trasformazioni paesaggistiche ed ambientali ad opera dell`uomo nel

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trasformazioni paesaggistiche ed ambientali ad opera dell`uomo nel
TRASFORMAZIONI PAESAGGISTICHE
ED AMBIENTALI AD OPERA DELL’UOMO
NEL TAVOLIERE DI PUGLIA
Nelle desolate zone destinate a "colture estensive", sui terreni già soggetti
a "vincoli doganali", oggi finalmente, viene spesso riproposto, in termini nuovi
per il Tavoliere di Puglia, l'antico tema della masseria.
Una volta la masseria era costituita da vasti fabbricati, per ospitare, solo
saltuariamente, uomini e bestie destinati a lavori stagionali.
Nelle nuove aziende, invece, viene realizzato un regime del tutto diverso.
Le costruzioni, prima isolate in vaste estensioni brulle, vengono
circondate oggi da verdi sistemazioni arborate e vanno inglobando, in un
complesso unico, capannoni preesistenti e vecchi magazzini; prevalgono, però, i
nuovi edifici che denunciano insediamenti umani talvolta permanenti, di grande
interesse per la storia del paesaggio rurale della "Puglia piana".
I locali per le industrie, i caseggiati per i salariati fissi e gli appartamenti
per le famiglie dei proprietari, sono organizzati come in antiche ricostruite
cittadelle, di nostalgico ricordo patriarcale, di sapore antico, anacronistico forse,
ma che non per questo risultano irrazionali o poco efficienti.
Com'è stato possibile passare dalla malaria di ieri, dallo scoramento e
dalla desolazione mortale, allo splendore, spesso opulento, di così nuove
sistemazioni?
Come ha potuto un'agricoltura povera diventare altrettanto nuova, ricca
e ferace, in una terra fino a ieri sfruttata principalmente a pascolo?
Quali forze nuove hanno potuto vincere regimi di obbligatorio sfruttamento, di pigrizia e di ignoranza?
Vel carpitur vel colitur
Con questo motto ed all'insegna di una bella incisione dello scultore F.
de Grado, Stefano di Stefano inizia il secondo volume di una sua complessa
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opera sulla storia del Tavoliere di Puglia, «per tutto ciò che appartiene alla mena
delle pecore, al tribunale della Dogana ed alle concessioni dei terreni dati in fitto
per uso agricolo» (Della ragion pastorale, Napoli, Stamperia D. Rosselli, 1734).
Carpire o coltivare? Menare nei grandi pascoli greggi ed armenti liberi di
brucare le erbe spontanee dei campi, o raccogliere, con la fatica dell'uomo, i
prodotti delle sementi affidate alla fecondità della terra?
Nel Tavoliere di Puglia1 questo dilemma durò per secoli, portando
sempre a soluzioni errate sia per gli allevatori che per l'attività agricola: da una
parte le grandi morie di bestiame, soggetto a lunghe e faticose transumanze, e
dall'altra l'appantanamento di terre mai completamente dissodate.
I difficili bilanci di una economia povera e le coercizioni imposte da
regimi di sfruttamento determinarono l'arretratezza che, per lunghi anni,
doveva affliggere la parte più generosa del territorio pugliese.
Transumanza e pastorizia contribuirono a dare un volto triste al grande
Tavoliere, esasperando la inospitalità di un ambiente già degradato da violenti
precedenti storici e dove alla fine solo la malaria imperava mortale.
Il contadino veniva avversato dalla tracotanza pastorale, che considerava
intrusione estranea ai propri interessi ogni tentativo di stabile insediamento
umano; e, tuttavia, più che dal conflitto di contrastanti economie, egli veniva
vinto dall'insidia della perniciosa.
Solo pochi coraggiosi resistevano alle lotte e alla decimazione, ma non
riuscirono mai a modificare, in modo veramente definitivo e rinnovatore, una
situazione nata da errori antichi e codificata da leggi inique ed ottuse discipline.
1 - Per Tavoliere di Puglia s'intendeva l'insieme dei terreni soggetti alla Dogana
della mena delle pecore. La Dogana ebbe sede prima a Lucera e poi a Foggia. I terreni
destinati a pascolo oltre ad occupare gran parte della Capitanata proseguivano in terra di
Bari, in terra d'Otranto e nei paesi pedemontani della limitrofa Lucania, fino alla valle del
Bradano. Oggi deve distinguersi una certa differenza nell'uso del termine Tavoliere, a
seconda che venga inteso nel senso attuale e geografico della pianura di Capitanata o che
venga riferito all'oggetto storico della giurisdizione della Dogana. Si consideri a tal
proposito che il nome di Tavoliere può essere derivato dalle tavole censuarie (tabularium)
per l'applicazione dei censi pascolativi.
Il tabularium in dialetto veniva chiamato "U tabelliere".
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La incomprensione di amministratori avidi e lo sfruttamento disamorato
di governi stranieri miravano all'unico interesse di spremere, a favore dell'erario,
l'ultima goccia di sangue ancora valido per incrementare al massimo le entrate
nelle casse dello Stato.
Nell'abbandono di campagne incolte e malsane, il Tavoliere diventava un
luogo sempre più brullo e selvaggio.
Oggi questo abbandono è solo un ricordo storico, anche se molto
recente. Nel secolo XVIII, invece, scrittori vari e viaggiatori stranieri in giro per
il mezzogiorno d'Italia potevano facilmente attribuire al paesaggio interessato
dai pascoli pugliesi, appellativi pittoreschi, ma drammaticamente veritieri, come
«deserto del Regno di Napoli», «Sahara delle nostre contrade», «steppa forzata»
«rifugio della barbarie» e «massimo campo della gloria e della legislazione dei
Tartari» (da Antonio Lucarelli, La Puglia nel Risorgimento, Bari, 1931, Vol. I, pag.
28).
L'antica ricchezza
Questa grande pianura non fu sempre così abbandonata, né sfruttata
fino all'impoverimento e alla degradazione.
Rilievi aerofotogrammetici, studi ed esplorazioni, sondaggi e scavi
vengono periodicamente coordinati dall'Istituto italiano di preistoria, allo scopo
di definire, in una mappa precisa, l'antica topografia dell'attuale Tavoliere.
Intanto, le località già sicuramente ubicabili permettono di individuare numerosi
stanziamenti umani, che vanno dal periodo neolitico a tutto il medio evo.
Evidentemente, fin dai tempi più lontani, la pianura pugliese poteva essere
abitata senza danni e senza pericoli per l'uomo; e ciò malgrado la presenza di
vaste zone umide che andavano continuamente mutando nel tempo il profilo
delle proprie coste. Infatti, la geografia locale subiva varianti paesaggistiche ed
ambientali per le continue modificazioni provocate da disgeli, alluvioni e
bradisismi.
L'uomo a tali mutamenti deve adattarsi spostandosi di volta in volta nei
siti più elevati ed occupando aree nate da colmate recenti e che consentono la
facile messa a coltura di terreni vergini, freschi e fecondi.
Egli, a questo punto, ha già rinunciato al primitivo predaggio, alla vita
nomade e alla caccia come sua unica risorsa di sostentamento. Diventa
agricoltore e lascia sulla terra i segni del suo lavoro. Ha dimore fisse: non
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più antri e caverne naturali, ma capanne riunite in semplici e sparuti villaggi.
Quando i villaggi diventeranno più grandi e le comunità più consistenti,
più popolose e più organizzate, lunghi fossati verranno scavati per difendere le
case dagli assalti notturni di fameliche fiere; grandi opere idrauliche
assicureranno in cisternoni comuni la provvista d'acqua durante la stagione
secca e recinti permanenti verranno innalzati per il ricovero degli animali allevati
in cattività.
Pur dovendosi sempre adattare alle esigenze di una giovane terra ancora
in formazione, questi primi laboriosi pugliesi già sono capaci di migliorare
l'ambiente, per assicurarsi più ricche possibilità di vita.
Dalle presunte palafitte di Passo di Corvo (agro di Foggia), ai villaggi
sorti sulle colmate di Marandrea (agro di Manfredonia) e via via, fino ai campi
delle stele antropomorfe daune (zona di Siponto), non meno di cento tracce di
insediamenti antichi possono essere individuati.
Per ognuno di essi, esami stratigrafici, reperti litoidi e ritrovamenti
ceramici permettono di risalire all'epoca dell'insediamento e di interpretare il
livello di civiltà raggiunto dalle popolazioni, oltre alla cultura che presiedeva alla
loro economia.
Il clan è quasi sempre pacifico e laborioso, tutto dedito all'agricoltura,
alla pastorizia ed all'allevamento di piccoli animali domestici, pur senza
rinunciare del tutto alla caccia e alla pesca. Attività, queste ultime, favorite dalla
persistente presenza di vasti e limpidi specchi d'acqua.
E' difficile, in mancanza di mappe ancora in corso di rilevamento,
immaginare con sufficiente attendibilità le caratteristiche di un paesaggio avvolto
dalle spesse nebbie di tempi troppo lontani.
Più facile è, invece, immaginare questo stesso paesaggio in epoca dauna
ed ellenistica e nel successivo periodo romano, fino alla caduta dell'impero.
Le «affaticate querce», che resistevano con tenacia agli impetuosi venti
adriatici, scendevano da monti del Gargano fino a valle, dove nella grande
pianura, diradandosi, cedevano il posto ai lecci ed al lauro, al pino, al salice e al
tamarice, o a cento altre essenze acquatiche e lacustri.
Strabone descriveva dettagliatamente i laghi di Salapia e di Siponto,
navigabili e collegati da canali navigabili, che assicuravano i traffici continui tra il
mare aperto ed i porti lagunari1.
2 - Geografia, 6-3-9.
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Si sa anche dei grandi bacini di Arpi, navigabili ed anche essi collegati da
canali di immissione e di smaltimento, con i fiumi della zona.
In questi antichi laghi le acque mobili non favorivano la malaria, perché
venivano continuamente rinnovate dal ricambio di correnti, marine e fluviali,
disciplinate da canali artificiali tenuti in continuo stato di efficienza dall'opera
assidua dell'uomo.
L'abbandono
Il concetto di dissesto ecologico sembra derivato dalla conquista di una
nuova coscienza civile, legata al tormento sociale di questi ultimi tempi ed alla
paura di un negato futuro; ma, forse, di nuovo non c'è che l'uso di parole
create di fresco e subito diventate di moda.
Fu per evitare il dissesto ecologico della grande pianura che antichi nostri
progenitori si affannarono per secoli intorno alla manutenzione d'imponenti
opere di bonifica idraulica. Una bonifica intesa diversamente da quella odierna,
perché non mirava al prosciugamento delle acque, ma alla loro conservazione
in continuo stato di salubrità.
Solo l'abbandono di tali opere poteva portare le terre alla malaria e solo
la miseria poteva portare all'abbandono.
L'uno e l'altra arrivarono, purtroppo, nel nome di Roma.
Finite le guerre puniche, distrutta Cartagine, Roma impose pesanti
umiliazioni alle città che si erano apertamente schierate con Annibale.
Distruzioni parziali, onerosi tributi e controlli diretti ridussero a cosa
irrisoria la ricca economia di Arpi. Per il conseguente decadimento economico
di tutta la regione, ulteriori squilibri subirono Siponto e Salapia, specie per la
inerzia delle attività portuali, che dal commercio e dalle industrie di Arpi
traevano motivi di ricche attività marinare.
Non fu che l'inizio, ma così gravi furono i danni che non si ebbe tempo
di porvi riparo. Stentatamente le città sopravvissero fino alla caduta dell'impero:
poi, a poco a poco, si arrivò all'esodo dalle campagne ed allo spopolamento
dei centri abitati.
Nessuno più curava lo sgombero degli abbondanti detriti fluviali ed i
canali artificiali si intasavano, mentre gli sbocchi a mare venivano chiusi dalle
dune sabbiose depositate dai rigurgiti ondosi su acque di basso
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fondale. Tutto appantanava: acque immobili e fanghiglia verde presto
imputridivano, appestando l'aria. Mutate condizioni climatiche avevano
trasformato da continuo a torrentizio il regime dei fiumi. Durante la lunga
estate nessuna nuova adduzione di acqua rinnovava la massa inerte di grandi
specchi che, inesorabilmente, andavano morendo. E, nei sussulti della morte,
completavano l'opera distruttrice le grandi alluvioni invernali, dovute a piene
impetuose che non trovavano più sbocco al mare.
L'antica ricchezza lacustre era scomparsa del tutto, degradando fino allo
sfacelo, quando le incursioni barbariche vennero a gravare come nuove e più
tragiche disgrazie su popolazioni ormai stremate. Così, tra il V ed il VI secolo,
Arpi, Erdonea, Leocade, Salapia e Carmeia, vennero abbandonate una alla
volta da gente veramente atterrita e che cercava la salvezza solo nella fuga, senza
speranza di un possibile ritorno.
Successivamente e fino a tutto il XIV secolo, nello stesso modo che per
l'interno della pianura, anche la zona costiera del golfo adriatico venne
interessata dall'abbandono di un certo numero di villaggi, ancora non tutti bene
identificati.
Si sa di preciso, tuttavia, che Cupola, Salapia e Siponto risultavano
ancora abitate prima che Manfredi, scegliendo un sito più salubre, costruisse,
nel XIII secolo, la nuova città di Manfredonia per ospitare i profughi della
zona, cacciati dai propri focolari dalla malaria e dalle conseguenze disastrose del
forte terremoto del 1223.
Difficili tentativi di ripresa ed incremento della pastorizia
Si è detto che Manfredi non è stato il primo a tentare, con la fondazione
di Manfredonia, un ripopolamento delle terre abbandonate.
Si vuole infatti che anche Federico II mirasse a questi obiettivi quando
andava disponendo la costruzione di castelli disseminati per tutta la Puglia.
Ma i castelli di campagna di Federico non divennero mai incentivi per i
nuovi insediamenti umani, rimanendo solo posti di presidio strategico e di sosta
per vagabondaggi regali, che oltretutto risultavano molto costosi per lo stato.
D'altra parte, tutta la pianura degradata in palude (dal Gargano alle
prime balze murgesi e dall'Adriatico al Sub - appennino), pur essendo
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diventata una grande riserva di caccia per l'imperatore, non vide mai il sorgere
di castelli isolati, ma solo di rare magioni costruite in paesi e centri urbani, già da
lungo tempo costituiti, indipendentemente dalle opere federiciane.
Può rappresentare un'eccezione il castello di Lucera dove la colonia dei
Saraceni aveva dato vita ad un'agricoltura fiorente, irrigua ed intensiva, almeno
per l'epoca.
Questa laboriosa colonia ebbe però poca fortuna, perché sopravvisse
appena fino all'agosto del 1300, quando Carlo II dispose la strage di 20.000
saraceni, la cui soppressione aggravò la depopulatio di tutta la zona.
Ma già dal 1269 i saraceni avevano dovuto sottomettersi a Carlo I,
abbandonare l'agricoltura e ritornare alle armi, come mercenari. Allontanati
dalle attività agricole, commerciali e artigianali vennero inviati nell'Epiro,
nell'Albania e in Macedonia, dove gli angioini, a danno dell'impero d'Oriente,
cercavano nuovi limiti di espansione.
I terreni, sottratti alla cura costante dei contadini, si ridussero ben presto
in grave stato di sterile improduttività.
Allora Carlo I tentò di restituire all'agro di Lucera la perduta fertilità,
disponendo, nel 1274, un nuova colonizzazione a favore di contadini
provenzali, che importava attraverso migrazioni organizzate.
Intanto anche qui la malaria aveva avuto il sopravvento ed i provenzali,
vinti e decimati, si rifugiarono sulle più salubri e vicine montagne, fondando
Faeto e Celle S. Vito, dove ancora oggi si parla un dialetto di origine francese.
In pianura l'isolamento delle campagne diventa quasi totale e durerà per
lunghi anni ancora, danneggiando persino i pastori che cominceranno a
disertare i pascoli pugliesi.
E se ad un certo punto la pastorizia sugli stessi pascoli ritorna in massa, è
solo per un fatto di coercizione.
Nel 1447, Alfonso d'Aragona, nell'intento di incrementare l'erario,
riordina la transumanza, rendendola obbligatoria ed organizzando la Dogana
della mena delle pecore.
I nuovi ordinamenti non miglioreranno, anzi aggraveranno le condizioni
del Tavoliere, dove i terreni, quasi tutti demanializzati, non offrono che poco
spazio all'agricoltura, costretta a cedere sempre di più di fronte all'invadenza
pastorale.
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La sdemanializzazione del Tavoliere e le bonifiche
L'ordinamento della Dogana durò fino al 1806, ma il regime particolare
del Tavoliere (che sottraeva agli agricoltori la libera disponibilità dei fondi),
continuò ancora per oltre mezzo secolo.
Solo nel 1865 fu consentita l'affrancazione dei canoni infissi sulle terre del
demanio pastorale, venendosi così ad incrementare la proprietà privata.
I nuovi proprietari, quasi tutti provenienti dalla precedente classe
pastorale, non si orientarono subito verso trasformazioni, dissodamenti e
bonifiche. Né i precedenti tentativi statali vennero ricordati come motivi di
stimolo per nuovi incentivi.
Sia pure per considerarne solo l'importanza storica, bisogna qui richiamare le bonifiche francesi (1806-1815), interrotte con la caduta di
Gioacchino Murat, e quelle dei successivi interventi borbonici, iniziati ad opera
di Afan de Rivera e durati fino a tutto il 1860. Anche se nati per esigenze di
controllo del contrabbando del sale (disciplina dei bacini salanti di Barletta), i
tentativi borbonici dettero virtualmente avvio al tipo di bonifica per colmata
dei terreni salsi e bassi del golfo di Manfredonia.
Si devono ancora ai Borboni i primi esperimenti di colonizzazione delle
terre salde, con assegnazione di lotti a famiglie contadine chiamate a trasformare
per dissodamento antichi pascoli in terreni agricoli.
Venne a questo scopo fondata Poggio Imperiale (1761), mentre molto
dopo (1774) nacquero i reali siti di Orta, Stornara, Stornarella, Ordona e
Carapelle, seguiti, nel 1839, dalla fondazione della colonia di San Cassano
divenuta, nel 1848, comune col nome di San Ferdinando di Puglia.
Per quanto si trattò di ben poca cosa rispetto all'estensione da bonificare,
queste località rappresentarono i primi centri vitali e consistenti di reinserimento
umano nelle terre del Tavoliere.
Ma, dopo il 1865, ad opera dei privati proprietari non si ebbero che
grandi masserie pastorali; imponenti complessi edilizi, talvolta fortificati, ricchi
di corti spaziose e di stalle, vincolate spesso alle consuetudini del pascolo
transumante e tradizionale, rappresentavano rifugi di arrivo per una persistente
industria pastorale, più che stazioni di partenza per attività nuove.
Tuttavia, intorno a queste masserie, timidamente cominciarono ad essere
impiantati oliveti e vigne.
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La grande estensione rimane però a grano. Non si procede a scassi, né si
prevedono bacini per la raccolta di acque piovane, rinnovabili di stagione in
stagione, onde assicurare abbeveraggi più salubri di quelli stagnanti, dove solo la
bufala può guazzare immune da ogni pericolo.
L'estate torna sempre sitibonda nella grande pianura; pantani immondi e
febbri terzane ancora hanno il sopravvento sull'uomo e sull'ambiente.
Solo molto più tardi, nei primi decenni di questo secolo, l'assegnazione
di terre melmose a contadini eroici, coraggiosi e tenaci stimola, lungo gli arenili
di Zapponeta e di Margherita di Savoia, i primi lavori di bonifica a cura dì
privati. La bonifica avverrà per colmata, con riporti sabbiosi. Il materiale,
prelevato dalle dune marine, verrà trasportato con carri, carriole e a spalla,
quindi verrà stabilizzato con lunghe concimazioni provenienti da paglia di
lettiere e da stallatico.
La bonifica del Tavoliere aveva bisogno però di interventi ben più
consistenti, tecnicamente qualificati, razionali, moderni ed efficienti. I problemi
da risolvere erano troppi ed il peso delle necessità più impellenti molto
pressante.
Urgeva smaltire l'acqua dai pantani, colmare le zone sottoposte al livello
del mare, disciplinare le acque recuperabili in zone umide di preminente
interesse economico e sociale e portare l'acqua potabile in tutte le zone
sitibonde, comprese quelle sommerse, che non potevano certo utilizzare le
infette acque superficiali.
Solo all'inizio di questo secolo, col Testo Unico del 22 maggio 1900, si
ebbe una prima regolamentazione del governo italiano, per affrontare con serio
impegno la bonifica del Tavoliere.
I lavori ebbero grande impulso ad opera del Corpo reale del genio civile
di Foggia e si svolsero con grande organicità.
Le vasche di colmata dei laghi costieri, i relativi canali colmatori e le
idrovore per lo scarico a mare delle acque di supero, l'inalveazione e
l'innalzamento di argini per la disciplina delle acque torrentizie, l'escavo di canali
di smaltimento dalle zone depresse e, infine, la costruzione dei primi 100 km. di
strade poderali, cominciavano a dare segni manifesti di una situazione che
andava mutando.
La guerra 1915-1918 arrestò tutti i lavori. Molte opere andarono
perdute per gli intasamenti che la mancata manutenzione provocava nei vecchi
alvei fluviali e nei canali dì nuova apertura.
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Fino al 1927, epoca di costruzione dei primi Consorzi di bonifica, il
dopoguerra venne impiegato per il completo ripristino delle opere danneggiate.
Nel 1929 venne costituito il Consorzio generale di bonifica e di
trasformazione fondiaria di Capitanata che, come ente di secondo grado, riuscì
a coordinare verso obiettivi unitari e collimati i programmi dei diversi bacini
costituiti nel 19273.
Le iniziative del Consorzio generale (sorto ad opera dell'on.le Gaetano
Postiglione) vennero incoraggiate dal sottosegretario alla bonifica integrale
dell'epoca (Serpieri) e dal sottosegretario al ministero dell'agricoltura (Tassinari)
con l'approvazione ed il finanziamento del piano generale di bonifica per il
Tavoliere di Puglia, redatto dall'ing. Roberto Curato.
Nel 1938 superata la breve battuta d'arresto imputabile alla guerra
d'Africa, ultimate appena le bonifiche delle paludi pontine, il governo
incrementò quelle del Tavoliere, col nuovo piano di trasformazione agraria
(Carrante, Medici e Perdisa, approvato con D.M. 19 dicembre 1928, n. 12511)
e con l'esproprio di 28 mila ha. destinati ad appoderamenti a cura dell'Opera
nazionale combattenti (O.N.C., Direzione del Tavoliere).
Tanto impegno vide la dedizione di uomini di ingegno e di intelletto,
oltre che di funzionari provetti e laboriosi (primo fra tutti l'ing. Giuseppe
Colacicco): ma i fatti cruenti della seconda guerra mondiale dovevano
determinare una nuova e più lunga interruzione dei lavori.
Agli inevitabili danni per mancata manutenzione si aggiunsero quelli
provocati da bombardamenti a tappeto e dal passaggio dei pesanti mezzi di
smisurati eserciti stranieri.
I fiumi ripresero a straripare. Le città rimanevano spesso isolate per
l'allagamento di strade e campagne. L'Ofanto soprattutto ripropose agli stupiti
spettatori il terrificante spettacolo di acque impetuose, che quasi duemila anni
prima Orazio aveva descritto con versi nostalgici nei canti dedicati alle forze
possenti della sua lontana patria apula.
3 - Bacini del Fortore, di Lesina, di Varano, San Severo e Torre Maggiore, alto
Tavoliere, Cervaro e Candelaro, Tavoliere centrale, Cerignola ed Ofanto, per una superficie
complessiva di 460 mila ha.
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Ma la ripresa economica non tardò a venire. Stimolata dall'irresistibile
istinto di conservazione e da una tenace volontà di risorgere, la gente di
Capitanata riprese il lavoro aggrappandosi con forza disperata a tutte le
provvidenze che lo Stato poteva elargire (piano E R P, Cassa per il
Mezzogiorno, Ente riforma).
Oggi le opere idrauliche sono quasi tutte ultimate e la costante manutenzione di esse ha consentito la restituzione ai campi di terre sommerse, nella
rinata salubrità dell'intera pianura.
La malaria è vinta anche nelle zone umide recuperate a scopo ecologico 4
e le quattro stagioni si avvicendano sul Tavoliere nell'alternarsi dei vari colori
che portano le vegetazioni dal verde novello ai frutti maturi.
Il nuovo volto
Tra l'oro delle messi pronte per la mietitura o tra il verde cinerino degli
olivi, attraverso la trasparenza metallica di estesi vigneti od in fondo
all'orizzonte giallo dei campi di girasole, nascoste appena dal mandorlo in fiore
od esaltate dalla freschezza cinabra della barbabietola da zucchero, dappertutto,
bianche case rurali oggi emergono dai campi. E con le case, nuove masserie e
grandi complessi si impongono in un paesaggio nuovo. Solo raramente si tratta
di insediamenti umani permanenti. La motorizzazione ha reso superflua la
costante presenza del contadino in campagna; anzi le stesse borgate realizzate
dal Consorzio di bonifica, dall'O.N.C. o dall'Ente di riforma fondiaria non
hanno più avuto incremento, sopraffatte dal nuovo ed artificiale dinamismo
moderno, che consente rapidi spostamenti con tempi minimi, anche attraverso
grandi distanze.
Talvolta fratture contrastanti turbano il senso di riposo dell'orizzonte
piano ed infinito, con silos lucenti o col freddo razionale di grossi volumi in
cemento armato. I grattacieli dei grandi mulini e i complessi industriali di
importazione difficilmente riescono ad ambientarsi in un paesaggio che non
sentono o che volutamente ignorano.
4 - Lago di Lesina, lago di Varano e riserve di caccia e pesca di Siponto.
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Ma questo è forse un prezzo che la civiltà deve pagare, da quando, per
l'ambizione della conquista, ha ceduto i diritti della ragione al predominio del
potere tecnologico.
Tuttavia, se pure qualche riserva può essere avanzata sul piano del
perfetto ambientamento, quello che più conta è rilevare che oggi l'uomo è
presente nella vasta piana, fino a ieri deserta, con mille testimonianze diverse
della sua opera, della sua intelligenza, della sua laboriosità e del suo ritorno
all'amore dei campi e al culto della terra.
Ugo Jarussi
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BIBLIOGRAFIA
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