoli è stata il rifugio-nascondiglio della civiltà
rupestre del cristianesimo etiopico. Scomparsa
Axum, i monaci fuggirono in montagna, si
rintanarono in chiese aeree, scavate nella roccia
di pareti scoscese. Sono monasteri rupestri che
annunciano il prodigioso progetto di ricostruire
una Gerusalemme africana nel cuore dell’Etiopia:
la città di Lalibela.
Lalibela, preghiere
di pietra
Lalibela, a 2360 metri di altezza, orizzonti chiusi
da montagne aspre ed aride, è un labirinto
rupestre di undici chiese divise in due complessi.
Un solo santuario, Bete Ghiorgis, è isolato, ai
confini del villaggio. Dedali di gallerie sotterranei,
di passaggi segreti, di tunnel in parte crollati
collegano ogni chiesa all’altra. Attorno al 1100,
questo era un piccolo villaggio conosciuto come
Roha dove nacque un bimbo da una famiglia
nobile: pochi giorni dopo la sua nascita fu avvolto
da uno sciame d’api. La madre, invece di esserne
impaurita, gridò dalla felicità: era un segnale
divino. Lalibela significa “Le api riconoscono
la sua sovranità”. Quel bambino in fasce non
sarebbe diventato re invano: avrebbe dovuto
ubbidire a un ordine celeste e costruire nelle terre
del suo regno chiese che nessuno, fino ad allora,
aveva mai osato nemmeno pensare. Una “nuova
Gerusalemme” era destinata sorgere in quegli
altopiani così lontani dalla Palestina. Non furono
gli angeli ad aiutare Lalibela nel suo immenso
progetto: dall’Egitto, dicono le cronache,
arrivarono cinquecento operai. Dovevano essere
artigiani straordinari, manovali capaci di scavare
le montagne, di scolpire pareti rocciose, di
modellare basiliche lavorando a rovescio. Gli
architetti e gli operai di Lalibela hanno “svuotato”
pareti di tufo, hanno ricavato, scalpellando
direttamente nel macigno, colonne, capitelli,
navate, finestre, pilastri, archi, decorazioni,
pareti sacre. Le chiese di Lalibela non sono
semplici edifici, ma sculture. Quattro santuari
sono saldati alla montagna dal pavimento. Bete
Abba Libanos, fatta costruire dalla moglie
di Lalibela in suo ricordo, è unita alla roccia
attraverso il soffitto. Le altre chiese sono ipogee,
fuse con la montagna, da una o più pareti.
Medianialem, la chiesa del Salvatore del Mondo,
è un monolite lungo 33 metri e largo 23. Ventotto
colonne sorreggono il suo tetto. Sono numeri
che testimoniano la magnificenza del lavoro di
quegli operai egiziani. Nel nascondiglio sacro di
Bete Golgotha si trova la tomba di re Lalibela e
il luogo del riposo simbolico di Cristo. La chiesa
più bella è Beta Ghiorgis: isolata, invisibile,
massiccia. Non ti accorgi della sua mole fino a
quando non rischi di cadere nella trincea che la
nasconde. È a pianta cruciforme, sprofonda per
13 metri sotto la superficie della montagna. Tre
croci concentriche ne decorano il tetto.
I costruttori di Lalibela non avevano limiti nella
loro ambizione: tagliarono perfino la montagna
attorno alla quale sorgeva il loro villaggio. Ne
ricavarono un canyon in cui far scorrere un fiume.
Non poteva essere che il Giordano. Le acque
dove Giovanni battezzò Gesù Cristo e Timkat,
la festa dell’Epifania degli ortodossi d’Etiopia,
ricorda questo battesimo. È il giorno più sacro del
calendario religioso di questi altopiani. Da allora,
il 19 di ogni gennaio del calendario occidentale,
all’alba, qui, come in tutto il paese, si compie
nuovamente il miracolo del gesto di Giovanni. E a
Lalibela il sole che sorge è un lampo di luce sulle
chiese rupestri. Il tufo delle loro pareti si arrossa,
la folla dei pellegrini ha un brivido, i preti alzano le
loro croci, l’acqua viene benedetta. Poi, ha inizio
la baraonda sacra di Lalibela.
Il grande Sud
Africa-mosaico, melting-pot di etnie. Manuali, guide e saggi
di antropologia non coincidono: le fonti ufficiali dell’Etiopia
federale contano 45 popoli in questa regione. Vi sono studiosi
che raddoppiano questi calcoli. Qui si parlano un’ottantina
di lingue, oltre cento dialetti. Qui vivono agricoltori sedentari,
cacciatori seminomadi, pastori transumanti, mandriani per le
quali le vacche sono tutto, guerrieri armati più di fucili che di
lance. Le donne, come ovunque in Africa, tengono assieme
famiglia e società.
Le genealogie dei popoli dell’Omo risalgono sempre a
capostipiti mitologici. Ritualità e cerimonie, feste, lutti e
appuntamenti annuali (le lotte con i bastoni, le cerimonie del
salto del toro per gli hamer, le danze nei momenti di felicità)
sono eventi rurali, semplici e complessi allo stesso tempo. In
questa valle somiglianze e contrasti, avversioni e alleanze si
rincorrono e si sovrappongono, ma il puzzle etnico appare, a
occhi profani, inestricabile: genti nilotiche e sudanesi, ceppi
omotici e cuscitici vivono a poca distanza uno dall’altro.
“Qui non ci sono purezze etniche e linguistiche – ha sempre
osservato Alessandro Triulzi, docente di storia dell’Africa
Subsahariana a Napoli – Questi popoli vivono mischiati e
si plasmano gli uni sugli altri, gli uni contro gli altri”. Siamo
noi, viaggiatori occidentali, a cercare di imprigionarli dentro
schemi elementari: i galeb sono eleganti e vanitosi, le donne
mursi sono celebri per le loro impressionanti deformazioni
labiali, i konso sono gli scultori di totem raffinati, ma anche
contadini esperti, fabbri provetti, artigiani apprezzati. Gli
hamer sono tranquilli, disponibili, affascinanti: colpisce la loro
socialità e bellezza, sorprendono i loro mercati, straordinario
luogo di libertà per decine e decine di donne. I surma, popolo
di mandriani della sponda occidentale dell’Omo, invece,
sono bellicosi, orgogliosi, diffidenti. Capaci di vivere, come
comunità, senza un vero sistema di potere organizzato. I karo
spesso sono nervosi e scontrosi. Le loro donne si traforano il
labbro inferiore con un chiodo.
A oriente della valle dell’Omo, vivono i sidamo. Agricoltori e
pastori, conosciuti come “i figli della saggezza” per il rispetto
cocciuto dell’anzianità come valore supremo. Più a Nord, i
dorze sono considerati i migliori tessitori dell’Etiopia. Le loro
abitazioni attirano l’attenzione: sono capanne ad alveare, alte
una dozzina di metri con un ingresso che ricorda la forma di
un naso. Quando si accende il fuoco, il fumo trasuda oltre
la volta di fogliame. I borana, sempre verso Est, ma dispersi
lungo la frontiera con il Kenya, sono il più importante dei
gruppi oromo dell’Etiopia meridionale. Sono diventati celebri,
nell’iconografia dell’Africa Nera, per i loro “pozzi cantanti”.
Ma il mosaico dell’estremo sud dell’Etiopia appare composto da tasselli infiniti: ecco i bodi, i bume, i
nyangatom, i me’en, i tishena, i banni, gli ari, gli arborè. Altre etnie sono microscopiche. Alcuni popoli
raggruppano poche centinaia di persone. Tremila sono i bodi, cinquemila i mursi come i galeb. Konso e
hamer (15mila persone) sono più numerosi, sull’orlo della estinzione i karo. Ventimila sono i Surma. Altre
etnie, invece, sono nazioni di centinaia di migliaia di persone: i loro spazi (i sidamo, i borana) non sono
racchiusi nell’alveo dell’Omo, ma dilagano nelle savane del Grande Sud dell’Etiopia. Le terre dell’Omo
meritano pazienza, itinerari fuori dalle rotte del turismo. Ci vorrebbe tempo. Più tempo di quello che è
concesso ai turisti. Nell’ultima valle dell’Omo il corpo è una tela, una pietra, una ceramica dove dipingere.
Le terre della Rift Valley regalano argille e fanghi con i quali costruire una tavolozza impressionista: i pittori
dell’Omo trovano nella natura il giallo, le infinite sfumature del bianco, il verde e i pittori-modelli passano,
così, le ore più felici nel dipingere e nel farsi dipingere il corpo. Ed è una pittura esplosiva, dolcissima,
improvvisata. Mai uguale, audace fino alla seduzione senza pudori, bellissima.
Piercing africano: le donne mursi sono le più celebri:
un disco labiale deforma il labbro inferiore. Le donne
karo sono belle con il chiodo di osso o di avorio a
forare lo stesso labbro, che sembra spuntare dal
mento. Scarificazioni addominali incidono il loro corpo:
sono un irresistibile richiamo sensuale. Dolcissime le
ragazze hamer con il disco di alluminio fra i capelli:
sta a significare che sono ragazze ancora nubili.
Possono essere corteggiate. Le donne hamer sposate,
invece, quasi si imprigionano il collo in pesanti
bracciali-collana. Gli oggetti del mondo occidentale
si trasformano in “gioielli” di questa Africa: le donne
borana si modellano collane con l’alluminio delle lattine
di bibite. Scatolette di rotolini fotografici si trasformano
in orecchini. Tappini di bottiglia sono appesi ai
polpacci: fanno un bel rumore durante i balli. I surma
quasi non conoscono vesti, ma i loro corpi, spesso, sono tavolozze di ghirigori e di geometrie della
savana. Estetica dell’Africa profonda: quasi un confronto con i piercing dei ragazzi dell’Occidente.
Nella valle dell’Omo, come altrove, modificare il proprio corpo è un messaggio che informa sul proprio
status sociale, l’età, il gruppo di appartenenza. Ma è anche un tentativo spesso riuscito per farsi
notare. Per attirare sguardi, attenzioni, desiderio.
Dancalia.
Il senso della Terra
Il vulcano Erta Ale, ‘la montagna che fuma’, è alto 613
metri. Ma le sue pendici sorgono in una depressione
profonda almeno 70 metri sotto il livello del mare.
La Dancalia è una profonda depressione
terrestre; un fondale marino che, complici immani
terremoti oligocenici, si è prosciugato almeno
20mila anni fa lasciando alle sue spalle un
deserto di sale vasto seicento chilometri quadrati
che sprofonda ben sotto il livello del mare per
oltre cento metri. La coltre salina ha, nei punti più
profondi, uno spessore di almeno tre chilometri.
In questa depressione i vulcani si sono come
allineati in una impressionante dorsale di fuoco.
Qui mugghia, in un irrequieto lago racchiuso nel
cerchio instabile di un cratere, la lava perenne
dell’Erta Ale, “la montagna che fuma”, uno dei
quattro vulcani al mondo incapace, da sempre,
di assopirsi. In Dancalia gli occhi dei geologi
possono assistere – senza doverla immaginare al
computer – alla formazione di un nuovo oceano,
alla deriva dei continenti: qui comincia il suo
viaggio africano la Rift Valley, qui si incrociano tre
faglie tettoniche. Fra la Dancalia e Gibuti, l’Africa
si sta spezzando in due alla inesorabile velocità
di 16 millimetri ogni anno e si allontana di due
centimetri all’anno dalla penisola arabica. Fra
trenta milioni di anni un nuovo oceano separerà
l’Africa orientale dal resto del continente. La
Dancalia scomparirà dalla geografia terrestre.
Inch’allah, mi avvertirebbe un afar con lo sguardo
severo: solo se Dio lo vorrà.
La Dancalia è una terra di frontiera. È la regione
settentrionale dei territori degli Afar (conosciuti,
dalle cronache coloniali, come Dancali),
popolazione di origini cuscitiche e di religione
musulmana che vive fra le terre d’Etiopia,
Eritrea e Gibuti. Un milione e mezzo di persone
disperse in clan seminomadi in una regione vasta
oltre 150mila chilometri quadrati. La letteratura
coloniale e i diari dei viaggiatori bianchi hanno
rinchiuso gli afar negli stereotipi delle “tribù ostili”.
Anni fa, con paziente gentilezza, un vecchio
afar mi spiegò che il loro nome, tradotto nella
mia lingua, stava a significare “libero”. Non ho
mai chiesto a un antropologo se la spiegazione
del vecchio avesse qualche fondamento: mi era
sembrata un’ottima traduzione.
Gli afar hanno la forza, la bellezza, la durezza,
i modi bruschi e scontrosi, i silenzi eterni e la
imprevista generosità della loro terra. Quando
gli afar si incrociano è come se avvenisse una
cerimonia omerica: si baciano quattro volte il
dorso delle mani, si scambiano racconti e notizie
[dagu] sulla sicurezza dei cammini e sullo stato
dei pozzi. Si informano sui matrimoni, sui funerali,
sulle nascite dei bambini. Le dagu sono più
affidabili di Internet.
A poche ore di cammino da Berhale, città
carovaniera, ci appare un giovane afar seduto
sotto un acacia spinosa: magrissimo, dai muscoli
nervosi e un sorriso allegro nascosto sotto un
groviglio di capelli arricciati e lunghi. Ha aperto
qui, nel nulla della scarpata, il suo shop: passano
le carovane e lui vende tè e zucchero. Nella
sua capanna vi è foraggio e farina: “Buoni affari
lungo questa strada: ogni giorno vendo cinque
chili di zucchero e tutti coloro che passano mi
raccontano quello che succede nel mondo”. Ci
fermiamo anche noi. Il giovane ci offre tè bollente
e belle chiacchiere. Penso ai mille titoli di riviste
che hanno descritto la crudeltà di questa terra
e la ferocia degli afar: si sono mai fermati sotto
l’acacia di Mohamed? Hanno mai portato qui
caffé, zucchero e scatolette di tonno come dono
ben accolto?
Le divinità dei vulcani qui hanno scolpito il loro
capolavoro. Hanno dato sfogo alla loro creatività.
Dio e Allah si sono davvero divertiti, alla fine
della creazione, a costruire in un angolo di Terra
una geografia irreale ed anarchica. Qui le pietre
sono diventate sculture di fiori, labirinti degni
della fantasia di Alice nel paese delle Meraviglie.
Microisolotti di sale, rotondi come torte nuziali,
formano arcipelagi da fantascienza. Qui sei su
Marte. E poi su una Luna colorata. Forse Venere
è così. Stai guardando scenografie rubate al
film Alien o stai vivendo in un racconto di Jules
Verne? La terra qui si apre in “uova” screziate di
bianco dalle quali si attende che escano creature
fantastiche. I colori sono estremi: verde giada,
giallo zolfo, azzurro cobalto si intrecciano in un
arlecchino geologico attorno al quale il vento fa
ruotare minacciose nuvole sulfuree.
Il poeta e la luna
di Harer
Harer è un frammento di Arabia Felix sorto ai margini della Rift Valley etiopica. È come un grande
castello abbarbicato a 1856 metri di quota. È una città murata (le mura, una poderosa fortificazione
dalla forma ovale, furono costruite nel XIV° secolo) che racchiude grappoli di case, bianchissime e
fresche, che si accalcano una sull’altra. I suoi abitanti oggi sono 120mila. Fra loro gli Aderè, i “protetti”,
una popolazione a parte: vivono all’interno della cinta muraria e parlano una lingua propria, popolando
un reticolo di vicoli sconnessi e labirintici. Per secoli, Harer è stato un sultanato indipendente,
una città-stato, un regno teocratico, ma anche un emporio del caffé e della tratta degli schiavi. Un
centro commerciale strategico: era la roccaforte che controllava la via di accesso all’Africa Nera, un
avamposto musulmano verso il cuore del continente. Harer era (ed è ancora) una città sacra per i
musulmani dell’Africa orientale, la quarta città santa dell’Islam, centro di pellegrinaggi, sede di scuole
coraniche, interdetta, per secoli, ai cristiani. “La Timbuctù dell’Oriente”, la definì un ammirato etnografo
austriaco, Philipp Paulitschke.
Harer, soprattutto dopo l’apertura del canale di Suez, aveva attirato le avidità e i sogni di ricchezza
e avventura di ogni mercante che avesse uffici fra Bombay ed Aden: volevano avere il controllo sui
traffici di pelli, resine, gomme, avorio, caffé e armi. Ogni anno, nella stagione dei grandi mercati,
cinquemila carovane di dromedari lasciavano la costa somala per raggiungere Harer, avamposto di
un’Africa da sfruttare. Mercanti indiani,
armeni, greci, inglesi, francesi, arabi e turchi
risalirono nella seconda metà dell’800 le piste
che conducevano alla città e aprirono case
commerciali fra quei vicoli protetti dalle mura.
Nel dicembre del 1880 anche Rimbaud varcò
una delle porte di Harer. Scrisse alla famiglia:
“Sono arrivato in questo paesi dopo venti giorni di
cavalcate attraverso
il deserto”. E
ancora: “Non ci
sono strade e quasi
nessuna possibilità
di comunicazione”.
Venti giorni a dorso
di mulo: Rimbaud
aveva trovato
l’ultima isola in
cui nascondere al
mondo il suo genio,
dove avrebbe
passato gli ultimi
undici anni della
sua vita. E il suo
passaggio per
questa superba
città murata è
diventato, decenni
e decenni più tardi,
leggenda, storia,
alibi: centinaia
e centinaia di
viaggiatori che si
sono messi in cammino sulle strade dell’Etiopia
orientale solo per ritrovare le tracce di quel
perduto poeta francese. Raccontano che siano
326 i vicoli di Harer. E 82 moschee. E 102
santuari. È un dedalo inestricabile, questa città.
A guardarla dal cielo è come una ragnatela
bellissima. Il gioco dei viaggiatori, smarriti in
questa città, è trovare il filo di Arianna che
conduce alla casa dove Rimbaud aveva vissuto.
“Bet Rimbo, Bet Rimbo”: è il grido che rincorre
ogni bianco che attraversa la porta della Vittoria e
si avventuri nel labirinto di Harer. I bambini-guida
sanno cosa vuol vedere il viaggiatore che arriva
fino a qui: la casa di Rimbaud, la casa del poeta.
Ti afferrano per mano, si lanciano a capofitto
fra i ciottoli sconnessi della Makina Girgir, nome
perfetto per la strada dei sarti, saltano per gradini
imbiancati, deviano
per vicoli larghi
come la cruna di un
ago e infine aprono
una porta. Eccola
la Bet Rimbaud.
Casa di lusso, una
cattedrale di tek,
uno sfarzo degno
di un impossibile
sogno gotico
africano, davanzali
cesellati, vetrate
colorate come un
arcobaleno, fregi
in ferro battuto.
Una casa che,
negli ultimi anni,
si è trasformata in
museo. All’ultimo
piano una stanza è
disegnata da una
balaustra ovale
che si affaccia su
una grande sala
come un loggione teatrale. I bambini raccontano
a memoria: questo era lo spazio riservato
all’orchestra durante i ricevimenti dell’ultimo
padrone indiano della casa.
I bambini sanno di mentire, noi sappiamo di
ascoltare bugie. Il mercante dei fratelli Bardey
non poteva abitare in questo palazzo da notabile.
Questa non è la Bet Rimbo: è solo la casa più
bella di Harer.
Il fascino
della
devozione
Le grandi feste religiose cristiane
Il Capodanno etiopico, secondo l’antico calendario Giuliano (diviso in dodici mesi di trenta giorni e uno
di cinque – o sei, negli anni bisestili), cade l’11 settembre. È il giorno di Enkutatash e, simbolicamente,
coincide con la fine della stagione delle piogge. Nelle campagne, nel giorno di Capodanno, i bambini
vanno di tukul in tukul cantando e portando mazzi di fiori.
Appena due settimane dopo Capodanno, la festa di Maskal ricorda il ritrovamento della Croce di Cristo
ad opera di Elena, la madre dell’imperatrice Costantino. Nelle piazze e nelle radure dell’Etiopia si
accendono grandi falò fra lunghi canti religiosi.
Il Natale ortodosso, Genna, cade il 7 gennaio. È il tempo dei grandi pellegrinaggi verso la città santa
di Lalibela, mentre Timkat, l’epifania ortodossa, è la festa religiosa più importante del cristianesimo
etiopico: grandiose le processioni che si svolgono a Lalibela, a Gondar, ad Axum. Si celebra il 19
gennaio e, a differenza dell’epifania cattolica, non ricorda l’arrivo dei Magi a Betlemme, ma il battesimo
di Cristo ad opera di San Giovanni Battista nelle acque del fiume Giordano. È necessario arrivare puri
a Fasika, la Pasqua ortodossa. Il buon cristiano osserva, prima della festività, 56 giorni di digiuno.
Dovrà astenersi dal cibo dalla mezzanotte fino alla sera successiva.
Il pellegrinaggio di Sheik Hussein
Un santuario abbagliante, imbiancato di calce, è accecante sotto i raggi del sole. Drappi colorati ne
coprono la cupola. La tomba dello sceicco Hussein, nelle savane del bacino del fiume Webe Shebele,
nella regione del Bale, è il luogo del mistero dell’Islam, la meta del più grande pellegrinaggio musulmano
d’Etiopia. A febbraio, anniversario della morte dello sceicco, decine di migliaia di pellegrini lasciano i
loro villaggi e, a piedi, a dorso di mulo, camminano per centinaia di chilometri pur di raggiungere questo
remoto santuario sacro.
La tradizione vuole che Hussein sia stato il primo predicatore islamico, un mistico sufi che nel XIII° secolo
lasciò alle sue spalle le coste somale e risalì il corso del Webe Shebele fino alle savane del Bale. Visse
con grande dignità in terre di culti animisti. Le avanguardie delle popolazioni oromo approdarono in questi
territori solo tre secoli più tardi: furono contagiati dalla fede che circondava la leggenda di quel vecchio
sceicco santo. Fu allora che la venerazione di Sheik Hussein si diffuse per tutti i territori dei bassopiani.
Nessun albero può essere abbattuto attorno alla tomba dello sceicco. I pellegrini appendono ai loro rami
strisce di pelle, visitano la Gotta del Serpente e la Grotta del Miele. Entrano all’interno del santuario,
vi siedono per ore, si cospargono il corpo di polvere bianca. La folla mormora ossessivamente infinite
litanie. Il pellegrinaggio a Sheik Hussein è un’estasi della fede.
Maratoneti all’alba
L’aria di Addis Abeba, all’alba, è una nebbia
leggera. L’odore degli eucalipti è dovunque.
Centinaia di ragazzi, nel buio delle loro case,
stringono i lacci delle loro scarpe da ginnastica
e si preparano a rincorrere le leggende di due
uomini: Abebe Bikila e Haile Gebreselassie.
Sono davvero un piccolo esercito i ragazzi
etiopici che, ad Addis Abeba come nei più
lontani villaggi dell’altopiano, si svegliano prima
che sorga il sole, escono di casa e cominciano
a macinare chilometri. All’alba si culla più
facilmente il sogno di poter un giorno salire sul
podio più alto delle Olimpiadi.
Di corsa!
Due uomini da leggenda
Nella regione dell’Arsi, nel Sud dell’Etiopia, deve
esserci qualcosa nell’aria. Haile Gebreselassie,
figlio di una povera famiglia di contadini, a scuola
non sapeva che andarci di corsa. Haile è stato
il primo uomo al mondo a scendere sotto i 13
minuti nei 5mila metri, ha vinto due Olimpiadi
e fatto infuriare i kenioti che se lo vedevano
sempre scappare davanti negli ultimi trecento
metri, quando già credevano di avere la vittoria
in mano. Sono figli dell’Arsi anche Fatuma Roba
(oro nella maratona femminile ad Atlanta) e Hailu
Mekonnen, primatista mondiale del doppio miglio.
Come Kenenisa Bekele, l’erede di Haile, oro ad
Atene nel 2004 nei 10mila metri. Ma la leggenda
reale dell’Etiopia è un uomo che corre, a piedi
scalzi, sul selciato dell’Appia Antica. Accadeva
quasi mezzo secolo fa: Abebe Bikila aveva la
maglietta numero 11, troppo larga per lui. Era il
1960, l’anno delle indipendenze africane, e Bikila
ne divenne il simbolo imperioso: un africano,
all’ombra del Colosseo, divenne l’eroe delle
Olimpiadi moderne. Quattro anni dopo, avrebbe
compiuto un’impresa considerata impossibile:
nessuno aveva mai vinto due volte la maratona
olimpica, nessuno ne è stato più capace.