SENTIERI DELLA RICERCA

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SENTIERI DELLA RICERCA
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I
SENTIERI
DELLA RICERCA
rivista di storia contemporanea
Ajolfi
Beltrami
Capra Casadio
Germinario
Mattioli
Banzola
Del Boca
Varvelli
Vicari
Romandini
Panizza
Vecchia
Omodeo Zorini
giugno 2007
EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO
I SENTIERI DELLA RICERCA
rivista di storia contemporanea
EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO
I Sentieri della Ricerca
è una pubblicazione del Centro Studi Piero Ginocchi, Crodo.
Direttore
Angelo Del Boca
Condirettori
Giorgio Rochat, Nicola Labanca
Redattrice
Severina Fontana
Comitato scientifico
Marina Addis Saba, Aldo Agosti, Mauro Begozzi, Shiferaw Bekele,
Gian Mario Bravo, Marco Buttino, Giampaolo Calchi Novati, Vanni
Clodomiro, Basil Davidson, Jacques Delarue, Mirco Dondi, Angelo
d’Orsi, Nuruddin Farah, Edgardo Ferrari, Mimmo Franzinelli, Sandro
Gerbi, Francesco Germinario, Mario Giovana, Claudio Gorlier, Mario
Isnenghi, Lutz Klinkhammer, Nicola Labanca, Vittorio Lanternari,
Marco Lenci, Aram Mattioli, Gilbert Meynier, Pierre Milza, Renato
Monteleone, Marco Mozzati, Richard Pankhurst, Giorgio Rochat,
Massimo Romandini, Alain Rouaud, Gerhard Schreiber, Enrico Serra,
Christopher Seton-Watson, Francesco Surdich, Nicola Tranfaglia, Jean
Luc Vellut, Bahru Zewde
La rivista esce in fascicoli semestrali
Direttore Angelo Del Boca
Editrice: Centro Studi Piero Ginocchi
Via Pellanda, 15 - 28862 Crodo (VB)
Stampa: Tipolitografia Saccardo Carlo & Figli
Via Jenghi, 10 - 28877 Ornavasso (VB)
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N. 5 - 1° Sem. 2007
Numero di registrazione presso il Tribunale di Verbania: 8, in data 9 giugno 2005
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La pubblicazione di questa rivista
è stata possibile grazie al contributo di:
Provincia del
Verbano Cusio Ossola
Comune di Crodo
Sommario
gli anni della Resistenza
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Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale.
I corrieri ossolani: un caso di contrabbando postale
di Riccardo Ajolfi
45
Il Capitano, il prete, l’ebreo e il tedesco.
Una vicenda di solidarietà al di là di schematismi ideologici e religiosi
di Michele Beltrami e Vittoria Schunnach
61
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese,
i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
di Massimiliano Capra Casadio
93
Eros e Tanathos, morte per protesta contro la patria e morte impolitica.
Declinazioni del problema della morte nella memorialistica
della Repubblica sociale
storia nazionale
111
«La Resistenza è morta, viva il buon vecchio Mussolini».
di Francesco Germinario
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
di Aram Mattioli
1 31
La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia»
nei mesi successivi alla fine della guerra
di Matteo Banzola
Africa e dintorni
159
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo
rivisitate in due convegni
di Angelo Del Boca
179
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
di Arturo Varvelli
229
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
di Stefania Vicari
rassegna bibliografica
257Schede
di Massimo Romandini, Angelo Del Boca, Cesare Panizza, Matteo Vecchia,
Francesco Omodeo Zorini
279 Notizie sugli autori di questo numero
gli anni della Resistenza
Corrispondenze d’emergenza
nella seconda guerra mondiale.
I corrieri ossolani: un caso di contrabbando postale
di Riccardo Ajolfi
La comunicazione occupa da tempo nella nostra società un ruolo sempre più preminente, tanto che si può parlare di «civiltà delle comunicazioni» ed in questo ambito anche i temi postali assumono rilevanza scientifica e storica.
Il presente studio riguarda le comunicazioni epistolari di emergenza
sviluppatesi in Ossola durante la Repubblica Sociale e soprattutto dopo la
caduta della repubblica dell’autunno 1944. Parallelamente al servizio postale istituzionale operante sul territorio, l’Ossola sviluppò, infatti, anche
un servizio volontario clandestino con corrieri per lo scambio di notizie
con gli italiani della zona espatriati nella vicina Svizzera.
L’indagine nella sua parte archivistica si è basata principalmente sulla
ricognizione di tre fondi: il fondo Internati presso l’Archivio del Canton
Ticino a Bellinzona e due piccoli archivi privati, qualitativamente preziosi quanto a informazioni desunte, conservati da famiglie di Domodossola1. I materiali esaminati sono piuttosto eterogenei e sono costituiti da testi di lettere, buste, fotografie, cartoline, registri, diari privati, appunti manoscritti. La ricerca è integrata, inoltre, da testimonianze orali di persone
che allora ebbero un ruolo nella ricezione o trasmissione oltre frontiera di
messaggi. Rappresentano nel loro insieme vere e proprie «tracce documentali», come le chiama lo storico Gustav Reiner, in forza di un’idea di fonte
che si allarga a testimonianze di ogni tipo, specialmente valida in ricerche
come questa ove sono assenti documenti ufficiali2.
Tali testi di «scrittura popolare», oltre che fonti storiche, hanno anche come valenza aggiuntiva quella di essere documenti interessanti di per
sé, in quanto testimonianze umane che permettono di introdurre ad uno
straordinario patrimonio di esperienze individuali e collettive3. Lettere, bi7
Riccardo Ajolfi
glietti, buste o altri «resti» del passato, da anni custodi silenziosi di una memoria, restituiscono così alla nostra comprensione l’importanza della catena umana e organizzativa sottesa a tali materiali, dando «voce ad un silenzio»4.
La comunicazione parapostale clandestina: il contesto
Nel periodo antecedente alla liberazione dell’Ossola, soprattutto nell’estate 1944, numerosi furono gli ostacoli al corretto e regolare svolgimento dei servizi postali e delle comunicazioni, per causa delle distruzioni direttamente o indirettamente connesse alla guerra: interruzioni delle vie di
comunicazione (strade, ferrovie, ponti), isolamento di località per azioni
partigiane, carenze di personale5. Situazione non diversa da quella del resto d’Italia, in cui i danneggiamenti al servizio interessarono gli edifici postali, i mezzi di trasporto, le linee telegrafiche e telefoniche, i materiali del
servizio. «La posta è un mito e i treni un’utopia», in un diario così si riassumeva efficacemente il quadro sconfortante dei trasporti e delle comunicazioni nell’Italia del Nord durante la Rsi 6. Anche le stesse modalità organizzative connesse al servizio postale, sia nella parte riguardante l’utilizzo
del servizio dall’utenza come in quella relativa alla formazione e invio dei
dispacci - in particolare la spedizione delle corrispondenze all’estero -, già
modificate in senso restrittivo fin dall’inizio della guerra, erano diventate
più complesse e più lunghe7.
L’azione di molteplici fattori - tra i principali: l’occupazione militare tedesca; la guerra fratricida in corso; i bombardamenti alleati con le distruzioni e devastazioni sempre più estese interessanti l’intero territorio italiano; le persecuzioni razziali e politiche di larghi strati della popolazione; le
deportazioni di soldati e ufficiali delle forze armate italiane dopo l’8 settembre; i bandi di coscrizione obbligatoria nell’esercito della Repubblica
Sociale; il crescente rifiuto morale, politico e culturale verso il regime; il
clima di generale insicurezza - nella loro variabile interazione a livello di dinamiche individuali e collettive, non tutte facilmente sceverabili, rappresentò la molla che spinse migliaia di italiani a riparare in Svizzera. Fenomeno iniziato già a partire dagli anni venti in forma parcellizzata e riguardante una ristretta cerchia intellettuale o politica, e andatosi progressivamente espandendo dall’inizio della guerra fino a raggiungere il suo acme
nel periodo 1943-458.
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Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
«C’erano tutti, o quasi, i volti della mia vita / compresi quelli degli andati via / lì, a due passi dal confine / non ancora nei paraggi della morte»
scriveva Vittorio Sereni da Melide in Canton Ticino a proposito della vicenda umana che coinvolse circa centomila italiani. Il flusso migratorio
aveva interessato anche l’Ossola fin dall’8 settembre 1943, dapprima con
l’espatrio a carattere «nazionale» di piccoli gruppi costituiti principalmente da militari e da ebrei, similmente a quello che avvenne in altre zone confinanti con la Svizzera, e quindi con la fuga in massa «locale» dopo la caduta della Zona Libera nell’ottobre 19449. I profughi venivano internati
nei numerosi campi sparsi per l’intero territorio elvetico, di cui esistevano
strutture per civili e per militari. I bambini, invece, furono evacuati su iniziativa della Croce Rossa svizzera e italiana (delegazione di Domodossola)
e trasferiti in gruppi. Dopo un primo periodo di soggiorno in un campo
passarono presso famiglie. I partigiani ebbero inizialmente un trattamento differenziato e contradditorio che venne successivamente risolto, nel dicembre 1944, riconoscendogli la qualifica di militari10.
La divisione dei nuclei familiari, la diaspora degli amici, l’allontanamento forzato dal proprio tessuto sociale e umano facevano emergere prepotente nei rifugiati la necessità di comunicare, per fornire e cercare notizie, mantenendo in qualche modo i contatti e una vita di relazione. Da ciò
l’estrema importanza psicologica e sociale assunta dalle varie funzioni postali, che le lettere del periodo spesso evidenziano esprimendo tale bisogno
e lo stato d’animo connesso alla privazione di notizie11:
[…] durante questi lunghi mesi sono completamente tagliato fuori da tutti voi e più
nessuna notizia mi è pervenuta né da te, né dalle mie sorelle […; carissimi papà, mamma e tutti auguri per il 45 che speriamo finalmente porterà la pace e nel quale soprattutto potremo riabbracciarci tutti. Sarebbe proprio ora ed è terribile non sapere niente gli uni degli altri […].
Nei territori di confine, tra le popolazioni finitime, sono sempre esistite
modalità di comunicazioni parapostali, alternative al servizio postale statale, per il tramite di corrieri occasionali e non, e tutto ciò rientrava nell’ambito della gamma di scambi, traffici e relazioni che legano da secoli popolazioni confinanti. Anche in epoca moderna i corrieri privati, come vettori delle comunicazioni epistolari risultano ancora utilizzati nei territori che
si trovarono in condizioni di isolamento e di difficoltà contingenti nelle
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Riccardo Ajolfi
relazioni con l’esterno, oppure per circostanze storiche affatto eccezionali. Esempi relativi all’area italiana in cui gli invii si svolsero secondo simili
modalità possono essere: i territori dell’Africa Orientale Italiana12 - dal periodo iniziale della colonia Eritrea fino alla caduta dell’impero; Fiume13 durante l’impresa dannunziana del 1919-20 – e tra i soldati e prigionieri
nella prima e seconda guerra mondiale14.
L’emergenza epistolare attraverso il confine con la Svizzera
Il tema delle relazioni epistolari di emergenza tra i rifugiati in Svizzera e
l’Italia durante la guerra non è stato finora oggetto di una trattazione monografica, trovandosene invece notizie e riferimenti sparsi in opere e articoli dedicati ad argomenti di varia natura relativi al periodo, che verranno
menzionati nel corso del presente lavoro15. Durante la guerra si svilupparono numerose tipologie di comunicazioni clandestine tutte in relazione con
gli eventi bellici e con il complesso fenomeno resistenziale italiano, nella
sua accezione più ampia. In questa situazione, interrotto lo scambio postale diretto con la Svizzera, per soddisfare le istanze comunicazionali emergenti tra le migliaia di rifugiati italiani e i loro parenti e conoscenti rimasti in patria ci si appoggiò un po’ ovunque a canali di contrabbando postale, in forme con diverso grado di organizzazione, di efficienza, di volumi
di corrispondenze scambiate e di regolarità degli invii16.
Chiesa
Particolarmente attiva nell’opera di assistenza ai rifugiati fu la diocesi ticinese, guidata dal vescovo Jelmini, che si avvalse della partecipazione fattiva di molti parroci del Canton Ticino, spesso agendo anche in collaborazione con le Diocesi di Como e di Milano17. Le varie parrocchie situate nella fascia di territorio confinante con l’Italia si fecero promotrici
di un’intensa attività, talvolta al limite della legalità, per aiutare nell’espatrio, nella sistemazione e accoglienza in Svizzera e nei contatti molti fuggitivi dall’Italia.
La parrocchia di Stabio, località di frontiera ticinese a pochi chilometri da Varese, retta da don Achille Bonanomi, emerse tra molte altre per
l’alto grado di organizzazione raggiunto dal servizio di consegna di corrispondenza messo in piedi da questa energica figura di sacerdote, medaglia
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Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
d’oro della resistenza. La «centrale postale» di Stabio si trovò infatti a fungere da collettore di sempre più numerose missive e messaggi che gli pervenivano dai vari campi di internamento elvetici, man mano che si diffondeva la voce per cui tramite di essa era possibile corrispondere con i famigliari in Italia.
Don Bonanomi, utilizzando la canonica come ufficio di raccolta, smistamento e distribuzione delle lettere, le raccoglieva in pacchi distinti per
gruppi omogenei, applicando all’esterno degli stessi il timbro parrocchiale e la sigla della CRI, a mo’ di copertura, e provvedeva a recapitarli in luoghi prestabiliti al di là della rete di confine, da dove collaboratori italiani li consegnavano poi ai coniugi Dajnelli di Ligurno. Questi ultimi, una
volta aperti i pacchi, provvedevano a loro volta a spedire le lettere meno
compromettenti e dirette lontano tramite il servizio postale italiano, mentre quelle più pericolose, perché indirizzate in zone vicine, le consegnavano a corrieri fidati per l’inoltro diretto al domicilio del destinatario. Il primo contatto tra don Bonanomi e i Dajnelli avvenne per l’interessamento
di uno zio dei coniugi, il sacerdote professor Angelo Griffanti, parroco di
Ligurno, che fruiva della tessera di frontiera e poteva quindi fare la spola
attraverso il confine di Gaggiolo18.
Su un quotidiano del 1946, venne così retrospettivamente descritto il
lavoro «postale» di don Achille: «A lui faceva capo la corrispondenza dei
profughi per i familiari rimasti in Italia e per vie misteriose migliaia di lettere giunsero a destinazione sin nei più lontani paesi, portando nelle famiglie conforto e speranza. E pure per suo tramite migliaia di lettere che per
vie altrettanto misteriose affluivano dall’Italia oltre la rete furono recapitate agli interessati19».
Altro caso, affatto particolare per le precipue modalità di trasmissione
delle comunicazioni, fu quello di don Felice Camponovo (nato a Pedrinate il 20 febbraio 1886), assistente spirituale a Loverciano nel Canton Ticino, nell’orfanotrofio Maghetti, successivamente adattato a «home» per i rifugiati cattolici20.
La sua attività di corriere clandestino non prevedeva il passaggio materiale di lettere oltre il confine, ma durante i suoi settimanali viaggi a Como
passando per Ponte Chiasso, grazie ad un lasciapassare tedesco, il sacerdote riceveva e trasmetteva messaggi verbali, notizie e denaro, e nel percorso
inverso raccoglieva parimenti informazioni in Italia da riferire poi in Svizzera al suo rientro21. Infatti i messaggi scritti inviatigli dai rifugiati che gli
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Riccardo Ajolfi
affluivano a Loverciano, spesso contenenti anche piccole somme di denaro
da inviare ai parenti in Italia, venivano trascritti da Camponovo su biglietti di carta velina con una grafia minutissima, a volte anche avvalendosi di
tecniche crittografiche, e poi occultati facilmente tra le pagine dei suoi breviari22. Gli indirizzi dei destinatari italiani corrispondevano per una parte a
nomi di santi, e per l’altra erano integrati quindi mentalmente dalla notevole memoria posseduta da don Felice.
Suo collaboratore sul versante italiano era il titolare di un negozio di
oggetti sacri a Como, Carlo Beretta, che si incaricava di ritrascrivere in forma di lettere le notizie portate da Camponovo, spedendole poi per posta,
debitamente affrancate, alle famiglie. I famigliari dei rifugiati utilizzavano
a loro volta l’indirizzo del Beretta come centrale di raccolta delle loro corrispondenze destinate in Svizzera. Nonostante i sospetti delle autorità e delle
guardie confinarie della Rsi, non fu mai trovato nulla addosso al sacerdote, che poté così continuare la sua attività dal gennaio 1944 fino alla Liberazione, tranne una breve interruzione nel mese di maggio.
In tutto questo traffico entrambe le organizzazioni, di don Bonanomi e
don Camponovo, rappresentavano uno degli anelli, ancorché il più cruciale, di una lunga catena della solidarietà per la raccolta di denaro e messaggi, rispettivamente rappresentata dai cappellani dei campi di internamento per il tramite della curia di Lugano, da una parte, e dai sacerdoti di parrocchie del Nord Italia connesse, dall’altra, che poterono avvalersi nel loro
operato della conoscenza approfondita sia del territorio che di quegli abitanti affidabili e disponibili alla collaborazione.
Numerose furono però altre organizzazioni religiose, cattoliche e protestanti, che svilupparono forme articolate di assistenza ai rifugiati, fornendo loro pratica religiosa, possibilità di lavoro, generi materiali di prima necessità (vestiario, scarpe, integrazioni alimentari, ecc.), attività ricreativa o educativa, assistenza sanitaria e anche corrispondenza. Citiamo:
la Young Men Christian Association, la Schweizerischen Katolischer JungmannschaftVerband, la Caritas e l’Organizzazione Cristiano-Sociale Ticinese, cui si affiancavano altri centri laici, quali: il Service d’Aide aux Internés et Hospitalisés en Suisse e il Comitato Italiano di Cultura Sociale.
Alcune di queste associazioni si occuparono più dell’assistenza sanitaria ai malati presso ospedali e infermerie dei campi; mentre altre, come la
SKJV, la YMCA ed il CICS, svilupparono e favorirono soprattutto le attività artistiche, sociali o culturali, organizzando corsi di istruzione di base,
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Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
conferenze e cicli di letture oppure fornendo materiali di studio agli internati, avvalendosi nella loro azione di giovani brillanti e volenterosi presenti tra la popolazione degli internati, di cui valorizzarono le capacità. Queste stesse associazioni cercarono anche di facilitare i contatti tra i profughi,
tramite la pubblicazione di periodici e bollettini sulla vita dei campi – «In
Attesa» fu il più diffuso tra questi, con quasi 6.000 copie di tiratura -, oppure favorendo in vari modi le comunicazioni tra i membri delle famiglie
disperse in campi distanti tra loro o con i parenti in Italia23.
Nel settore di nostro interesse il lavoro complessivo per la corrispondenza clandestina con l’Italia svolto dalla Chiesa cattolica, quella ticinese
specialmente, fu enorme. Ad esempio, un resoconto pubblicato dalla Caritas di Lucerna sul «Giornale del Popolo» dell’11 ottobre 1944 riportava
che esso riguardò circa 8.000 rifugiati con una movimentazione di 1.2001.400 lettere al mese24.
Formazioni partigiane
Anche le formazioni partigiane operanti nelle zone prossime alla frontiera stabilirono linee di contatto frequenti e discretamente regolari con la
Svizzera, in modo autonomo o anche agendo in maniera coordinata secondo modalità prese di comune accordo ed organizzate dal Clnai di Milano.
Le comunicazioni partigiane, a carattere prevalentemente militare o ufficiale e solo più raramente personale, erano assicurate dalle staffette, figure spesso femminili che risultarono essenziali per i collegamenti, e si svolgevano su due registri interattivi rappresentati, l’uno, dalle comunicazioni
interne tra comandi e le diverse unità e bande sparse sul territorio e, l’altro,
da quelle internazionali con la Svizzera25.
Ci limiteremo in questa sede ad accennare alle comunicazioni con
l’estero, chè altrimenti il discorso per la sua vastità e complessità esulerebbe dal tema principale oggetto dell’analisi, fornendo qui un esempio di organizzazione di tale servizio in una zona dell’Ossola, quella relativa al versante orientale della val Antigorio lungo il crinale di confine con la val
Maggia nel Canton Ticino, basandoci sui ricordi di un partigiano avente
all’epoca funzioni di staffetta26.
Nell’Ossola i collegamenti erano strutturati secondo un sistema a tappe, tramite collettori e staffette assegnati specificamente al compito, secondo questa sequenza: Novara-Domodossola; Domodossola-Crodo; Crodo13
Riccardo Ajolfi
alpeggi lungo i crinali montani di confine con il Canton Ticino-Svizzera.
Sulle montagne erano infatti dislocate delle postazioni fisse semipermanenti con uno-due addetti alla ricezione e trasmissione dei messaggi e con
funzioni di controllo del territorio.
I dispacci, contenenti in genere documenti di servizio e comunicazioni
ufficiali destinati al Cln di Lugano, ma talvolta anche lettere private, giungevano alla postazione in media due volte la settimana con un corriere dal
fondovalle che li consegnava al partigiano ivi di turno. Questi si incamminava fino ad una della casermette doganali svizzere di confine - Alpe del lago Gelato e Cimalmotto, le più vicine - dove cedeva ai doganieri il plico,
che veniva depositato nella loro stazione in attesa di essere successivamente
ritirato da emissari provenienti da Locarno o da Lugano, in base ad accordi, ancorchè ufficiosi, intercorsi tra i membri del Cln di Lugano e le autorità confinarie elvetiche, oppure in altri casi gli stessi doganieri provvedevano a spedirlo con la posta in una sede precedentemente convenuta.
Oltre che dalle persone del luogo buone conoscitrici del territorio, anche altre figure si prestarono a svolgere attività di corriere, quali: rifugiati o
sfollati provenienti da varie zone d’Italia, sacerdoti, contrabbandieri e pure
cittadini elvetici nelle zone prossime al confine diedero il loro apporto come guide o come messaggeri27. Va sottolineato inoltre che strettamente intrecciate alle reti più specificamente comunicative sviluppate dai partigiani, e talvolta ad esse sovrapponibili per modalità esecutive e protagonisti
coinvolti, operarono anche quelle dei servizi di informazione svizzeri o alleati, come la rete che il capitano Guido Bustelli impiantò in Italia tramite
informatori-corrieri, costituiti per la più parte da ufficiali rifugiati, che con
frequenza varcavano il confine clandestinamente avvalendosi spesso dell’aiuto dei contrabbandieri28.
Associazioni politiche, sociali o civili
Alcuni partiti politici svilupparono sistemi di collegamento attraverso
il confine, e tra questi quello comunista e socialista furono i più efficienti
nello stabilire comunicazioni costanti e regolari con l’Italia, in virtù del loro alto grado di coesione interna e di capacità organizzative. Essi seminarono su un terreno già arato, i cui solchi erano stati preparati dai rifugiati
politici antifascisti del periodo prebellico, di cui ampliarono la rete di contatti adattandola alle esigenze determinate dalla guerra.
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Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
Gli esuli politici già presenti in Svizzera ed in Francia fin dalla fine degli anni venti, e successivamente corroborati da nuovi arrivi nel decennio
seguente, avevano creato una prima struttura di collegamento per favorire
sia l’immissione in Italia di opuscoli e stampati propagandistici o la fuga di
persone ricercate o in pericolo che la raccolta di notizie mantenendo relazioni con gli oppositori rimasti in patria.
«Tali gruppi agivano in stretto collegamento con sistemi uniformi,
coordinati da un unico centro di riferimento e le cui sedi periferiche si troverebbero, oltre che in varie località della Svizzera e in Italia, a Domodossola, Ventimiglia e Chiasso», sottolineava una circolare del 21 luglio 1927
dell’Ufficio per la Polizia di frontiera e dei trasporti inviata ai prefetti di
diverse città italiane vicine ai confini29. Su questa base le formazioni politiche svilupparono un fitto traffico di corrispondenze clandestine, invano
ostacolato dalle autorità italiane, tramite l’ausilio di emissari addestrati nel
consegnare e ricevere plichi, spesso operando con la complicità di abitanti del luogo, che gli fornivano appoggio logistico mettendo a loro disposizione case o baite in montagna o negozi da servire anche come deposito
di pacchi e lettere30.
Tra le organizzazioni a carattere sociale, particolarmente attiva fu invece quella di matrice socialista del Comitato di soccorso operaio, la cui sezione ticinese, presieduta da Guglielmo Canevascini, svolse numerose iniziative di aiuto e assistenza ai rifugiati italiani, grazie al supporto finanziario di offerte spontanee dei sindacati e di lavoratori ticinesi e a sovvenzioni di altre associazioni, quali l’Unitarian Service Commitee e l’American
Friends Service, con sede entrambe a Ginevra. Rientrò nei suoi numerosi
e diversificati campi di intervento il compito di provvedere, grazie alla collaborazione di numerose famiglie luganesi, alla raccolta, smistamento e invio di corrispondenze e notizie per i rifugiati31.
Iniziative private
Variegate forme di solidarietà spontanea furono sviluppate da numerose componenti della popolazione civile, italiana e svizzera, le quali, fra le
molte altre iniziative, nell’ambito delle comunicazioni epistolari si concretizzarono con l’attivazione di reti di collegamento transfrontaliere, operanti secondo modalità simili a quelle prima descritte.
Funzioni di corriere o di collettore venivano svolte anche da persone di
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Riccardo Ajolfi
ceti socio-culturali elevati, a testimonianza della diffusa partecipazione e
solidarietà in favore dei rifugiati. È questo il caso, per citarne uno tra molti, dell’avvocato Antonio Cettuzzi32, egli pure rifugiato, che utilizzò la ditta Melisa di Lugano anche come centro di raccolta di corrispondenze clandestine, e il cui recapito veniva riportato dai corrispondenti nelle loro lettere per darne conoscenza ai destinatari e permettere così l’allacciamento
della rete comunicazionale.
Il suo fascicolo nel fondo Internati racchiude la documentazione, costituita da rapporti ufficiali e da un nucleo eterogeneo di corrispondenze, relativa ad un episodio di storia «minima» di quel periodo e ciò ci permette
ora di gettare una sottile lama di luce su certi aspetti relativi a come molti di questi piccoli rivoli di carta, proveniendo disordinatamente da zone
diverse della penisola, trovavano in modo apparentemente fortuito l’alveo
più sicuro che li avrebbe portati nella giusta direzione finale.
La vicenda, nella ricostruzione delle carte d’archivio, ruota intorno ad
una valigia, inoltrata all’avvocato dall’Italia, risultata ad un controllo di
ispezione della polizia elvetica contenente lettere da varie località italiane
destinate ad internati diversi, ed è caratterizzata dalla contrapposizione tra
il Cettuzzi, da una parte, nella cui memoria difensiva si dichiarava all’oscuro di tale traffico affermando che le missive fossero state inserite nella valigia a sua insaputa, e il rapporto della polizia doganale, dall’altra, in cui si riscontrava che alcune delle missive riportavano nel testo l’indirizzo del recapito comunicato dall’avvocato alle autorità e corrispondente a quello della libreria Melisa33. Visti in filigrana sono quegli stessi elementi che invece
denotano familiarità con le spedizioni di contrabbando e prassi consolidate nel tempo a favore di un utenza discretamente diffusa e diversificata.
Generalmente gli intermediari delle missive non avevano una struttura altamente organizzata alle loro spalle ed il loro operato era pertanto meno selettivo, in quanto rivolto a soddisfare le esigenze di gruppi di rifugiati
meno definiti, più limitato e caratterizzato dal trasporto di modesti quantitativi di lettere per la mancanza di periodicità regolare dei loro passaggi
attraverso il confine34.
Altre volte, invece, l’attività dei corrieri clandestini presentava un minore livello di estemporaneità, svolgendosi con metodiche operative più
organizzate e coordinate, presenti frequentemente nelle «centrali postali» a
maggiore livello organizzativo, quali la registrazione degli indirizzi dei corrispondenti e del traffico di corrispondenze; l’attenzione prestata alle va16
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
rie fasi del passaggio di mano in mano delle lettere con istruzioni per i successivi vettori o collettori incaricati della rispedizione o, anche, l’utilizzo di
messaggi in codice.
Si trattava di «microiniziative» private, della cui esistenza i rifugiati e la
popolazione italiana venivano a conoscenza con il fenomeno del «passaparola» e tramite rapporti interpersonali, raggiungendo più spesso persone di
piccoli centri ove più rapide era la circolazione orale delle informazioni e
più stretti i vincoli parentali e di appartenenza alla comunità.
Talune di queste centrali offrivano un servizio a pagamento, e la più significativa fu quella diretta da Battista Barella che da Lugano organizzò un
collegamento regolare da e per l’Italia tramite l’utilizzo di spalloni della val
Solda, prevedendo una tariffa «a forfait» di 4 franchi valida per la spedizione di una lettera in Italia e relativa risposta. Il suo «ufficio» corrispondente in Italia era l’abitazione della madre e della sorella, in val d’Intelvi, che
si occupavano dello smistamento e della distribuzione delle lettere. Il loro
raggio d’intervento comprendeva Como e le sue zone limitrofe, la città di
Milano e arrivava fino a Brescia, ove si appoggiavano all’Arcivescovado per
l’ulteriore prosecuzione delle missive fino al destinatario35.
Scendendo nella scala organizzativa troviamo i canali clandestini individuali, e nel loro ambito alcuni di essi si svilupparono secondo prassi relativamente stabili e continuative. Il sistema messo in atto da Gian Carlo Pozzi, partigiano bergamasco e internato in Svizzera, si può considerare
emblematico sia di come si stabilivano i primi contatti, sfruttando circostanze del tutto fortuite, che anche per la loro regolarità e versatilità rispetto a circostanze avverse36:
[…] mi venne in aiuto una donna della Bergamasca, che era la moglie di un ticinese
che gestiva un’orologeria a Chiasso, in via Bossi. Si chiamava Elena Pasta, oriunda di
Sorisola, un borgo di collina a 7 km da Bergamo. L’avevo conosciuta in casa di mio zio,
dove la sorella si recava periodicamente a trovarlo. Fu lei a stabilire con prestezza un canale di comunicazione con Bergamo. Dai campi di internamento bazzicati, da Lugano
a Montreux, da Gurnigel Bad a Rohrbach, mandavo a casa e ricevevo biglietti e lettere continuativamente trasmessi dalla premurosa intermediaria tramite un corriere affidabile (un ferroviere viaggiante oltre frontiera, supponevo). E quando ne aveva l’autorizzazione era la stessa Elena a passare il confine per far visita ai parenti. Il trasporto
dei messaggi mantenne un ritmo pressappoco mensile e non subì intercettazioni né disguidi in Svizzera o in Lombardia […]. Dopo qualche mese l’intermediaria all’improvviso mi informò che il suo corriere si vedeva costretto a smettere, ma il silenzio durò
poco, perché lo scambio epistolare riprese battendo altra strada, grazie all’ingegno e al17
Riccardo Ajolfi
la sagacia della generosa compaesana con passaporto svizzero. […].
Élites
Le élites italiane, politiche, economiche o appartenenti al milieu culturale dell’epoca, espatriate in Svizzera occupano dal punto di vista della nostra ricerca un livello autonomo e si collocano in posizione eccentrica nell’universo delle comunicazioni di emergenza prima delineato. Differenti le
caratteristiche dei mittenti e dei destinatari, il contesto socio-culturale e relazionale entro cui i loro membri vissero, gli stilemi testuali dei messaggi ed
i registri linguistici utilizzati37.
La posizione di evidenza nell’ambito sia della popolazione degli espatriati come dello stesso contesto sociale elvetico e la considerazione di cui
esse generalmente godevano in Svizzera sono bene evidenziate in una lettera del colonnello Bolzani, Comandante del Comando Territ. 9/b, a Ezio
Vigorelli38: « […] se tutti gli italiani fossero come lei non ci sarebbe bisogno sicuramente di alcuna azione di controllo perché appartenente ad una
classe di persone eletta […]». La rete di relazioni sviluppate dalle élites italiane con personalità della società svizzera contribuirono, tra l’altro, ad
aprire gli ambienti culturali locali a nuove e più aggiornate tendenze39.
L’ansia di comunicazioni, il senso di isolamento e di impotenza, le difficoltà a mantenere i contatti con la madrepatria rientravano però pienamente tra le molteplici preoccupazioni suscitate dall’esilio anche tra gli intellettuali e le personalità del mondo economico, imprenditoriale o politico. Il filologo Gian Franco Contini, tra altri, facendosi partecipe di tale
profondo coinvolgimento emotivo e del clima psicologico spesso esasperato presente tra gli internati, durante il suo periodo di permanenza in Svizzera fece spesso da tramite fra coloro che gli si rivolgevano per avere notizie
dei compagni, interessandosene di persona e non facendo mancare da parte sua il sostegno o l’incoraggiamento per quelli che più avvertivano i disagi di quei momenti difficili40. In genere gli esponenti della cultura, della finanza o della politica si avvalsero di propri canali di contatto per le comunicazioni epistolari con l’Italia, talvolta utilizzando anche una delle «comuni» reti di contrabbando, specialmente laddove queste si intrecciavano
con i primi. Più raramente si verificò il percorso inverso, di cui Paolo Bologna racconta un esempio a proposito di un contatto da lui stabilito durante
l’internamento con l’onorevole Luigi Gasparotto, per il tramite di un ami18
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
co, nipote dell’anziano uomo politico. Fu così possibile al ramo ossolano
della famiglia Bologna lanciare un ponte con un loro congiunto a Roma,
riuscendo a far pervenire una lettera a lui diretta tramite Gasparotto, quando questi fu chiamato a Roma per entrare nel governo Bonomi41.
Il caso dell’Ossola
Il territorio ossolano, specialmente dopo la rioccupazione nazi-fascista, fu sottoposto ad un ferreo controllo nei rapporti con la Confederazione, imponendosi nuovamente il blocco delle comunicazioni postali dirette, precedentemente in vigore nella Zona Libera dell’Ossola, e con aperta
solo la via di Monaco di Baviera oppure quella per il tramite della Croce
Rossa, in una situazione particolare caratterizzata dalla presenza di migliaia
di ossolani fuggiti e colà internati nei campi. Come in altre zone di confine con la Svizzera, anche in Ossola si andò presto sviluppando un sistema
di comunicazione clandestino tra la popolazione rimasta in Italia e quella espatriata42. A metà strada tra le forme di corrispondenza a carattere organizzato, riguardanti ampi gruppi eterogenei, e quelle costituite dagli invii del tutto occasionali, su base strettamente individuale, troviamo le reti comunicative stabilite all’interno di popolazioni circoscritte o da nuclei
famigliari. Sulla spinta convergente dei congiunti rimasti in Ossola e degli
internati nei campi elvetici fu creata una sorta di servizio con corrieri che
si prestarono a farsi latori di corrispondenze e piccoli pacchi nelle due direzioni, permettendone la consegna ai vari destinatari e saltando il normale canale postale e la censura.
Il flusso epistolare alternativo, già iniziato durante i primi mesi della
Rsi e continuato, seppure in misura minore, anche durante il periodo della liberazione dell’Ossola, crebbe d’intensità e nel ritmo degli scambi dalla
metà di ottobre 1944 fino a giugno 1945. Esaminando la documentazione epistolare e gli altri materiali si possono enucleare, analizzandoli in dettaglio, i temi comunicazionali sottesi a tale specifico caso43.
L’organizzazione privata: il contatto
Il sistema prima accennato trova la sua chiara enunciazione organizzativa, con l’indicazione dei principali elementi costitutivi, in questa lettera
di Sebastiano Ferraris44: «ora ti spiego come ci è pervenuto: la signora Be19
Riccardo Ajolfi
vernice prima di uscire dalla Svizzera, si trovava dalla mamma [residente in
Svizzera] di Pellanda di Preglia e nostro compagno. Appena giunta in Italia ha dato allo zio l’indirizzo della signora Pellanda; lo zio ha scritto questo biglietto che è giunto a lei e che poi in una lettera spedita a suo figlio
ce l’ha fatto avere». I canali di comunicazione esplorati furono diversi ed i
corrispondenti dovetterro tentare numerose strade, non tutte con esito positivo, prima di trovare il contatto più affidabile e continuativo. Scriveva
don Antonio Vandoni a Paolo Bologna, a proposito dei tentativi esperiti
per contattare sua madre in Italia45: «Ho anche pregato e pagato uno rientrato in Italia perché trovasse il modo di farla [la madre] mettere in comunicazione con me, ma finora nulla». Analogamente le lettere in partenza
dalla Svizzera dovevano seguire un percorso in più tappe intermedie, fino
a trovare il canale corretto per giungere a destinazione oltre frontiera: passaggio più rischioso rispetto a quello in direzione inversa, in quanto le missive, dopo aver attraversato la frontiera, non sempre potevano essere avviate attraverso il servizio postale italiano, dovendosi quindi necessariamente
consegnarle di persona al destinatario. Così, nella stessa lettera, il sacerdote citato prima si affidava a tal proposito al suo corrispondente del campo:
«[…] unisco un biglietto per lei [la madre in Italia] e veda ella come può
farglielo pervenire». Difficoltà di contatto erano state comuni anche alle
altre zone di confine che effettuarono il trasporto clandestino di corrispondenza con modalità analoghe e che coinvolse tutti i ceti sociali, accomunati dalla medesima tensione nella ricerca46.
Il passaggio oltre frontiera
La documentazione scrutinata fa emergere una tipologia di emissari diversificata. Per l’Ossola a fare da corrieri furono molto spesso ferrovieri, addetti alle tratte internazionali presenti in zona: quella del Sempione, verso
Briga (Canton Vallese) e la Vigezzina, verso Locarno (Canton Ticino). Per
loro era meno difficile il transito della frontiera o l’affidare i plichi al personale svizzero del cambio47. In particolar modo i macchinisti ed il personale viaggiante si prestarono sistematicamente al trasporto di missive oltre
confine, risultando essenziali per il mantenimento di regolari comunicazioni48. Anche alcuni elementi direttivi delle ferrovie ebbero un ruolo come corrieri, tra le altre loro attività in favore della resistenza.
Il direttore della ferrovia Vigezzina, ad esempio, si prestò con una cer20
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
ta frequenza anche a tali traffici «postali», organizzando viaggi con corse di
treni speciali per il contrabbando, non sempre coronati dal successo, come avvenne il 1° ottobre 1944 quando gli furono sequestrate lettere e merce illegale. Tale Wanda Beltramini, fermata dalla polizia svizzera nella medesima circostanza, diede dell’episodio una dettagliata descrizione testualmente riportata nel verbale49: «[…] la sera precedente mi incontrai all’albergo Helios con l’ing. Ballarini, direttore del tronco ferroviario italiano
della Locarno-Domodossola, seppi da questi che all’indomani avrebbe organizzato un treno speciale del quale avrei potuto usufruire senza fermate fino a Domodossola salvo quella del confine. Il signor Ballarini organizza sovente di queste corse tra Domo e Locarno utilizzando solamente il locomotore per le sue relazioni di servizio con la Direzione di Locarno.[…]
Io ero perfettamente all’oscuro di quanto l’ing. Ballarini aveva fatto e seppi alla Dogana della sua fuga perché provocò il mio arresto. […] Siccome
io minimamente dubitavo che il sig. Ballarini avesse nascosto nel locomotore merce da sottrarre al controllo doganale così tranquillamente accettai
la sua offerta di viaggio […]».
Si trattava però di un vero gioco delle parti, in quanto la Beltramini stessa svolgeva attività di corriere in favore della resistenza. Infatti, in
una precedente domanda ove le si chiedeva se si fosse occupata di portare messaggi in Italia o dall’Italia in Svizzera per altre persone, aveva risposto: «Amici miei e di mio marito che erano a conoscenza dei miei viaggi a
Domodossola mi consegnavano lettere per essere recapitate ad amici che
si trovavano laggiù».
In altri casi furono incaricati del trasporto persone legate a rapporti di
amicizia diretti con i destinatari o con i mittenti. Puntuale riferimento in
tal senso lo troviamo in una lettera50: «[…] a mezzo di quel nostro compagno, che abita a Varzo, cercheremo di sapere notizie della nostra casa».
Un ruolo fu pure svolto dai sacerdoti, anche se nell’Ossola sembra abbiano avuto un’importanza minore nello specifico settore rispetto alle organizzazioni gestite da religiosi nel Varesotto e Comasco, descritte nel capitolo precedente51.Tra gli altri, don Gaudenzio Cabalà, una delle figure di
spicco durante tutto il periodo ed in particolare nei turbinosi avvenimenti
della repubblica ossolana, nelle sue numerose azioni di sostegno per le popolazioni locali e per le formazioni partigiane si occupò anche di fare da
tramite per comunicazioni e notizie: «[…] mi trovavo spesso all’arrivo dei
treni a Locarno stazione delle Ferrovie Federali e a quella del treno di Do21
Riccardo Ajolfi
modossola. Allorquando arrivavano queste persone chiedevo e davo quelle
indicazioni necessarie per il loro indirizzo»52.
I contrabbandieri, che con le loro briccolle percorrevano i numerosi valichi di montagna colleganti l’Ossola con il Ticino od il Vallese, svolsero
questo tipo di consegne, più saltuariamente perché il loro servizio era oneroso, facendosi questi in genere pagare per il trasporto delle missive, considerate come qualsiasi altra merce53.
In ultimo, persino le guardie confinarie e doganali svizzere, cui venivano
consegnati lettere o piccoli pacchi, si premuravano spesso, dopo il controllo, di avviarli a destinazione con la Posta Svizzera54.
Una volta superato clandestinamente il confine, gli invii venivano affidati a intermediari privati sicuri, conosciuti ai corrieri e situati vicino al
confine o nelle località maggiori, come Locarno, Lugano, Briga, oppure talvolta consegnati direttamente alla Casa d’Italia in Lugano, un’istituzione semiufficiale del regime fascista con compiti anche propagandistici
e che durante la guerra era stata adibita dalle autorità svizzere a campo di
smistamento55.
Gli intermediari agivano da collettori-rispeditori56 e il loro compito era
quello di includere le varie missive entro buste, unendovi talvolta anche
delle proprie lettere, che poi avviavano con il servizio postale elvetico nelle località sede dei campi di internamento in cui si trovavano i destinatari
originari con i quali erano in relazione.
Uno di questi agenti collettori era tale Celestina Silacci, giovane cameriera dell’osteria vicino alla stazione di Camedo, la prima in territorio svizzero della ferrovia Vigezzina, che costituiva il canale di raccolta degli invii anche della famiglia Bologna, insieme a molti altri. All’epoca lei aiutava
la sorella più grande, Velia, che aveva i compiti di maggiore responsabilità
e di coordinamento, nella gestione disinteressata del traffico di corrispondenze e piccoli pacchi, contenuti in involti anonimi di carta, consegnati
loro alla stazione dai ferrovieri e macchinisti provenienti dall’Italia. I plichi venivano poi ritirati dalla sorella, la sola ad essere in relazione con i vari destinatari delle missive. Inoltre, periodicamente Celestina riceveva la
commissione di recarsi a Locarno, probabilmente per non destare sospetti nelle guardie confinarie locali, a consegnare ad altri intermediari di fiducia plichi e pacchetti, di cui ignorava il reale destinatario, per l’ulteriore prosecuzione57.
Gli indirizzi degli intermediari venivano fatti conoscere, con le dovute
22
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
cautele, agli internati o ai loro corrispondenti in Italia, perché potessero a
loro volta dare istruzioni ai corrieri; in tal senso il nostro scriveva al padre,
inviandogli una lettera per il tramite della madre58: «papà carissimo, non
so quando ti giungerà questa mia lettera, dal momento che non conosco il
tuo indirizzo [….] se avessi bisogno di qualcosa potresti rivolgerti a Villa;
ecco il suo indirizzo : Villa Gian Luigi, via Canonica 11, Lugano.»
Analoga triangolazione venne sviluppata dalla famiglia di Paolo Bologna, tramite la madre rimasta a Domodossola: «[…] con comprensibile
emozione vidi quella busta con l’inconfondibile grafia di mia madre […]
in quel breve accorato messaggio venivo tranquillizzato sulla situazione di
Domodossola e apprendevo che papà era ad Adliswil e che con lui si era già
stabilito un contatto grazie alla famiglia Brustia-Dell’Oro di Domodossola e i cugini Dell’Oro-Germanini di Briga»59.
Non sempre il viaggio delle missive, partite dall’Italia, terminava con il
primo campo di internamento. Talvolta, per motivi diversi, quali il trasferimento del destinatario o la non conoscenza in Italia dell’esatta ubicazione dello stesso, la posta veniva ulteriormente rispedita verso altra località
a cura di persone del campo in possesso di informazioni utili. In frequenti
occasioni i rifugiati, soprattutto quelli che erano riusciti a stabilire relazioni abbastanza regolari con i parenti in Italia, si prestarono volontariamente
a svolgere operativamente funzioni di collettore per la ricezione delle notizie, lo smistamento e l’ulteriore rispedizione in altro campo.
Taccuini, biglietti o agende con elenchi fitti di indirizzi, nominativi, indicazioni in codice e glosse sparse a occupare ogni spazio utile del foglio
erano gli strumenti d’uso di questa postalità estemporanea. I più organizzati, per necessità indotta anche dai quantitativi di lettere trattate e dal numero di utenti serviti, tenevano dei registri giornalieri con l’elenco delle
corrispondenze in arrivo e di quelle in partenza ed i relativi indirizzi60.
Gli internati si adoperavano, inoltre, di estendere la rete e contattare
mano a mano un numero crescente di conterranei, ponendoli in relazione
tra loro secondo un processo solidaristico spontaneo a ramificazione progressiva61. Così, ad esempio, Sebastiano invitava i propri genitori ad attivarsi per trovare un canale di contatto con i genitori di un suo amico, internato nello stesso campo, privo di notizie dei suoi familiari da lungo tempo62: «[…] sarebbe bella cosa davvero che poteste mettervi in comunicazione coi suoi genitori».
Simili forme di solidarietà tra i rifugiati furono operanti anche in al di
23
Riccardo Ajolfi
Una pagina del diario tenuto da Paolo Bologna durante il suo periodo di internamento. Le fitte colonne di indirizzi relativi a missive inviate o in transito sono indicative del suo ruolo di forwarder.
fuori della comunità ossolana, tramite analoghe reti di collegamento, basate specialmente su legami parentali o di amicizia63.
Il servizio postale del campo
La corrispondenza, una volta entrata in Svizzera, quando non veniva
consegnata direttamente a mano all’interessato in punti convenuti esterni al campo, viaggiava anche con i normali canali postali fino alla rispettiva destinazione.
Nei campi di internamento funzionava un ben organizzato servizio postale interno che, dopo averla sottoposta al controllo di censura, provvedeva allo smistamento della corrispondenza in partenza ed in arrivo con orari di consegna e ritiro stabiliti e rigorosamente fatti rispettare64: «[…] scusa se ho scritto a matita e in fretta, ma se non facevo così la lettera sarebbe partita solo domani».
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Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
Il momento cruciale della consegna della posta al campo rimase indelebile nei ricordi dei rifugiati, che così a distanza di anni uno di loro ne
rende ancora efficacemente il clima: «[…] con militare burbanza la virago
[l’addetta al servizio di fureria per la distribuzione della posta] mi fece sapere che la posta si distribuiva più tardi, poco prima della “galba” [è il nostro rancio nell’imprevedibile lessico dei militari ticinesi]: fine della comunicazione65».
L’intero traffico postale degli internati passava per l’ufficio postale del
campo ed era regolato da specifiche ordinanze. Agli internati era vietato
valersi della posta civile e delle buche lettere all’esterno del campo66. Erano
previste tutta una serie di limitazioni ulteriori, come spedizioni di cartoline, di monete o di biglietti di banca e, inoltre, dettagliati regolamenti interni dei campi e disposizioni generali stabilivano la condotta della popolazione civile nei confronti degli internati, con il divieto, tra l’altro, di spedire o recapitare loro lettere.
Pur essendo le trasgressioni passibili di sanzionamenti severi, sia verso
gli internati che nei confronti dei cittadini elvetici, queste ultime disposizioni vennero in larga parte disattese, da ambedue le parti, come risulta ad
evidenza dai casi descritti nei paragrafi precedenti.
Le informazioni sull’organizzazione ed il funzionamento del servizio
postale del campo venivano fornite da uno speciale ufficio «posta da campo - internamento - quesiti postali»67. Lettere e cartoline, se dirette agli internati dei campi, godevano della franchigia postale svizzera e infatti Sebastiano si premurava di segnalare in nota alla madre68: «Le lettere ai militari
sono in franchigia. Sta tranquilla».
Le autorità svizzere, oltre alla franchigia, fornivano agli internati militari anche parte del materiale scrittorio (fogli da lettera, buste e altri supporti), in ciò supportate per le forniture aggiuntive da molte associazioni religiose, a dimostrazione di come anche nell’assistenza materiale ai rifugiati, compreso l’occorrente per scrivere, queste associazioni svolsero un ruolo di primo piano69.
I flussi epistolari
Accenni al ricevimento di lettere o biglietti con notizie dall’Italia si susseguono frequentemente nel carteggio Ferraris e in certi periodi praticamente ogni messaggio del corpus contiene un riscontro a movimenti di let25
Riccardo Ajolfi
tere. Espressioni anaforiche che in quelle circostanze, oltre ad obbedire ad
uno stereotipo comunicazionale collegato alle forme del corretto modo di
scrivere e ormai interiorizzato, soddisfacevano alle esigenze di rassicurare i
destinatari circa l’esito e la regolarità delle notizie.
Alcune di queste noticine erano rassicuranti: «[…] ho ricevuto scritti
dagli amici in Italia», altre molto meno: «[…] oggi un nostro compagno
di Ornavasso ha ricevuto dall’Italia la notizia che sono stati impiccati 13
uomini presi come ostaggio» o ancora: «Oggi un nostro amico ha ricevuto
dall’Italia una lettera di sua sorella, nella quale gli comunica che una donna e parecchi uomini sono stati fucilati a Piedimulera»70. La componente di solidarietà e di comune sentire, come partecipi dello stesso destino, è
spesso presente in questi scritti71: «[…] nella prima lettera che ci scriverai,
aggiungi che hai fatto sapere notizie ai suoi che lo salutano. Di’ che non
hanno potuto scrivergli, perché non ci stava più nella lettera il loro biglietto […] così per un poco il nostro amico non starà più in ansia».
Dall’analisi testuale di questi scritti si possono ricavare elementi che
sembrano indicare come la circolarità del flusso di comunicazioni, anche
in direzione verso l’Italia, non presentò prolungate soluzioni di continuità nel ritmo e che il cosiddetto giro di posta fu abbastanza regolare e rapido nei tempi.
Sui volumi di tali flussi di corrispondenza per l’Ossola non si può esprimere una valutazione, in quanto troppo scarsa e slegata è la documentazione epistolare venuta alla luce, la maggior parte essendo andata probabilmente dispersa o, se esistente, non ancora resasi disponibile allo studioso.
La dimensione di questo traffico fu certo considerevole, come per il resto
del territorio italiano confinante con la Svizzera, e molti ossolani rifugiati riuscirono ad avere contatti, almeno saltuari, con elementi delle loro famiglie in Italia72.
Disguidi
L’insicurezza dominava su tutto questo traffico di corrispondenze, e il
mittente, per lo più sconoscendo i casi specifici di disviamento, ne avvertiva però la sensazione generale di rischio73: «[…] tento mandare a Bellinzona questa mia nella speranza che ti possa pervenire.[…]».
Diverse potevano essere le difficoltà cui andavano incontro le missive
durante i numerosi passaggi di mano: smarrimento delle lettere, incuria
26
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
del messaggero o, ancora, disguidi connessi ai trasferimenti frequenti degli
internati o all’indisponibilità improvvisa di un corriere: «[…] in una delle
tue lettere ci dicevi che quel ferroviere è stato trasferito74».
La causa principale del mancato recapito delle lettere era comunque
quella dell’intercettazione alla frontiera sia ad opera delle guardie doganali o confinarie elvetiche sia, potenzialmente molto più pericolosa, dei militi della Rsi o delle pattuglie tedesche75. Il trasporto di corrispondenza al
di fuori del canale postale, e dei relativi controlli di censura, era vietato in
base alla legislazione generale sul servizio postale in Italia nonché alle normative emanate dalla Rsi e dall’amministrazione tedesca, con l’aggravante
nel caso degli espatriati italiani che si trattava di persone considerate fuorilegge76.
Il Comando Territoriale Svizzero, a sua volta, fu incaricato di esaminare tutta la corrispondenza clandestina intercettata lungo la rete di confine e quella consegnata direttamente alle guardie. Il controllo poteva avvenire anche ad opera della Polizia Cantonale in località all’interno, quando
le autorità svizzere avevano già messo sotto sorveglianza soggetti sospettati
di attività clandestine. È il caso del sacerdote ossolano don Cappini, assegnato dopo l’espatrio dalla curia ticinese alla parrocchia di Russo ove continuò a svolgere attività in favore della resistenza, una cui lettera a lui indirizzata tramite un emissario proveniente dall’Ossola fu intercettata lungo il
percorso e sequestrata77. Invece la maggior parte della corrispondenza, trasportata da messaggeri non incappati negli organi di vigilanza, sfuggiva ai
controlli preliminari e veniva successivamente censurata all’arrivo nei campi, a cura del locale servizio postale.
Le conseguenze comunicazionali
La situazione di incertezza intrinsecamente connessa alle specifiche
modalità di trasmissione delle lettere e al clima del periodo, oltre a spingere i corrispondenti ad una ricerca, ad alto impatto emotivo, di canali affidabili, determinava profonde modificazioni testuali nei documenti epistolari, tramite il ricorso a strategie comunicative di tipo elusivo e ad artifici retorico-linguistici78. La forma testuale assunta dalle lettere mostrava
di adattarsi così alla particolare situazione mediante l’impiego di sottintesi,
di termini in codice comprensibili solo ai familiari, di perifrasi e di espressioni allusive, e talvolta con il ricorso alla rinominazione di persone e luo27
Riccardo Ajolfi
ghi o ad una struttura espositiva di tipo presuppositivo. Molto frequente
nei messaggi era l’utilizzo di tecniche di dissimulazione elusiva o altruistica
tramite sotterfugi comunicativi79:«[…] per iscritto non posso dire di più»,
oppure in altra lettera: «non so se è prudente farle pervenire anche il mio
indirizzo». Due esempi ove è evidente, oltre la differente motivazione, anche la percezione di una diversa gradazione nelle proposizioni autocensorie: il primo caso, trattandosi di una lettera indirizzata ad altra località della Svizzera, era in relazione al servizio di controllo delle corrispondenze del
campo; il secondo, invece, dovendosi inviare l’informazione alla madre in
Italia, era correlato a timori di intercettazione più gravi con concreti rischi
di possibili rappresaglie.
In contesti diversi, allargando il campo di osservazione a missive clandestine di altre provenienze, si trovano talvolta lettere che includono nel
testo specifiche raccomandazioni «comportative» rivolte a ipotetici terzi
estranei sconosciuti80: «[…] supplico chi leggerà questa di farmi uno o due
messaggi per farci sapere che pà e mà sono sani e salvi e che il passaggio è
andato bene». Modalità di comunicazione peraltro sovrapponibili a quelle che si trovano in molte corrispondenze dei periodi difficili, soprattutto
nel corso delle guerre del XX secolo: dalle lettere scritte dai prigionieri, siano essi militari in campi di prigionia, detenuti civili o deportati, alle missive dei partigiani81. Efficace sintesi del complesso processo comunicazionale prima descritto, con l’enunciazione dei suoi elementi costitutivi qualificanti, è fornita dalle parole di Piero Chiara relativamente alle lettere scritte dagli internati per l’Italia82: «[…] affidate ad un lungo giro di persone,
sempre incerte di arrivare e scritte con prudenza di frasi mascherate».
In tutta questa storia davvero liberatoria appare la comunicazione di
Sebastiano ai suoi, proprio in una delle ultime lettere del carteggio83: «Finalmente riprendono le comunicazioni telefoniche tra l’Italia con la Svizzera, interrotte da ottobre». Era il 27 aprile 1945.
Aspetti paradigmatici del modello ossolano
Nell’ambito delle corrispondenze di emergenza la specificità del caso
ossolano descritto si poggia su alcune caratteristiche socio-antropologiche
che nel corso della trattazione sono via via emerse :
a. concentrazione temporale ed entità numerica della popolazione coinvolta.
28
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
b. relativa omogeneità etnica e geografica del fenomeno.
c. specifico senso di solidarietà e di appartenenza alla comunità.
d. singolarità dell’esperienza storica della repubblica dell’Ossola, anche
in confronto alle altre «repubbliche» partigiane che si svilupparono durante l’estate-autunno del 1944.
e. preesistenza di una vasta rete di rapporti tra i due versanti montani
di tipo affettivo, economico, culturale e storico, che la lotta partigiana nella zona contribuì a rinsaldare, mercé la generale e diffusa solidarietà dimostrata nelle circostanze dalla popolazione svizzera, specialmente da quella del Canton Ticino84. Il quadro delineato fa emergere un ordine dal caos
apparente dell’intreccio di corrieri e rispeditori multipli in successione, di
missive che si incrociano lungo il tragitto e inseguono i destinatari; tutto
era in realtà ben coordinato e funzionale, garantendosi così il flusso delle
notizie tra le due sponde separate dalla guerra.
In questo contesto si impostarono, progressivamente perfezionandosi,
modalità di collegamento tra l’Italia e la Svizzera, non strutturate in un servizio postale istituzionale coordinato e centralizzato, ma su modelli volontari, non gerarchici ed extrastatuali, e al contempo caratterizzati da funzionale interconnessione tra i vari elementi coinvolti nella catena comunicazionale. Mancò pertanto una «regia centrale» che guidasse e canalizzasse i
flussi epistolari attraverso il confine, come invece si verificò nei casi gestiti
Lo schema organizzativo del servizio corrieri descritto nel testo
29
Riccardo Ajolfi
da organizzazioni clandestine. Il modello ossolano si può considerare paradigmatico in virtù del fatto che i messaggi utilizzarono una rete di canali
multipli, variamente intersecantesi, anche appartenenti ad altri sistemi organizzativi, cui afferivano attraverso molteplici contatti sussidiari collaterali. Si può parlare, quindi, di un sistema a «organizzazione diffusa», in cui
la rete di comunicazione si sviluppò a partire da alcuni «nodi» cruciali - nei
casi analizzati rappresentati da alcune famiglie ossolane - attraverso i quali
si innestavano canali secondari di flussi epistolari, permettendo così di ampliare gradualmente la base degli utenti da ambedue le sponde.
L’attività dei corrieri ossolani costituisce pure un esempio di solidarietà
popolare e un riconoscimento ulteriore dell’aiuto prestato dalla popolazione svizzera alle migliaia di espatriati italiani in quei tempi terribili per l’Italia e l’Europa tutta: i poveri aiutarono i più poveri. Infine, volendo tentare anche un approccio semiotico globale al fenomeno delle comunicazioni clandestine nei periodi di emergenza, possiamo formulare un’ipotesi di
comunicabilità sulla base dell’ordinamento dei diversi livelli organizzativi
espressi dai casi esaminati, integrando cosi l’esempio ossolano con quelli
precedenti e contemporanei 85. Si configura pertanto un sistema comunicazionale clandestino strutturato in quattro classi con i relativi sottogruppi, includenti le diverse tipologie «postali» incontrate nel corso dello studio, che qui si propone:
struttura «a rete»
organizzazioni religiose
organizzazioni politiche / partigiane / sindacali
organizzazioni assistenza carcerati
organizzazioni assistenza ebrei
altri tipi di organizzazioni
élites su base socio-culturale o
censuaria
struttura semiorganizzata
popolazioni circoscritte /
ambiti territoriali specifici (caso ossolano)
gruppo parentale
rete amicale
struttura occasionale
individuale, casuale, sporadica
30
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
A conclusione di questa ricerca che ci ha portati in giro tra Svizzera e
Italia seguendo lettere clandestine che aiutarono un popolo di rifugiati a
conservare la propria identità e a non smarrire la sua anima, la centralità dei fenomeni comunicativi, nelle sue diverse e dinamiche articolazioni,
viene efficacemente riassunta dalla definizione di Giacomarra86: «Comunicazione è un concetto ripostiglio dove si ritrova di tutto: treni e autobus,
telegrafi e catene televisive, posta e lettere».
Note al testo
1
Il fondo Internati presso l’Archivio Cantonale del Ticino a Bellinzona (CH) [d’ora in avanti indicato come ACTi] è un cospicuo archivio rappresentato da 13.596 schede raccolte in fascicoli nominativi, la maggior parte (11.600) relativi ad italiani, di cui 3.500 ebrei, 400 partigiani,
350 politici e altri i rimanenti. I fascicoli contengono al loro interno generalmente il foglio notizie compilato al momento del fermo effettuato all’ingresso e il verbale d’interrogatorio; talvolta sono presenti documenti aggiuntivi: relazioni, rapporti e appunti vari redatti da autorità ufficiali svizzere, e, inoltre, memoriali e carte sparse degli internati. In alcuni fascicoli sono
conservati pure saltuariamente lettere e altri oggetti di corrispondenza sequestrati. Informazioni complete su tale fondo si trovano nello studio di Martine Venzi, L’elaborazione della banca
dati del fondo Internati all’ASCT: descrizione, «Bollettino Storico della Svizzera Italiana», 2004,
serie nona, vol. CVII, fasc.II, pp. 525-540.
Il piano della ricerca, ancora in corso, ha utilizzato come base di partenza il catalogo d’archivio - strumento chiave per completezza, precisione e analiticità dei dati raccolti, con preziose
indicazioni aggiuntive preliminari su molti dei fascicoli- effettuando poi un esame sistematico
delle cartelle intestate a nominativi ossolani o del Verbano, o comunque di persone transitate dai valichi di confine dell’Ossola, e in generale su quelle contenenti lettere sequestrate o altri documenti di tipo epistolare.
È inoltre stato visionato il gruppo di 40 lettere, conservate da Antonella Ferraris, che il padre
Sebastiano - all’epoca studente liceale e internato in Svizzera perché arruolato nella formazione partigiana Valdossola di Dionigi Superti e coinvolto nei fatti della «repubblica dell’Ossola»
- scrisse ai suoi genitori, anch’essi internati, tra novembre 1944 e giugno 1945. Nel carteggio,
oltre le notizie pertinenti lo studio, sono trattate varie tematiche che vanno dalla descrizione
dell’atmosfera e dell’ambiente dei campi di internamento, alle annotazioni sulle vicende italiane, ed in particolare su quelle dell’Ossola, con brevi analisi storico-politiche .
Altro archivio familiare messo a disposizione per la ricerca è stato quello privato di Paolo Bologna, anch’egli all’epoca partigiano riparato in Svizzera, dove, insieme ad alcune interessanti
corrispondenze del periodo, sono conservati diari, appunti, buste (raramente presenti negli altri archivi) e cartoncini con elenchi di indirizzi: materiali emersi in continuazione come da un
«cappello a cilindro».
31
Riccardo Ajolfi
Nella trascrizione dei brani riportati ci si è attenuti esattamente al testo originale delle lettere,
indicando fra parentesi quadre le parti omesse non pertinenti allo studio. purtroppo la maggior parte delle lettere conservate in questi archivi sono prive di buste e i pochi supporti (buste, fascette) ancora presenti portano pochi «segni postali», quali bolli, annulli, francobolli, e
ciò per le precipue modalità di trasmissione delle lettere, limitando così la tracciabilità dei percorsi effettuati dalle missive.
La descrizione dei documenti epistolari è stata effettuata adottando le Regole di catalogazione
angloamericane, revisione del 1988, redatte dal Joint steering committee for revision of AACR,
consultate nell’ed. it. a cura di Rossella Dini e Luigi Crocetti, Milano, Bibliografica, 1997, cfr.
cap.4: Manoscritti.
Le abbreviazioni usate sono le seguenti: c.= carta / ms.= manoscritto / ds. = dattiloscritto / f.to
= firmato / p. = pagina / v. = verso / t.p. = timbro postale / s.l. = sine loco / s.b. = senza busta /
n.i. = non identificato / [ ] = integrazione.
Si coglie qui l’occasione per ringraziare Paolo Bologna, Antonella Ferraris, Fabrizio Panzera, direttore dell’Archivio Cantonale di Bellinzona, ed tutto il personale dell’archivio per la collaborazione e la disponibilità dimostrata nel corso delle mie ricerche.
2
Le nuove frontiere storiografiche si caratterizzano per uno sguardo olistico nell’utilizzo delle
fonti, per la cui costituzione non si procede più induttivamente alla raccolta di quantità di informazione e perde di valore l’idea positivistica della storia come ricerca di evidenze oggettive in forma di testi scritti e documenti «ufficiali» di cui controllare l’autenticità. Vengono così compresi nella ricerca come rilevanti: scritti di ogni genere, documenti figurativi, reperti archeologici, documenti orali,statistiche, curve dei prezzi, fotografie, fossili, utensili, ex voto, registri parrocchiali . Si veda al proposito F. Furet, Il quantitativo in storia, in Fare storia, temi e
metodi della nuova storiografia, a cura di J. Le Goff e P. Nora, Einaudi, Torino 1981.
3
Cfr. A.Molinari, La Resistenza tra evento e racconto.Storie e memorie inedite del partigianato ligure in «Storia e Memoria», 1997, 1, pp. 31-57.
4
M. De Certeau, La scrittura dell’altro, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 85.
5
Tra maggio e agosto 1944 ci furono ripetute azioni condotte dai partigiani contro entrambe
le linee che collegano da sud Domodossola (Milano-Domo e Novara-Domo), tanto che nella metà di agosto il traffico ne fu quasi completamente paralizzato. Azioni che il comando tedesco si impegnò a combattere tramite la protezione del tracciato ferroviario con sentinelle e
guardie di pattuglia alla linea, rappresentate da militi della ferroviaria e cecoslovacchi o georgiani. Un quadro completo e particolareggiato delle azioni partigiane nella zona è offerto dal
saggio di Raphael Rues, ricavato essenzialmente dai Tagesmeldungen per la zona SudOvest
(rapporto giornaliero tedesco, presso BaMa RH 31 VI/10). Dattiloscritto inedito [1998], Carte Paolo Bologna.
L’ultima azione di sabotaggio alla linea ferroviaria si verificò ai primi di settembre ed è descritta nei particolari nel volume di V. Beltrami, La Valle dello Strona nella tempesta, Alberti, Verbania Intra 2003, pp.83-85.
6
Leletta D’Isotta, Il diario di Leletta. Lettera a Barbato, Angeli, Milano 1993, p. 63.
7
Fortemente limitativa in tal senso la normativa stabilita durante la Rsi per l’utilizzo del servizio
da parte dei privati: restrizione dei paesi ammessi a corrispondere, restrizioni e divieti all’invio
di alcuni oggetti di corrispondenza – come le cartoline illustrate o le buste in carta quadrettata; consegna delle lettere per l’estero di persona ed esclusivamente all’ufficio postale; modalità di riconoscimento e identificazione dei mittenti, doppia censura – italiana e tedesca, concentramento di tutta la corrispondenza indirizzata all’estero a Verona per il successivo inoltro
al Centro di controllo tedesco di Monaco. Una panoramica dettagliata dei servizi postali durante la Repubblica Sociale con i riferimenti normativi si trova in Luigi Sirotti, Enrico An-
32
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
gellieri, Franco Filanci, Storia Postale d’Italia: La Repubblica Sociale Italiana, Sirotti Editore, Milano 1991, pp. 103-115.
8
Per riferimenti sui rifugiati italiani nel primo periodo, dalla fine degli anni Venti a tutto il decennio successivo, si veda F. Scomazzon, La frontiera tra Italia e Svizzera e la questione dei rifugiati in «Bollettino Storico della Svizzera Italiana», 2004, vol. CVIII, fasc.II. Uno studio esaustivo sul fenomeno complesso e multiforme dell’espatrio italiano verso la Svizzera durante la
II guerra modiale, con l’inquadramento dettagliato dei vari aspetti connessi all’internamento l’assistenza politica e religiosa, l’organizzazione e la vita dei campi, le vicende sociali e culturali
dei rifugiati, la politica di accoglienza delle autorità cantonali e federali - è quello di R. Broggini, Terra d’asilo. I rifugiati italiani in Svizzera 1943-1945, Fondazione per il centenario della Banca Svizzera Italiana, Il Mulino, Bologna 1993.
9
Sul numero esatto del cosiddetto «fugone» delle popolazioni ossolane verso la Svizzera, non
c’è univocità tra gli storici. Claude Cantini indica in circa 30.000 il numero degli espatriati.
Cfr. del medesimo autore. I partigiani dell’Ossola in Svizzera, «Italia Contemporanea», 1983,
150, p. 58. Mentre più recentemente una cifra sensibilmente minore, pur sempre considerevole, quantificata in circa 6.000-7.000 persone, viene fornita da A. Bazzocco, Fughe, traffici,
intrighi, «L’impegno» (rivista dell’Istituto di storia contemporanea di Biella e Vercelli), 2003,
n.70, p. 32.
10
I campi di internamento in Svizzera erano divisi in quattro tipi: di scelta, di quarantena, di accoglienza, di lavoro. Della vita nei campi, in relazione specialmente con la diaspora ossolana,
parla C.Cantini, I partigiani dell’Ossola in Svizzera cit., pp. 57-69. Una raccolta di testimonianze basate sui ricordi di persone che da bambini furono messi in salvo in Svizzera in P. Bologna, Il paese del pane bianco, Grossi, Domodossola 1991.
11
Rispettivamente: lettera di Davide Pugliese allo zio Giacomo, p.so San Giacomo 25 luglio
1944, cit. in Generazione ribelle: Diari e lettere dal 1943 al 1945, a cura di M. Avagliano, Einaudi, Torino 2006, p. 64; ACTi, Fondo Internati, sc. 55.4, fasc. Mentasti P., [lettera] 24 dicembre 1944 [s.l.], [a] mamma e papà [non id.] / non id.- [6] p. su 2 c.; 189x138 ca.- s.b. La
lettera fu sequestrata insieme ad altre sei dalla dogana di Pignara a Piero Mentasti. Cfr. Verbale d’interrogatorio, Bellinzona 4 febbraio 1945.
Piero Mentasti (Mauri), dirigente industriale di Treviglio e rappresentante della DC lombarda,
contribuì durante il periodo della lotta clandestina a dare un’efficiente organizzazione alla DC
dell’Alta Italia e, riuscito ad evadere dopo l’arresto in ottobre, passò la rete il 4 febbraio 1945.
Riferimenti in R. Broggini, Terra d’asilo cit., p. 123.
12
Nella colonia Eritrea , fin dai tempi della prima guerra italo-etiopica (1895-1896), i collegamenti fra le varie località dell’interno, specie quelle fuori dalle principali vie di comunicazione e prive di ufficio postale, erano garantiti da corrieri indigeni adibiti specificamente al servizio trasporto dei dispacci oppure occasionalmente arruolati alla bisogna. Modalità simili anche in Somalia .
L’utilizzo dei corrieri continuò anche nel periodo dell’Impero, proclamato dall’Italia alla fine
della guerra contro l’Etiopia il 9 maggio 1936, soprattutto nei territori dove più scarse erano le
strade e difficili i collegamenti, come nel Galla e Sidama, ove il corriere abissino era adibito al
trasporto di missive a carattere ufficiale inviate dai Residenti, Commissari e altri funzionari del
Governo dell’Amministrazione coloniale.
Testimonianze sulla figura del corriere etiopico e sulle modalità di trasporto delle missive dopo la conquista italiana si trovano in L. Calabrò, Intermezzo africano, Bonacci, Roma Napoli
1988; per il servizio corrieri in Eritrea cfr. S.Maggi, Colonialismo e comunicazioni, ESI, 1996,
pp. 36-39.
13
Fiume, nel periodo del governo di D’Annunzio, fu sottoposta dalle autorità militari italiane
33
Riccardo Ajolfi
ad un blocco terrestre, e parzialmente navale, che ne interruppe le vie di comunicazione ferroviarie e stradali dal resto dell’entroterra e dell’Italia e la posta, in partenza ed in arrivo, veniva esaminata dalla censura militare. Per superare il blocco ed evitare le maglie della censura
D’Annunzio istituì un servizio per la trasmissione delle notizie, di giornali e delle corrispondenze, basato su una rete di messaggeri e fiduciari nelle varie località italiane, dove il poeta intratteneva relazioni e contatti, che facevano la spola con la città, all’inizio in modo piuttosto
fortunoso e via via perfezionatosi durante tutto il 1920 , assumendo quindi le caratteristiche
di un servizio corrieri organizzato. Sul servizio corrieri fiumani cfr. B.Crevato Selvaggi, Fiume: corrieri dannunziani e governativi in «Archivio per la storia postale», Istituto di studi storici postali di Prato, I (1999), 2, pp. 44-48 e sulle vicende legate al servizio di censura istituito dal governo italiano per la città quarnerina vedi id., Impresa dannunziana a Fiume e censura postale, ibidem, I (1999), 1.
Sull’impresa dannunziana di Fiume: F. Gerra, L’impresa di Fiume, Longanesi, Milano1966.
14
Durante la prima guerra mondiale fu frequente tra i soldati al fronte il ricorso ad invii di lettere ai famigliari tramite l’ausilio di corrieri occasionali, generalmente altri commilitoni fruenti di un periodo di licenza per andare a casa, che venivano utilizzati anche in funzione elusiva dei controlli censori sulla corrispondenza regolare. Anche tra i militari prigionieri nei campi di internamento tedeschi e austriaci sparsi per l’Europa centro-orientale si cercarono canali
di comunicazione con l’Italia più diretti e liberi, sia dai vincoli censori, operanti nel campo ed
in patria, che dal contingentamento forzato delle corrispondenze in partenza dal campo. Per
gli italiani prigionieri tali sistemi di contrabbando postale furono resi più necessari anche per
via dell’atteggiamento ostile dimostrato nei loro confronti dalle autorità militari italiane e dal
Governo per tutta la durata del conflitto, che li considerarono «a priori» sospetti di diserzione, invertendo così aberrantemente il principio di presunzione di innocenza, con la possibilità
connessa di ritorsioni economiche verso le famiglie. Colpevole atteggiamento che comportò il
mancato, o comunque gravemente insufficiente, aiuto governativo ai soldati italiani in prigionia, a differenza di quanto fecero tutte le altre potenze belligeranti, aggravando così le sofferenze della loro detenzione, per cui quasi 100.000 sui 600.000 prigionieri ne morirono.
Ad esempio, troviamo menzione dell’utilizzo di spedizioni clandestine di corrispondenze in alcune lettere del carteggio di Stefano Pirandello, ufficiale prigioniero a Mauthausen dal novembre 1915, al padre Luigi. Questi si avvalse per la ricezione di alcune missive paterne dell’opera
di assistenza ai prigionieri italiani svolta da un compagno di prigionia, suo amico, rimpatriato
in Italia (per uno scambio di prigionieri invalidi), che organizzò anche un efficiente sistema di
corrispondenza clandestina attraverso l’invio di lettere nascoste nei pacchi postali. Cfr. Il figlio
prigioniero. Carteggio tra Luigi e Stefano Pirandello durante la guerra 1915-1918, a cura di A. Pirandello, Mondadori, Milano 2005.
Altro caso di organizzazione privata di comunicazione al di fuori del normale canale postale, nello stesso periodo, fu quello messo in piedi dalla Marchesa Guerrieri Gonzaga (di origine
trentina) per trasmettere notizie degli austriaci di origine italiana trentina prigionieri dei russi,
che funzionò fino al 24 maggio 1915. La marchesa, imparentata con nobili russi, riusciva a fare da tramite tra i prigionieri e le loro famiglie, e viceversa, appoggiandosi ad una rete di collaboratori, intermediari e corrieri, rappresentata da parroci trentini, giornalisti della stampa locale e personale del consolato russo di Torino. Comunicazione scritta all’A. di A. Cecchi, Istituto Studi Storici Postali di Prato, 26 luglio 2006.
Modalità comunicazionali di emergenza furono sviluppate dai soldati anche durante la seconda guerra mondiale, a carattere generalmente occasionale o a gestione famigliare. Un esempio
mi è stato fornito dallo studioso di storia postale Clemente Fedele in una comunicazione scritta (Cosenza, febbraio 2005), dove ha descritto un sistema di corrieri – emissari di corrispondenze private, alternativo alla posta militare, organizzato dal padre per comunicare con casa a
Telve Valsugana quando era in guerra sul fronte greco-albanese nel 1940-1941, per il tramite
di un concittadino brigadiere della finanza in servizio a Tirana oppure del titolare di una ditta
34
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
di costruzioni o trasporti installata a Tirana, che operava per conto dell’esercito in quella zona,
amico di un suo fratello, cassiere provinciale delle poste a Trento.
15
Antonio Bolzani, allora comandante delle guardie di confine svizzere, in un suo libro di memorie per primo ricorda, nel capitolo dedicato alle lettere e comunicazioni, l’esistenza di centri
di raccolta, smistamento e distribuzione di corrispondenze tra l’Italia ed i rifugiati in Svizzera,
pubblicando altresì una selezione di lettere. A. Bolzani, Oltre la rete, Bellinzona 1946 (ed. it:
Società Editrice Nazionale, Varese 1946, pp.125-126 e 128-136).
16
Per quanto riguarda i quantitativi di lettere inviate nei due sensi con vettori clandestini, considerati nel loro complesso, non è possibile fornire una cifra, ma si può desumere, dall’analisi
comparata delle testimonianze dirette e dai documenti finora conosciuti, che essi furono molto consistenti.
In analogia con il traffico clandestino di altre merci attraverso il confine durante il periodo di
guerra, va tenuto presente che anche per il contrabbando postale il suo grado di «capacità elusiva» dell’intercettazione doganale elvetica fosse molto alto, considerando che un rapporto delle autorità doganali del IV circondario [Rapporto della Direzione IV Circondario alla Direzione Generale delle Dogane, Lugano 17 gennaio 1946, in AF E6351 (F)/4 vol.8] indicava una
percentuale stimata di merci sequestrate pari al 20-25 per cento del totale; mentre un’altra fonte testimoniale, relativa ai ricordi della ex guardia di confine Elvezio Soldini raccolti dal figlio
Bruno negli anni ottanta, riferiva di una percentuale media non superiore al 5 per cento. Cfr.
B. Soldini, Uomini da soma, Ed. «Il Giornale del Popolo», Lugano 1985, p. 69. Una testimonianza in senso contrario circa invece la estrema rarità delle lettere clandestine dall’Italia giunte
effettivamente ai rifugiati nei campi è quella che si trova nel suo libro di memorie del periodo
da rifugiato di Arturo Lanocita, Croce a sinistra, Dall’Oglio, Milano 1945, pp. 162-163.
17
L’azione complessiva della Chiesa ticinese durante il periodo è stata oggetto di un approfondito e analitico studio di S. Sartorio, Il vescovo Jelmini, la Chiesa Ticinese e i rifugiati italiani in Svizzera (1943-1945). Tesi di laurea 2004 conservata presso l’ACTi, TM165 e in corso
di pubblicazione.
18
Cfr. F. Lanfranchi, La resa degli ottocentomila, Rizzoli, Milano 1948, pp. 81-83.
19
Sulla via dell’esilio un simbolo di fraternità, «Il Corriere di informazione», 14 ottobre 1946, cit.
nella tesi di Sartorio, a p. 41.
20
Le notizie relative alla vicenda di don Camponovo sono descritte da S. Sartorio, Il vescovo
Jelmini cit., pp. 88-93.
21
Tra le migliaia di messaggi inviati, ci furono anche quelli del futuro scrittore Piero Chiara, allora giovane cancelliere di tribunale espatriato in Svizzera dal 20 gennaio 1944, che chiese spesso
a mons. Camponovo di inviare scritti alla moglie Jula a Pallanza. Grazie al sacerdote ed all’amico luinese Angelo Ponzellini, Chiara potè avere così notizie della consorte e dei suoi genitori.
Si veda P. Chiara, Diario svizzero. Casagrande, Lugano 2006, p. 216, n.135.
22
ASD Lugano, Camponovo, scc.1-10, dove sono conservate tra le altre carte alcuni originali di
tali biglietti.
23
Le complesse e molteplici attività assistenziali svolte dalle numerose associazioni, religiose o
laiche, operanti in Svizzera durante la guerra sono analizzate da R. Broggini, Terra d’asilo cit.,
pp.284-287 e 447-455. Testimonianze si trovano nei fondi Internati degli Archivi Cantonali Vallese e del Ticino e anche nell’archivio della sezione ticinese del CSSO, depositato presso
l’archivio cantonale di Bellinzona, che contiene una ricca dotazione costituita da 650 schede
personali di rifugiati italiani con all’interno molte loro corrispondenze.
24
Un registro di statistiche del materiale distribuito per attività artistiche e ricreative nei cam-
35
Riccardo Ajolfi
pi svolte dalla Caritas/ufficio assistenza internati della SKJV, indica per il periodo gennaio-luglio 1945 in 7.009 le lettere ricevute e in 2.405 quelle spedite, che assommate a quelle dei mesi precedenti danno un totale di 50.602 lettere movimentate. Cfr. S. Sartorio, Il vescovo Jelmini cit., p. 55.
25
Per una panoramica recente sull’attività e le modalità operative delle staffette, limitatamente
allla zona ossolana, si veda P.A. Ragozza, Aspetti militari delle comunicazioni partigiane in La
stampa ed i mezzi di comunicazione dei partigiani e della repubblica dell’Ossola. Atti del Convegno dell’8 ottobre 2004, Anpi, Domodossola 2006.
26
Testimonianza orale all’A. del 20 gennaio 2006 di Gustavo Betlamini, n.1925, residente a Masera, partigiano nelle brigate Matteotti-Ossola nel periodo 1943-45, che svolse spesso i suoi
compiti di corriere e vigilanza dei confini presso le postazioni dell’Alpe Cravariola (val Antigorio), orograficamente appartenente alla Svizzera ma politicamente italiana. I ricordi dell’anziano partigiano sono stati completati e meglio definiti nei particolari da Franco Sgrena, presente pure all’intervista e anch’egli allora partigiano nella stessa formazione, con l’ausilio di Paolo
Bologna come «traduttore» dal dialetto locale usato dal Betlamini.
27
Dati circa il variegato campionario tipologico di corrieri partigiani si possono ricavare dall’ampia silloge costituita da testimonianze scritte, diari ed epistolari di protagonisti dell’esperienza partigiana curata da Generazione ribelle cit. e dalla selezione dei verbali d’interrogatorio del
fondo Internati, che riportano fedelmente le dichiarazioni fornite dagli espatriati clandestini.
Tra i tanti sfollati dalle città bombardate che trovarono rifugio in Ossola alcuni svolsero compiti di collegamento, in maniera spesso continuativa: «[…] da 14 mesi abito a Dissimo e qua
ho svolto prima e durante l’occupazione dei partigiani un’attività di collaborazione e cioè fornivo viveri e vestiario e a volte portavo anche dei messaggi», ACTi, Fondo Internati, sc.19.8, fasc.
Castiglioni Mario, Verbale d’interrogatorio, Bellinzona 16 ottobre 1944 [classe 1900, residente a Busto Arsizio, di professione fabbricante di calzature]. Forme di collaborazione tra sacerdoti e staffette partigiane furono frequenti e soprattutto i parroci di piccoli centri offrirono loro informazioni, supporto logistico e aiuti materiali, come don Antonio Vandoni (che incontreremo ancora più avanti), nel 1944 parroco di Borgomanero e poi cappellano della divisione
partigiana Val Toce, che così ne lasciò testimonianza nel suo memoriale dattiloscritto: « Questa assistenza moltiplica le relazioni e ci mette in comunicazione con i vari gruppi […] E così
nacque un servizio di informazioni e di collegamento che faceva capo ad una bottega, ad un albergo ed al mio confessionale.[…] Il mio confessionale era la terza sede di collegamento. […]
Le ragazze, soprattutto le staffette, preferivano il confessionale, più sicuro e più discreto […]»,
in A. Vandoni, La vita per l’Italia, Comune di Bellinzago Novarese 1980, pp. 27-29. Simili le
parole in una pagina del diario di don Angelo Giussani: «[…] la canonica è la casa di tutti, è il
posto di ritrovo e di ristoro dei ribelli della 2° Brigata Julia, di tutte le staffette e corrieri di passaggio […]». In Generazione ribelle cit., p. 94.
La misura della collaborazione tra il mondo del contrabbando e resistenza fu intensa e molto stretta, manifestandosi con frequenti consegne di biglietti e messaggi ad opera di contrabbandieri. Al proposito si veda A. Bazzocco, Fughe, traffici, intrighi cit., p. 40, ove sono riportati brani di un diario anonimo di un ufficiale partigiano nell’Alto Verbano, con l’indicazione
di numerosi di questi contatti: «venerdì 11 agosto […] giungono altri due biglietti- gli rispondo a mezzo contrabbandiere- Alla sera 15 contrabbandieri passano la frontiera per prendere la
nostra roba».
Un significativo esempio di attività di messaggero in favore della causa resistenziale italiana
svolta da cittadini comuni elvetici è quello di Pietro Galli, elettricista di Brissago, località prossima al confine sul Lago Maggiore, che svolse il suo compito di corriere con uno stratagemma,
così raccontato dal figlio Ezio: «[…] ho saputo molto più tardi che le trasferte »di emergenza»
al di là del confine, oltre che importanti per il ripristino della corrente (ma era sempre vero?),
36
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
avevano un importante scopo informativo confidenziale: incaricare un uomo di fiducia affinché prendesse dagli antifascisti italiani certi messaggi per recapitarli agli amici antifascisti ticinesi […]», P. Storelli, Brissago e la guerra di confine 1939-1945. Ediz. Verbano, 2004, pp.
150-151 (testimonianza scritta del 18 aprile.2004).
28
La rete di Bustelli, progressivamente implementata dopo l’8 settembre grazie al contributo di
militari italiani fuggiaschi, arrivò ad essere articolata su una trentina di linee indipendenti, allo
scopo di evitare che, intercettatane una, le altre fossero impedite a continuare l’attività, costituite complessivamente da circa trecento corrieri informatori. I rapporti informativi crebbero
dopo il 1° gennaio 1944, con il consolidamento definitivo dei rapporti di collaborazione con il
Clnai, arrivando a 3.000, di cui quasi 2.000 provenienti dalle relazioni con la resistenza italiana, che rappresentavano una compensazione delle facilitazioni a loro volta concesse dalle autorità svizzere. Per un quadro dettagliato delle attività dell’ufficiale si vedano gli articoli di G. Bustelli, Ricordi della Resistenza Italiana 1943-1945 in «Cenobio», Rivista bimestrale di cultura,
Lugano, aprile-giugno 1966, pp. 187-196 e Id.,Memorie di un ufficiale informatore, in «Rivista
militare della Svizzera Italiana», LVI (1984), n.5.
29
ASMi, Gabinetto di Prefettura, 1° vers., cart.80, fasc. espatri abusivi 1927.
30
F. Scomazzon, La frontiera tra Italia e Svizzera e la questione dei rifugiati cit., pp. 450-452.
31
Cfr. R. Broggini, Terra d’asilo cit., pp. 282-288. Anche diverse altre associazioni allestirono
reti di solidarietà e aiuto simili, come quelle massoniche, tra cui si distinse la loggia luganese.
Un posto particolare di rilievo lo ebbe poi la Delegazione assistenza emigranti in Svizzera per la
sua fondamentale opera di assistenza e soccorso, tra cui le comunicazioni, per gli ebrei rifugiati
e per quelli rimasti in Italia. Si veda sull’argomento l’approfondito saggio di Liliana Picciotto, La delegazione assistenza emigranti in Svizzera in Spiriti liberi in Svizzera: la presenza di fuoriusciti italiani nella Confederazione negli anni del fascismo e del nazismo (1922-1945). Atti del
Convegno internazionale di studi, Ascona-Milano 8-9 novembre 2004, [a cura di] Raffaella Castagnola, Fabrizio Panzera, Massimiliano Spiga, Franco Cesati, Firenze 2006, pp. 193-209.
32
L’avvocato milanese, socialista e poi amministratore della società imprese editoriali Helicon
di Lugano, è stato un personaggio chiave nelle vicende svizzere di Arnoldo Mondadori. Infatti
l’editore, dopo il suo espatrio in Svizzera l’11 novembre 1943 passando da Stabio, venne messo in contatto dal Cettuzzi, insieme con l’editore Dall’Oglio e Luigi Gasparotto, entrambi anch’essi esuli, con l’ambiente liberaldemocratico e socialista in esilio per sondare le sue possibilità di rientro nell’attività editoriale, anche appoggiandosi proprio alla Società Messaggerie Librarie S.A. (Melisa), creata da Mondadori stesso nel 1939. Sui rapporti Mondadori-Melisa si
veda R. Broggini, Terra d’asilo cit., pp. 369-371.
33
ACTi, Fondo Internati, sc.21.5, fasc. Cettuzzi A., Memoria di Antonio Cettuzzi del 3 febbraio 1944 al Comando Territoriale di Polizia; Rapporto dell’Ufficio di Dogana di Lugano - n.
450/18.1 del 3 febbraio 1944 e nucleo di 6 lettere sequestrate.
Tracce dell’attività di queste modeste reti clandestine, stante le oggettive caratteristiche di indeterminatezza e precarietà del loro operato, si possono trovare come brevi note o citazioni in
opere pubblicate e soprattutto ricavare dalla lettura delle missive nei carteggi rinvenuti, fra cui
in particolar modo quelle conservate in una discreta percentuale di fascicoli nei fondi Internati degli archivi svizzeri.
In effetti con discreta frequenza nei fascicoli di quel fondo nell’archivio ticinese si trovano dichiarazioni sui verbali d’interrogatorio o documenti manoscritti allegati, rappresentati non solamente da lettere ma anche da biglietti, appunti e altri supporti cartacei, in cui sono riportati elenchi di indirizzi, sia in Svizzera che in Italia, e sintetici pro-memoria contenenti istruzioni
di spedizione o notizie da riportarsi su messaggi per gli interessati. Elementi che testimoniano
una sorta di «postalità» spontanea praticata diffusamente dai rifugiati.
34
37
Riccardo Ajolfi
Un esempio di tali materiali, tra tanti,: «Dire alla signora Maria Dell’Oro [in Italia] che suo figlio Piero sta bene: si trova attualmente a Mohlin presso Basilea a lavorare. Sono in contatto
con lui e suo zio. Non si può più farsi liberare e andare presso parenti e conoscenti perciò anche Piero come me siamo sempre in un campo». ACTi, Fondo Internati, sc.78.8, fasc. Siviero
Giorgio, [biglietto] s.d., s.l. [in altro foglio ad esso collegato è indicata la data 16 luglio 1944],
[a] n.i./ [Giorgio Siviero].- [1] p. su 1 c.; 90x140 mm. ca.- Ms. non f.to.[Il Siviero, n. 1925,
membro del Cln dal maggio 1944 al febbraio 1945 aveva effettuato numerosi transiti clandestini attraverso il confine e gli furono sequestrate numerose lettere di altri internati. Verbale
d’interrogatorio del Comando Territoriale 9/b del 25 marzo 1945].
35
La storia del contrabbandiere «postino», profondo conoscitore di tutti i sentieri tra la val d’Intelvi e la Svizzera, è descritta in dettaglio da B. Soldini, Uomini da soma cit., pp. 89-93. Nello
stesso volume, alle pp. 240-250, l’autore riporta una selezione delle 58 lettere, scritte all’epoca
da vari mittenti e non potute consegnare, conservate nell’archivio della famiglia Barella.
Altro caso di servizio a pagamento è ricordato da Rossella Berlusconi: «[…] da San Mamete ove
eravamo sfollati andavo alla rete, consegnavo ad una determinata persona un messaggio con le
notizie della famiglia, dei figli, della vita da sfollati…e ricevevo sue notizie [del marito internato] dalla Svizzera: qualche riga, spesso su biglietti con messaggi di altri internati. Eravamo in
molti ad andare alla rete, e si pagava per fare avere questi biglietti […]». In R. Broggini, Terra d’asilo cit., p. 464 (colloquio diretto dell’autrice del marzo 1991).
36
Testim. scritta all’A. di G.C. Pozzi da Bergamo, 27 dicembre 2005.
37
Le élites italiane dell’epoca sono collocabili in una posizione alta per quanto riguarda la collocazione socio-culturale (asse diastratico), il mezzo usato per comunicare (asse diamesico) e,
soprattutto, la situazione comunicativa (asse diafasico), e cioè appartenenti dal punto di vista
linguistico al cosiddetto italiano formale-aulico. Cfr. G. Berruto, Sociolinguistica dell’italiano
contemporaneo. Carocci, Roma 2002.
38
ACTi, Fondo Internati, sc.86.6, fasc. Vigorelli E., [lettera] 8 dicembre 1943, Lugano [a] Vigorelli Ezio / col. Bolzani Antonio.- [2] p. su 1 c.- s.b. Vigorelli, avvocato di Milano, fu tra i protagonisti dell’esperienza della «repubblica ossolana», ricoprendone l’incarico di consulente legale e giudice straordinario.
39
L’impulso dato dalla koiné culturale italiana in esilio alla vita intellettuale ticinese e la sua azione di stimolo al dibattito culturale con lo sviluppo di iniziative correlate, quali periodici, articoli, conferenze e mostre, è approfondito da R. Broggini, Terra d’asilo cit., pp.331-368.
40
R.Broggini, G.F. Contini dall’impegno per i rifugiati militari italiani a Friburgo alle pagine ticinesi in «Almanacco Storico Ossolano», Grossi, Domodossola 2001, pp. 43-45
41
Carte Paolo Bologna, Memoriale, Domodossola, settembre 2005
42
La situazione presenta molte analogie con quello che si verificò al confine orientale d’Italia nel
1919-20. Infatti alla fine della prima guerra mondiale lungo la linea di armistizio con il regno
dei Serbi-Croati-Sloveni (SHS), per le tensioni politiche che si stavano già sviluppando con
quel nesso statale, il 5 novembre 1919 fu decretato dal governatore militare italiano della Venezia Giulia, generale Enrico Petitti di Roreto, il blocco delle corrispondenze postali, telegrafiche
e telefoniche dirette con quei territori. Ciò determinò il rapido sviluppo di un contrabbando
molto intenso di corrispondenze attraverso la linea orientale di armistizio, tanto da costringere
il Comando Supremo ad emanare un’ordinanza il 6 marzo dello stesso anno per far rispettare il
blocco, stabilendo pesanti sanzioni pecuniarie e detentive per chiunque tentasse di trasportare
clandestinamente corrispondenze epistolari, riviste, disegni o stampati oppure agevolasse la trasmissione per telegrafo o telefono di notizie private. Si veda al proposito B. Crevato Selvaggi,
Venezia Giulia 1918: la ripresa delle comunicazioni postali ed i corrieri militari in «Archivio per
38
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
la Storia Postale», Istituto di studi storici postali di Prato, VII (2006), n. 22-23, pp. 34-35.
43
Secondo il linguista Roman Jakobson nel processo comunicativo il messaggio, per essere operante, richiede il riferimento ad un contesto, un codice comune ai due corrispondenti ed un contatto, un canale fisico che permetta di stabilire e mantenere la comunicazione.
44
Carte Sebastiano Ferraris, [lettera] 25 gennaio 1945, Wetzikon [a] Moriano Orsolina [madre] /
Nini [Sebastiano] - [2] p. su 1 c.; 221x143 mm.- Ms. f.to - Carta intestata: Soldatenstube/eingeri-chtet vom Schweizer Verband Volksdienst, Abt. Soldatenwohl - s.b.
45
Carte Paolo Bologna, [lettera] 30 gennaio 1945, [s.l. Nella lettera il sacerdote si indica come insegnante nei campi internati e fu inviata al campo di Lugano-Trevano ove era internato Bologna] [a] Paolo Bologna / don Antonio Vandoni.- [2] p. su 1 c.; 210x145 mm.- Ms. f.to - Testatina con marchio: croce elvetica e croce latina affiancate.- Sul margine inferiore: Dono della Gioventù Cattolica Svizera – Schweizerrscher Katolischer Jungmannschaftverband, Lucerna - s.b.
46
Anche la contessa Carolina Ciano, ad esempio, in una sua lettera dall’Italia accennava alla nuora Edda, riparata con i figli, attraverso il valico di Ligurno-Gaggiolo, a Malevoz presso Monthey, dei diversi tentativi effettuati prima di trovare: «il mezzo più sicuro», precisando più avanti: «appena sono sicura che con questo mezzo ti arrivano le mie, ti manderò le lettere scritte a
te ed ai bambini dal nostro caro e le mie», Varese, 16 marzo 1944. In A. Bolzani, Oltre la rete
cit., p. 131, lett. n. 3. Quello di Edda Mussolini-Ciano, tra i vari «casi speciali» relativi al trattamento riservato dalle autorità svizzere a particolari personalità di italiani rifugiati, fu fonte di
notevole preoccupazione. Tra le molte misure di sicurezza prese, anche la sua corrispondenza
«era minuziosamente controllata. Non ricevette del resto che poche lettere», come evidenzia un
rapporto redatto per il Consiglio Federale. Cfr. R. Broggini, Terra d’asilo cit., pp. 204-205.
47
Oltre che nella Repubblica Sociale, anche durante il periodo della Giunta Provvisoria di Governo in Ossola era espressamente vietato trasportare corrispondenza sui treni ad opera di privati - Boll.Quot. Inf. n.12 /5 dicembre 1944.
È anche da precisare che, per la linea del Sempione, il personale ferroviario era ed è tuttora svizzero da Domodossola in su ; per quella Vigezzina-Centovalli si verificava il cambio del personale alla frontiera.
48
Disponibilità del personale ferroviario che trovava le sue radici in frequentazioni e rapporti intessuti già da prima della guerra con elementi dell’antifascismo esuli nel canton Ticino. Una
lettera del novembre 1927, inviata dal commissario di pubblica sicurezza dell’Ossola al prefetto di Novara, confermava la profondità di tale collaborazione: «[…] Risulta che il Bergamaschi nel suo vecchio esercizio [a Locarno] teneva affissi al pubblico un ritratto di Matteottti e
altri quadri di indole sovversiva. Si hanno poi ragioni di dubitare che egli, già guidatore delle
ferrovie regionali ticinesi, abbia contatti frequenti con ferrovieri svizzeri ai fini di collegamenti
fra elementi sovversivi e scambio di corrispondenze e stampati[...]». In F. Scomazzon, La frontiera tra Italia e Svizzera e la questione dei rifugiati cit., p. 448 (ASNo, Gabinetto di prefettura,
cart.121, fasc.1/6-Attività sovversiva, 1927).
49
ACTi, Fondo Internati, sc.22.6, Verbale d’interrogatorio della polizia cantonale di Bellinzona
del 1° ottobre 1944 a Wanda Beltramini nata Malvezzi il 19 gennaio 1917, di Milano.
50
Carte Sebastiano Ferraris, [lettera] 8 novembre 1944, Buren [a] Ferraris Andrea [padre]/Nini
[Sebastiano]. - [2] p. su 1 c.; 221x143 mm.- Ms.f.to - Carta intestata: Soldatenstube/eingerichtet vom Schweizer Verband Volksdienst, Abt. Soldatenwohl - s.b.
51
Il Bolzani accenna all’esistenza in valle Maggia di una centrale «postale» clandestina in collegamento con l’Ossola, gestita anch’essa come le altre disseminate lungo il confine da un sacerdote. Cfr. A. Bolzani, Oltre la rete cit., pp. 125,133 lett. n.5.
39
Riccardo Ajolfi
52
ACTi, Fondo Internati, sc.15.1, fasc. Cabalà don Gaudenzio, Verbale d’interrogatorio, Bellinzona 24 ottobre 1944.
53
Cfr. A. Bazzocco, Fughe, traffici, intrighi cit., p. 40.
54
Cfr. A. Bolzani, Oltre la rete cit., pp. 125-126.
55
La Casa d’Italia di Lugano, la principale tra quelle presenti in territorio svizzero, era comandata dal primo tenente Antonini. Sull’organizzazione e le attività svolte dagli internati nella casa degli Italiani si vedano A. Bolzani, Oltre la rete cit., pp. 65-68 e R. Broggini, Terra d’asilo
cit., pp.173-174. Testimonianza vivida sulle condizioni di vita degli italiani nell’edificio e del
loro stato d’animo «disperso e brancolante» è data da Piero Chiara in numerose pagine del suo
diario; in particolare, pertinente all’argomento di cui stiamo trattando, un passo è dedicato alla descrizione del momento pomeridiano destinato alla scrittura di «lettere destinate a scivolare clandestinamente in Italia», P. Chiara, Diario svizzero cit., p.194.
56
Per usare la terminologia dell’Ottocento, li si può indicare con il termine di forwarder, indicante un agente privato per collegamenti epistolari in zone (o tragitti) non coperte dal servizio postale.
57
Testim. all’A. di Celestina, raccolta a Brissago (Canton Ticino), Hotel Sole, il 9 aprile 2005,
che integra quella di P. Bologna del 7 gennaio 2005. I ricordi della signora sono risultati poco
definiti nei particolari e con numerose lacune, perché all’epoca lei fu tenuta al corrente in minima parte di questo traffico dalla sorella (venuta a mancare da alcuni anni) che ne era il vero centro operativo.
58
Carte Sebastiano Ferraris, [lettera] 1° novembre 1944, Gurnigel [a] Ferraris Andrea [padre]
/ Nini [Sebastiano] - [2] p. su 1 c.; 210x148 mm.- Ms. f.to - Carta intestata: Service d’Aide
Aux Internés Militaires En Suisse. Sul margine inf. scritta: Offert par: Le Comité Universel des
Unions Chrétiennes de Jeunes Gens (YMCA), Die Militarkommission der CVJM (YMCA)/Le
Departement Social Romand, Le Fonds Européen de Secours aux Etudiants - s.b.
Il nominativo indicato nelle lettera è quello di uno spedizioniere svizzero, la cui sorella abitava
all’indirizzo riportato. A differenza dei più modesti ferrovieri questi si faceva pagare ogni porto in buona moneta, probabilmente per coprire i costi derivanti dall’avviare le lettere tramite la
sua ditta. Comunicazione scritta all’A. di P. Bologna del 28 marzo 2005, Domodossola.
59
Il contatto con i Dell’Oro non fu l’unico per la famiglia Bologna che, oltre a quello tramite la
Silacci, descritto prima, stabilì anche una terza linea con uno spedizioniere, tale De Carli, indicato in una lettera con le iniziali D.C. Carte Paolo Bologna, Memoriale cit. e [lettera] 18 novembre 1944, s.l. [Domodossola] [a] Paolo Bologna / Giulia Premoli [madre].- [4] p. su 1 c.;
210x145 mm.- Ms. f.to.- Busta non affr.; 115x160 mm.- Senza t.p.- Bollo tondo: P. Campo
5940.- Al verso timbro lineare: aperto per censura.
60
Uno di questi registri-diari è conservato nell’archivio di Paolo Bologna, testimonianza della
sua intensa attività di forwarder. Infatti questi durante l’internamento andò sviluppando fitte
relazioni con molti rifugiati ossolani in diversi campi e così garantì ai suoi compagni un flusso sufficiente di comunicazioni. Di provenienza dallo stesso archivio sono anche cartoncini e
biglietti con annotazioni di indirizzi vari: umili strumenti di quella attività salvatisi dalle bufere del tempo.
61
Pierre Zemor individua una «comunicazione naturale» in cui si ritrovano gli scritti della lettera postale, della stampa, degli scambi orali del vicinato, della produzione letteraria e tutto questo è influenzato dalle modalità di trasmissione, dalla loro organizzazione e dai supporti di trasferimento.
62
Carte Sebastiano Ferraris, [lettera] 8 novembre 1944, Buren, cit.
40
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
63
Si confrontino, ad esempio, con le raccomandazioni inviate per lettera da una madre di Varese al figlio internato nel Canton Ticino, dove gli segnalava : «la nonna mi ha consegnato un
biglietto. Se puoi spediscilo allo zio [anch’egli internato] che da tre mesi non sanno sue notizie». In: A. Bolzani, Oltre la rete cit., p. 135, lett. n. 7 (Varese, 8 novembre 1943, mitt. e destin. non id.).
64
Carte Sebastiano Ferraris, [lettera] 28 dicembre 1944, Buren [a] Moriano Orsolina [madre] /
Nini [Sebastiano] - [2] p.su 1 c; 210x148 mm.- Testatina con marchio: croce svizzera e croce latina affiancate.- Sul margine inferiore scritta: Dono della Gioventù Cattolica Svizzera-Schweizerischer katolischer jungmannschaftsverband, Lucerna - s.b.
65
Carte Paolo Bologna, Memoriale cit.
66
«Foglio Ufficiale delle Poste», 18 febbraio 1944, n.7 «prigionieri di guerra, internati e rifugiati civili: servizio postale».
67
R. Broggini, Terra d’asilo cit., pp. 400, 460-464, e 489, n.276 .
68
Carte Sebastiano Ferraris, [lettera] 28 dicembre 1944, Buren, cit. Dal febbraio erano state emanate nuove norme postali che stabilivano la franchigia di porto per gli internati militari, mentre i rifugiati civili ne erano esclusi, ribadendo al contempo il divieto di valersi della posta civile [«In Attesa», 1 (1944), n.1]
69
Nei carteggi esaminati si notano tre tipologie di fogli da lettera di diversa provenienza : una
fornita dall’esercito svizzero (Ufficio di Sostegno per i Soldati), una specifica prevista dal Servizio Aiuto agli Internati Militari ed una partita, non governativa, provvista dalla Gioventù Cattolica svizzera. Sulla consistenza dell’aiuto specifico delle associazioni religiose si veda, a titolo di esempio, una statistica dei materiali scrittori distribuiti nei campi dall’Ufficio Assistenza internati della SKJV dal gennaio 1944 al luglio 1945, ove sono indicati i seguenti quantitativi: buste 208.850 – carta da lettere 206.850 e cartoline 285.550. Aggiungendo tali cifre ai
dati dei mesi precedenti, si arriva ad un totale relativo a tutti i materiali postali dati in distribuzione di 2.109.145 pezzi. Tabella in S. Sartorio, Il vescovo Jelmini cit., p. 315 (ASD Lugano, Fondo Caritas ).
70
Carte Sebastiano Ferraris, rispettivamente: [lettera] 13 dicembre 1944, Buren [a] Moriano Orsolina] [madre] / Nini [Sebastiano] - [2] p. su 1 c.; 215x149 mm.- Ms. f.to - Carta intestata:
Soldatenstube/eingerichtet vom Schweizer Verband Volksdienst, Abt. Soldatenwohl.- s.b.; [lettera] 16 dicembre 1944, Buren [a] Ferraris Andrea [padre] / Nini [Sebastiano] - [2] p. su 1 c.;
215x149 mm.- Ms.f.to - Carta intestata: Soldatenstube/eingerichtet vom Schweizer Verband
Volksdienst, Abt. Soldatenwohl.- s.b.;[lettera] 6 gennaio 1945, Buren [a] Moriano Orsolina
[madre] / Nini [Sebastiano] - [2] p. su 1 c.; 216x148 mm.- Ms.f.to - Carta intestata: Soldatenstube/eingerichtet vom Schweizer Verband Volksdienst, Abt. Soldatenwohl - s.b. Le notizie riferite da Sebastiano, nell’ultima lettera e nella precedente, sono senza riscontro storico e trattasi di cosiddette «leggende metropolitane», false notizie propalate in Ossola con il carattere di
propaganda terroristica per intimidire i residenti; fanno parte del clima di oscuro terrore che
coinvolse gran parte delle popolazioni e che le spinse alla loro fuga in massa.
71
Carte Sebastiano Ferraris, [lettera] 25 gennaio 1945, Wetzikon, cit.
72
Una conferma indiretta della diffusione del fenomeno è fornita dal campo avverso, quando i
servizi di propaganda tedeschi della Staffel II (zona operativa di Milano), in una loro azione di
propaganda tra le popolazioni ossolane alla vigilia dell’operazione militare tedesca di riconquista dell’Ossola, concepirono un manifesto, con finalità dissuasoria e di discredito verso l’attività e la vita partigiana, in forma proprio di falsa lettera scritta dal figlio partigiano alla propria
madre e inviata clandestinamente con un corriere. Infatti sul facsimile del supporto cartaceo
del biglietto era posta in evidenza l’annotazione consegnare a mano: indicatore di quanto siffatte
41
Riccardo Ajolfi
modalità alternative di corrispondenza fossero entrate quasi nel costume abituale.
Sul manifesto della Propaganda Staffel: «cara mamma,…da Domodossola 14 ottobre 1944»
(Archivio dell’Istituto bergamasco per la storia del movimento di liberazione /n.ord.121), si
veda: G.Carlo Pozzi, Propaganda nazista nell’Ossola, «Novara/notiziario economico», 1986,
n.5, pp. 45-61.
La distribuzione delle lettere non coprì però omogeneamente tutti campi ove si era sparsa la
diaspora ossolana, ma fu probabilmente «a macchia di leopardo» ed anche all’interno dei singoli campi ci furono gruppi di rifugiati rimasti estranei al servizio per motivi di difficile comprensione allo stato attuale delle conoscenze. Ciò trova rispondenza con i ricordi di Piero Mucci, uno tra i tanti ossolani espatriati nell’ottobre 1944, giovane fattorino telegrafico durante i
giorni della breve libertà ossolana, che non ricevette mai per tutta la sua permanenza in Svizzera al campo di Wetzikon alcuna lettera o notizia dai famigliari in Ossola né seppe dell’esistenza di canali di comunicazione non ufficiali. Testimonianza all’A. del 14 settembre 2005, Domodossola.
73
Carte Paolo Bologna, [Lettera] 2 novembre 1944, Domodossola [a] Paolo Bologna / mamma
[Giulia Premoli] - [2] p. su 1 c.; 210x145 mm.- Ms.f.to - Carta intestata: Dr. Ing. Marcello
Bologna/Domodossola - Busta non affranc; 120x155 mm.- t.p.: Ambulante/3 novembre 1944
- Intest.: Paolo Bologna, Campo Concentramento militari, Bellinzona.- Segni ms. sul fronte:
S. Biagio [lapis rosso], [cifra]. 70.- Al verso timbro lineare: aperto per censura, C.do Campi
Raccolta rifugiati-internati, Bellinzona. [La lettera fu inviata con un corriere di fortuna probabilmente via Sempione-Briga, come è desumibile dal testo della lettera, che fa riferimenti alla città del Canton Vallese].
Preoccupazioni analoghe erano molto comuni nelle lettere ai rifugiati, o da questi spedite in
Italia, e le lettere sequestrate e conservate nel Fondo Internati ne rappresentano un variegato
campionario. Ad esempio in questa : «[…] mio adorato Bruno, dalla signora Jolanda ho avuto
tue dettagliate notizie ed anche so tu non ai ancora ricevuto niente da me. Mentre io ti o inviato a mezzo la zia di Franco parecchie lettere indirizzate alla Melisa. Dove sono andate a finire?
L’ai avute? In ogni modo nella speranza ti giunga la presente ti dò notizie mie e di mamma e Livia […]». ACTi, Fondo Internati, sc.21.5, fasc. Cettuzzi A , [lettera] 11 gennaio 1944, [s.l.] [a]
Bruno Dal Sasso / [n.i.] - [2] p. su 1 c.; 290x188 mm.- Ms.f.to - Busta non affranc.; 100x148
mm.- Intest.: Dr. Bruno Dalsasso, Fluchtlingslager Pleuterplatz. Metikon-Waldegg, Zurich.
74
Carte Sebastiano Ferraris, [lettera] 25 gennaio 1945, Wetzikon, cit.
75
Il rischio di intercettazione delle missive clandestine in Italia era sempre presente in qualunque parte del territorio e motivo principale di incertezza circa il loro effettivo arrivo a destino: «Gianna carissima, finalmente ho la possibilità di farti avere mie nuove, causa che scrivere
è molto pericoloso per te e per me, ma essendovi oggi la combinazione che il latore è un mio
compagno […]»- Nicolò Marino, lettera da Forno Canavese del 19 ottobre 1943 alla moglie
Gianna, in Generazione ribelle cit., p. 100.
76
L’azione di contrasto delle autorità italiane di polizia e di dogana sui flussi di lettere clandestine da e per la Svizzera era iniziata fin dai primi anni del 1930, attivandosi da parte loro incessanti controlli sulla corrispondenza diretta all’estero e intensificando la vigilanza lungo il confine, allo scopo di identificare i corrieri preposti al passaggio insieme con le eventuali complicità in territorio italiano e di ricostruire la rete di collegamenti tra l’Italia ed i paesi confinanti.
Attività di repressione e controllo state oggetto di numerose circolari emanate tra il 1924 ed il
1931, ai vari livelli di organi centrali e periferici, dalla Polizia italiana, dalla Milizia Volontaria
per la Sicurezza Nazionale e dalle Prefetture delle città vicine ai confini.- Cfr. F. Scomazzon,
La frontiera tra Italia e Svizzera e la questione dei rifugiati cit., pp. 441-445
77
ACTi, Fondo Internati, sc.17.5. La vicenda di don Cappini è descritta da S. Sartorio, Il ve-
42
Corrispondenze d’emergenza nella seconda guerra mondiale
scovo Jelmini cit., pp. 152-160
78
Modalità scrittorie ormai così profondamente parte del «normale» rapporto epistolare che si
doveva espressamente rassicurare il proprio corrispondente a scrivere in chiaro per indurlo ad
abbandonarle. È il caso di questa lettera indirizzata a Paolo Bologna da un suo compagno di internamento, insieme ad altra missiva indirizzata alla moglie di questi a Milano e di cui lo stesso Bologna avrebbe curato l’invio per il tramite dei suoi genitori a Domodossola. L’invito liberatorio è segno che evidentemente si considerva molto sicuro il canale di spedizione: «Caro
Paoletto, eccoti la lettera di cui ti parlai. Te la affido. […] Ti sarò grato se vorrai dire a Papà tuo
che quando il vostro impiegato si reca a M. passi dal corso B. Aires per vedere di ritirare la risposta! e che dica a Vesta che può scrivere liberamente! Grazie.». Carte Paolo Bologna,[lettera]
6 febbraio [s.a., ma 1945], Guido [a] Paolo Bologna / Gigi Padoin - [1] p. su 1 c.; 210x145
mm.- Ms. f.to - s.b. [Luigi Padoin, nipote dell’on. Gasparotto, aveva funzioni di «intendente»
dell’8ª Brigata Matteotti Valli Ossolane e curò anche la contabilità generale per la Giunta Provvisoria di Governo dell’Ossola]
79
Rispettivamente: Carte Sebastiano Ferraris, [lettera]16 dicembre 1944, Buren, cit.; Carte Paolo
Bologna, [lettera] 30 gennaio 1945 di don Vandoni, cit.
80
ACTi, Fondo Internati, sc. 55.4, fasc. P. Mentasti [lettera] 24 dicembre 1944, cit . È questo un
caso abbastanza singolare di captatio benevolentiae, in cui al normale rapporto epistolare diadico – mittente/ricevente – si inserisce un’altra figura estranea al contesto, cui gli si conferisce il
ruolo di «attante adiuvante», secondo le categorie greimasiane, cercando così di rovesciare strategicamente con la supplica la sua posizione di potenziale oppositore (potendo egli infatti distruggere la missiva o non riferire il messaggio). Sugli atti linguistici comportativi cfr. J. L. Austin, Atti linguistici, 1962 e sul modello attanziale del racconto, cfr. A. J. Greimas, La semiotica strutturale, Rizzoli, Milano 1968.
81
Esempi di simili corrispondenze nella prima guerra mondiale si trovano in G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 107-112 e
313-319. Una casistica inerente la resistenza italiana nel periodo 1943-45, sia durante la clandestinità o le attività operative che nelle situazioni di prigionia/deportazione ad essa connesse, è offerta da Generazione ribelle cit., pp. 180 e 308-309, con i successivi rimandi ai testi degli scritti in altre parti dell’opera.
82
P. Chiara, Diario svizzero cit., p.115, giorno 16 aprile 1944.
83
Carte Sebastiano Ferraris, [lettera] 27 aprile 1945, Wetzikon, [a] Ferraris Andrea e Moriano
Orsolina [genitori]/ Nini [Sebastiano] - [2] p. su 1 c.; 295x260 mm.- Ms. f.to - s.b.
84
Le antiche plurisecolari forme di solidarietà tra i versanti alpini, in Alta Savoia, Val d’Aosta e
Ossola, continuarono a sussistere anche dopo che la formazione degli stati nazionali dalla fine del XIX secolo avevano creata una barriera giuridico-amministrativa tra le diverse zone alpine, intaccandone l’omogeneità ed i legami comuni. In realtà, come bene ha recentemente evidenziato Jean François Berger a proposito della sostanziale unità mentale del mondo alpino, «i
differenti aspetti delle Alpi in guerra – militari, economici, politici, ideologici – sono stati vissuti nello stesso momento, pur confusamente, dalle stesse popolazioni, dagli stessi individui».
Per cui lo stesso storico svizzero raccomanda di avere nella ricerca un approccio «comparativo
o transnazionale», cui questo saggio desidera dare il suo modesto contributo. Cfr. J.F. Berger,
Le Alpi durante la guerra in «Arte e Storia» (Edizioni Ticino), F. Scomazzon, La frontiera tra
Italia e Svizzera e la questione dei rifugiati cit., VI (2005), n. 24, p. 14.
85
Il riferimento su cui ci si è basati per l’elaborazione del modello è l’analisi della strutturalità
della cultura, effettuata da J. Lotman, per il quale essa è costituita dall’insieme delle informazioni non ereditarie e dei mezzi per organizzarla, conservarla e trasmetterla. Per lo studioso del-
43
la scuola semiotica estone di Tartu, esiste un rapporto organico tra cultura-memoria collettiva e
comunicazione: la cultura in quanto memoria (o meglio registrazione nella memoria di quanto
è già stato vissuto dalla collettività) si ricollega all’esperienza storica passata; il linguaggio, alla
base della memoria («dispositivo stereotipante strutturale», come lo definisce Lotman) adempie una determinata funzione comunicativa ed insieme, nel sistema cultura, ha anche il ruolo di munire il gruppo sociale di una «ipotesi di comunicabilità» (l’ipotesi linguaggio, se diretta su un materiale amorfo, lo trasforma in linguaggio; se diretta sul sistema linguistico, genera
fenomeni metalinguistici). La cultura è un generatore di strutturalità e la pratica della comunicazione linguistica genera una presupposizione di strutturalità che esercita una potente azione
organizzatrice su tutto il complesso dei mezzi comunicativi. Cfr. J.Lotman-B.Uspenskij, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 1975.
86
M.Giacomarra, Al di qua dei media. Introduzione agli studi di comunicazione e interazione sociale, Meltemi, Roma 2000.
Il Capitano, il prete, l’ebreo e il tedesco.
Una vicenda di solidarietà al di là di schematismi
ideologici e religiosi
di Michele Beltrami e Vittoria Schunnach
Il 24 aprile 1994, nel corso dell’indimenticabile giornata in cui fu inaugurato a Cireg­gio il monumento a mio padre Filippo, una signora di Genova cercava di incontrare mia madre per avere una copia de Il Capi­tano,
che sapeva essere stato da poco ristampato. Cercava il libro per conto di
due sue amiche, due anziane sorelle ebree, esse pure di Genova, che erano
sfol­late con padre e madre prima in Valstrona, poi a Egro e che in Valstrona avevano incontrato il Capitano.
Vivendo in Liguria e lavorando io a Genova, ci siamo offerti, mia moglie ed io, di metterci direttamente in contatto con le due signorine e di far
avere loro il libro. Così abbiamo conosciu­to Grazia e Vittoria Schunnach,
che ancora usano i diminutivi di allora Grazina e Vittorina. Ci hanno raccontato la storia trava­gliata, ma fortunatamente a lieto fine, vissuta da loro,
col papà, Pacifico, e la mamma, Augusta Vitale, nelle valli del Cusio.
Come dimostra la testimonianza che qui viene pubblicata, scritta da
Vittoria nel 1975 per lasciare ai nipoti il ricordo di quegli an­ni, le due sorelle conservano dei fatti e delle persone una memoria dettagliata e vivace.
La più giovane, Grazia, brava e cono­sciuta pittrice, ha anche fissato su fogli di quaderno alcune im­magini di Piana di Forno.
Abbiamo incontrato più di una volta, mia moglie e io, le due sorelle
nella loro casa di Genova. Pure abituate a controllare le loro emozioni, non
hanno potu­to nascondere la gioia di incon­trare un familiare del Capitano,
che aveva loro trovato un allog­gio in Valstrona e che aveva provveduto che
la loro famiglia venisse rifornita dei pochi generi alimentari reperibili in
quei tem­pi e in quelle valli. Io ho avuto una ulteriore testimonianza della
sensazione di generosa sicu­rezza che emanava dalla perso­na di mio padre e
che ha lasciato una traccia non solo in coloro che sono stati al suo fianco
in quei mesi, ma anche in chi lo ha incontrato poche volte. Mi sono anche
reso conto che i membri della famiglia Schunnach sono stati fra gli ultimi
45
Michele Beltrami - Vittoria Schunnach
civili a vedere il Capitano in Valstrona pochi giorni prima del trasferimento della formazione in val d’Ossola e della battaglia di Mégolo.
Devo certamente al ricordo di mio padre la fiducia che le so­relle Schunnach hanno da subi­to riposto in me affidandomi pri­ma l’unica copia del
dattiloscrit­to della loro testimonianza, poi una serie di altri documenti e ri­
cordi: disegni, cartoline, tessere annonarie, lettere.
La rapidità con la quale ho prov­veduto a rendere riproducibili sia il
dattiloscritto, sia alcuni do­cumenti, è stata motivata non solo dal desiderio di conservare io traccia di una vicenda che si è per un breve periodo incontra­ta con la storia di mio padre, ma anche dalla percezione dell’in­
teresse che tale testimonianza potesse avere per altri, storici di professione
e non, sempre più portati all’ascolto, alla lettura e allo studio comparato
delle te­stimonianze di prima mano.
II valore di questo documento, di questo racconto circostanziato e preciso, mi è stato confer­mato da Mauro Begozzi, autore fra l’altro, della più
bella e esau­riente ricerca sul Capitano, II Signore dei Ribelli. Molte delle
cose e alcune delle persone descritte da Vittoria Schunnach esi­stono ancora
e le persone conservano il ricordo della presenza della famiglia ebrea a Piana di Forno. Questo ho potuto verifi­care personalmente in un breve soggiorno estivo all’Albergo del Leone di Forno.
Credo che fra i tanti motivi di in­teresse di questa testimonianza due
emergono per la loro speci­ficità: l’inaspettato rilascio della famiglia Schunnach deciso dal capitano Stamm, che pure era stato avvertito dai fascisti
che avevano rastrellato la Valstrona che poteva trattarsi di ebrei, e il rapporto della famiglia Schunna­ch con alcuni parroci della zo­na.
Credo che il ruolo del capitano Stamm meriti una ricerca a sé, al di là
di questa particolare vicen­da. Del resto lo stesso Mauro Begozzi mi ricordava che su questo personaggio e sulla sua fine esistono testimonianze con­
trastanti.
I parroci che si sono adoperati per assistere e trovare rifugio alla famiglia ebrea sono due, il parroco di Forno, don Giulio Zolla, e il vice parroco di Omegna, don Giuseppe Annichini, al quale gli Schunnach si erano
rivolti, dopo la fuga dalla Valstrona, l’arresto e l’insperato rilascio, e che li
indirizzò al rettore di Pel­la, il quale trovò per loro un nuovo e fortunatamente ultimo rifugio a Egro.
II rapporto con don Giulio Zolla, continuò anche dopo la Libera­zione,
fino agli anni cinquanta, come testimoniano alcune carto­line postali e una
46
Il Capitano, il prete, l’ebreo e il tedesco
lettera, indiriz­zate da don Zolla a Pacifico Schunnach e che le due «colom­
belle», come lo stesso don Zolla le cita nei suoi scritti, hanno avu­to la bontà non solo di farmi leg­gere, ma di donarmi. Purtroppo non siamo fino
ad oggi riusciti a trovare le lettere scritte da Pacifi­co Schunnach allo stesso
don Zolla, che era ricorso al suo aiu­to in momenti di difficoltà eco­nomica,
non rari fra il clero di quelle povere valli, e che vi aveva trovato generoso
riscontro.
Scrive, infatti, don Zolla il 25 agosto 1945: «Stimatissimo e ca­ro Sig.
Pacifico, la sua racco­mandata mi recò doppia conso­lazione, prima di tutto
per le buone nuove e in secondo luo­go per il regalo così generoso fattomi.
Esso mi giunse in un momento di bisogno, quindi doppiamente gradito.
Grazie!!». Ancora il 12 febbraio 1947: «Me ne hanno fatto una grossa! Mi
hanno fatto Monsi­gnore! E siccome io non ho i mezzi per comperare la divisa, o le insegne gli amici vogliono provvedere loro. Di questi giorni hanno voluto l’elenco dei miei amici ed io ho incluso nell’elen­co anche il suo
riverito e per me sempre caro nome».
Pacifico Schunnach deve aver provveduto generosamente in questa ed
altre occasioni se, an­cora il 13 maggio 1948, don Zolla scrive: «II suo regalo mi giunse assai gradito e proprio in urgente bisogno! Che vuole, la nostra vita in paesi piccoli è molto magra. Si vede che qualche anima buona
le suggerì la generosa elemosina».
L’ultima cartolina postale don Zolla la scrive il 19 gennaio 1956 con
mano purtroppo incerta dall’ospedale di Novara, dove si trovava ricoverato per una crisi di diabete: «[…] venne oggi mio nipote, don Giovanni,
nominato parroco di Campello […] e mi disse che i poveri ebrei, i perseguitati di quei tristi tempi, vogliono radunarsi e ricordare chi fece per loro
del bene in quelle dolorose circostanze. Bella e lodevole cosa, ma io data la
mia malattia non posso proprio venire. Mi spiace!».
Questo rapporto epistolare, di cui purtroppo conosciamo solo una delle voci, è una ulteriore prova di quanto fecero molti parroci, alcuni pagando anche con la vita, per aiutare gli ebrei perseguitati, sfidando le disposi­
zioni delle autorità politiche e militari, degli occupanti e lo stesso colpevole silenzio delle gerarchie ecclesiastiche e supe­rando quell’antisemitismo
che fino ad allora aveva caratterizzato la storia e la cultura della Chiesa, come oggi lo stesso Papa ha riconosciuto.
Dall’altra parte c’è un generoso riconoscimento dell’assistenza morale e
materiale ricevuta. As­sistiamo nel giro di pochi mesi a uno scambio delle
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Michele Beltrami - Vittoria Schunnach
parti: prima è la famiglia ebrea ad essere in stato di grave necessità e il prete, anzi i preti a soccorrerli, poi è il prete a trovarsi nel bisogno e la famiglia
ebrea, riconquistati libertà e un certo benessere a venirgli in aiuto.
In un periodo di rinascita di intolleranze e integralismi, del riergersi di
steccati ideologici e religiosi, questa vicenda, questo rapporto, come tanti
altri simili, assume un significato particolare di ammaestramento di umana convivenza e solidarietà.
«Volevamo andare in Svizzera».
I lunghi mesi di clandestinità di una famiglia ebrea in Valstrona e
sul lago d’Orta durante la Resistenza nel trepido ricordo di una figlia
Il periodo vissuto dalla nostra famiglia nella clandestinità ha avuto inizio
il 30 novembre 1943. Ci eravamo trasferiti nella casa di campagna presso Asti
nel 1942 dopo i gravi turbamenti di Genova. Non avevamo frequenti notizie di quanto avveniva se non nelle gite non molto frequenti a Genova e attraverso le poche conoscenze di correligionari di Asti. Le notizie della radio e dei
giornali naturalmente non potevano essere di informazione per quanto ci riguardava come ebrei.
Nell’autunno dello stesso 1942 ci giunse un’avvisaglia diretta di quanto si
deteriorava la situazione: giunse la cartolina precetto per il lavoro obbligatorio alla sottoscritta. Altre due correligionarie astigiane furono «precettate»: le
sorelle Elda e Laura Jona. Fummo aggregate come lavoranti alla sartoria militare di Asti. Debbo dire che fummo trattate con tutti i riguardi e, direi, deferenza, dal capo sarto militare e dalla buona, anziana caporeparto. I giovani
ebrei astigiani furono adibiti al lavoro in una fornace presso Asti. Credo fossero in numero di 7 od 8 e che la loro precettazione non sia durata a lungo. Per
quanto riguarda le mie compagne e me, continuammo il lavoro per pochi mesi.
Poi le amiche Jona furono esonerate (non so per quale motivo). Io fui esonerata avendo presentato una dichiarazione dell’oculista in cui si diceva che la mia
vista non poteva sopportare un lavoro continuo e di precisione. Ritornai perciò
libera dal lavoro obbligatorio.
Non eravamo però tranquilli sulla situazione generale ed eravamo continuamente all’erta, ascoltavamo con assiduità le notizie anche dalle trasmissioni dall’America. Non vi erano notizie precise sulle atrocità che erano già da
tempo in atto in Germania contro gli ebrei. I giornali non davano alcuna notizia ed anche dalle persone profughe in Italia si avevano notizie piuttosto va48
Il Capitano, il prete, l’ebreo e il tedesco
ghe, o forse noi ebrei non eravamo preparati a comprendere e renderci conto del
mortale pericolo. Venne il giorno euforico del 25 luglio, con i dubbi che seguirono in una situazione così contraddittoria. Si giunse all’infausto 8 settembre.
Incominciarono a giungere i provvedimenti che riguardavano gli ebrei: ordine di consegnare le armi di cui si fosse in possesso e gli apparecchi radio. Noi
consegnammo un piccolo revolver ed uno degli apparecchi radio che avevamo,
trattenendone un altro.
Attraverso una trasmissione dall’America sentimmo un giorno che si stava
preparando in Italia un campo di concentramento per gli ebrei, si diceva pure la località e cioè la Toscana. Non dubitammo un istante che la notizia non
fosse vera e la comunicammo a correligionari di Asti. Gli eventi precipitarono: un giorno venne da noi un correligionario di Asti, Giulio Luzzati, che era
in procinto di lasciare Asti e ci avvertì di trasferirci altrove e, se chiamati dalle autorità, di non presentarci.
Immediatamente mia sorella ed io ci recammo in bicicletta in un paese a
circa 15 chilometri da Asti e, con la presentazione di una nostra amica, fissammo delle stanze in casa di una donna del paese.
Nei giorni successivi inviammo il mobilio più necessario. Abitammo lì per
circa due settimane. Poi ritornammo a casa, dovendo provvedere a faccende
che riguardavano la cascina. Nostro padre andò a Genova e ritornò con notizie gravissime avute da un conoscente che viveva già nella clandestinità. Eppure attendemmo ancora prima di lasciare la nostra casa.
La sera del 30 novembre 1943 sentimmo alla radio la fatale notizia:
dal 1° dicembre tutti gli ebrei sarebbero stati trasferiti in campo di concentramento. Allora uscimmo dalla nostra casa, nostro padre e noi due sorelle,
portando con noi un leggero bagaglio. Noi sorelle prendemmo le biciclette.
Passammo la notte nelle vicinanze, precisamente nella villa di un nostro
amico di Genova, che nella sua fiduciosa bontà cercava di tranquillizzarci e
convincerci che non correvamo alcun pericolo. Tanto la gente era ignara di
quanto realmente accadeva. La mattina presto ci incamminammo a piedi verso il rifugio che ci eravamo preparati, portandoci sullo stradone attraverso la
campagna, per evitare di essere visti da qualche conoscente.
Passammo giorni di grande ansietà, mancando assolutamente di alcuna
notizia, domandandoci che cosa potesse essere accaduto in casa nostra e nel timore che il nostro nascondiglio potesse essere in qualche modo scoperto. Un
giorno giunse improvvisamente nel paese un camion di militi fascisti. Ci vedemmo perduti, convinti che fossero venuti a cercare noi. Invece ispezionarono
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Michele Beltrami - Vittoria Schunnach
il municipio per vedere se vi fossero armi e ripartirono.
Incominciammo a capire che il paese nel quale abitavamo era troppo vicino ad Asti e che era troppo facile incontrare qualche conoscenza che avrebbe potuto dire dove eravamo. Per avere qualche notizia pensammo di metterci a contatto con delle persone che sapevamo affezionate e sicure, fratello e sorella, figli di un nostro antico fittavolo e che avevano vissuto molti anni nella nostra cascina.
Ci recammo noi due sorelle in bicicletta a cercarli nella loro abitazione alla periferia di Asti. Era sera. La buona Luigina preparò per noi la sua stanza
ed andò a cercare una nostra amica di Genova che per le vicende della guerra
era sfollata ad Asti con la famiglia e le disse in gran segreto che volevamo parlarle.
Questa venne subito ad incontrarci e da lei sapemmo che in casa nostra avevano messo i sigilli, che eravamo stati cercati in ogni modo e che lei era stata ripetutamente interrogata per sapere dove eravamo. Sapemmo in seguito che anche un’altra nostra amica era stata condotta di sera alla Casa del Fascio, con la
madre che aveva voluto seguirla, e sottoposta a lungo interrogatorio.
Questa amica, Teresa Germanino, era l’unica persona che sapesse dove eravamo perché lei stessa ci aveva indirizzato alla persona che ci aveva dato le
stanze, ma coraggiosamente negò.
Ci disse in seguito che in quei momenti pensava che per lei il rischio poteva consistere in qualche mese di prigione, mentre per noi era in gioco la vita, e
questo le diede la forza di resistere. Per indurla a parlare le dissero perfino che
una di noi figlie era già stata presa.
La nostra amica genovese che ci era venuta a parlare nel lasciarci ci abbracciò e disse: «Salvatevi, salvatevi se vi prendono vi mandano in Polonia e
non ritornate più». Da queste parole capimmo che negli ultimi tempi si erano diffuse le notizie del destino riservato agli ebrei. Per parte nostra tali parole ci sembrarono alquanto strane, tanta era la nostra ignoranza della situazione. Decidemmo di tentare di andare in Svizzera, benché non sapessimo in che
modo si sarebbe potuto fare, senza correre rischi maggiori. Certo comprendevamo che il rifugio in cui eravamo avrebbe potuto proteggerci per un po’ di tempo, forse qualche mese, ma non per un periodo che si prevedeva lungo.
Seguivamo le notizie sui giornali (molto mi impressionò sentire del processo di Verona) vedevamo che l’Italia era nel caos ed in balia delle forze tedesche
e comprendevamo che l’unica salvezza era nella vittoria degli Alleati. Nella ricerca di un modo per passare in Svizzera ci venne in aiuto il nostro ex fittavolo
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Il Capitano, il prete, l’ebreo e il tedesco
Francesco Dusio, che da molti anni era operaio alla Fiat a Torino. Ci disse che
alcuni suoi colleghi, che facevano parte del Comitato di Liberazione, avrebbero potuto accompagnarci in una località di montagna occupata dalle forze della Resistenza, da cui avremmo potuto passare in Svizzera.
In Valstrona
Non avevamo scelta. Il 16 gennaio 1944 partimmo in treno, accompagnati
da due persone del Comitato di Liberazione, che erano venuti da Torino. Partendo dalla piccola stazione locale, con sosta a Vercelli e Novara, giungemmo
la sera ad Omegna, cittadina dell’estremo nord del lago d’Orta, verso le montagne. La mattina dopo, mediante la presentazione di un foglio di riconoscimento da parte dei nostri accompagnatori al presidio all’ingresso della valle,
entrammo in Valstrona.
Questa valle fu uno dei luoghi dove si svolse, fino alla fine della guerra, la
lotta della Resistenza. Situata tra la Valsesia e la val d’Ossola, è una valle stretta, fiancheggiata da alti monti. È percorsa dal torrente Strona che le dà il nome e che sfocia nel Toce e quindi nel lago Maggiore. Un tempo molto più abitata, nel periodo di cui parlo, vi erano molte case disabitate ed in rovina. Verso
la parte più alta della valle vi era un intero agglomerato di case nelle stesse condizioni. Le risorse della valle erano costituite dal legname, dall’allevamento di
poco bestiame, da cui si ricavano latte e formaggi, e dalla coltivazione di patate in minuscoli campicelli. Vi erano poche piante da frutta, ma i frutti, dato il clima, non giungevano a maturazione. Vi era ancora l’uso del costume. Le
donne portavano un costume simile a quello delle valdostane e filavano ancora
la lana delle loro pecore, che lavoravano ai ferri per fare calze e maglie. Questa
popolazione di montanari, abituata ad una vita dura, dimostrò, nelle gravi vicende che accaddero nella zona, la sua umana bontà e generosità.
La strada della valle inizia ad Omegna. A qualche chilometro vi è il paese
di Strona, sede del municipio, più in alto il paese Forno. Ha termine a Campello Monti, che è ai piedi dei monti che chiudono la valle. Questo paese era
un tempo luogo di gite e villeggiatura. In una grande costruzione, un tempo
albergo, vi era la sede della formazione della Resistenza, il cui capo era il comandante Beltrami. Di questo eroico combattente della libertà si è sempre parlato nelle commemorazioni della Liberazione. Architetto di Cireggio, nei pressi di Omegna, subito dopo l’8 settembre aveva riunito gruppi di fuggiaschi e
soldati sbandati. Nel gruppo vi erano anche prigionieri inglesi ed una fami51
Michele Beltrami - Vittoria Schunnach
glia di ebrei milanesi che si erano rifugiati sui monti subito dopo l’armistizio, composta dai genitori, ancora in giovane età, una figlia ed un figlio, sotto i vent’anni.
A Campello su un alto pennone sventolava la bandiera tricolore.
Presentati al comandante, questi ci fece dare un alloggio in una frazione
– Piana di Forno – un po’ più a valle, due stanze in una nuova costruzione.
Usufruivamo del rancio dei patrioti, che questi ci portavano. A proposito del
nome che si è dato a questi resistenti, dirò che il termine «partigiani» era sconosciuto. Per tutti, essi erano «patrioti», anche la canzone che cantavano parlava di «patrioti». Il termine «partigiano» si udì molto più tardi, almeno da
noi, alla fine del 1944.
Pochi giorni dopo il nostro arrivo, venne a trovarci la ragazza ebrea che
avevamo visto all’arrivo, insieme ad un prigioniero inglese. Ci disse che un
gruppo, tra cui la sua famiglia ed i prigionieri, si organizzava per passare nella val d’Ossola, attraverso le montagne. La traversata era lunga e difficoltosa,
essendo pieno inverno. Dalla val d’Ossola, bisognava poi affrontare un lungo
percorso in montagna per raggiungere la Svizzera. Questa era un’impresa impossibile per la nostra famiglia, non allenata né equipaggiata e questo, specialmente per i nostri genitori già anziani. Dovemmo rinunciare. Il gruppo partì. Giunsero nella val d’Ossola dopo una traversata faticosa e, ci dissero, con
un ferito.
Un giorno, verso la fine di gennaio, corse voce che il gruppo si scioglieva.
Era vero. Si disse che i tedeschi avevano minacciato di assalire in forze la valle. Vedemmo andare via i patrioti, alla spicciolata, essi stessi non sapevano dove andare. Ultimo a lasciare la valle fu il comandante, con pochi fedeli amici,
dopo avere ammainato la bandiera. Il comandante ci attese sulla strada, ci disse che sperava di potere mandarci a prendere per portarci in salvo. Egli fu ucciso dai tedeschi in combattimento, sorpreso con pochi compagni, a Mégolo, nella val d’Ossola, pochi giorni dopo.
Con la partenza dei patrioti, la valle divenne silenziosa e quieta. Rimanemmo nelle stanze che occupavamo, domandandoci che cosa ci conveniva fare. Passare in Svizzera da quel luogo non era possibile, scendere dalla valle e
cercare un altro rifugio sarebbe stata la cosa migliore, ma non conoscevamo i
luoghi e non conoscevamo nessuno a cui poterci rivolgere senza pericolo. Non
eravamo in possesso di documenti di identità né di tessere alimentari e questo
aumentava la difficoltà nella ricerca di un luogo dove risiedere. Per i nostri acquisti di alimentari nella valle e nel paese di Forno si potevano trovare alcuni
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Il Capitano, il prete, l’ebreo e il tedesco
alimenti basilari, latte, formaggio, polenta e riso. Mancavano totalmente verdura e frutta. Una volta una donna delle vicinanze che stava facendo il burro (nel solito mastello di legno) ci dette della panna montata, squisita. Un’altra volta, essendo stato catturato un camoscio, ci fu dato un pezzo di carne col
quale facemmo un ottimo arrosto. Gli stessi valligiani non mangiavano mai
carne, se non nei casi in cui uno dei loro animali si ferisse cadendo ed occorresse abbatterlo.
Giungevano di passaggio dei patrioti ed alcuni li incontravamo ripetutamente ed avevamo con alcuni una certa dimestichezza. Uno di questi patrioti, che in precedenza era stato cuoco della formazione, ci diede una volta delle tessere alimentari. Un altro patriota sentendo che non avevamo documenti,
ci promise di fornirceli.
Con difficoltà trovammo modo di farci fare le fotografie. Ci vennero così fornite delle carte false, con nomi che imparammo a memoria e timbri di
un paese delle vicinanze di Omegna. Nell’estate un ufficiale di una formazione di patrioti cattolici (non mi pare che si dicesse allora «democristiani») che
era andato a ritirare un quantitativo di farina dalla panetteria forno del paese e lì aveva incontrato mia sorella andata per acquisti, lasciò per la nostra famiglia 70 chilogrammi di farina perché potessimo ritirare il pane per un certo periodo. Qualche gruppo di patrioti si fermò nella valle per più giorni. Ricordo il giovane tenente Ferdinando (si trattava di nomi fittizi, di nessuno si
sapeva l’identità e la provenienza) che col suo gruppo si fermò un certo tempo
nelle vicinanze: era una persona gentilissima, con la quale spesso parlavamo.
Sentimmo con orrore più tardi - il suo gruppo si era poi allontanato dalla valle - che era stato ucciso.
Ad un suo compagno che incontrammo più tardi chiedemmo che cosa fosse successo ed egli rispose con queste sole parole: «Tra noi». Casi tremendi come questo potevano verificarsi in quei tempi oscuri e tragici. Intanto erano cominciate le scorrerie dei tedeschi e dei militi fascisti. Parecchie volte giunsero
improvvisamente le autoblinde tedesche, con grande terrore della popolazione. Sempre alla caccia dei patrioti, sparavano se vedevano qualcuno sulla strada. Fino a che non si sentiva che erano tornati indietro, non si era tranquilli. Una volta sentimmo degli spari. Quando le persone del paese poterono uscire dalle loro case, raccolsero il corpo di un patriota ucciso, che era stato sorpreso e non aveva potuto fuggire in tempo. I pietosi montanari composero il corpo
nella cappelletta lungo la strada, il vecchio parroco riunì le poche cose che aveva nelle tasche per un eventuale riconoscimento, una donna diede un lenzuolo.
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Michele Beltrami - Vittoria Schunnach
Nostro padre andò a visitare la salma dell’ucciso. Al ritorno disse che dai lineamenti aveva tratto la convinzione che si trattasse di un giovane ebreo.
Vi furono due rastrellamenti da parte di colonne di militi fascisti che giungevano a piedi, a volte scendevano dai monti. Le autoblinde non potevano più
giungere, essendo stato distrutto dai patrioti un ponticello ed un tratto di strada all’inizio della valle. Sfuggimmo ai rastrellamenti, la prima volta perché
l’ufficiale che comandava la colonna quando ci vide ci disse di ritornare pure
a casa. La seconda volta, avvertiti in tempo, accompagnati da una giovane del
paese, salimmo in una località più in alto sui monti.
Una strage crudele avvenne a Forno. Nel paese si fermarono una sera un
gruppo di patrioti, con loro erano due medici del Comitato di Liberazione. In
qualche modo avvertiti, piombarono nel paese i militi fascisti: fecero prigionieri i patrioti che erano riuniti nella scuola, li portarono nella piazza e selvaggiamente li fucilarono. Invano il vecchio parroco pregò e supplicò in ginocchio
i militi perché risparmiassero i prigionieri e li conducessero in città per farli
giudicare. Nulla poté evitare il feroce eccidio. Tra le vittime vi era un patriota di Omegna che conoscevamo perché ci aveva portato con l’automobile nella
valle al nostro arrivo. Lo avevamo incontrato pochi giorni prima ed alle nostre
raccomandazioni di essere prudente ci aveva rassicurato, dicendo che si teneva
sempre fuori dai paesi, in alto sui monti. Visitammo i tumuli degli uccisi nel
cimitero di Forno pochi giorni dopo, in una atmosfera di raccapriccio e dolore della popolazione, mentre grande era il dolore e l’ira dei patrioti, che, ignari, non avevano potuto intervenire.
Il nostro problema era sempre quello di trovare un altro luogo dove stare nascosti. Alcune volte noi sorelle eravamo andate a Omegna superando, non senza apprensione, il posto di blocco fascista all’ingresso della valle. Occorreva andare e ritornare a piedi nello stesso giorno. In quella occasione eravamo andate a cercare un sacerdote di Omegna, dietro suggerimento del parroco di Forno.
Purtroppo non avevamo potuto trovarlo e non osavamo rivolgerci a sconosciuti per l’aiuto che ci occorreva. Intanto avendo assoluto bisogno delle tessere alimentari, le avevamo chieste al municipio di Strona, in base alle nuove carte di
identità. Questo forse fu un errore.
L’arresto e la salvezza
La mattina del 22 ottobre 1944 una formazione fascista giunse in forze
nella valle. Lasciarono gruppi armati nei paesi lungo la strada, un certo nu54
Il Capitano, il prete, l’ebreo e il tedesco
mero di militi giunse nella località in cui eravamo noi. Ci accorgemmo all’improvviso che le case erano circondate. Un milite venne da noi, chiese di vedere i nostri documenti che nostro padre gli mostrò. Dovemmo scendere col gruppo nel paese di Forno. Questa formazione era la Brigata nera ministeriale. Era
con loro un sergente tedesco che apparentemente aveva autorità su tutta la formazione. Da lui avemmo un appoggio su un particolare: ci fece restituire le
chiavi delle nostre stanze dal milite fascista che le aveva trattenute. Dovemmo
seguire la colonna fino ad Omegna.
Intanto si poneva per noi il dilemma se era meglio presentare i documenti
falsi, con il timbro di un paese vicino oppure distruggerli. Decidemmo di disfarcene, ciò che dovemmo fare con ogni precauzione. Si era già alla fine del
1944, forse a quell’epoca si era fatta strada negli occupanti l’idea di una sconfitta vicina. Alcuni militi della colonna ci parlarono; manifestando il loro scoraggiamento, una «ausiliaria» ci disse che era certa di finire fucilata. Giunti a
piedi a Omegna e fatti salire su un camion, fummo avvertiti che saremmo stati
condotti al Comando tedesco a Baveno, sul lago Maggiore. Con noi vennero alcuni militi, tra cui quello che ci aveva prelevato in casa. Era sera, faceva molto
freddo (data la zona di montagna) ed eravamo totalmente scoraggiati. Ci dicemmo tra noi che qualunque cosa dovesse succedere, occorreva resistere in ogni
modo, perché la guerra era alla fine. Attraverso Gravellona Toce, giungemmo
a Baveno. Il Comando era istallato al Grand Hotel Bellevue, interamente occupato dai tedeschi. Fummo interrogati da un ufficiale tedesco. Sentivamo che
il nostro accompagnatore ripeteva la parola «Jude». L’ufficiale ci chiese i documenti, allora nostro padre si rivolse al milite, dicendo che dovevano essere rimasti a lui. Questo, interdetto, cercò nelle tasche, senza naturalmente trovarli.
Convenimmo che si erano perduti. L’ufficiale disse che doveva condurci ad Intra. Durante il tragitto i militari fascisti scesero dal camion.
Allora l’ufficiale ci disse che ad Intra non dovevamo scendere e che saremmo
ritornati a Baveno con lui. Ritornati a Baveno fummo alloggiati in una grande camera del lussuoso albergo e fummo interrogati nuovamente a mezzo di un
interprete italiano. Raccontammo di essere degli sfollati. L’ufficiale ci fece dire
che l’indomani mattina ci avrebbe fatto riaccompagnare ad Omegna, non gli
era possibile farci riportare dove eravamo stati prelevati. Ci disse di cambiare
località e portarci altrove. Finì, sempre a mezzo dell’interprete, un civile italiano, dicendo che i civili non dovevano prendere parte alle cose di guerra e che, se
avessero fatto così, alla fine della guerra sarebbero stati ricompensati. Mia sorella andò a prendere le razioni a noi destinate nella cucina da campo tedesca
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Michele Beltrami - Vittoria Schunnach
al pianterreno. La mattina dopo, prima di partire, avemmo di nuovo le razioni che ci apprestammo a consumare in una delle sale dell’albergo.
Un episodio curioso: mentre mangiavamo entrò un gruppo di militi fascisti
coi libri sotto il braccio e ci dissero di allontanarci perché dovevano fare lezione. Noi dicemmo che i tedeschi ci avevano detto di andare lì. Rimasero interdetti e se ne andarono a trovarsi un altro luogo per la lezione.
Ritornammo ad Omegna su un camioncino tedesco che portava le razioni
per i soldati lì dislocati. Ci parlarono amichevolmente e ci dettero un pacchetto
di sigarette, che abbiamo ancora. Appena giunti ad Omegna, scendemmo dal
camioncino e ci allontanammo a precipizio!
A poca distanza abitava una donna della Valstrona che avevamo visto parecchie volte. Il marito saliva giornalmente nella valle col carro, per trasporti
e commissioni. Trovammo la donna già al corrente della nostra avventura! Ci
disse di non andare via da Omegna senza parlare col sacerdote don Giuseppe,
che ci attendeva. Questa era la persona che varie volte avevamo cercato, senza
mai poterlo trovare. Così sentimmo da lui che la mattina stessa aveva chiesto di
noi al Comando tedesco e che aveva sentito che eravamo stati rilasciati. Questo eroico sacerdote durante tutto il tremendo periodo dell’occupazione era sempre stato a contatto con gli occupanti, intervenendo a favore dei patrioti, aiutando in ogni occasione le persone che avevano bisogno di aiuto. Alla fine della guerra chiese che gli descrivessimo l’ufficiale tedesco, fatto prigioniero con gli
altri militari tedeschi dagli Alleati. Benché il sacerdote cercasse di mettere l’accento sulle azioni di umanità che l’ufficiale aveva compiuto, questi in un momento in cui non era sorvegliato si uccise.
Avevamo finalmente la possibilità di avere aiuto per trasferirci in un luogo più tranquillo. Il sacerdote ci domandò se avevamo qualche idea di dove andare. Noi avevamo studiato i luoghi attentamente su una carta del Touring ed
avevamo osservato che la zona ad ovest del lago d’Orta era sempre immune da
azioni belliche e rastrellamenti.
Così il sacerdote ci dette una lettera di presentazione per il rettore di Pella,
sul lago d’Orta. I nostri genitori presero alloggio in un alberghetto di Omegna,
in cui non domandavano i documenti, mentre noi sorelle ci incamminammo
verso la nostra abitazione per prendere la nostra roba. Al nostro passaggio nella valle tutti si congratulavano per la nostra salvezza, alcuni patrioti ci raccomandarono di non farci prendere la seconda volta, perché non ci saremmo salvati. L’indomani mattina scendemmo ad Omegna, dove dovevamo attendere
che fosse portata la nostra roba.
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Il Capitano, il prete, l’ebreo e il tedesco
A Egro
A quel tempo vi era nella zona di Orta un servizio di vaporetti che collegava le varie località sul lago. Da Omegna il vaporetto andava ad Orta, poi attraversava il lago andando a Pella, dove noi eravamo diretti. In seguito il servizio non funzionò più. In quel periodo vi erano nella zona di Orta molti sfollati, persone che si erano trasferite nelle belle case e ville. Ci pareva un sogno vedere gente ben vestita, con abiti chiari e scarpe bianche! Noi avevamo indosso
abiti che portavamo da parecchi mesi, scarpe chiodate. Mia sorella ed io portavamo degli zaini di stoffa che noi stesse avevamo cucito per mettere le provviste e che ora ci servivano per porvi gli indumenti. Così abbigliati prendemmo
i biglietti e salimmo sul vaporetto, che era già al completo.
Al momento della partenza salirono a bordo dei militi fascisti chiedendo a
tutti i documenti. Fortunatamente le persone a bordo erano numerose ed erano
impazienti per il ritardo della partenza. Già un milite arrivava verso di noi.
Allora un gentile signore seduto vicino a noi disse forte a nostro padre: «Dicano che sono sfollati!». Nostro padre disse: «Siamo sfollati». Il milite non osò insistere e ritornò indietro, mentre nostro padre rimetteva in tasca una busta piegata a metà che aveva in mano e che doveva simulare un documento, se vista da lontano. Il vaporetto partì. Da quel momento la nostra vita fu più calma e serena.
Il rettore di Pella trovò per noi un’abitazione sopra il lago, nel paese di Egro.
La sua buona sorella ci fornì la biancheria di casa, senza la quale non avremmo potuto ottenere l’abitazione. La zona, un altipiano sul lago, era splendida,
con belle case, il clima dolce, ci pareva di essere in paradiso. Vi era frutta bellissima e si trovava carne da un macellaio in un paese vicino.
Noi figuravamo come sfollati di Perugia, così aveva detto il sacerdote che
aveva fissato la casa per noi. Nessuno di noi era mai stato a Perugia, invece
ci vedemmo obbligati a rispondere a domande sulla città, come: se vi erano i
tram ed altro! Rimanemmo assai male quando apprendemmo che nel paese vi
era sfollata una famiglia di Genova. Queste persone, che non conoscevamo, per
fortuna, furono per noi amici cari e premurosi e rimasero buoni amici anche
in seguito per tutti questi lunghi anni. Allora dovevamo fingere di non conoscere Genova e dovevamo ascoltare con interesse la descrizione della città, della splendida passeggiata del Lido, del teatro Carlo Felice, e non era facile farlo
senza tradirci. Non so come non riconobbero il nostro accento.
Non che non vi fossero pericoli anche in quella zona. Nell’isola di S. Giu57
Michele Beltrami - Vittoria Schunnach
lio vi era un presidio fascista e spesso si sentivano fucilate. Una volta una fucilata uccise una donna sulla porta di casa sua, sulla costa del lago. Vi fu un rastrellamento, rapido, che costrinse i giovani a nascondersi negli sparsi casolari.
A volte sentivamo un suono, come di una macchina da scrivere, proveniente da
una casa in faccia a quella in cui abitavamo. Non ce lo spiegavamo, del resto
non vi davamo peso. Dopo la fine della guerra apprendemmo che nella casa vi
era una radio ricetrasmittente per il collegamento con gli Alleati. Queste trasmissioni guidavano anche i lanci, che andavano sempre più intensificandosi.
I paracadute scendevano nelle vicinanze e sulle pendici del Mottarone che declinano verso il lago d’Orta, portando rifornimenti di ogni genere.
Alla fine della guerra, le formazioni partigiane (ormai si diceva così) erano
rifornite, equipaggiate con divise nuove. I paracadute di bella seta bianca erano ambitissimi dalle donne della zona! Dopo la fine della guerra apprendemmo anche che, nel paese in cui eravamo, erano stati nascosti due ufficiali inglesi, sempre in divisa, che guidavano i collegamenti. Durante il rastrellamento
nel paese erano stati nascosti nella soffitta della chiesa. Da parte nostra godemmo quel felice soggiorno anche se mia sorella appena giunta si ammalò. Non vi
era modo di capire che cosa avesse. Guarì dopo poco tempo di buona alimentazione e pensammo che il male fosse dovuto alla carenza di vitamine in quel
lungo ultimo periodo. Un giorno nostro padre scivolò sul ghiaccio e si produsse una incrinatura al polso. Dovemmo accompagnarlo dal dottore, in un paese
abbastanza lontano, a piedi nella neve. Il nostro conoscente sfollato da Genova
ci accompagnò e lo sorresse durante il tragitto, con affettuosa premura.
Qualche volta andammo noi sorelle ad Omegna, a piedi, andata e ritorno. Lo scopo era di vendere qualche oggetto d’oro, essendo rimasti senza denaro. Anche questo era proibito, non si poteva vendere o acquistare oro. Trovammo un orologiaio che ci dette piena fiducia, a cui necessitava l’oro per le «fedi» matrimoniali. In una di queste occasioni incontrammo il buon sacerdote
che ci aveva aiutato.
Gli dicemmo che forse era meglio cercare di andare finalmente in Svizzera.
Egli ci disse di pazientare ancora tre o quattro mesi. La sua previsione fu giusta! Ad Egro sentivamo, trovandoci dai nostri conoscenti di Genova, le trasmissioni dall’America. Quando vi erano notizie importanti il nostro amico veniva la mattina a comunicarcele, ci chiamava battendo sui vetri della finestra.
Una sera sentimmo parlare da New York un nostro conoscente di Genova, l’avvocato Enrico Pavia. Ci fece molta impressione sentire la voce di un amico dopo tanto tempo, dovemmo però stare attenti a non tradirci. Anche ad Egro sen58
Il Capitano, il prete, l’ebreo e il tedesco
tivamo la mancanza delle tessere per pane ed altro. Il pane, tra l’altro, non era
affatto buono, era fatto con una miscela a base di riso ed era mangiabile solo
appena sfornato. Decidemmo di chiedere le «nostre» tessere, quelle che avevamo chiesto in base alla carte false, al municipio di Strona. Andammo ad Omegna il 23 aprile. Il tempo era bello e tiepido, lo spettacolo del lago e dei monti splendido.
Passando lungo il lago vedemmo un gruppo di militi fascisti che facevano
tranquillamente il bagno nel lago e nuotavano. Andammo dalla nostra conoscente e la pregammo di fare ritirare le tessere dal marito, nel giro in valle della
mattina dopo. Pernottammo in un albergo. La mattina dopo ci recammo dalla
nostra conoscente. Ci disse che la mattina era successa una cosa strana. Quando il marito era andato al Comando tedesco per chiedere come tutti i giorni il
lasciapassare, gli avevano detto che non occorreva e di andare pure senza! Nel
primo pomeriggio arrivò l’uomo con le tessere tanto sospirate.
Ritorno a casa
La strada era lunga ed era già buio. Ci affrettammo a ritornare a casa, ad
un certo punto la strada attraversava un tratto boscoso. Sentendo strani fruscii,
ci munimmo di un bastone. Più avanti incontrammo nostro padre che era venuto ad incontrarci. L’indomani mattina subito andammo al paese a portare le tessere al negozio. Là sentimmo che i tedeschi stavano lasciando Omegna.
Rientrammo ad Egro in fretta e da uno spiazzo verso il lago vedemmo sulla
strada della riva opposta la lunga fila di camion tedeschi che scendevano verso
sud. Era il 25 aprile. La guerra era finita.
Avremmo dovuto sentirci felici. Ma troppe ansie e timori riempivano la
nostra mente. Ci domandavamo che cosa avremmo trovato al nostro ritorno,
quante rovine, quante perdite, quanti lutti. Per fortuna eravamo tranquilli per nostra sorella e per la sua famiglia, avendo avuto sue notizie nel marzo
1944, poco prima della liberazione di Roma da parte degli Alleati. Ma temevamo per la sorte del fratello di nostra madre e della sua famiglia, avendo sentito prima della nostra partenza che tutti erano stati internati in un campo in
Italia. Purtroppo nessuno di loro ritornò dalla deportazione. Molte altre persone, parenti e conoscenti, subirono la stessa sorte.
Benché i nostri amici prudentemente ci consigliassero di attendere prima
di lasciare Egro, essendovi ancora movimenti militari ed essendo la situazione
confusa, non potemmo resistere che pochi giorni. Il 30 aprile lasciammo Egro.
59
Michele Beltrami - Vittoria Schunnach
I nostri amici erano molto commossi nel salutarci e noi promettemmo che ci saremmo rivisti a Genova!
Scendemmo dal paese la mattina, attraversammo in barca il lago, sbarcando a Gozzano, da lì andammo a piedi fino a Borgomanero. Tutto era stranamente calmo, non vi erano veicoli sulla strada né funzionavano i treni, tutto
sembrava paralizzato. Passammo la notte a Borgomanero e l’indomani mattina, con un mezzo di fortuna, giungemmo a Novara: era il 1° maggio. Proseguimmo fino a Vercelli e l’indomani mattina, scendendo dall’albergo, trovammo le strade occupate da lunghe file di mezzi militari americani. Proseguimmo con mezzi vari fino a Casale e da lì ad Asti, non senza avere incontrato un
vicino, al quale chiedemmo notizie della nostra casa. Malgrado le sue reticenze, comprendemmo che i danni erano stati gravi.
Non potendo recarci subito a casa nostra, ci recammo in un albergo di Asti,
chiedendo le stanze per la notte. Qui successe un episodio umoristico! La proprietaria rifiutò di darci alloggio perché non avevamo documenti di riconoscimento. Ci volle parecchia insistenza ed anche una dose di fermezza da parte nostra, perché si decidesse a darci le stanze. La scrupolosa signora rimase alquanto sconcertata quando l’indomani mattina vide venire i nostri amici a
salutarci.
La nostra dolorosa avventura era finita e, dopo tante ansie e pericoli, ne
eravamo usciti salvi.
Vittoria Schunnach
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La Decima Mas di Junio Valerio Borghese,
i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
di Massimiliano Capra Casadio
Il testo che viene di seguito riportato rappresenta parte di una lavoro
più ampio, con il quale si intende ricostruire le vicende della Decima Flottiglia Mas in un periodo circoscritto che va dall’8 settembre 1943 all’aprile 1945. Il presente saggio si propone quindi, di analizzare l’impegno della compagine comandata da Junio Valerio Borghese nella lotta antipartigiana, soffermandosi anche sui singolari rapporti di scontro, ed a volte di
collaborazione, che il reparto intrattenne con alcune formazioni della Resistenza. All’interno di queste pagine vengono esaminati i giudizi contrastanti della storiografia che a suo tempo si è occupata della Decima; l’atteggiamento dei marò, che nella scelta dell’8 settembre rifiutarono ideologicamente di combattere contro altri italiani; i rapporti della formazione
con le autorità germaniche presenti sulla penisola, le quali tendevano ad
impiegare le forze militari della Rsi essenzialmente nella repressione antipartigiana; le operazioni di controguerriglia a cui partecipò il reparto ed i
brutali episodi di cui si resero protagoniste alcune delle compagnie più violente. Nel testo vengono inoltre messe in luce le contraddizioni che caratterizzarono le idee, spesso utopistiche, e le decisioni del comandante Borghese; contraddizioni che si palesarono in diverse vicende e che determinano la definizione di politica oscillante, che costituisce un tratto fondamentale dell’intera ricerca.
I controversi rapporti di scontro e collaborazione con i partigiani
Dall’esame della storiografia esistente si nota come i giudizi sull’operato della Flottiglia nei confronti del movimento partigiano, divergano in
modo piuttosto netto. Si delinea infatti una distanza incolmabile fra le posizioni di alcuni testi emersi dal panorama antifascista e quelle dei volumi
e degli articoli dell’ampia memorialistica di parte. In mezzo, alcuni storici,
61
Massimiliano Capra Casadio
fra cui Renzo De Felice, la sua allieva Sole De Felice, Luigi Ganapini, Nicola Tranfaglia, Aurelio Lepre ed altri, hanno tentato di indagare le dinamiche con le quali la formazione di Borghese intraprese la lotta antipartigiana, evidenziando ancora una volta pareri discordanti, nonostante quasi
tutti convengano sul carattere violento della guerra civile in generale, e sulla durezza della reazione della compagine di Borghese ad una tale situazione - o perlomeno di alcuni reparti della Decima, come vedremo, maggiormente coinvolti di altri1. Alla vicenda si sono dedicati anche illustri giornalisti, senza riuscire comunque ad esprimere un giudizio risolutivo nè tanto
meno ad appianare le distanze fra le differenti opinioni e le prese di posizione 2. Da una parte alcuni lavori sottolineano l’uso indiscriminato della violenza e l’esaltazione della morte e del sangue tipiche della formazione. Ad esempio nell’opera enciclopedica La Storia, delle Grandi Opere di
Utet Cultura, un testo di grande diffusione, si definisce la Decima come
un corpo «noto per l’efferatezza e l’assenza totale di clemenza nei confronti dei “nemici della patria”, e fu per questo motivo che essa si impegnò in
una feroce repressione della resistenza partigiana»3.
Nella recensione di Maria Grazia Gregori allo spettacolo teatrale Mai
morti, di Renato Sarti, si trova un’altra definizione del genere; la Decima
è «una milizia tutta speciale, […] crudelissimo corpo speciale nato sotto
l’egida del principe Valerio Junio Borghese. Una milizia che si macchiò,
come del resto tutte le milizie fasciste, di delitti efferati, […] nelle azioni di
rappresaglia contro i partigiani e la popolazione civile. […] La violenza per
la violenza, retaggio di un’idea del potere che giustifica ogni azione»4. Nicola Tranfaglia afferma che la Flottiglia si distinse, negli ultimi venti mesi del secondo conflitto mondiale, «per la ferocia utilizzata nelle azioni di
controguerriglia contro i partigiani e nelle rappresaglie contro la popolazione», mentre nel volume di Pasquale Chessa si legge che «l’esercito personale […] del principe» venne impegnato «soprattutto nella repressione
antipartigiana», accentuando in tal modo «il suo ruolo decisivo nell’imbarbarimento della guerra civile»5. Mirco Dondi inoltre sostiene che la compagine di Borghese applicò «metodicamente le pratiche della tortura» e definisce la Decima una delle «più violente e indisciplinate formazioni di Salò […] punta estrema del collaborazionismo e responsabile di un’impressionante serie di crimini di guerra»6. E ancora Giorgio Bocca ribadisce che,
in qualche zona del Nord Italia, alcuni battaglioni della Flottiglia raggiunsero la ferocia che caratterizzò le peggiori formazioni naziste, essi si adegua62
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
rono presto alla «guerra senza prigionieri, dove arrivano si fucila, si tortura e si impicca come succede con i tedeschi o con le brigate nere»7. Dall’altra parte gli uomini della Decima rifiutano in modo categorico questi giudizi. Diversi lavori sottolineano decisamente il fatto che la compagine di
Borghese fosse una formazione il cui unico scopo era quello di combattere
al fronte e che cercò in ogni modo di sottrarsi alla «guerra fratricida», nella quale venne involontariamente invischiata. Sergio Stancanelli infatti, a
proposito di una serie di documentari andati in onda su Rai Uno, in cui si
affermava che i combattenti della Mas «sono specializzati nel dare la caccia
ai partigiani», risponde, in modo sprezzante, che si tratta di un’affermazione «tanto falsa quanto vile. I marò […] erano addestrati a combattere in
mare e in terra gli anglo-americani e a fronteggiare gli slavi lungo i confini
orientali, in difesa di Trieste e Gorizia. […] contro i partigiani […] combatterono solamente quando vennero attaccati e dovettero difendersi»8. A
sostegno della medesima tesi in un altro articolo, firmato da Emilio Maluta e Marino Perissinotto, si legge: «La Decima vuole combattere al fronte
per l’onore d’Italia, ma purtroppo si ritrova coinvolta, suo malgrado, nella guerra civile. Espressamente create per contrastare il movimento partigiano sono altre forze militari […] come la Gnr, le Brigate Nere, il Cars,
il Cogu. La Decima […] nel vortice della guerra fratricida tra compatrioti ci si ritrova involontariamente. Ma vuole la Decima combattere contro i
partigiani? Sino all’estate del 1944 decisamente no, e successivamente solo per quanto è necessario a garantire la sua sicurezza, e con molte eccezioni […]. Quando […] è costretta a prendere l’iniziativa di operazioni antiguerriglia, il Comandante Borghese permette, a chi non è d’accordo, di
chiedere il congedo […]. La Decima non è stata una forza atta alla brutale repressione quotidiana»9. Dello stesso parere risulta la posizione di Giuseppe Parlato, il quale afferma nell’introduzione alla biografia di Borghese
scritta da Sergio Nesi: «mentre le altre formazioni operavano in funzione
antipartigiana, la Decima attese che i partigiani attaccassero per poi procedere, con riluttanza, alla guerra antipartigiana. La differenza è tuttavia assai
sottile, vista la guerra civile. In ogni caso, almeno nei vertici e nelle intenzioni, la Decima non voleva combattere contro altri italiani, bensì portare
a termine l’impegno d’onore verso la nazione concludendo la guerra anche
con una sconfitta. Ciò determinò, in qualche caso, momenti di cavalleria e
di rispetto fra le due parti in lotta e persino qualche momentaneo accordo
politico»10. Non solo le opere di memorialistica quindi, insistono sul con63
Massimiliano Capra Casadio
cetto che la formazione rifiutava in linea di massima la guerra civile, ritenendola aberrante e definendola fratricida, e che dovette inoltre impegnarsi nella lotta contro le bande per fronteggiare una situazione nella quale involontariamente essa si era trovata invischiata. Vengono espressi dunque
due giudizi antitetici, da una parte si ritiene la Decima una formazione che
si impegnò, con ferocia e senza riserve, nell’annientamento del movimento
della Resistenza, mentre dall’altra si sostiene che il reparto dovette intervenire contro i partigiani quasi unicamente in funzione difensiva.
Da un’altra ottica Renzo De Felice vede il comportamento della compagine di Borghese, nei confronti dei movimenti partigiani, caratterizzato
da tre fasi: «Tipici in questo senso sono i tre stadi che spesso sono riscontrabili nel loro atteggiamento […] primo, la Decima combatte per l’onore
della patria; la sua guerra è contro il nemico invasore dell’Italia e non ideologica e di partito, che divide gli italiani invece di unirli nel nome della patria, e, dunque, la Decima non combatte contro i partigiani; secondo, se
però i partigiani si accaniscono contro di essa, vendichi i suoi morti; terzo,
ogni forma di clemenza verso i partigiani dettata dal governo o dal PFR da
considerazioni di ordine politico non può essere accettata e non riguarda
la Decima, i nemici attivi della patria, coloro che uccidono chi ne difende l’onore e il territorio non possono trovare clemenza» 11. Il celebre storico quindi, sottolinea il fatto che la Flottiglia, nelle intenzioni e nelle posizioni ideologiche, respingeva il proprio impiego contro altri italiani, ma,
di fronte alla dura realtà degli attacchi partigiani, reagì senza remore e con
spietata durezza. La posizione di De Felice infatti, in qualche modo, giustifica il coinvolgimento della Decima nella guerra contro i movimenti della Resistenza come essenzialmente difensiva, quasi fosse un effetto collaterale di quella guerra fra italiani alla quale essa utopisticamente pretendeva
di non partecipare.
Giudizi ed opinioni dunque contrapposti, che possono solo in parte
spiegarsi con le decisioni e le idee, a volte utopistiche in confronto alla situazione con cui dovevano confrontarsi, di Borghese e dei suoi uomini.
L’ideologia di fondo della Decima che, determinata da una rigida, e a volte cieca coerenza militare, si ispirava ad un nazionalismo e ad un patriottismo che si pretendeva puro e superiore ad ogni divisione politica fra italiani, per forza di cose finì per assumere degli aspetti politici e dovette piegarsi, ed entrare in conflitto, con la diversa realtà della guerra civile - ed anche, come visto in precedenza, con le autorità della Rsi e con la prepotenza
64
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
ed il controllo del territorio italiano da parte dei tedeschi, i quali detenevano l’autorità sia delle operazioni belliche che di quelle destinate a garantire l’ordine pubblico e la sicurezza delle zone retrostanti al fronte - portando i suoi battaglioni a combattere duramente sulle montagne una guerra
che non era stata prevista. L’impegno della formazione nella guerra civile,
da alcuni reparti intrapreso con cruenta durezza, fu sicuramente l’esempio
più tragico di quella politica oscillante che caratterizzò le decisioni di Borghese lungo tutto l’arco della vita della Rsi.
Il progetto del comandante della Decima di creare una forza di patrioti
che avrebbe combattuto gli anglo-americani, e che si sarebbe sacrificata al
fronte per difendere il territorio italiano dagli invasori, venne quindi realizzato solo in parte. I volontari dei diversi battaglioni di fanteria di marina,
alcuni dei quali rimasero per lungo tempo inattivi, vennero continuamente impegnati negli addestramenti, e - mentre il sogno dell’invio al fronte
veniva ripetutamente rimandato - furono impiegati, spesso agli ordini dei
tedeschi, in azioni antipartigiane12. Alcuni reparti della Flottiglia, quelli
maggiormente legati alle operazioni di marina vera e propria, come i mezzi d’assalto o i nuotatori Gamma, e la maggioranza di quelli del servizio di
controspionaggio, destinati a passare in segreto la linea del fronte per fornire informazioni sui movimenti delle truppe alleate, non ebbero praticamente mai alcun contatto con la realtà della Resistenza13. Al contrario per i
battaglioni di fanteria di marina le cose andarono diversamente e gli scontri con gli «uomini della montagna» divennero presto una dura realtà.
Nel giugno del 1944, la maggior parte delle formazioni di fanteria della
Decima, vennero collocate nell’Alto Piemonte, in una vasta area che comprendeva il Canavese e gli imbocchi delle valli verso il Gran Paradiso e il
Rocciamelone14. Lo spostamento di truppe in questa zona rispondeva, nelle esigenze della conduzione della guerra diretta dai comandi germanici, ad
una duplice finalità. In primo luogo lo spostamento delle forze della Decima si inseriva nel disegno della costituzione dell’Armata Liguria che, formata da alcune divisioni tedesche e da quelle della Rsi di ritorno dall’addestramento in Germania, doveva schierarsi fra il Piemonte e la riviera ligure.
Tutto questo territorio era considerato di vitale importanza dai tedeschi,
che volevano assolutamente tenere sotto controllo i passi del Vallo Alpino,
e con un tale schieramento di forze avrebbero potuto contrastare un eventuale sbarco alleato sulle coste della Liguria o nel Sud della Francia15. In secondo luogo il Piemonte era una zona dove si era mostrato più forte e pe65
Massimiliano Capra Casadio
ricoloso il movimento partigiano, tanto da essere definito ufficialmente dai
tedeschi Bandengebiet, cioè «territorio di bande»16. L’impiego delle unità
della Rsi, serviva quindi alle autorità naziste a stroncare il movimento della Resistenza, i cui assalti, in particolare alle vie di comunicazione, rendevano sempre più complesso il controllo di diverse aree del territorio sottoposto alla giurisdizione del governo di Salò. Tuttavia l’utilizzo dei reparti
della Decima nella lotta di repressione delle bande, contrastava decisamente con lo spirito, con le intenzioni e con i proclami con cui era nata e si era
sviluppata la formazione di Borghese.
Il battaglione Barbarigo, al principio del nuovo anno, fu destinato al
fronte di Anzio e Nettuno - la partenza per la zona d’operazioni avvenne il
20 febbraio 1944 - dove combatté tenacemente insieme alla 715ª divisione di fanteria tedesca, subendo parecchie perdite, ma presto, in seguito alla ritirata, raggiunse nei primi di giugno l’Alto Piemonte, per ricomporsi e
riorganizzarsi dopo i tre mesi passati in linea. Il battaglione venne inizialmente sistemato attorno al lago di Viverone e più tardi presso Pont Canavese. Nella zona intanto erano già giunti il battaglione Sagittario, direttamente da La Spezia, ed il Castagnacci. A questi seguirono gli altri reparti
della Decima: il Fulmine, dopo un periodo d’addestramento presso Pietrasanta di Lucca; il Valanga proveniente da Jesolo; l’NP che in precedenza era rimasto frazionato fra varie località del Veneto e della Lombardia; il
Freccia assieme ai gruppi del reggimento d’artiglieria Colleoni, Da Giussano e San Giorgio; si unì infine il battaglione Lupo che dal mese di aprile
era stato impegnato in un ciclo addestrativo sotto la guida di istruttori della celebre e temuta divisione corazzata paracadutisti «Hermann Goering»
nella valle dell’Era in provincia di Pisa17.
Contrariamente ai propositi dei tedeschi, nelle intenzioni di Borghese
e del suo comando, il concentramento dei vari battaglioni nella zona dell’Alto Piemonte serviva a dare forma organica al grande progetto di unificazione che prevedeva la creazione della Divisione Decima; il periodo piemontese sarebbe quindi servito come un necessario addestramento in vista
di un futuro invio al fronte. Nel centro direttivo della Flottiglia cominciava infatti a prendere corpo l’idea di inviare l’intera unità in Venezia Giulia con l’obiettivo dichiarato di tenere, anche autonomamente, la linea difensiva che si sarebbe dovuta opporre all’avanzata delle forze jugoslave, in
modo da proteggere i confini italiani duramente conquistati nella Grande
Guerra18. In questo modo gli uomini di Borghese volevano rendere concre66
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
ta la propria posizione e la propria ragione d’esistere, combattendo in difesa di quella frontiera che la nazione aveva conquistato in passato a prezzo di pesanti sacrifici. La Divisione Decima avrebbe quindi dovuto strutturarsi come un complesso militare in grado di operare in completa autonomia su vasti settori del teatro bellico, ed a questo scopo l’unità si dotò di
propri reparti che avrebbero dovuto occuparsi di differenti specialità, necessarie a svolgere tutte le esigenze belliche. Come visto in precedenza infatti, la Decima era composta da una molteplicità di uffici, come ad esempio quelli per il reclutamento, la propaganda o l’approvvigionamento, e di
reparti adibiti a differenti mansioni, come la sanità, genio, artiglieria, informazioni ecc. Inoltre, all’interno di una tale organizzazione, mirata al
futuro impiego della grande unità, ogni singolo battaglione doveva essere
estremamente mobile ed «organizzato in modo da consentire il suo impiego autonomo, ed a questo fine necessitava dei principali servizi: vettovagliamento, trasporti, munizionamento ecc.19.
In conseguenza di un tale progetto, come visto finalizzato all’impiego
della fanteria di marina in uno dei grandi fronti di guerra, il comandante
Borghese ordinò ai suoi ufficiali di tentare di evitare ogni contrasto e cercare sempre, per quanto possibile, contatti con i capi partigiani. Sergio Nesi
infatti racconta a proposito della sua esperienza: «le disposizioni che emanava ai capi responsabili dei vari reparti erano di non attaccare mai per primi e, anzi, di cercare un dialogo “tra italiani”. Ne può dare testimonianza
il medesimo autore di queste note, che, al momento di partire da La Spezia con destinazione Pallanza per restaurare la locale Caserma degli Alpini
[…] si sentì dire dal Comandante di cercare un contatto con il locale comandante partigiano […]. Dopo appena tre o quattro giorni si fece vivo
lui […] era un architetto con il nome di Filippo Maria Beltrami; il messaggio […] diceva di continuare pure la guerra contro gli inglesi, che a lui
non importava niente, purchè la Decima non gli volesse impedire di sparare contro i tedeschi e la Brigata Nera di Novara […] quel rapporto di non
belligeranza, arrivò anche al punto di offrire un aiuto per la ricostruzione
della Caserma, rapporto che durò fino alla sua eroica morte in combattimento contro le SS del colonnello Simon, il 13 febbraio 1944 a Megolo»20.
Per tentare di evitare scontri con i gruppi partigiani del luogo, Borghese
fece affiggere in tutte le zone del Canavese, in cui erano sparpagliati i suoi
marò, il seguente messaggio: «non preoccupatevi se sono arrivati in questa
zona reparti forti di 10.000 uomini. Lasciateci stare e non vi toccheremo
67
Massimiliano Capra Casadio
perchè il nostro compito non è di combattere contro di voi ma di addestrarci alla guerra contro gli anglo-americani». Il comandante della Decima
scrisse poi, una volta finita la guerra: «Nessuno della Decima, quindi, molestò i partigiani né i partigiani molestarono noi. Questa specie di accordo
si potè mantenere fino a quando altri dolorosi episodi non vennero a turbare l’armonia delle cose. Si potè seguire questa saggia politica per circa tre
mesi malgrado le pressioni delle autorità germaniche locali»21. I marò arrivarono nell’Alto Piemonte senza sapere che cosa li attendeva, speravano solo che presto sarebbero stati inviati a combattere gli anglo-americani, non
si aspettavano di venire coinvolti nella guerra civile. Giorgio Bocca infatti,
racconta l’ingenuità dei marinai di Borghese che, incoscienti dei pericoli a
cui andavano incontro, girovagavano tranquilli per le zone in cui operavano i partigiani: «I marò del Barbarigo arrivano da Anzio nel Canavese senza che il comando abbia ritenuto opportuno di informarli esattamente su
ciò che li attende. La gente di Strambino, di Caviglià, di San Giorgio e degli altri villaggi ribelli […] assiste stupita all’arrivo di questi strani fascisti
che sembrano ignari della minaccia che li circonda, che entrano in due, in
tre nelle osterie dove possono capitare da un momento all’altro i matteottini di Piero Piero o i giellisti di Monti»22.
Gli uomini della Decima Mas ebbero comunque contatti di diversa natura con il mondo partigiano, e con la realtà della guerra civile, anche prima del periodo in cui vennero stanziati nell’Alto Piemonte. Due compagnie del Barbarigo, prima di essere spedite al fronte, vennero inviate ad addestrarsi a Cuneo per un breve periodo e presero alloggio presso la caserma San Dalmazzo23. La provincia era una delle zone in cui fu da subito più
numeroso ed organizzato il movimento della Resistenza ed in cui operavano bande di diverso orientamento, fra le quali le più attive erano le grosse
formazioni autonome24. Durante questa breve permanenza, un sera vennero fermati e prelevati quattro marinai, fra i quali il tenente di vascello
Mario Betti, comandante della 1ª compagnia ed il sottotenente di vascello
Giulio Cencetti, comandante della 2ª compagnia. Il comandante del battaglione Umberto Bardelli, decise di non intervenire con le armi e di non
scatenare nessuna rappresaglia, ma tentò di contattare i partigiani per intavolare delle trattative. Fede Arnaud, che fu in seguito posta al comando
del Saf della Decima, fece da mediatrice, salì in val Casotto e si fece catturare dalla formazione che aveva rapito gli uomini della Flottiglia; si trattava degli autonomi di Enrico Martini, nome di battaglia Mauri, ufficiale
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La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
degli alpini prima dell’8 settembre. La Arnaud spiegò che il battaglione era
in procinto di partire per il fronte, che il comando della Decima non aveva alcuna intenzione di impiegarlo in azioni antipartigiane e che i marò rifiutavano la guerra fra italiani. Mauri rilasciò immediatamente la donna,
ma trattenne gli uomini in suo possesso fino a quando il Barbarigo fu inviato ad Anzio; solo allora, dopo altre trattative, li rilasciò. Guido Bonvicini sottolinea come questo episodio abbia rappresentato un momento di
grande rispetto e di riconoscenza reciproca fra le due formazioni militari,
anche se appartenenti a schieramenti diversi; a suo modo di vedere costituì infatti «un tratto cavalleresco unico, che non ebbe più a ripetersi nelle
vicende di quei tempi»25.
In altre zone i marò avevano già saggiato la violenza della guerra civile e
stavano rendendosi conto, iniziando a reagire anche con durezza, di quanto fosse irrealizzabile ed ingenuo il loro proposito di combattere unicamente contro gli anglo-americani. Alcuni uomini della Decima erano già
caduti a La Spezia in un attentato dinamitardo dei Gap al tram che collegava il centro della città con la caserma di San Bartolomeo, avvenuto il 23
gennaio 1944, nel quale rimasero uccisi tre marò e due civili26.
Cinquanta uomini della Decima, e parte del reggimento San Marco,
avevano partecipato al rastrellamento del gennaio 1944, sulle alture di Sarzana, insieme a Gnr e truppe tedesche, concluso senza alcuna sparatoria
ma con il recupero di diverse armi. L’operazione trova conferma in un telegramma del 17 gennaio firmato dal prefetto di La Spezia, Franz Turchi, indirizzato al ministero dell’Interno nel quale viene notificato l’inizio del «rastrellamento sbandati»27, e da un documento, recante la firma del capitano di corvetta Umberto Bardelli, classificato Ordine di operazione n.1, che
descrive nei dettagli le modalità di impiego dei vari reparti e la loro consistenza, le «notizie sul nemico» e gli scopi dell’azione28. La prima rappresaglia risale invece al marzo dello stesso anno. La notte del 12, il treno Parma-La Spezia venne attaccato dai partigiani e fermato presso la stazione di
Valmozzola. Gli assalitori fecero scendere tutti i militari in divisa e li freddarono, fra le vittime si contarono anche tre marò29. Qualche giorno dopo, il tenente Carallo, a capo del reggimento San Marco, inviò i suoi uomini a setacciare la zona di Stazzana, ai piedi del monte Barca, dove furono sorpresi 13 partigiani all’interno di un casolare, indicati come colpevoli;
quattro di essi morirono nella sparatoria, otto vennero portati alla stazione di Valmozzola e fucilati per rappresaglia, solo uno, il più giovane, venne
69
Massimiliano Capra Casadio
rilasciato30. Una settimana dopo venne affisso in tutta la zona un manifesto che annunciava: La X Mas vendica due suoi ufficiali trucidati dai partigiani31. L’episodio costituì uno dei capi d’imputazione nel processo a cui fu
sottoposto Borghese nel dopoguerra. In proposito il comandante della Decima sostenne a suo discapito, nell’udienza dell’8 novembre 1948: «Venni messo al corrente dei fatti a fucilazione avvenuta. Richiamai il Carallo
perché, pur ritenendo legittimo il suo comportamento secondo il codice di
guerra, egli aveva commesso una grave scorrettezza firmando Principe Valerio Borghese un manifesto che venne affisso nella zona»32.
La Decima, una volta collocata nell’Alto Piemonte, fu continuamente
pressata sia dal comando tedesco, che dalle autorità di Salò, per prendere
parte alle azioni di controguerriglia, finalizzate a rendere sicuro il territorio
alle spalle delle truppe germaniche impegnate al fronte. I tedeschi infatti,
che in una prima fase erano intervenuti in modo intensivo con le proprie
truppe, rendendosi protagonisti dei duri rastrellamenti di gennaio e febbraio, all’inizio della primavera iniziarono ad utilizzare per le operazioni
contro le bande le truppe della Rsi che ormai erano militarmente pronte 33.
Inizialmente il comando della Flottiglia tentò di opporsi a questi impieghi, al punto che la formazione venne accusata di «sabotaggio della guerra»
da parte della Platzkommandatur di Aosta, al quale Borghese aveva risposto che la Decima non avrebbe effettuato operazioni antipartigiane «perché la truppa era dislocata nella zona non con funzioni di polizia ma in addestramento per il fronte»34. Tuttavia, come mostrato in precedenza, tutte
le iniziative e le decisioni che riguardavano gli impieghi bellici ed il mantenimento dell’ordine pubblico, all’interno della Rsi, spettavano alle autorità germaniche. Le richieste di Wolff di poter disporre della Decima in operazioni di controguerriglia divennero sempre più pressanti e determinarono la nascita di «notevoli divergenze» con il comandante Borghese riguardo al modo di utilizzare la formazione posta al suo comando35. A questo
proposito si legge nel lavoro di Ricciotti Lazzero: «Al principe l’obiettivo
non garba molto ma deve obbedire: è immesso in una situazione che non
gli lascia via di scampo»36. I battaglioni della Flottiglia completarono quindi il loro addestramento iniziando a prendere parte alle operazioni contro
le bande partigiane, condotte assieme ad altre formazioni della Rsi, ed a
truppe tedesche37. La partecipazione della Decima alle manovre intraprese contro la Resistenza rimase comunque marginale, difficilmente parteciparono più di «quindici-trenta» uomini alla volta, inglobati in colonne di
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La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
Quando lo scontro fra partigiani e militi di Salò cominciò a farsi violento in gran parte dell’Italia del Nord, la propaganda fascista diffuse volantini che invitavano le due parti in lotta alla riconciliazione, con il motto: «Riconosciamoci, uniamoci lealmente. Basta col sangue fraterno».
Ma nella realtà continuarono ad uccidere, a seviziare, impiccare quelli che ritenevano «delinquenti comuni».
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Massimiliano Capra Casadio
oltre quattrocento militari38. Nel documento dell’OSS già citato in precedenza, redatto da un «ufficiale superiore» della Flottiglia, si sostiene che gli
scontri con le bande divennero sempre più pesanti a partire dalla primavera del 1944, ma che comunque il comando dell’unità tentò sempre di privilegiare la possibilità di stabilire pacifici contatti fra le due parti, si legge
infatti: «Le nuove formazioni che nel maggio cominciarono a lavorare in
grande stile non erano però più composte da militari, ma soprattutto da
gente di partiti politici, soprattutto comunisti. […] Benché fosse necessario prendere delle misure repressive per evitare che gli uomini fossero uccisi e massacrati come pulcini, pure nessuna azione importante fu eseguita e
si ritenne ancora possibile mantenere un accordo mediante la propaganda
e gli accordi diretti che furono tentati»39. Effettivamente il periodo del febbraio-marzo 1944 fu quello in cui il movimento della Resistenza conobbe il suo apice dal punto di vista organizzativo e militare. Giorgio Bocca
ricorda come in questi mesi si raddoppiò la forza partigiana del Nord Italia: «Il settembre del 43 è stato il tempo delle scelte elettive, dell’amalgama
spontaneo; ora siamo al reclutamento organizzato dai distretti cittadini.
[…] Nascono dei reparti agili, forti, di facile comando, i più vicini al modello ideale. […] Sotto l’aspetto ideale il partigianato del Nord non conoscerà una stagione migliore, questo è il suo tempo “repubblicano”: del giusto numero, della giusta forza, delle dure virtù»40. Le formazioni partigiane quindi, operarono in primavera un deciso salto qualitativo nella conduzione della guerra di liberazione, e questo mutamento finì necessariamente
per incidere sulla reazione degli uomini della Decima.
La partecipazione attiva della formazione di Borghese nella guerra civile rimane comunque legata ad un avvenimento che inasprì definitivamente i rapporti con le bande partigiane e contribuì ad eliminare ogni remora ad intervenire nella lotta contro altri italiani. Il fatto, avvenuto l’8 luglio
1944, è ricordato dai marò come la strage di Ozegna, il paese in cui venne ucciso il comandante del Barbarigo Umberto Bardelli, assieme a nove
dei suoi uomini, ad opera di una brigata delle Matteotti comandata da Piero Piero [Piero Urati]41. Il comandante Bardelli, mentre si trovava in visita al battaglione Sagittario, di stanza ad Agilè nei pressi di Ivrea, venne informato che il guardiamarina Gaetano Oneto, il quale aveva in precedenza disertato assieme ad altri uomini portando con sé la cassa del reparto, si
trovava alla stazione di Ozegna. Bardelli caricò alcuni ragazzi del Barbarigo su un autocarro e partì all’inseguimento del fuggiasco. Una volta arriva72
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
ti nella piazza del paese gli uomini della Decima si trovarono di fronte ad
un gruppo di partigiani delle brigate Matteotti e delle GL del comandante Bellandy. Bardelli mantenne la calma, scese dalla sua vettura, ordinò ai
suoi di non sparare, in segno di pacificazione fece togliere loro i caricatori dalle armi, gettò la propria pistola a terra e chiese ai partigiani di poter
parlare con il loro comandante. Piero Piero arrivò poco dopo, i due si intrattennero a colloquio per circa trenta minuti, una testimonianza afferma
che «l’atmosfera pareva distesa […] e ben presto l’incontro assunse il carattere di un pacato e cordiale dialogo politico»42. Mentre gli uomini del Barbarigo osservavano Bardelli parlamentare al centro della piazza, altri partigiani stavano preparando l’imboscata; bloccarono le vie di fuga e si appostarono attorno al piazzale circondando e sorprendendo i marò. Improvvisamente Piero Piero si allontanò dal suo interlocutore ed intimò la resa,
Bardelli rispose urlando: - «Barbarigo non si arrende!» - ed in un attimo la
piazza venne investita dal fuoco incrociato dei partigiani43. In terra rimasero uccisi dieci marinai della Decima, fra cui il comandante Bardelli, tre
partigiani ed un civile.
Gli uomini di Piero Piero lasciarono sulla piazza i feriti più gravi e presero prigionieri i marò superstiti ed i feriti leggeri, i quali vennero sistemati e curati all’ospedale di Pont-Canavese; tutti furono liberati in uno scambio avvenuto otto giorni dopo44. I cadaveri dei militi del Barbarigo furono
ritrovati privi dei valori personali, senza i denti d’oro e con le bocche piene
di terra e di erba in segno di sfregio45. Da questo momento gli interventi
della formazione di Borghese nelle operazioni di controguerriglia divennero molto più duri; per la Decima era ormai lotta aperta, si inaugurava così una «guerra dichiarata alla resistenza»46. La notizia dell’agguato si diffuse
rapidamente fra i battaglioni della formazione sparsi per il Canavese, i marò reagirono con rabbia; cominciava una tremenda vendetta da parte degli uomini e delle formazioni più violente. Borghese dovette richiamare e
trattenere Umberto Bertozzi, comandante dell’Ufficio I, il quale gli chiese
carta bianca per procedere ad una discriminata rappresaglia contro la popolazione di Ozegna: «È ora di finirla. Io li massacro tutti» urlò sulla piazza del paese47. Qualche giorno dopo il comandante del Sagittario, Beniamino Fumai, prelevò ad Agilè un partigiano, Domenico De Laurenti, rimasto ferito in seguito ad un attentato contro il segretario del fascio locale.
Il prigioniero venne torturato, fucilato nella piazza del paese ed il suo corpo martoriato lasciato esposto per alcune ore48. La zona di Ozegna, travolta
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Massimiliano Capra Casadio
dalla rabbia dei marò, venne sottoposta ad un «rastrellamento feroce», furono coinvolti anche i centri di Valperga, Canischio, Alette e Faletto, molte case vennero incendiate ed alcuni partigiani passati per le armi49.
Il comandante Borghese afferma che la situazione di «difficile equilibrio» che la Decima era riuscita a mantenere con le bande ribelli dell’Alto
Piemonte, resse fino al giorno dell’imboscata di Ozegna, un episodio che
definisce di «ferocia balcanica, ingiustificabile delitto, […] compiuto da
un “patriota” noto criminale e delinquente comune chiamato Piero Piero»50. Un mese dopo la morte di Bardelli, l’8 agosto 1944, il comandante
della Flottiglia convocò ad Ivrea tutti gli ufficiali della sua formazione, oltre trecento, comunicò loro la decisione di prendere parte attivamente alla repressione del movimento partigiano. I contenuti e gli sviluppi dell’assemblea sono ricordati dallo stesso Borghese: «Dissi che la situazione ci imponeva, purtroppo, di prendere parte alla lotta contro il partigianesimo,
poiché non potevamo garantire la sicurezza alle nostre caserme sorvegliandone solo le mura. Dovevamo essere certi che per dieci chilometri attorno
non vi fosse il nemico, ma per avere questa certezza dovevamo rastrellare
la zona circostante. Dissi alfine che se qualche ufficiale non riteneva di poter partecipare a queste azioni era libero di andare a casa […] quindici mi
chiesero di essere congedati. Tra essi alcuni erano dei migliori, ma io li lasciai egualmente liberi»51.
Al preciso scopo di intervenire nelle operazioni contro i ribelli, venne
creata la compagnia O [Operativa], una forza di intervento della Decima
composta da circa 120 uomini; autocarrata, estremamente mobile, strutturata su tre plotoni fucilieri ed un plotone comando, destinata ad occuparsi della repressione partigiana, dei rastrellamenti e delle rappresaglie52.
L’unità era comandata dal tenente Umberto Bertozzi, il quale gestiva anche l’Ufficio I, preposto a compiti di polizia; in questo modo l’ufficiale teneva nelle sue mani l’intero apparato repressivo della Flottiglia, si occupava di tutti i prigionieri catturati dalla formazione, che al suo ufficio venivano immediatamente consegnati, organizzava gli interrogatori e gli interventi investigativi. La personalità sadica e crudele di Umberto Bertozzi
viene evidenziata con sdegno in diverse opere. Ricciotti Lazzero lo descrive in questo modo: «fanatico, gira sempre con il frustino, non ha mai fatto prima di allora il servizio militare»53. Una significativa parodia, sanguinaria e drammatica, viene messa in scena da Renato Sarti nel suo spettacolo teatrale Mai morti, di cui ne viene proposto uno stralcio: «Tenente Um74
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
berto Bertozzi, ufficio I, ufficio investigativo, che invidia! Basso, tarchiato,
cammina un pò di sbieco, passo danzante da pederasta. Lo era. Frustino
sempre in mano, partecipa personalmente, ubriaco da cognac, alle torture.
Seguono magnifiche orge. Erre moscia. Occhi di serpe. Sembra che debba mordere quando scopre i denti, testimonia uno a cui i denti glieli hanno del tutto strappati. - Io non esito davanti all’omicidio. La gente comune queste cose non le compvende. L’uomo comune si vibella. Bisogna sapev uccideve quando è necessario -»54. Il carattere violento di Bertozzi e la
sua pericolosa indisciplina vengono colti anche nelle relazioni delle stesse
autorità fasciste. All’interno della già citata inchiesta del generale Magrì,
che concluse la vicenda dell’arresto di Borghese, il tenente, «vero e proprio
capo di polizia», viene definito un uomo «disposto alla violenza»55. Mentre da un altro documento, già esaminato in precedenza, redatto dal generale di brigata Giuseppe Corrado, si apprende che il tenente Bertozzi venne denunciato dallo Stato Maggiore militare, presso il Tribunale militare,
«per atti di violenza e di sadismo [ed oggetto altresì di vergognose accuse di natura morale]», inoltre il gruppo da lui comandato, l’Ufficio I, viene descritto come un «reparto autonomo con tutti i caratteri di una banda
irregolare»56. A proposito dell’aguzzino della compagnia Operativa, è indicativa anche la testimonianza di un religioso, don Domenico Cibrario.
Nel suo diario il parroco di Cuorgnè scrive: «arrivano la mattina del 31 luglio, quasi tremila uomini, la Decima Flottiglia Mas, che lascerà tristissima
memoria […] incominciano tosto le rappresaglie nelle famiglie dei partigiani […] la caserma rigurgita di prigionieri civili. I famigliari dei giovani alla macchia sono quasi tutti imprigionati […] fra i primi perseguitati,
i parroci, accusati di collaborazionismo […]. Il tenente Bertozzi ed il sergente Schininà sono le anime nere della caserma. Vi sono camere di tortura, e parecchi escono malconci […] per essere ricoverati in ospedale»57. Furono dunque i reparti sottoposti all’autorità di Bertozzi quelli che si macchiarono, dal Piemonte al Veneto, dei maggiori crimini e delle più brutali
torture, gestendo plotoni d’esecuzione ed interrogatori, tali unità agirono
ovunque con «estrema crudezza, seminando di sangue» al loro «passaggio
nei villaggi»58. Il battesimo del fuoco di questa formazione di polizia avvenne il 5 maggio 1944, quando partecipò ad un feroce rastrellamento in
Alta Lunigiana, assieme a reparti della Wermacht, SS e Gnr. Il risultato fu
tremendo: oltre un centinaio di case bruciate, ventidue contadini e pastori uccisi. Il 5 giugno poi a Forno, a nord di Massa, un plotone di SS ucci75
Massimiliano Capra Casadio
se 65 civili per rappresaglia, secondo alcune fonti parteciparono al massacro anche gli uomini di Bertozzi59.
Un’altra compagnia che si rese protagonista in negativo, nella lotta contro i partigiani, fu la Mai morti agli ordini di Beniamino Fumai, che venne
inquadrata nella Decima solo per un breve periodo e che verrà trattata nel
seguente paragrafo. Non è chiaro quale tipo di rapporto avessero Borghese ed il suo comando con queste violente compagnie periferiche, che spesso appaiono come dei corpi autonomi all’interno dell’autonomia generale
della Decima e sulle quali sembra che il comandante non avesse un pieno
dominio, ma ne tollerasse ugualmente l’operato.
Oltre alle compagnie di polizia, che come visto sovente agivano al di
fuori di ogni controllo, e che erano preposte alla repressione del movimento partigiano, la Decima, dopo la strage di Ozegna, partecipò alle operazioni contro la Resistenza anche con il grosso dei reparti di fanteria di marina. Il ciclo delle azioni antiguerriglia della Flottiglia, sempre condotte
in unione ad altri reparti sia tedeschi che della Rsi, iniziò nel luglio-agosto 1944 ed interessò, in un primo tempo, le valli di Lanzo, Soana, il Canavese e Ceresole Reale60. In questo periodo una manovra ad ampio raggio venne condotta nella valle di Locana, detta anche dell’Orco, nei giorni fra il 31 luglio ed il 12 agosto - il nucleo principale delle unità partigiane era costituito dalla 4ª divisione Garibaldi - le forze della Rsi riuscirono
a liberare Pont Canavese, obbligando i ribelli a ripiegare verso l’Alta Valle
e Soana61. Negli scontri a fuoco di questi giorni rimasero feriti lievemente
sia Borghese che Alessandro Pavolini62. In seguito i battaglioni della Decima operarono in val Grande, val di Viù, Pessa, monte Saglio e Pian della
Mussa, dimostrando di aver raggiunto una buona preparazione militare ed
organizzativa durante il combattimento.
I reparti della Decima, nella loro avanzata, scompaginarono le formazioni partigiane costringendole a ritirarsi in zone di alta montagna, dove
«le possibilità si sussistenza e di autosufficienza erano minime»63. Ulteriori
manovre offensive vennero condotte in agosto in tutto il Piemonte nordorientale, coinvolgendo il Basso Canavese e la val d’Ala; i guastatori alpini
del Valanga inseguirono i garibaldini in fuga fino ai ghiacciai della Ciammarella costringendoli a sconfinare in Francia, mentre il Lupo contrastò i
partigiani in val di Viù, Pessinetto, Usseglio e Rocciamelone64. La partecipazione di reparti della Decima fu consistente anche nelle manovre finalizzate a riconquistare la città di Alba, svoltesi nell’ottobre-novembre 194465.
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La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
Il 10 ottobre gli autonomi di Mauri, assieme a formazioni Garibaldi e GL,
erano entrati nella città piemontese, mentre il presidio della Gnr, dopo la
mediazione del vescovo, aveva abbandonato le sue posizioni66. Le autorità
della Rsi inviarono un ultimatum alle formazioni ribelli che Mauri respinse, ed il 2 di novembre iniziarono le operazioni di avvicinamento alla città; della Decima parteciparono i battaglioni Lupo e Fulmine, assieme a reparti del Rap, della Gnr, delle Brigate nere ed il gruppo corazzato Leonessa. Le divisioni al comando di Mauri, nonostante fossero consistenti e ben
equipaggiate, rifornite di abbondanti lanci da parte degli alleati, sapevano
di non poter difendere l’abitato ed appena le avanguardie della Rsi passarono il Tanaro si ritirarono sulle colline in posizioni difensive. Si verificarono scontri a fuoco presso Casa Biancardi, Castelgherlone e Canale del
Molino, gli uomini di Mauri furono costretti a ritirarsi oltre Ceva mentre
nel pomeriggio dello stesso 2 novembre i primi militi della Rsi entravano
in Alba lasciata deserta67.
Anche durante tutto questo difficile periodo comunque, non mancarono episodi di collaborazione e di umanità fra le due parti in lotta. Come
mostrato in precedenza, a Lanzo D’Intelvi, punto di passaggio al confine
con la Svizzera, era sistemata un’unità della Decima al comando dell’ex attore Osvaldo Valenti. Il suo compito consisteva nell’organizzare un traffico
di contrabbando con la Confederazione Elvetica al fine di reperire armi e
denaro; in questo mercato erano in qualche modo pacificamente coinvolte anche le formazioni partigiane della zona68. Persino nel Canavese con alcune brigate si venne a patti, anche con alcuni garibaldini, come testimonia ancora Ricciotti Lazzero. L’autore riporta la sentenza del tribunale di
guerra della II divisione d’assalto Garibaldi, che condannava alla fucilazione il comandante della brigata Volante Azzurra, Taras, perché aveva preso
accordi con il comando della Decima, al fine di indurre «il reparto da lui
comandato a passare al nemico». In una lettera, presentata come prova al
processo, l’uomo parla della possibile costituzione di un «corpo nazionalista misto di partigiani e Decima Mas contro tutti gli stranieri»69.
Particolarmente curioso e sicuramente singolare, risulta un episodio in
cui Decima e partigiani della I brigata Matteotti, comandata da De Franchi, formarono un battaglione misto, composto da sei marò ed altrettanti
ribelli, per fucilare il guardiamarina Gaetano Oneto, disertore per la Decima ed accusato di doppio gioco dai matteottini70. Da un rapporto dell’OSS, basato sugli interrogatori di Borghese, si apprende che nell’ottobre
77
Massimiliano Capra Casadio
1944, seicento uomini, disertori e renitenti alla leva, tra i quali molti partigiani, vennero, su loro richiesta, arruolati nella Decima dove «diedero prova del loro coraggio»; in questo modo il comando della Flottiglia contravvenne ad una disposizione del governo di Salò che prevedeva la deportazione in Germania per tutti i ribelli che si fossero consegnati spontaneamente71. Borghese si rese protagonista anche di un altro atto che fu visto
dal governo di Salò come un gesto di grave indisciplina; fece affiggere, per
iniziativa autonoma, nella valle di Locana dei manifesti in cui si assicurava ad ogni partigiano che avesse deposto le armi che non sarebbe stato né
deportato, né giustiziato, né fatto prigioniero, ma sarebbe potuto tornare a
casa o essere arruolato nei battaglioni volontari lavoratori del genio militare italiano. Chiaramente il manifesto venne immediatamente ritirato dalle
autorità governative72. Il comandante della Decima ricorda e spiega così la
difficile situazione della guerra civile, ed i suoi sforzi di trovare degli accordi con i movimenti della Resistenza: «Gli attentati e gli atti terroristici contro gli uomini della Decima continuarono. Non passava giorno che non ci
pervenisse notizia di qualche caduto […]. Sempre più convinto che la situazione richiedesse una più stretta collaborazione fra tutti, che la guerra
civile non facesse altro che il gioco degli occupanti, anglo-americani o tedeschi che fossero, mi adoperai, ogni volta che se ne presentò l’occasione,
per raggiungere una possibile intesa con gli uomini che combattevano dall’altra parte della barricata»73.
Nell’ottobre-novembre 1944 Borghese ottenne dal comando tedesco il
permesso di spostare la sua divisione nel Veneto. Il comandante aveva in
progetto di schierare i suoi uomini contro l’esercito di Tito, che ad ottobre aveva preso Belgrado e stava risalendo il litorale Adriatico verso il Friuli
Venezia Giulia. La difesa dei confini orientali, e dell’italianità delle città di
Trieste e di Gorizia, era una prerogativa fondamentale per gli uomini della
Decima che si sentivano finalmente protagonisti di una missione patriottica e non più invischiati nella guerra civile74.
Il battaglione Lupo fu il primo reparto invece destinato a fronteggiare gli anglo-americani, venne schierato sull’Appennino bolognese, a pochi
chilometri dal fronte, a ridosso della linea Gotica. Era uno dei battaglioni maggiormente preparati, visto che in primavera, come mostrato in precedenza, si era addestrato con la temuta divisione corazzata paracadutisti
«Hermann Goering». La notizia della nuova destinazione venne accolta dai
marò con incredibile entusiasmo, come viene evidenziato da uno scritto di
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La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
Luigi Sitta: «Finalmente si lascia questo verminaio puzzolente, si abbandona questo covo di banditi, di vigliacchi, di illusi. Non sentiremo più parlare di guerra civile, di “patrioti”, di imboscate, di assassinii. Finalmente»75.
Una compagnia del battaglione NP invece, nel dicembre del 1944, dopo
l’ennesimo ordine di partecipare ad azioni antipartigiane, si ribellò. Vari ufficiali e marò subirono un processo per ammutinamento, ma alla fine
ottennero quello che volevano, l’intero battaglione venne spedito al fronte,
assieme ai tedeschi, sulla linea della Romagna, nelle Valli di Comacchio, a
fronteggiare l’avanzata anglo-americana76.
Il nuovo teatro d’operazioni, per il resto della Decima, fu invece il Friuli Venezia Giulia. Il comando della divisione si piazzò nel castello di Conegliano Veneto che divenne famoso come un carcere spietato nella guerra antipartigiana, denominato il «castello delle urla strazianti»77. Era sempre la compagnia Operativa di Bertozzi che gestiva gli interrogatori e che
trasformò la fortezza in un sinistro luogo di torture. Il comando operativo venne posto a Maniago ed i vari battaglioni, nell’attesa dell’ordine di
entrare in Friuli, continuarono ad essere impegnati in azioni di rastrellamento. L’atteso ordine di passare il Tagliamento arrivò solo nel dicembre
del 1944. L’impiego della Decima nella Venezia Giulia venne diretto contro il IX Korpus di Tito e contro le brigate partigiane comuniste, nel tentativo di contenere l’avanzata delle truppe slave.
In queste terre di confine, verso la fine della seconda guerra mondiale, entrarono in gioco anche gli interessi delle grandi potenze per il futuro
assetto dell’Europa. Persino le brigate partigiane non combattevano in un
fronte troppo compatto; fra le Garibaldi, che appoggiavano gli slavi di Tito, e le Osoppo, esistevano delle forti tensioni che sfociarono nella strage
di Porzus, resa famosa anche per la morte del fratello del poeta Pier Paolo Pasolini78. Borghese tentò di insinuarsi in questa breccia, aveva cominciato da tempo infatti, ad intavolare diverse trattative per creare un fronte
comune che si opponesse ai partigiani Jugoslavi. Vari documenti mostrano come il comandante abbia cercato di stabilire dei contatti con le brigate Osoppo, con il Cln del Friuli, con i servizi segreti alleati e con la Marina Italiana del Sud79. Gli sforzi del comandante della Decima non si realizzarono mai per quel che riguarda la protezione delle terre di confine, a
causa di diversi motivi che verranno esaminati meglio nel seguente capitolo. Tutti questi colloqui determinarono comunque la sospensione da parte della Flottiglia, nel gennaio 1945, di ogni azione diretta contro i parti79
Massimiliano Capra Casadio
giani non comunisti80.
Dopo la guerra, a proposito della lotta antipartigiana e delle rappresaglie attuate dalla Decima, rifiutando il duro giudizio espresso dagli ambienti antifascisti e le accuse rivolte alla sua formazione, ha scritto Borghese: «Non un partigiano doveva essere passato per le armi senza regolare
condanna da parte degli appositi tribunali; i colpevoli, dopo la cattura, dovevano essere consegnati alle normali attività di PS per il regolare prosieguo delle pratiche giudiziarie. Mai, e in nessun caso, il comando della Decima ha ordinato che i reparti si facessero giustizia da sé, anche se talvolta
questo era difficile da ottenersi per le scellerate azioni con cu i reparti stessi venivano provati animandone gli uomini di sdegno e facendo loro mordere il freno […]. Le poche volte, poche in rapporto alle provocazioni, in
cui i reparti della Decima vennero impiegati contro le bande partigiane,
fu solo per legittima difesa. Me ne assunsi e me ne assumo oggi tutte le responsabilità. Non è concepibile che un capo assista indifferente allo sterminio dei suoi uomini e che, visti vani altri tentativi, non ricorra a sistemi
energici. […] I partigiani erano allora per la Rsi dei fuorilegge e ben lo sapevano. Ne avevano assunto, di conseguenza, responsabilità e rischi, compreso quello di essere passati per le armi. […] Dovrebbero sapere che eravamo in guerra e in guerra si spara a palle, non a salve. […] Oltre 500 furono gli uomini della X caduti sotto il piombo partigiano, colpevoli di vestire il grigioverde e di combattere per la difesa d’Italia. […] Inoltre, fra le
opposte barricate si frapposero bande di delinquenti comuni i quali, speculando sulla situazione e riparandosi dietro questa o quell’etichetta politica, si davano alla rapina al saccheggio, e all’omicidio indiscriminato»81. Da
questa testimonianza si comprende la posizione ideologica di Borghese che
riteneva l’intervento dei suoi uomini, contro i partigiani, come una necessità, un male obbligatorio, all’interno di una guerra che lui considerava essenzialmente di difesa. Si evince inoltre il fatto che lui stesso fosse cosciente di non avere avuto un pieno controllo su tutti i suoi reparti, sulle loro
reazioni, e sul loro spesso violento operato.
Nonostante le intenzioni di Borghese, le impressioni che lasciò la Decima, nei diversi luoghi in cui operò, furono differenti. Durante un’udienza
del processo al comandante, Ferruccio Parri, interrogato in qualità di capo della giunta militare del Cln di Milano, affermò a proposito della Decima: «Il compito di questi reparti era quello di distruggere ogni forma di ribellismo […] si innestavano il fanatismo cieco e l’odio di parte; la maggior
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La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
parte di questi elementi era stata arruolata senza la minima cautela morale né riguardo all’età né riguardo ai precedenti […] tra costoro erano pure
dei minorenni. Essi si arruolavano e piaceva loro dar sfoggio delle armi e
incutere paura; piaceva spadroneggiare e saccheggiare. […] Noi soprattutto rimproveriamo questi episodi immorali. La Mas non era isolata, ma inquadrata in altre forze ed è per questo che la Mas ebbe triste fama, ed è per
questo che la si può trovare, nei nostri documenti, accomunata alle Brigate Nere ad altre formazioni che erano le più spietate. Quando la Decima
Mas chiese, attraverso un nostro prigioniero, la possibilità di mandare al
sud due suoi uomini che dovevano essere messi in contatto con il generale
Messe, la risposta che arrivò […] dal quartiere generale del generale Wilson fu questa: - La Decima Mas troppo infamata, non trattare -»82.
In conclusione si può affermare che la Decima Mas prese vita e si organizzò dopo l’8 settembre, per combattere al fronte e per opporsi agli invasori, in un primo tempo anglo-americani, poi agli slavi di Tito che premevano alle frontiere orientali. La stragrande maggioranza degli uomini che si
arruolarono nelle sue fila lo fecero, forse ingenuamente, ma di sicuro con
sincerità, per un ideale patriottico e nazionalista, in difesa di una nazione - e come visto in precedenza, di un sistema di valori che appartenevano anche al fascismo e che da questo erano stati diffusi ed esasperati - che
vedevano minacciata da coloro che ritenevano il legittimo nemico, contro
il quale l’Italia aveva combattuto nei tre anni precedenti. Il desiderio dei
marinai della Flottiglia fu sempre quello di schierarsi in linea per riscattare l’onore militare ritenuto perduto, fino a sacrificarsi contro le armate alleate che risalivano lentamente la penisola. La guerra contro i partigiani - o
contro altri italiani, come solevano denominarla i marò - era generalmente respinta e rifiutata, considerata indegna in confronto all’ideale che aveva spinto questi uomini ad arruolarsi.
Le opere di memorialistica sono piene di testimonianze in questo senso. Giorgio Bocca afferma che la lotta contro la guerriglia «non è la guerra più ambita dai marò, si può credergli quando dicono che preferirebbero
evitarla, che se ne vergognano»83. Emblematiche a questo proposito risultano le parole di un marinaio del Lupo che, dopo aver passato l’estate del
1944 a combattere i partigiani, ribadisce con orgoglio il fatto di non aver
mai aperto il fuoco contro un altro italiano: «La canna del mio fucile […]
non ha fatto partire un solo colpo in quei mesi»84. In questo senso si nota una differenza consistente rispetto ad altre formazioni della Rsi, in par81
Massimiliano Capra Casadio
ticolare quelle più spiccatamente politiche e legate al partito, come la Gnr
o le Brigate nere. Per i reparti di squadristi infatti la guerra contro gli anglo-americani aveva «un interesse retorico: ne parlano, ma non ci pensano,
ciò che vogliono è di restare nelle città per combattere l’avversario politico, per dare la caccia all’antifascista»85. D’altra parte la guerra di liberazione condotta dalle brigate partigiane contro il nazi-fascismo era una realtà
dalla quale la Decima non poteva sottrarsi, e non poteva pretendere che le
forze della Resistenza non la attaccassero, in quanto in essa queste vedevano solo una formazione militare italiana che combatteva al fianco dei tedeschi per la vittoria di Hitler e Mussolini. L’utopistica idea di creare un reparto armato, ben organizzato e dalle dimensioni considerevoli, che agisse
nell’Italia del Nord preparandosi allo scontro al fronte con gli anglo-americani, senza che fosse coinvolto nella guerra civile che imperversava nel paese, è un altro esempio di quella politica oscillante che caratterizzò le scelte di Borghese, e che portò, in questo caso, la Decima ad intervenire con
estrema durezza, nonostante i proclami e gli atteggiamenti che rifiutavano
la guerra fra italiani.
La partecipazione attiva alla lotta contro le bande, e quindi nella guerra civile, determinò per la Decima Mas l’ingresso in una dimensione bellica che contiene un più di violenza rispetto ad un conflitto convenzionale. Come afferma Mirco Dondi infatti, le formazioni fasciste emerse dallo sfascio istituzionale dell’8 settembre si caricarono di una rabbia sorda e
brutale in cui «gli ostinati propositi di violenza indiscriminata sono legati alla ormai inoccultabile natura di guerra civile che sta assumendo il conflitto»86. Anche alcuni reparti della Decima, come visto in precedenza, non
fanno eccezione all’uso di metodi feroci ed efferati nella repressione diretta
contro i partigiani. Uno dei simboli più cruenti della guerra civile in Italia
fu sicuramente la macabra esposizione dei cadaveri nemici che costituiva
«un’imposizione a vedere» la morte, ed un monito per le popolazioni civili87. A questo proposito rimane celebre una fotografia, pubblicata recentemente anche da Pasquale Chessa, che ritrae un partigiano impiccato dagli
uomini della Decima davanti alla piazza del municipio di Ivrea. Il corpo
porta legato al collo un cartello recante la scritta: «Aveva tentato con le armi di colpire la Decima» a sottolineare, ancora una volta, come la rappresaglia fosse stata effettuata come reazione ad un’azione armata88. A questo
proposito si deve infine ricordare che il tributo di sangue pagato dalla Decima nella lotta contro i partigiani fu altissimo; numerosi marinai trovaro82
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
no la morte non solo durante i combattimenti ad ampio raggio, ma anche
in attentati, assalti a presidi isolati, rapimenti e sabotaggi. Alcuni di questi
episodi furono caratterizzati da una particolare efferatezza ed a volte vennero diretti anche contro le donne del Saf, fattori che fornirono un contributo di non poco conto all’aumento esponenziale del risentimento e della rabbia dei marò89.
Note al testo
1
Renzo De Felice, Mussolini l’alleato. La guerra civile 1943-1945, vol. II, Einaudi, Torino
1997, pp. 490 ss.; Sole De Felice, La Decima Flottiglia MAS e la Venezia Giulia, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2003, pp. 83 ss.; Luigi Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Garzanti, Milano 1999, pp. 60 ss.; Aurelio Lepre, La storia della repubblica. Salò: il tempo dell’odio e
della violenza, Mondadori, Milano 1999, pp. 173 ss.; Nicola Tranfaglia, Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani 1943-1947,
Bompiani, Milano 2004, pp. 1 ss. La Decima Mas emersa dagli sconvolgimenti dell’8 settembre fu una formazione estremamente complessa, divisa in un grande numero di reparti dalle
differenti specialità, che operarono in settori e con modalità spesso autonome e diverse gli uni
dagli altri; risulta quindi difficile offrire un giudizio univoco e totale sui comportamenti e sulle azioni dell’intera formazione - si pensi ad esempio ai legami con i servizi segreti anglo-americani nell’immediato dopoguerra, che coinvolsero unicamente gli uomini dei reparti speciali
che avevano operato nello spionaggio.
2
Ricciotti Lazzero, La Decima MAS. La compagnia di ventura del principe nero, Rizzoli, Milano 1984, pp. 79 ss.; Giorgio Bocca, La repubblica di Mussolini, Mondadori, Milano 1994,
pp. 278 ss.; Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana. Settembre 1943-maggio 1945, Mondadori, Milano 1996, pp. 476 ss.; Gianpaolo Pansa, Il gladio e l’alloro. L’esercito di Salò, Mondatori, Milano 1993, pp. 184 ss.
3
Redazione Grandi Opere di Utet Cultura, La Storia. L’età dei totalitarismi, vol. 13, Utet, De
Agostani Editore, Novara 2004, p. 704.
4
http://www.delteatro.it, Recensione di Maria Grazia Gregori, 19 febbraio 2005.
5
N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica cit., p. 6; Pasquale Chessa, Guerra civile 19431944-1945. Una storia fotografica, Mondadori, Milano 2005, p. 60.
6
Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 16, 68.
7
G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit., p. 480. Anche Zara Algardi, che ha dedicato uno
studio allo svolgimento del processo di Borghese, insiste sulle violenze praticate dalla formazione, si legge a questo proposito nel suo volume: «La X MAS è impiegata in massima parte
contro i partigiani, presto nota per le violenze, rappresaglie, eccidi, con non meno di 800 vittime civili» - questo dato non trova però conferma in nessuna delle altre fonti (Zara Algardi, Processi ai fascisti. Anfuso, Caruso, Graziani e Borghese di fronte alla giustizia, Vallecchi, Firenze 1973, p. 127).
83
Massimiliano Capra Casadio
8
http://decimamas.org, Sergio Stancanelli, Disinformazione e malafede: la seconda guerra
mondiale vista da Rai Uno, 5 febbraio 2005.
9
http://www.cronologia.it/storia/biografie/borghese2.htm, articolo di: Emilio Maluta, Marino Perissinotto, Karl Voltolini, Noi della Decima MAS che combattemmo per l’onore d’Italia, 5 febbraio 2005.
10
Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese. Un principe, un comandante, un italiano, Ed. Lo Scarabeo,
Bologna 2004, citazione nell’introduzione di Giuseppe Parlato alla p. XV. Parlato è docente di
Storia Contemporanea alla Libera Università di S. Pio V di Roma.
11
R. De Felice, Mussolini l’alleato. La guerra civile cit., p. 498.
12
Luigi Fulvi, Tullio Marcon, Ottone Miozzi Ottorino, Le fanterie di marina italiane,
USMM, Roma 1988. Nel volume edito dall’USMM, all’interno di un paragrafo dedicato alla
fanteria di marina della Rsi, si legge: «L’impiego in linea dei reparti di fanteria di Marina fu ridotto, mentre molti di essi furono impiegati nella repressione della lotta partigiana, divenuta,
nel frattempo, sempre più pericolosa per le linee di comunicazione del fronte» (p. 428).
13
A questo proposito è indicativa la testimonianza di Giorgio Pisanò, all’epoca arruolato nei servizi speciali per le terre occupate dal nemico della Decima. Il racconto si riferisce al tentativo
di numerosi fascisti di raggiungere, verso la fine della guerra, il ridotto alpino della Valtellina,
al fine di organizzare l’ultima resistenza. Gli uomini della Decima non parteciparono a questa
iniziativa; Borghese fu sempre contrario al progetto, ed i suoi ordini, nel momento della fine,
furono impartiti in maniera autonoma rispetto alle altre formazioni della Rsi. Evidentemente
Pisanò, nello sbando generale degli ultimi giorni di guerra, seguì altri reparti verso la speranza
dell’ultima battaglia. Nella marcia d’avvicinamento alla Valtellina Pisanò vide per la prima volta i partigiani: «Puntai il binocolo. Si scorgevano nitidamente a mezza costa. […] io mi fermavo ogni cinquanta metri e puntavo il binocolo verso la montagna. Ero affascinato. Finalmente li vedevo. Lontani, ma li vedevo. Per tutto il periodo della guerra civile non li avevo mai incontrati […] Eppure avevo girato il territorio della Rsi in lungo e in largo, di giorno e di notte,
ero stato al fronte, avevo superato le linee attraverso zone partigiane, avevo anche partecipato a
rastrellamenti, ma i partigiani non li avevo proprio mai visti» (Giorgio Pisanò, Io fascista. La
testimonianza di un superstite, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 65). L’impiego che ebbero questi
reparti nel corso della guerra rimane ancora, per molti aspetti, oscuro e sconosciuto, sono poche al riguardo le opere di testimonianza ed insufficienti le ricerche storiografiche ed archivistiche. Zara Algardi sostiene che l’attività spionistica della Decima fu uno degli aspetti «più caratteristici» del reparto, ed afferma che il battaglione Vega, «tutto composto di spie e di sabotatori» era destinato ad operare «in territorio già liberato, in accordo con i comandi tedeschi,
e far arrestare, con la parola d’ordine dei partigiani, dei giovani che combattevano nel campo
contrario». La scrittrice riporta, a sostegno della sua tesi, varie testimonianze emerse al processo contro il comandante Borghese, nelle quali viene riferito il fatto che spesso uomini italiani
della Decima erano vestiti con divise germaniche, e presenta l’ipotesi quindi, che alcune operazioni contro i partigiani, ritenute di matrice tedesca, in realtà fossero opera di italiani (Z. Algardi, Processi ai fascisti cit., p. 132). Nonostante sia probabile che il battaglione Vega abbia
svolto anche attività antiguerriglia, la gran parte delle funzioni del reparto erano rivolte alla lotta contro gli anglo-americani. Da un documento alleato classificato segretissimo, recante la data
del 28 maggio 1945, basato sugli interrogatori a Borghese e redatto da James Angleton, si apprende che il Vega venne ufficialmente riformato il 1° novembre 1944, al comando del tenente di vascello Mario Rossi, con l’obiettivo di togliere tutti gli uomini dello spionaggio e del sabotaggio della Decima dall’influenza tedesca - in realtà il battaglione era attivo fin dal 30 gennaio 1944, data in cui alcuni operatori vennero paracadutati nella zona di Paestum, a sud di
Salerno (S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit., pp. 339, 340). Gli obiettivi del battaglione vengono così sintetizzati nel testo: «Raccogliere informazioni nelle zone occupate dagli Alleati; com-
84
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
mettere atti di sabotaggio nelle zone occupate dagli Alleati; predisporre attività di spionaggio e
di sabotaggio nelle principali città dell’Italia settentrionale all’indomani dell’occupazione alleata» (N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica cit., p. 14).
14
Battaglione Lupo. X Flottiglia MAS 1943-1945, a cura di Guido Bonvicini, Edizioni del Senio,
Roma 1973, pp. 72, 73, 79, 80.
15
Albert Kesserling, Memorie di guerra, Garzanti, Milano 1954, pp. 238, 239.
16
S. De Felice, La Decima Flottiglia cit., p. 85. Nella primavera del 1944 le autorità della Rsi
segnalavano la presenza di almeno 15.000 partigiani nella regione del Piemonte. All’interno
del territorio piemontese, in particolare attorno alla zona di Cuneo, si erano formati «numerosi nuclei di ribelli», alcuni dei quali avevano preso corpo immediatamente dopo l’8 settembre
raggruppando i soldati sbandati della 4ª Armata dell’Esercito Regio che era dislocata in Francia (Nino Arena, Forze Armate della Repubblica Sociale. La guerra in Italia 1944, vol. 2, Ermanno Albertelli Editore, Parma 1999, p. 233). Secondo Giorgio Bocca questi uomini appartenevano al Gruppo di Boves, il quale si formò nei boschi attorno alla città piemontese. Subito dopo l’8 settembre in questi castagneti trovarono rifugio «migliaia di soldati, ma non più di
trecento partecipano alla prima organizzazione ribellistica e non più di cinquanta sono veramente disposti a battersi” (G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit., p. 24). Il lavoro di Bocca riporta un censimento delle bande partigiane alla data del 30 aprile 1944. Dal computo
vengono esclusi i disarmati, i collaboratori e gli ausiliari e vengono calcolati quindi 3.680 uomini combattenti in Piemonte. All’inizio dell’estate del 1944 alcune relazioni riservate appartenenti alle autorità fasciste finirono nelle mani dei giellisti piemontesi. Uno di questi documenti era un rapporto dell’Ufficio informazioni dello Stato Maggiore dell’esercito che si riferiva al 15 giugno, il quale calcolava 25.000 ribelli nella zona piemontese e concludeva: «Intere province […] come quella della Venezia Giulia, di Aosta, Cuneo e Imperia e buona parte di
quelle di Torino e di Piacenza sono praticamente in balìa dei partigiani». Giorgio Bocca afferma che le autorità di Salò calcolavano in eccesso il numero delle forze partigiane perché l’afflusso delle reclute in montagna non permetteva di avere delle informazioni esatte; «e la paura gli fa vedere più nemici di quanti il partigiano ne schieri» (G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit., pp. 338, 341).
17
Giorgio Pisanò, Gli ultimi in grigioverde. Storia delle forze armate della Rsi, FPE, Milano
1967-1969, pp. 1045 ss.; Guido Bonvicini, Decima marinai! Decima comandante! La fanteria di marina 1943-1945, Mursia, Milano 1988-1989, pp. 72, 73; Battaglione Lupo cit., pp. 53
ss. In conseguenza dello sfondamento della testa di sbarco di Anzio da parte delle truppe alleate avvenuto a fine maggio, mentre la «Hermann Goering» veniva chiamata al fronte per fronteggiare le forze anglo-americane, il battaglione Lupo si ritirò in direzione di Massa. Nella manovra la 3a compagnia rimase a presidiare i passi e le cime delle Alpi Apuane, nell’ambito delle operazioni antipartigiane intraprese dai tedeschi. Le forze germaniche si stavano infatti assestando sulla linea Gotica e volevano rendere più sicura la zona degli Appennini. Nel corso di
questa operazione un plotone del Lupo fu attaccato dai partigiani e perse due uomini, uno in
combattimento ed uno passato per le armi. La dura realtà della guerra civile piombava così sugli uomini del battaglione che cominciarono a rendersi conto che il loro impiego al fronte non
sarebbe stato immediato. Guido Bonvicini ricorda così le difficoltà di quei momenti: «Fu un
periodo di crisi, di discussioni, di agitazioni, che venne superato perché prevalse la disciplina,
perché la tragedia dell’Italia incombeva e a questa tragedia nessuno che avesse animo e cuore
poteva sottrarsi» (G. Bonvicini, Decima marinai cit., p. 72).
18
S. De Felice, La Decima Flottiglia cit., pp. 85, 86.
19
Battaglione Lupo cit., p. 54.
20
S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit., p. 348.
85
Massimiliano Capra Casadio
21
S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit., p. 350.
22
G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit., p. 480.
23
G. Bonvicini, Decima marinai cit., pp. 55, 56.
24
G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit., pp. 92 ss.
25
G. Bonvicini, Decima marinai cit., p. 58. L’episodio viene ripreso anche da altri testi (Mario
Tedeschi, Sì bella e perduta, Ed. Il Borghese, Roma 1993, pp. 46, 47; S. Nesi, Junio Valerio
Borghese cit., pp. 292, 293) Il rispetto reciproco fra la Decima e gli uomini di Mauri che caratterizzò questo avvenimento, fu probabilmente dovuto anche al fatto che gli autonomi, a differenza delle bande più politiche come le Garibaldi o le GL, rimasero maggiormente legati all’etica, allo stile ed ai regolamenti della tradizione militare. Pavone sostiene che Mauri mantenne sempre un «concetto militaresco che egli aveva dei suoi uomini come cavalieri e tutori dell’ordine». Una consuetudine rispondente all’etica militare poteva essere ad esempio l’adozione
della divisa che, secondo il «se pur labile», diritto internazionale di guerra, avrebbe dovuto garantire ai partigiani lo status di combattenti, e quindi il diritto ad essere trattati come prigionieri di guerra e non come franchi tiratori, i quali potevano essere passati per le armi (Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri,
Torino 1991, p. 49). Il fatto che le bande partigiane, la maggior parte delle volte, adottassero
tecniche di guerriglia - basate su rapidi agguati e ripiegamento, sabotaggi, assalti a presidi isolati ecc. a volte le uniche possibili e le più conformi alle caratteristiche della guerra di liberazione che stavano combattendo - e comportamenti nella conduzione della guerra che spesso valicavano le norme della tradizione militare, legittimò - agli occhi dei militari della Rsi che quegli
attacchi li subivano - la definizione giuridica di fuori legge, che le autorità di Salò avevano dato
agli uomini della Resistenza. Nino Arena, che combattè come volontario nei paracadutisti della Nembo sotto la Rsi, ricorda la legge n.1415, recante la data dell’8 luglio 1938, del «codice di
diritto internazionale», il quale considera come «legittimi belligeranti» gli appartenenti a quelle
milizie che: «operino a favore di uno dei due belligeranti, siano sottoposti ad un capo per essi
responsabile, indossino una uniforme e siano muniti di un distintivo fisso comune a tutti e riconoscibile a distanza, portino apertamente le armi e si attengano alle leggi e agli usi della guerra» (N. Arena, Forze Armate cit., p. 229). Il IX Congresso della Société internationale de droit
pénal militaire et de droit de la guerre, avvenuto nel 1982, ha ribadito la medesima definizione
di «combattenti legittimi» riaffermando quindi il principio secondo il quale non sono le motivazioni ideologiche a conferire legittimità ai combattenti, ma il modo in cui viene condotta la
guerra (G. Bonvicini, Decima marinai cit., p. 81). In base a questi presupposti i combattenti
della Rsi vennero considerati legittimi «belligeranti» dalla sentenza del Tribunale Supremo Militare di Milano emessa il 26 aprile 1954 (N. Arena, Forze Armate cit., p.231). L’attaccamento alla tradizione ed all’etica militare, implicava quindi un giudizio discriminante nei confronti dei partigiani, il cui modo di condurre la guerra veniva spesso percepito, dai militari della
Rsi, come illegittimo e scorretto. In questa concezione però non venivano assolutamente prese
in considerazione né le motivazioni, sia internazionali che nazionali, della guerra di liberazione
dal nazi-fascismo, né le condizioni belliche nelle quali erano costrette ad operare la formazioni
partigiane, per le quali le tecniche della guerriglia costituivano l’unica plausibile risorsa all’interno di un territorio occupato e gestito dalle truppe naziste. Tuttavia questo tipo di conduzione della lotta, generò anche nei partigiani «il vago scrupolo che l’imboscata» fosse «pur sempre
una guerra un po’ a tradimento» (C. Pavone, Una guerra civile cit., p. 427).
26
G. Bonvicini, Decima marinai cit., p. 56; S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit., p. 291. I Gap
(Gruppi di Azione Patriottica) erano degli organismi deputati in modo specifico alla lotta armata in città, erano altamente «selezionati, […] agguerriti e dediti ad azioni isolate», le squadre erano formate da poche decine di persone, che operavano in completa clandestinità e la loro composizione «rimase essenzialmente comunista» (C. Pavone, Una guerra civile cit., p.387).
86
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
Gli uomini di queste formazioni avevano l’obiettivo di attaccare singoli funzionari e membri
del Partito fascista - fra le vittime illustri si ricordano il filosofo Giovanni Gentile e il federale di Milano Aldo Resega, si contarono inoltre più di 200 ufficiali superiori delle forze armate
della Rsi uccisi con questo «disumano metodo di eliminazione» (N. Arena, Forze Armate cit.,
p.233) - applicando quello che Giorgio Bocca definisce il «terrorismo scientifico», e di organizzare attentati contro le truppe tedesche e fasciste. L’aspetto maggiormente controverso e dibattuto di queste operazioni furono gli attentati terroristici, in gran parte dinamitardi, che non di
rado provocarono anche vittime civili. Bocca sostiene che dietro ad una tale applicazione della
violenza esisteva una precisa strategia dei dirigenti comunisti. Infatti dopo aver premesso che il
terrorismo cittadino era un atto di «moralità rivoluzionaria» - «Se si accetta il principio morale
e rivoluzionario della ribellione armata contro la legalità iniqua, bisogna arrivare al terrorismo
cittadino» - Bocca afferma che «il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le
punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce. I comunisti la ritengono giustamente necessaria e sono in
grado di impartirla, subito» (G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit., pp. 215, 145, 146).
27
ACS, RSI, Seg. Part. del Duce, Cart. Ris., busta 73, sottofascicolo 12b (Decima Mas Marina).
28
Ibidem. Dal documento redatto da Bardelli si apprende che all’azione parteciparono 720 uomini, la maggior parte del reggimento San Marco, circa 400, 190 tedeschi, 50 militari della
Gnr ed altrettanti della Decima. Il rastrellamento interessò le zone di Sarzana, S. Stefano, Fosdinovo e Pallerone e prevedeva la «perquisizione sistematica di tutte le abitazioni della zona» ed
il «fermo di tutte le persone sospette». Inoltre nel testo vengono fornite alcune notizie sui partigiani della zona; si afferma che l’attività di queste bande era «intensa» nonostante la forza «relativamente esigua», ma la loro capacità offensiva viene giudicata notevole «perché favorita dalla particolare configurazione del terreno e dalla connivenza dei civili del luogo».
29
S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit., pp. 301 ss.. Il guardiamarina-medico Del Bono assistette
personalmente all’episodio, stava infatti tornando a casa in licenza sul treno attaccato dai partigiani. Nel suo libro si trovano i drammatici ricordi di quella notte in cui morirono dieci militari della Rsi: «Stridio di freni sulle rotaie. Sbattere di portiere. Urla scomposte. Spari a raffica.
Rapide luci di lampade tascabili. Un trapestìo lungo i corridoi. Grida di dolore che nulla avevano di umano. Poi silenzio. […] A terra corpi seminudi ed irriconoscibili. Sangue dappertutto. Visi giovanili passati dal sonno alla morte, senza potersi difendere. Occhiaie spalancate. Ferite spaventose. […] I partigiani, approfittando del buio e della sorpresa erano spariti nei boschi portando con sé il bottino: le armi, le divise, nonché gli orologi e gli anelli delle vittime.
Uno solo di loro era rimasto ucciso. Vestiva un giubbotto di pelle. Capelli grigi, dimostrava più
di quarant’anni. […] Guardavo quei poveri corpi martoriati. Gli avvenimenti ci stavano invischiando in una guerra fratricida. A questo massacro sarebbe seguita una spietata reazione. Un
batti e ribatti senza fine e senza pietà, come in tutte le guerre civili» (Luigi Del Bono, Il mare
nel bosco. X Flottiglia MAS 1943-1945, Volpe, Roma 1980, pp. 23, 24).
30
S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit., pp. 301 ss.; Z. Algardi, Processi ai fascisti cit., pp.151, 152.
Il fatto viene confermato dalla testimonianza del partigiano Mario Galeazzi riportata dal volume di Zara Algardi e rilasciata durante l’udienza del 17 novembre 1948 del processo Borghese. Il teste era il partigiano che fu rilasciato dagli uomini della Decima prima della fucilazione.
Nella dichiarazione si apprende che a Galeazzi fu risparmiata la vita perché i suoi compagni lo
avevano scagionato dalla accuse che gli erano state rivolte; affermò inoltre che il suo gruppo era
totalmente estraneo dall’assalto al treno avvenuto la notte del 12 marzo. L’episodio trova conferma anche in un telegramma indirizzato al ministero dell’Interno, firmato dal capo provincia
Turchi, nel quale si comunica l’avvenuta fucilazione dei banditi (ACS, RSI, Seg. Part. del Duce,
Cart. Ris., busta 73, sottofascicolo 12d - Decima Mas Marina).
87
Massimiliano Capra Casadio
31
R. Lazzero, La Decima MAS cit., p. 82
32
Junio Valerio Borghese e la Decima Flottiglia MAS. Dall’8 settembre 1943 al 26 aprile 1945, a
cura di Mario Bordogna, Mursia, Milano 1995, p. 108. Nella sua dichiarazione Borghese spiegò il motivo per cui ritenne giustificabile il comportamento del suo ufficiale: «Che cosa si può
dire a un comandante di reparto che viene a conoscenza del fatto che alcuni suoi uomini sono
stati massacrati, non durante il combattimento ma in una vile imboscata? Si era in guerra e Carallo seguì le spietate leggi di guerra» (p. 108).
33
G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit. I durissimi rastrellamenti organizzati dai tedeschi all’inizio del 1944, furono condotti in modo «frontale, massiccio, quasi da guerra convenzionale», e coinvolsero principalmente le zone di Udine, del Monviso e del Monte Rosa (p. 160).
34
Junio Valerio Borghese cit., p. 110; http://www.decima-mas.net, La guerra civile. Revisionismo
o verità?, 25 giugno 2005.
35
S. De Felice, La Decima Flottiglia cit., p. 59. I rapporti fra Borghese ed il generale delle SS
sono affrontati anche da altri autori, quali Pansa e Lazzero (G. Pansa, Il gladio e l’alloro cit., p.
192). Karl Wolff in una dichiarazione scritta rilasciata a Ricciotti Lazzero, chiarisce il rapporto di dipendenza operativa a cui doveva sottostare la Decima: «Borghese con le sue unità venne
messo alle mie dipendenze per la lotta contro i partigiani così come per il mantenimento della
pace, dell’ordine e della sicurezza nella zona alle spalle dell’esercito tedesco in Italia» (R. Lazzero, La Decima MAS cit., p. 91).
36
R. Lazzero, La Decima MAS cit., p. 91.
37
G. Pisanò, Gli ultimi in grigioverde, cit., p. 1048.
38
N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica cit., p. 38.
39
N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica cit., p. 38.
40
G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., p. 190. Come nota Bocca in questo momento mutarono anche i rapporti di forza fra le varie bande: il Partito comunista, il più forte ed il più presente fra le masse popolari, assicurò alle formazioni Garibaldi una «maggioranza relativa», mentre i giellisti raggiunsero il numero degli autonomi e li superarono in autorità e potere, avendo
un movimento politico alle spalle che ne assicurava l’unità (p. 190).
41
L’episodio dell’uccisione di Bardelli viene raccontato e ricostruito in vari testi senza presentare differenze di particolare rilevanza: S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit., pp. 348 ss.; Junio Valerio Borghese cit., pp. 110 ss.; G. Bonvicini, Decima marinai cit., pp. 73 ss.; G. Pisanò, Gli ultimi in grigioverde cit., pp.1108 ss..; R. Lazzero, La Decima MAS cit., pp. 90 ss.; S. De Felice, La Decima Flottiglia, cit., pp. 87, 88, 89; Marino Perissinotto, Duri a morire. Storia del
Battaglione Fanteria di Marina Barbarigo, Decima Flottiglia MAS 1943-1945, Ermanno Alberelli Editore, Parma 1997, pp. 104 ss.
42
R. Lazzero, La Decima MAS cit., p. 93.
43
S. De Felice, La Decima Flottiglia cit., p. 87. Nel volume di Nesi viene riportato il rapporto
del sottotenente di vascello Carlo Sfrappini che rimase gravemente ferito nella sparatoria: «Feci appena in tempo a gettarmi sotto l’autocarro […]. Da sotto […] sparammo tutti i colpi che
avevamo, poi, improvvisamente, cadde un gran silenzio. Nella piazzetta non c’era più un uomo in piedi. I morti non potevano più sparare e i vivi non avevano più munizioni» (S. Nesi,
Junio Valerio Borghese cit., p. 353).
44
S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit. Nel già citato rapporto di Carlo Sfrappini, vengono raccontate anche le varie fasi della prigionia: «credo sia mio dovere ricordare che, dal momento della
partenza e per tutto l’interminabile viaggio fatto a dorso di mulo fino al rifugio in montagna,
88
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
mi fu costantemente vicino, aiutandomi e sorreggendomi […], un giovane partigiano […].
Durante la prigionia […], non ci usarono particolari violenze fisiche, salvo il piccolo particolare che io, unico ufficiale, fui trasportato all’aperto e legato ad una sedia per la fucilazione alla schiena come traditore. Questo rito si ripetè almeno quattro o cinque volte. Dopo la messa in scena del plotone di esecuzione schierato, mi riportavano nello stanzone, felici e contenti
del passatempo compiuto» (p. 354). Bonvicini inoltre riporta una dichiarazione di Piero Urati nella quale si afferma: «I prigionieri furono trattati da prigionieri, duramente, ma non picchiati e torturati. Dopo non molti giorni avvenne lo scambio […] e nessuno presentava lesioni o altro. Debbo dire, neanche i partigiani prigionieri della Decima» (G. Bonvicini, Decima
marinai cit., p. 77).
45
S. De Felice, La Decima Flottiglia cit., p. 87.
46
S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit., p. 304.
R. Lazzero, La Decima MAS cit., p. 94.
47
48
R. Lazzero, La Decima MAS cit., pp. 95, 96.
49
R. Lazzero, La Decima MAS cit., p. 95.
50
Junio Valerio Borghese cit., p. 110.
51
G. Pisanò, Gli ultimi in grigioverde cit., pp. 1048, 1049. Fra gli ufficiali che decisero di andarsene per non partecipare ad una guerra contro altri italiani, figurava anche Urbano Rattazzi,
marito di Susanna Agnelli. Secondo Nino Arena, Borghese dopo le vicende di Ozegna si convinse della necessità di intervenire nella guerra civile e «di superare incertezze morali e riserve
mentali». Nell’opera di Arena inoltre si sostiene che durante la riunione vennero chiariti anche
i principi giuridici che regolavano la guerriglia ed i franchi tiratori, in base alle norme previste
dal diritto internazionale di guerra. Tali norme prevedevano che i combattenti illegittimi, quali erano considerati dalla Rsi i partigiani, dovevano essere passati per le armi se catturati con le
armi in mano (N. Arena, Forze Armate cit., p. 255).
52
G. Bonvicini, Decima marinai cit., 34, 39, 40; R. Lazzero, La Decima MAS, cit., pp. 29,
60, 82 ss.
53
R. Lazzero, La Decima MAS cit., p. 82.
54
Renato Sarti, Mai morti, Mondadori, Milano 2003, p. 48. «recitato da Bebo Storti, porta in
scena gli orrori dei delitti della Decima MAS negli anni della repubblica di Salò, ricordando i
nomi e il martirio di alcune delle vittime. La narrazione si spinge poi al dopoguerra, ricordando i legami che diversi esponenti della Decima MAS hanno conservato per decenni con gli ambienti dei servizi segreti deviati, entrando a vario titolo nelle inchieste su alcuni dei passaggi più
oscuri e torbidi della vita della Repubblica» (Recensione tratta da: http://www.anpi.it, sito dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, 19 febbraio 2005).
55
ACS, RSI, Seg. Part. del Duce, Cart. Ris., busta 73, sottofascicolo 12c [Decima Mas Marina],
cartella 8.
56
Ibidem, busta 39, fascicolo 16 (Divisione Marina X).
57
http://www.cronologia.it/storia/biografie/borghese2.htm, Paolo Deotto, La Decima Mas, 5
febbraio 2005.
58
R. Lazzero, La Decima MAS cit., p. 29. L’autore sostiene che la compagnia Operativa fu il
reparto della Decima «più temuto e odiato, dove torture e sangue si mischiano in un intrico
da Medioevo» (p. 60). Il tenente Bertozzi, comandando l’Ufficio I, si occupava anche della disciplina interna alla Decima, e per questo era inviso persino all’interno dell’unità di Borghese.
Ricciotti Lazzero racconta un episodio avvenuto a Piana Battola, dove il tenente freddò perso-
89
Massimiliano Capra Casadio
nalmente due marò che avevano disertato ed erano rientrati in famiglia. Ferruccio Buonaprole
inoltre ricorda la fucilazione, per diserzione di fronte al nemico, del sergente Gregorio Di Noi,
avvenuta presso Conegliano. L’episodio fu un tragico errore ed il sergente trovò la morte solo
perché si imbattè nel tenente Bertozzi che lo mise di fronte al plotone di esecuzione senza neppure informare il comando della Decima. Nel lavoro di Buonaprole, che fu ufficiale del battaglione Freccia si legge: «quell’esecuzione fu opera esclusivamente del tenente Bertozzi, persona
non nuova a simili atteggiamenti!» (F. Buonaprole, Morte a partita doppia cit., p. 81).
59
Emidio Mosti, La Resistenza Apuana. Luglio1943-aprile 1945, Longanesi, Milano 1973, pp.
61 ss.
60
N. Arena, Forze Armate cit., p. 256.
61
G. Bonvicini, Decima marinai, cit., pp. 83, 84, 85. In questo ciclo d’operazioni entrò in azione per la prima volta anche l’artiglieria della Decima con i pezzi da 75/13 del Colleoni.
62
S. De Felice, La Decima Flottiglia cit. Nei combattimenti avvenuti nella valle dell’Orco rimasero uccisi 30 partigiani, mentre altri 5 furono fucilati, gli uomini del «gruppo di Borghese» invece persero 6 militi ed ebbero 19 feriti (p. 88).
63
N. Arena, Forze Armate cit., p. 256.
64
Ivi.
65
Le operazioni contro Alba si inserivano nell’ambito delle direttive strategiche di Kesserling,
che nell’ottobre 1944 proclamò una Settimana di lotta alle bande. Il feldmaresciallo sfruttò infatti la stabilizzazione del fronte sulla linea Gotica, dove le avanguardie alleate si erano fermate
a 15 chilometri da Bologna, che gli consentì di impiegare le sue riserve nelle azioni di controguerriglia (G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit., p. 438). Dalla primavera inoltre Kesserling aveva emanato, a tutte le forze tedesche in Italia, delle istruzioni durissime per reprimere
il movimento partigiano, le quali lasciavano praticamente «carta bianca» alle truppe combattenti, in special modo ai reparti di èlite - come ad esempio il reparto esploratori della divisione corazzata paracadutisti Hermann Goering - ed alle SS. L’ordine emanato dal feldmaresciallo il 17 giugno, riguardante le zone a ridosso della linea Gotica, inaspriva ulteriormente la lotta
e coinvolgeva coscientemente la popolazione civile, con questa direttiva «gli abitanti dei villaggi appenninici per la prima volta furono considerati responsabili della comparsa dei partigiani» (Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 357).
66
Nella città di Alba, a causa delle rivalità fra le diverse fazioni politiche, i partigiani non riuscirono a dare vita ad un’esperienza democratica ampia e profonda, come avvenne in altre zone occupate dai movimenti della Resistenza in cui vennero create delle vere e proprie repubbliche. Alba rimase semplicemente una città «presidiata dai partigiani» (G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit., p. 441).
67
N. Arena, Forze Armate cit., pp. 277 ss. Le vicende della battaglia di Alba sono raccontate in
diverse opere di memorie, appartenenti a protagonisti di entrambe le parti (Enrico Martini,
Partigiani penne nere, Mondadori, Milano 1968, p. 169; Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino 1968, pp. 245 ss.; Attilio Bonvicini, La scelta. Testimonianze di un giovane raccolte dal fratello Guido, Messa, Roma 1972, pp. 113, 114). Resta emblematica la testimonianza di Aldo E., marinaio del battaglione Lupo, II compagnia, fra le prime ad entrare in Alba, che mette in luce il distacco che provavano gli uomini della Decima nei confronti della retorica di partito della Rsi: «Al primo piano di una grande casa vidi aprirsi una porta
su un balcone e comparire un paio di personaggi con berretti neri e giacche nere. La piazza era
semivuota, una voce scandì con tono solenne le testuali parole: - Nel nome del Duce dichiaro
in Alba la Repubblica Sociale Italiana! - Portavo ancora il mitra sottobraccio e istintivamente
90
La Decima Mas di Junio Valerio Borghese, i comandi tedeschi e le formazioni partigiane
con la mano alzai la canna verso il balcone, poi mi imposi di riabbassarla. Ma gli avrei sparato volentieri. Il nostro giorno non meritava di essere coronato da quella retorica riconsacrazione. Me ne andai subito, perché quelli lì sarebbero stati capaci di farci anche un discorso» (Battaglione Lupo cit., p. 74).
68
Salò e la Decima MAS, a cura di Piero Vivarelli, regia di Renato Casali, iniziativa editoriale de
«Il Borghese», segue un’intervista a Piero Vivarelli condotta da Massimo Fini.
69
R. Lazzero, La Decima MAS cit., p. 122.
70
S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit., pp. 376 ss.; S. De Felice, ha Decima Flottiglia cit., pp.
87, 88.
71
N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica, cit., p. 12. La presenza di ex partigiani nella Decima viene ricordata anche da Sergio Bozza, arruolato negli NP: «Nelle nostre file, con gli ultimi
complementi, erano giunti anche diversi partigiani […] furono meravigliosi. […] I nostri partigiani hanno fatto la loro guerra, hanno sposato la causa dell’Italia invasa, si sono subiti il campo di concentramento […]. Hanno sopportato dignitosamente gli inconvenienti della sconfitta e, se un vanto lo hanno avuto, è stato quello di aver appartenuto alla Decima» (Sergio Bozza, 90 uomini in fila allineati sul mirino della 37. Diario di un NP della X MAS, Greco&Greco,
Milano 1989, p. 46).
72
Junio Valerio Borghese cit., p. 113.
73
Ivi.
74
G. Pisanò, Gli ultimi in grigioverde cit., pp. 1048.
75
G. Bonvicini, Decima marinai cit., p. 141.
76
R. Lazzero, La Decima MAS cit., pp. 160 ss.; Nino Buttazzoni, Solo per la bandiera. I nuotatori paracadutisti della Marina, Mursia, Milano 2002, pp. 101, 102; Armando Zarotti, I
nuotatori paracadutisti (Nord-Sud), Auriga, Milano 1990, pp. 89 ss.
77
R. Sarti, Mai morti cit., p. 47.
78
G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit. A giudizio di Bocca la strage di Porzus rappresentò
«l’episodio più nero, più amaro del settarismo» esistente fra le varie formazioni partigiane, in
particolare nelle terre di confine della Venezia Giulia dove l’idea di liberazione poteva scontrarsi con violente passioni nazionalistiche e politiche (p. 468).
79
R. Lazzero, La Decima MAS cit., pp. 127 ss.; S. Nesi, Decima Flottiglia cit., pp. 100 ss.; Raffaele De Courten, Le memorie dell’Ammiraglio De Courten 1943-1946, Usmm, Roma 1993,
pp. 546 ss.; Le ricerche di Ricciotti Lazzero sono basate su documenti raccolti presso l’Imperial War Museum di Londra.
80
N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica cit. Nel già citato documento dell’OSS basato sugli
interrogatori di Borghese si sostiene che le trattative con le brigate Osoppo non portarono ad
un accordo pieno, ma venne concluso un «mutuo patto di non aggressione» (p. 12).
81
Junio Valerio Borghese cit., pp. 114, 115, 116.
82
Z. Algardi, Processi ai fascisti cit., pp. 156, 157.
83
G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit., p. 480.
84
Battaglione Lupo cit., p. 57. In questo volume viene pubblicata anche una lettera firmata dai
marinai del Lupo, indirizzata al comandante del battaglione, nella quale si chiedeva l’invio al
fronte ed il conseguente allontanamento dagli impieghi contro i partigiani: «le famose sei settimane di addestramento […] si sono allungate un po’ troppo. Noi siamo nati per un’altra idea
91
Massimiliano Capra Casadio
e non possiamo piegare le nostre volontà a una guerriglia infame, che potrà forse essere necessaria, ma che noi non vogliamo. […] Dietro ad ogni sacrificio da noi compiuto s’ergeva luminoso il sogno di ciò che abbiamo sempre bramato: il fronte!» (p. 64).
85
G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana cit., p. 132.
86
M. Dondi, La lunga liberazione cit., p. 15. Claudio Pavone afferma con decisione che le ragioni di quel «di più» di violenza che venne esercitato durante la guerra civile, vanno ricercate «nelle strutture culturali di fondo» che sostenevano le parti in lotta. In questo senso il substrato culturale fascista, caratterizzato da valori aggressivi ed esasperati come il militarismo, il
razzismo, il nazionalismo o la volontà di potenza, favoriva, in misura maggiore, l’emergere di
tendenze alla violenza e delle «più oscure pulsioni dell’animo umano». Infine Pavone ribadisce
che «l’utilità della violenza va […] ricondotta alla giusta causa in nome della quale viene esercitata» ed in questo senso la lotta dei Resistenti, che si battevano per la liberazione dell’Italia e
dell’Europa dal nazi-fascismo, trovava, a suo parere, una piena legittimazione (C. Pavone, Una
guerra civile cit., pp. 427, 419).
87
M. Dondi, La lunga liberazione cit., p. 18.
88
P. Chessa, Guerra civile cit., pp. 80, 81. Il ragazzo ucciso era il partigiano Ferruccio Nazionale, catturato dopo che aveva tentato di uccidere il cappellano militare don Augusto Bianco, mediante il lancio di una bomba a mano. L’impiccagione venne compiuta dai marinai della compagnia Operativa di Bertozzi, nei confronti del quale venne aperta un’inchiesta interna
per volere di Borghese, che però non fermò i crimini del tenente (S. Nesi, Junio Valerio Borghese, cit., 359, 360).
89
N. Arena, Forze Armate cit, p. 246; S. Nesi, Junio Valerio Borghese cit., pp. 290, 291. Ferruccio Buonaprole ad esempio ricorda la morte del sottotenente Melozzi, rapito presso Maniago
verso la fine di novembre del 1944 da una brigata partigiana comandata da Attila. Melozzi,
prima di venire freddato con un colpo di pistola alla nuca, venne fatto camminare senza vestiti e senza scarpe sulle montagne innevate per tre giorni e due notti (Ferruccio Buonaprole,
Morte a partita doppia. Una storia del battaglione Freccia, Ed. Lo Scarabeo, Bologna 2003, pp.
76, 77, 78). Nel già citato articolo La guerra civile. Revisionismo o verità? viene pubblicata una
foto di due marò impiccati dai partigiani, in cui ad uno dei due sventurati erano state amputate le gambe prima dell’esecuzione.
92
Eros e Tanathos, morte per protesta contro la patria
e morte impolitica.
Declinazioni del problema della morte
nella memorialistica della Repubblica sociale
di Francesco Germinario
1. «I simboli funerei, le insegne di morte, l’iconografia improntata al
sangue e al lutto, la scenografia tetra: sono elementi che per la Repubblica
sociale italiana segnano in modo quasi ossessivo l’immagine corrente e la
percezione dettata dal comune senso storico». Così Luigi Ganapini nell’incipit del suo volume sulla storia della Repubblica sociale italiana1.
Non v’è dubbio che la simbologia funeraria, il richiamo insistente alla
morte e al sacrificio costituiscano una riprova della consapevolezza di disperato minoritarismo che attraversa tutto l’ambiente della Repubblica di
Mussolini: è sempre Ganapini a rilevare poco oltre che «lutto e furore [sono provocati dal] “tradimento” degli ideali del fascismo e dell’alleanza con
i tedeschi, di cui i fascisti repubblicani si dichiarano vittime incolpevoli»2.
E infatti, la presenza ossessiva della morte – osserverà un memorialista - col
suo «strano odore… che si avverte dovunque, nelle strade e nelle case, che
impregna l’aria e arriva al cervello. Un senso della morte che tutti sentono,
che tutti respirano, di cui nessuno si libera, nessuno né i soldati né i civili»3, diviene la proiezione della consapevolezza che quella del fascismo è ormai un’epoca al tramonto, e che la Repubblica sociale medesima è costretta a operare in una condizione di isolamento, se non di opposizione attestata dallo sviluppo del movimento partigiano.
E tuttavia, è anche verosimile che la scelta della simbologia funeraria
del fascismo di Salò è soprattutto agevolata da un’evidente dimestichezza
della cultura della destra nei confronti del tema della morte e del conseguente immaginario che essa suscita e della simbologia a essi collegata.
Da Joseph de Maistre a Charles Maurras, da Édouard Drumont a Maurice Barrès, da Oswald Spengler a Ernst Jünger, per non dire degli intellettuali della Kriegsideologie, da Corneliu Zelea Codreanu a Julius Evola per
non dire di D’Annunzio (almeno del D’Annunzio fiumano), con qualche
eco significativa anche nel filosofo della Nouvelle droite Alain de Benoist
93
Francesco Germinario
influenzato da suggestioni heideggeriane, il problema della morte attraversa tutte le varie fasi della storia della cultura politica della destra otto-novecentesca, fino a costituirne una delle più significative declinazioni della sua
agenda teorico-politica4. Sembra quasi che la cultura della destra nasca e
avochi a sé, in aperta e dichiarata polemica con l’ottimismo illuministico e
l’attivismo giacobino, la possibilità a essere l’unica depositaria della visione
della vita e dunque della politica medesima come meditatio mortis.
A fronte delle culture politiche illuministiche, che si presentano sulla
scena politica quale progetto per instaurare finalmente nell’umanità l’epoca della felicità attraverso la rivoluzione5 - e che proprio per questo sono
permeate di un attivismo ottimistico -, ovvero contro una sinistra che, per
richiamare Oswald Spengler, uno degli autori più letti nella destra del secondo dopoguerra, pretende di «sottomettere la realtà alle astrazioni»6, la
cultura politica della destra ha evocato l’istanza della morte quale atto della finitezza umana contro cui inesorabilmente arrivano a infrangersi le presunzioni escatologiche, astratte e razionalistiche delle culture politiche e
dei movimenti che dai Lumi si dipartono.
Nella visione della cultura di destra la presenza della morte evoca la
consapevolezza che i disegni umani di modifica radicale della realtà storica sono subordinati all’esaurimento del ciclo biologico. Il richiamo alla morte, almeno nella cultura della destra dell’Otto-Novecento, funziona
da richiamo al realismo nei confronti delle evidenti tensioni messianiche
ed escatologiche che caratterizzano l’astratto razionalismo delle ideologie
egualitarie. Proprio in un lucido contributo recente sul pensiero politico di
Maurras, il politologo Domenico Fisichella ha avuto occasione di sostenere che «se c’è un argomento che nel pensiero maurrassiano si palesa come
un passaggio arduo non privo di un profilo di ambivalenza, ebbene tale argomento è quello della morte»7.
2. Sarebbe semmai utile una ricognizione sulle modalità con cui la visione della morte è stata rielaborata nella storia delle destre del Novecento, utilizzando proprio questa angolazione d’analisi quale interessante criterio ausiliario per delineare le diverse specificità ideologiche e teorico-politiche delle destre medesime.
Nel testo più celebre, una specie di Lilì Marlene in veste di Repubblica
sociale, si sostiene che «la signora morte/ fa la civetta in mezzo alla battaglia,/ si fa baciare solo dai soldati»8. Se quest’associazione fra Eros e Thana94
Eros e Tanathos, morte per protesta contro la patria e morte impolitica
tos ricorre anche in numerose altre canzoni, come in quella in cui si rivendica che «a noi la morte non ci fa paura, / ci si fidanza e ci si fa l’amor»9, più
diffusamente un po’ tutti i testi musicali delle milizie della Repubblica sociale accennano alla morte: si marcia «con la morte sopra al petto»10, rivendicando che «non ci arresta il pensier della morte»11 perché «me ne frego
di morire»12; anzi, i «Morti ci precedono frementi»13 perché essi «son più
vivi»14degli italiani che hanno preferito la viltà e il disonore del tradimento
al sacrificio per mantenere fino alla fine la parola data all’alleato.
Qualche cenno lo ritroviamo anche nella narrativa dalla parte dei «vinti», come nel caso del romanzo Le donne non ci vogliono più bene, dove un
gruppo di militi cade in un’imboscata proprio in quella «tranquilla città
con le ragazze che essi invitavano a far l’amore mentre si recavano alla fontana»15. Nello stesso romanzo, il tenente L., uno dei protagonisti, dà l’addio a Rosamarì, una vedova di guerra, dopo una notte d’amore, ricordando alla donna che egli è «un soldato, non posso fare quel che mi piace perché piacerebbe a te»16.
D’altro canto, se pure in modo meno pervasivo, la presenza di quest’associazione la ritroviamo anche nella memorialistica. Nel ricostruire la scelta di arruolarsi a sedici anni nelle milizie della Repubblica sociale, un memorialista osserva che «all’occhiello della giacca porta un teschio di latta,
simbolo degli Arditi. La morte è un po’ il suo amore: un amore non corrisposto nonostante il suo più intimo desiderio. Quando avverrà l’incontro
fatale, quando egli riceverà l’estremo bacio, mancherà il calore, l’ingenuità
di quegli impetuosi sedici anni»17. La guerra diviene la cerimonia d’iniziazione di quella virilità che, quasi per definizione, deve riuscire a coniugare l’esuberanza virile nei confronti delle donne e l’accettazione della morte quale ultima celebrazione sull’altare del coraggio. Non a caso, uno dei
reduci nonché tra i leader più importanti dell’estrema destra italiana, Pino Rauti, definisce la vicenda della Rsi «una “festa giovanile”.Una grande
e ininterrotta festa giovanile»18.
L’agognata virilità la si consegue mostrandosi impavidi davanti a una
morte immaginata quale femme fatale che attrae il maschio. Ma ciò vuol
dire anche che solo chi è capace di morire può gustare la pienezza affettiva e spirituale, e tuttavia anche erotica, dell’amore, il quale a sua volta non
può essere visto come una grigia situazione dei piccolo borghesi. Costoro vedono l’amore in una visione privatistica ed egocentrica: esso divide il
rapporto d’affetto che preserva l’uomo dalle scelte fatali, è la zattera che
95
Francesco Germinario
lo salva dal naufragio della Storia. Viceversa, per l’aristocrazia della nazione, ossia per coloro che intendono misurarsi nella guerra, l’amore diviene
il momento di consolazione del guerriero: solo i coraggiosi sono degni di
amore; e si può essere degni di amare, ovvero di possedere una donna, proprio perché si è disposti a morire, ovvero dimostrando di possedere il coraggio di cadere sul campo di battaglia.
L’unico timore che il guerriero prova è quello di non avere la possibilità di rivelare a sé e agli altri il proprio valore. L’amore - necessario riconoscimento da parte della donna solo a chi è disposto ad accettare il supremo
sacrificio - è inno a una vita la cui intensità non può che concludersi con
l’accettazione della morte. Possono gli infingardi, i vigliacchi, gli spergiuri, in una parola i «badogliani», ambire all’affetto di una donna, dopo che
hanno trascinato la nazione nel fango? Quali diritti possono accampare nei
confronti del cuore delle donne coloro che hanno travasato ignominia sul
nome della loro madreterra? Solo chi è disposto a dare la vita per una causa può aspirare all’amore di una donna, perché solo chi accetta la morte, e
non la sfugge ricorrendo ad atteggiamenti vigliacchi, può accampare il diritto ad amare; e l’amore è il balsamo che rende meno amara la morte: «Capo, sei stato un conquistatore [di donne], ogni città una tacca sul calcio del
mitra?»19. Questa domanda retorica tradisce l’ammirazione del milite verso il suo comandante: è un’ammirazione su cui si fonda il rapporto gerarchico all’interno della comunità virile.
Amore e rischio della morte costituiscono entrambi due declinazioni di
una visione virile e guerriera (ma sarebbe più giusto dire: di una visione virile dei Valori) della vita: il maschio che accetta la morte è l’unico che può
aspirare al monopolio dell’amore, perché in entrambi i casi esercita una virilità che si rivela quale capacità di padroneggiare il proprio destino. La disponibilità alla morte rende, per un verso, puro l’affetto d’amore; per l’altro, l’amore medesimo si declina come meritato viatico che accompagna il
guerriero morituro nei suoi ultimi momenti.
3. Eppure, l’intreccio fra Eros e Tanathos costituisce solo una delle declinazioni del modo con cui la cultura politica e l’immaginario dell’estrema destra hanno, nel corso dei decenni, elaborato la vicenda della Repubblica sociale.
Se la vicenda dei venti mesi della Repubblica sociale italiana costituisce nel complesso uno dei momenti secondari, almeno sul piano culturale
96
Eros e Tanathos, morte per protesta contro la patria e morte impolitica
della storia delle destre del Novecento, viceversa, il modo con cui l’estrema
destra italiana del secondo dopoguerra ha rielaborato la vicenda della Repubblica sociale italiana costituisce certamente una delle articolazioni fondamentali del dibattito a destra sulla morte. Tutta la cinquantennale vicenda dell’estrema destra italiana, dal 1945 ai primi anni Novanta, può essere
letta come una rigorosa quanto insistente rivendicazione della vicenda storica della Repubblica sociale italiana. Il mondo dei vinti di Salò rispecchiava adeguatamente nell’immaginario di quell’area politica la condizione di
solitaria opposizione antisistemica che l’estrema destra era chiamata a svolgere nell’Italia repubblicana e democratica: così come i vinti di Salò, elettisi a minoranza di guerrieri che aveva scelto di lavare il «tradimento» dell’otto settembre, schierandosi contro l’avanzata della Macchina e dell’Oro,
del volgare Liberalismo anglosassone e del Comunismo materialista sovietico, consapevoli fin dal primo momento che il loro sarebbe stato un sacrificio vano, allo stesso modo l’estrema destra intendeva opporsi a una Repubblica nata dalla sconfitta del 1945 ed espressione dell’alleanza fra i sistemi ideologiche quella sconfitta aveva provocato. Sconfitti ma non domati nella primavera del 1945, i «vinti» della Repubblica sociale, rivoltatisi
con sdegno al vile «tradimento» dell’otto settembre, passavano il testimone
dell’opposizione a un’estrema destra che dal mito della Rsi traeva alimento
per un immaginario politico che si considerava in guerra con la democrazia20. Cos’era la Repubblica italiana, in cui le più importanti forze politiche, dai comunisti ai socialisti fino ai democristiani rivendicavano di avere
organizzato la Resistenza, se non nulla più che il tradimento armato contro la nazione in guerra e il suo alleato tedesco, se non la rinuncia alla parola data all’alleato, ovvero poco più che il dominio dell’ignominia e della
viltà? In altri termini, la Repubblica democratica era un 8 settembre eretto a sistema politico.
Epperò, almeno sul tema della morte, dell’elaborazione del mito dell’aristocrazia della nazione disposta al sacrificio supremo, la Repubblica sociale presenta anche alcune declinazioni interessanti che, da un lato, si richiamano alle linee guida elaborate dai precedenti pensatori e intellettuali
di destra; dall’altro lato, introducono anche alcuni elementi di novità.
Consistente è la memorialistica dei reduci della Repubblica sociale italiana. Si tratta di una bibliografia le cui origini risalgono addirittura ai mesi
immediatamente successivi alla fine della guerra. Almeno nell’ambito dell’estrema destra italiana, questa memorialistica ha surrogato alla difficoltà,
97
Francesco Germinario
da parte di quest’area politica, di dare vita a un atteggiamento di necessaria storicizzazione. Essendosi identificata in quella vicenda, l’estrema destra italiana non è riuscita infatti a produrre una storiografia che non fosse quella piattamente agiografica e celebrativa, delegando di conseguenza al genere memorialistico il compito di rielaborare i venti mesi della Repubblica sociale21.
Naturalmente compito fondamentale e, potremmo aggiungere, quasi
esclusivo di questa memorialistica era quello di rivendicare le ragioni della
militanza nelle fila della Repubblica sociale, soprattutto in polemica aperta con quell’antifascismo su cui si reggeva la cultura politica della menonata democrazia della Repubblica italiana. E tuttavia, è anche da rilevare che nell’elenco delle ragioni di questa scelta militante le cause di natura
«esistenziale» risultavano intrecciate a quelle di natura più immediatamente politica, rimandando a un ordine del discorso in cui la questione della
morte assumeva una collocazione di primo piano.
Non è un caso che numerosi memorialisti e «storici» di estrema destra abbiamo richiamato l’attenzione sul fatto che uno dei livres de chevet dei militi della Repubblica sociale fosse I proscritti di Ernst von Salomon, tradotto proprio nel 1943, quasi a volere proiettare nell’ambiente
dei Freiekorps baltici la condizione di disperazione e di isolamento che essi medesimi si trovavano a sperimentare. Proprio a uno degli «storici» della
destra estrema italiana viene naturale il paragone fra i Freiekorps «che, nel
primo dopoguerra tedesco, avevano rifiutato la sconfitta» e la figura «quasi leggendaria» di Junio Valerio Borghese, il comandante della X Mas, il reparto più celebrato della memorialistica della Repubblica sociale22. Il riferimento al romanzo di Salomon ricorre anche in uno dei più famosi testi autobiografici23, mentre, stando alle ricostruzioni di alcuni militanti di
estrema destra, sempre quel romanzo costituisce uno dei testi più letti fra i
reduci che avrebbero dato vita al Movimento sociale italiano24. Ancora nei
primi anni ottanta, uno degli esponenti più rappresentativi della cultura
dell’estrema destra, Giovanni Volpe aveva l’occasione per sviluppare il paragone fra i Freiekorps baltici e i militi della Repubblica sociale, sostenendo
che questi ultimi, in particolare i militi della X Mas, erano stati i «soli proscritti italiani del nostro tempo»25.
Il mondo dei vinti e dei disperati di Salomon proietta l’immagine dei
vinti e dei disperati della Repubblica sociale: entrambi, Freiekorps e militi di Salò, combattono in un mondo in rovina, da dove comunque stanno
98
Eros e Tanathos, morte per protesta contro la patria e morte impolitica
germogliando i primi segnali di un nuovo mondo, la democrazia di Weimar e l’Italia democratica, cui entrambi si sentono profondamente estranei. È proprio nell’ambiente della Repubblica sociale che cresce quel mito dei proscritti destinato a caratterizzare anche nei decenni futuri la «fortuna» di Salomon all’interno dell’estrema destra europea, sol che si pensi
al caso di Alain de Benoist26, al quale dobbiamo, del resto, la ricostruzione
del successo de I Proscritti fra i settori dell’estrema destra vicini all’OAS.
E proprio in questa «fortuna» di Salomon emerge un altro degli aspetti che caratterizzano l’atteggiamento della destra estrema davanti alla questione della morte.
Quest’ultima non è mai interpretata come una conclusione impolitica della vita: la morte in battaglia attesta quanto meno che la propria vita la si è consumata da valorosi e da guerrieri; anzi, è proprio la morte in
battaglia a conferire un significato alto alla propria vita. Emblematico per
tutti quanto sostenuto da un recente memorialista che, dialogando idealmente con i commilitoni caduti nelle fila della Repubblica sociale, osserva che «molti di voi (dei militi della Repubblica sociale n.d.r.) sono, in seguito caduti in combattimento o sotto il piombo assassino, a guerra finita. Tutti eravate come ero io: puri, leali, sinceri… Quanti di voi riposano
ora in tombe disadorne, sparse per l’Italia settentrionale! Avete portato con
voi il sorriso innocente, il canto scanzonato, la fermezza pensosa, il coraggio più schietto»27. E allora, siccome è la morte il sigillo definitivo di una
vita eroica e guerriera, ne consegue necessariamente che è «solo il sacrificio
disinteressato, disperato, che fa di quest’animale, bipede e dal portamento
eretto, un essere spirituale»28. Come a dire che solo il sacrificio supremo,
ovvero la caduta in battaglia, riconosce l’umanità dell’uomo; la spiritualità dell’uomo può pure essere un attributo innato, ma essa dev’essere anche meritata nel momento in cui viene esibita, rendendosi necessario che
emerga in quegli atti di eroismo in cui l’uomo si sintonizza col drammatico panorama della Storia, per cui «o un uomo è un combattente o è nulla»29. La spiritualità dell’uomo la si conquista proprio nel omento in cuisi ricorre a comportamenti che, disposti fino al punto da mettere in gioco la propria vita, la esaltano. Ed è sempre la morte a dimostrare la qualità della vita precedente.
4. En passant, una riprova significativa della celebrazione della morte quale atto necessario per affermare la spiritualità della vita la rintraccia99
Francesco Germinario
mo nell’atteggiamento della destra estrema davanti alla figura dell’intellettuale. Che quella dell’intellettuale costituisca una figura equivoca e di cui
diffidare, è una convinzione su cui convergono tutti i vari filoni della cultura di destra già a muovere da Burke e dalla sue critiche alla cultura politica rivoluzionaria, non foss’altro perché nell’intellettuale s’intende vedere
il maggiore portavoce di un astratto razionalismo espressione della società
egualitaria e borghese. E infatti, a destra gli unici intellettuali di cui si celebra il nome sono proprio coloro che non hanno receduto dal pagare con
la vita o con l’isolamento il loro impegno politico. Da Giovanni Gentile a
Drieu La Rochelle e Robert Brasillach memorialisti e autori di destra celebrano proprio quegli intellettuali che con la vita, ovvero col carcere o con
l’esilio, solo che si pensi ai casi di Céline, Maurras, Hamsun e Pound, avevano pagato il loro impegno a favore dei regimi collaborazionisti europei.
Non sono solo le posizioni politiche di questi intellettuali a essere sottolineate, se non nella misura in cui s’intende rivendicare che i collaborazionismi videro anche la partecipazione di un settore significativo della cultura europea. Accanto a un problema squisitamente dottrinario, a celebrare
questi intellettuali concorre anche la convinzione che gli intellettuali da ricordare sono solo quelli che sono caduti o hanno vissuto da guerrieri. Queste figure di intellettuali sono da ricordare, perché la loro morte e le persecuzioni cui erano stati sottoposti alla fine della guerra avevano costituito
un vigoroso riscatto dall’appartenenza al mondo equivoco e pericoloso del
razionalismo e dell’astrazione. Gli intellettuali disposti a morire per le loro
idee si emancipano dall’astrazione e dal polveroso mondo piccolo borghese in cui sono vissuti, dimostrando che solo le idee coltivate fino all’estremo del sacrificio col proprio sangue sono meritorie del ricordo della posterità. È l’estremo sacrificio che conferisce un Valore a idee che rimarrebbero
ristrette tra le polverose carte degli studi degli intellettuali.
Il modo con cui la memorialistica della Repubblica sociale riflette su
quella vicenda storica tradisce innanzitutto una visione tragica e drammatica della vita. E’ una visione che scandisce l’avvenuta scissione con l’immaginario e l’universo ideologico consolidatosi nel ventennio del regime
fascista. Mentre la visione fascista, caratterizzatasi peraltro come una cultura politica di governo, si era determinata come un «senso tragico e attivistico dell’esistenza»30 che presentava il fascismo come una soluzione politica che reagiva con successo alla decadenza democratica, facendo appunto
appello a un attivismo che si poneva l’obiettivo di rovesciare la dominan100
Eros e Tanathos, morte per protesta contro la patria e morte impolitica
te visione mercantilistica e borghese della vita, la cultura politica della Repubblica sociale sconta la consapevolezza di operare in una situazione sempre più minoritaria rispetto alle forze politiche che stanno prendendo il sopravvento. La rottura con l’immaginario ottimistico del ventennio fascista
non potrebbe essere più netta e radicale: a una cultura di governo, quella
fascista, che guardava con ottimismo alla vita e al futuro, si contrapponeva una cultura del fascismo saloino attraversata da palesi segnali di incapacitante disperazione contrassegnata dalla maturazione della certezza che il
fascismo sia ormai alla fine del suo percorso politico. Nella Repubblica sociale non solo non ci sono più le condizioni storiche e politiche perché si
possa parlare di un «secolo fascista», come l’ideologia del ventennio aveva
affermato; ma è diffusa la consapevolezza che la nazione ormai si è progressivamente distaccata da quelle convinzioni e che dunque il futuro non sarà
fascista. La celebrazione quasi ossessiva della morte diviene allora il risvolto
che tradisce la consapevolezza dei militi della repubblica sociale di muoversi un un quadro storico-politico ormai segnato dalla morte del fascismo.
5. In quest’ultimo caso, la morte assume una precisa declinazione: essa
diviene il chiamarsi fuor da un futuro non più fascista, e presumibilmente
caratterizzato da un sistema politico e valoriale, la democrazia, esattamente opposto, e a cui non ci si può sentire che estranei. E allora, quale scelta
più coerente nel manifestare l’estraneità alla nazione e al sistema di valori che si sta affermando, se non quella di morire? La morte si declina quale
rinuncia alla cittadinanza; essa va cercata e amata – da qui verosimilmente
l’intreccio fra Eros e Tanathos – certamente quale supremo atto di disprezzo nei confronti dell’avvento du un regime cui ci si sente estranei, e al tempo stesso nei confronti di una nazione e di un popolo che nel «tradimento» dell’otto settembre hanno rivelato di essere incapaci di padroneggiare il dramma che il palcoscenico della Storia impone talvolta agli uomini.
Nel romanzo di un reduce, ambientato proprio tra le fila dei miliziani della Repubblica sociale, uno dei protagonisti, davanti alla notizia che le armate angloamericane stanno dilagando nella Val Padana, auspica che «sarebbe bello fare quadrato nella Valle Padana […] e opporsi all’invasione
con scontri furiosi, assalto all’arma bianca, rovesciando olio bollente in testa agli americani dagli spalti, poniamo, dal castello estense»31.
Il fascismo aveva celebrato il culto della patria e della nazione rievocando le gesta degli eroi caduti in passato, a cominciare dai Micca e dai Balil101
Francesco Germinario
la: una nazione in grado di esibire una fitta galleria di eroi e di caduti non
poteva che essere vocata a occupare un ruolo da protagonista sullo scenario della Storia. In altri termini, la morte degli eroi diveniva, nell’universo
ideologico fascista, il biglietto d’ingresso perché l’Italia potesse rivendicare
un ruolo da protagonista nella Storia.
Nella cultura politica della Repubblica sociale si assiste, al contrario, alla scissione fra eroismo e nazione. L’estraneità alla patria, sentimento che
caratterizzerà l’immaginario dell’estrema destra nella sua storia cinquantennale, è elaborato proprio dalla memorialistica dei reduci della Repubblica sociale. Già il crollo del regime il 25 luglio è interpretato quale riprova dell’incapacità degli italiani di meritare un regime guerriero e che esalta
le virtù dell’eroismo e del coraggio32. La Repubblica sociale attesta curiosamente come, nella deriva morale e storica di una nazione, ci fossero stati
uomini disposti a rifiutare con sdegno il guicciardinismo congenito degli
italiani, anteponendo al «particulare» il mondo dei Valori33. Nel romanzo
di Grazioli, il reduce della Rsi, a guerra conclusa e in procinto di arruolarsi
nelle truppe mercenarie francesi impegnate nella repressione del moto indipendentista algerino (quasi a volere dimostrare che guerrieri ed eroi sono
sempre dalla parte dei vinti), osserva che «il popolo è una carovana traballante che segue il tracciato indicato dai soliti opportunisti»34. Se la gloria
della nazione è garantita dalla presenza dei suoi figli caduti eroicamente,
nel caso della memorialistica dei reduci vale l’esatto contrario: non solo si
leva il dubbio, considerato il tradimento monarchico-badogliano e il banditismo, che l’Italia non sia più una nazione, ma l’Italia si dimostra una nazione priva di eroi; o meglio, gli ultimi eroi sono coloro che hanno scelto
di morire, quale supremo atto di ripugnanza nei confronti di una nazione
che ha consumato il tradimento dell’otto settembre, dimostrando di essere abitata da «un popolo opportunista»35.
Una nazione, l’Italia, degna di figurare nel consesso di potenze che si
stanno dissanguando in una guerra che si è rivelata uno scontro epocale
e gigantesco fra valori e ideologie contrapposte? Nient’affatto; gli italiani
non sono da considerare neanche un popolo, bensì un confuso amalgama
di razze a prevalenza semitico-levantine, sono un «miscuglio di celti, arabi, normanni, greci, fenici e così via. Un vero mosaico»36. A fronte dei tedeschi e dei sovietici che si sono massacrati sotto le mura di Stalingrado,
ovvero dei giapponesi e degli angloamericani che si stanno dissanguando
tra le acque del Pacifico, gli italiani sono degnamente rappresentati da un
102
Eros e Tanathos, morte per protesta contro la patria e morte impolitica
traditore come Badoglio. La constatazione che una parte significativa degli italiani appoggia il movimento partigiano, ovvero che è indifferente agli
esiti della guerra, è letta dai memorialisti come il fallimento completo del
fascismo e dei suoi progetti di fare degli italiani un popolo di guerrieri. A
fronte degli altri popoli dell’Asse, che sopportano stoicamente lutti, distruzioni e bombardamenti, evidenziando un atteggiamento eroico e combattivo, gli italiani rivelano come gli sforzi totalitari del fascismo di costruire l’«uomo nuovo» siano miseramente falliti alla prova della Storia. Sacrificarsi, allora, per un popolo congenitamente badogliano, razzialmente bastardo e autore di atteggiamenti viscidi e infidi, tipici delle razze semitiche?
La risposta è che «il comportamento dell’italiano medio durante la guerra
è la prova lampante del fallimento delle intenzioni e degli scopi della politica e della propaganda di Mussolini e del Fascismo. Non si riuscì a ‘forgiare’ l’italiano forte, inflessibile, volitivo, capace di qualunque sacrificio»37.
Gli italiani, dominati dal loro guicciardinismo, non solo non hanno compreso che l’epocalità dello scontro politico, ideologico e militare in atto richiedeva ben altri atteggiamenti collettivi; ma il loro comportamento infingardo e vigliacco tradisce anche come il fascismo abbia fallito nel tentativo di educarli al culto dei Valori virili: nei centri di arruolamento nelle
fila della Rsi si sente spesso sostenere che «abbiamo parlato di rivoluzione per vent’anni, ma eravamo ancora troppo borghesi»38. La morte diviene
certamente l’occasione per affermare la fedeltà al mondo dei Valori, ma si
declina anche come la suprema forma di protesta nei confronti di una nazione nella quale è divenuto impossibile riconoscersi. prima di essere condotto davanti al plotone d’esecuzione americano, un milite della Repubblica sociale confessa a sé stesso e agli altri commilitoni condannati a morte di sentirsi «più tedesco che italiano»39.
La divaricazione fra eroismo e nazione non potrebbe essere più completa: la morte degli eroi diviene lo sfregio supremo nei confronti di una nazione che non merita che i suoi figli migliori e più valorosi possano continuare a vivere tra un popolo corrotto e imbelle. Con la morte gli ultimi
eroi diventano apolidi, si liberano di una cittadinanza italiana divenuta ormai sinonimo di codardia e di vigliaccheria, esprimendo tutto il loro disprezzo nei confronti di un popolo che si è rivelato estraneo al mondo dei
Valori: «abbiamo dato alla terra dove siamo nati molto di più di quanto essa abbia dato a noi»40.
103
Francesco Germinario
6. L’aporia entro cui si muove la rilettura che l’estrema destra conduce
sulla vicenda della Repubblica sociale non potrebbe essere più evidente: da
un lato, si tratta di tenere alto il nome dell’Italia, dimostrando che in una
nazione in cui ormai le fondamenta della convivenza civile sono venute a
mancare, sussiste ancora un’élite di guerrieri che non ha rinunciato a testimoniare la fedeltà ai Valori virili; d’altro canto, si palesa il disprezzo per la
propria nazione, giudicata sinonimo di vigliaccheria. Proprio i militi della
Repubblica sociale, educati nel sistema politico totalitario al culto della nazione e al mito della patria, sono costretti a registrare l’esatto contrario: essi
sono divenuti estranei alla loro nazione, individui sradicati e apolidi, guardati con indifferenza o con odio dagli altri italiani, incapaci di comprendere, nella loro codardia, che la scelta di morire per la Repubblica sociale prima che essere di natura politica e ideologica, attiene a una dimensione antropologica ed esistenziale, ossia è afferibile a un tipo d’uomo che proprio
in quella scelta esprime la sua inappellabile condanna di un popolo mercantile e inadeguato a solcare il terreno della Storia. Proprio in riferimento
a quellla scelta, e rivolgendosi esplicitamente all’afflitto mondo dei reduci della Repubblica sociale, nell’immediato dopoguerra, sarà Julius Evola,
in testo che l’estrema destra avrebbe sempre considerato il proprio Manifesto politico, richiamando ancora una volta immagini spengleriane, sostenne che in un’epoca di dissolvimento dei Valori era necessario domandarsi
se «esistono ancora uomini in piedi in mezzo alle rovine»41.
Si muore per protesta contro la nazione e gli italiani e per dimostrare a
sé stessi che si appartiene al mondo dell’élite guerriera, ovvero per dimostrare davanti a un ipotetico Tribunale della Storia che non tutti gli italiani sono badogliani e affetti da codardia.
La scelta di sacrificarsi e morire per la Repubblica sociale reperisce proprio in queste motivazioni la pretesa dei memorialisti di essersi arruolati
per la difesa dell’onore della patria, piuttosto che per una scelta ideologico-politica. La rivendicazione dell’impoliticità della propria scelta percorre come un rigido filo rosso tutta la memorialistica, a cominciare dalle più
alte personalità politiche, da Filippo Anfuso, ambasciatore della Repubblica sociale a Berlino, a coloro che, come Rodolfo Graziani e Junio Valerio
Borghese, ricoprivano cariche militari di primo piano42, per finire ai militi
semplici: si è disposti a combattere, «ma non sotto un colore politico»43, visto che anche reparti affidabili, come la X Mas, vedono la presenza di qualche… antifascista44. Anzi, il senso di ardore italico che animava i volonta104
Eros e Tanathos, morte per protesta contro la patria e morte impolitica
ri era tale da spingerli spesso a una «diserzione in avanti»45, ossia ad accelerare o saltare il periodo di addestramento per correre subito a combattere
contro il nemico. Ci si arruola e si è disposti a morire «per difendere la mia
Idea»46, perché «le idee sono immortali e probabilmente la funzione degli
uomini è quella di trasmetterle da una generazione all’altra nell’attesa del
momentro magico»47, non certo per un regime che ha dichiarato fallimento o per un popolo travolto dall’ignominia. Gli italiani non solo non hanno compreso l’epocalità dello scontro politico-militare in atto, ma col loro
atteggiamento infingardo e pauroso hanno rivelato come il fascismo avesse fallito nel suo tentativo totalitario e pedagogico di educare gli italiani al
culto dei valori virili: «ora ero schierato con gente che combatteva e moriva con lucida, appassionata determinazione, tutti per uno, uno per tutti.
Non si trattava più di fascismo, si trattava di onore, dignità, rispetto di sé,
e se tutto ciò era fascismo, ben venga»48.
L’impoliticità della scelta è più volte rivendicata dai memorialisti. Se un
ufficiale della X Mas di Borghese osserva che «in tutte le mie basi io non ho
mai visto nessun rappresentante del governo e neanche del Partito fascista
repubblicano»49, il protagonista di un romanzo di Franzolin osserva che era
ormai tramontato il tempo delle «adunate “oceaniche” di piazza Venezia, il
contatto diretto, lui lassù, al balcone, grintoso, fascinoso, fiammeggiante,
e migliaia di italiani giù asbracciarsi, invocare, urlare»50.
La morte, di conseguenza, non è solo protesta contro la propria nazione, ma assume anche un significativo risvolto di indifferenza nei confronti
di un fascismo anch’esso precipitato nell’ignominia del 25 luglio. Nel fascismo, si sostiene in un altro romanzo, «molti erano fascisti e moltissimi no
[…] [Erano] opportunisti, gente che aveva visto il fascismo come copertura»51. Se proprio erano da considerare fascisti i militi di Salò, essi rappresentavano comunque un fascismo estraneo e anzi avversario di quello imborghesitosi nel corso del ventennio; era un fascismo «insofferente», lontano dalla «fede mummificata» di un sistema ideologico, fermamente attaccato a «un’idea dinamica della vita»52.
La rivendicazione dell’impoliticità della scelta di aderire alla Repubblica sociale è un tema che, presente nella memorialistica dei militi e nella narrativa di parte saloina, ritorna anche con prepotenza nelle memorie
delle alte gerarchie politico-militari, come nel caso emblematico di Graziani e Borghese53.
Quali caratteristiche e sfaccettature assume la «morte impolitica»? L’im105
Francesco Germinario
politicità della morte, quale conseguenza dell’impoliticità della scelta, è determinata dall’impoliticità dei Valori virili e guerrieri che s’intende testimoniare. Sono i nemici, in particolare il movimento partigiano, che hanno
introdotto nello scontro militare la dimensione politica, e addirittura ideologica; è da questo versante che si pretende di combattere – e dunque morire – per il comunismo, ovvero contro il fascismo, conferendo alla morte
una dimensione ideologica che essa non può assumere. Viceversa, i Valori
che a Salò s’intende testimoniare col sacrificio della propria vita, trascendono la prosaica miseria delle appartenenze politiche e degli schieramenti
ideologici. Si è fascisti in una maniera quasi strumentale, nel senso cioè che
il fascismo ha sempre inteso mantenere un legame privilegiato col Mondo dei Valori. Ma i Valori sono oltre la destra e la sinistra; e sono oltre l’asse divisorio fascismo/antifascismo, perché trascendono in una dimensione
perenne e metastorica, non riconducibile alle differenziazioni e alle appartenenze politiche, per definizione storicamente transeunti.
Note al testo
1
L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere. I combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori, Garzanti, Milano 1999, p. 7. Ma vedi anche C. Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 430 ss.
2
L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere cit., p. 7.
3
M. Zanfagna, L’ultima bandiera, ed. or. 1956, ma cit. dalla ristampa, Settimo Sigillo, Roma 2002, p. 78. Identica la sensazione del protagonista di un romanzo dalla parte dei «vinti»: «La morte era a due passi, ti camminava accanto, ma non ci facevi troppo caso, lei, la morte, chiacchierava con la tua paura … poi finiva sempre che tutto scendeva giù dalla gola… e
continuavi a parlare» (F. Grazioli, Dalla X MAS alla rivolta di Algeri, Settimo Sigillo, Roma
2002, p. 38).
4
La bibliografia sull’argomento è, com’è noto, molto vasta. Utili indicazioni e piste di ricerca, almeno in riferimento ad alcuni autori fondamentali della cultura di destra del Novecento, vedile in D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Bollati Boringhieri, Torino 1991. Esplicito il riferimento a D’Annunzio da parte di Mario Castellacci, autore del testo della canzone più famosa frai militi della Rsi, Le donne non ci vogliono più
bene, su cui vedi più avanti, in F. Giorgino-N. Rao, L’un contro l’altro armati. Dieci testimonianze della guerra civile (1943-1945), Mursia, Milano 1995, p. 117.
106
Eros e Tanathos, morte per protesta contro la patria e morte impolitica
5
Cfr.su questo, tra i contributi più recenti, D. Losurdo, La felicità e la rivoluzione, in La filosofia
e le emozioni, a cura di P. Venditti, Atti del XXXIV Congresso Nazionale della Società Filosofica
Italiana, Urbino, 26-29 aprile 2001, Le Monnier, Firenze 2003, pp. 175-199.
6
O. Spengler, Anni decisivi, ed. or. 1933, trad. it., Ciarrapico, Roma s.a.i., p.20.
7
D. Fisichella, La democrazia contro la realtà. Il pensiero politico di Charles Maurras, Carocci,
Roma 2006, p. 55.
8
Le donne non ci vogliono più bene, testo pubblicato in G. De Marzi, I canti di Salò. «Le donne non ci vogliono più bene…», Frilli, Genova 2005, p. 220. Sull’origine di questo testo, vedi
la testimonianza dell’autore Mario Castellacci in F. Giorgino-N. Rao, L’un contro l’altro armati cit., pp.116-117.
9
A noi la morte non ci fa paura, ivi, p. 145.
10
Brigata nera, fascio di volontà, ivi, p. 141.
11
Marcia del volontario, ivi, p. 125.
12
Me ne frego, ivi, p. 143.
13
Canzone del battaglione «Pontida» della Guardia Nazionale Repubblicana, ivi, p. 138.
14
Inno dei volontari della morte, ivi, p. 169.
15
E. de Boccard, Le donne non ci vogliono più bene , (ed. or. 1950 col titolo Donne e mitra), Sveva, Andria (Ba) 1995, p. 66. Ma per qualche altro riferimento nel campo della narrativa vedi E.
Accolla, La soglia, in Id., U. Franzolin, A. Giorleo, F. Grazioli, Storie d’amore e di guerra, Settimo Sigillo, Roma 1998, p. 26.
16
Ibid., p. 102.
17
G. Spina, Diario di guerra di un sedicenne (1944-1945), Settimo Sigillo, Roma,1998, pp.2627.
18
Così nell’intervista a F. Giorgino-N. Rao, L’un contro l’altro armati. Dieci testimonianze della guerra civile (1943-1945) cit., p. 145. Notizie sul ruolo politico e intellettuale ricoperto da
Rauti negli ambienti dell’estrema destra italiana in F. Ferraresi, Minacce alla democrazia. LaDestra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano 1995, passim.
19
F. Grazioli, Dalla X MAS alla riviolta di Algeri cit., p. 32.
20
Per tutti questi aspetti, vedi F. Germinario, Da Salò al governo. Immaginario e cultura politica della destra italiana, Bollati Boringhieri, Torino 2005, in particolare pp. 17-27. Sulla cultura dei «vinti» nell’estrema destra italiana, vedi anche le osservazioni dell’intellettuale di destra M. Veneziani, Processo all’Occidente. La società globale e i suoi nemici, SugarCo, Milano
1990, pp. 125-126.
21
Per un elenco dei titoli sia del filone memorialistico che di quello «storiografico», vedi F. Germinario, L’altra memoria. L’Estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino
1999. Per i motivi che hanno ostacolato nell’estrema destra italiana la formazione di una storiografia che rifuggisse dall’atteggiamento agiografico, cfr. ivi, pp. 7-31.
22
Entrambe le citazioni in P. Rauti e R. Sermonti, Storia del fascismo, v. 6, Il grande conflitto,
CEN, Roma 1978, p. 260.
23
C. Mazzantini, A cercar la bella morte, Marsilio, Venezia 1995, p. 175.
24
F. De Felice, Così cominciò, in Clemente Graziani. La vita, le idee, a cura di S. Forte, Settimo
Sigillo, Roma 1997, p. 20.
107
Francesco Germinario
25
G. Volpe, I nuovi proscritti, in «Intervento», (XI), n. 63, settembre-ottobre 1983, p. 64. Sulla figura di Giovanni Volpe, figlio dello storico Gioacchino, nonché il più significativo editore dell’estrema destra italiana, notizie in F. Germinario, Giovanni Volpe e «Intervento»: storia
di una rivista di cultura della Destra (1972-1984), in «Studi piacentini», 2001, n. 30, pp. 77114.
26
Vedi quanto questi scrive in La Germania di von Salomon, in Id., Visto da destra. Antologia critica delle idee contemporanee, ed. or. 1977, trad. it., Akropolis, Napoli 1981, pp. 679-693. Sull’influenza dell’opera di Salomon negli ambienti dell’estrema destra del secondo dopoguerra,
vedi le osservazioni di M. Revelli, Ernst von Salomon: le patologie dell’«alterità», in E. von Salomon, I Proscritti, ed. it., Baldini & Castoldi, Milano 1994, pp. 423-443.
27
G. Spina, Diario di guerra di un sedicenne (1944-1945) cit., p. 33.
28
Ibidem.
29
Ibidem, p. 5.
30
La definizione è di E. Gentile nel saggio introduttivo La mentalità totalitaria alla riedizione del
suo Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), il Mulino, Bologna 1996, p. 32. Ma vedi anche Id., Fascismo. Storia e intrepretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 88-89.
31
U. Franzolin, Il repubblichino, 1 ed., Il Falco, Milano 1985, ma cit. dall 3 ed., Settimo Sigillo, Roma, pp. 179-180.
32
A teorizzare la difficoltà degli italiani di adeguarsi al mondo dei valori virili e guerrieri del fascismo è Julius Evola: «Non temeremmo di capovolgere la tesi di certo antifascismo per affermare che non fu il fascismo ad agire negativamente sul popolo italiano, sulla “razza italiana”,
ma viceversa: fu questo popolo, questa “razza”ad agire negativamente sul fascismo, cioè sul tentativo fascista, in quanto dimostrò di non saper fornire un numero sufficiente di uomini che
fossero all’altezza di certe alte esigenze e di certi simboli, elementi sani e capaci di promuovere lo sviluppo delle potenzialità positive che potevano essere contenute nel sistema» (J. Evola, Il fascismo visto dalla destra. Con note sul Terzo Reich, Settimo Sigillo, Roma 1989, p. 117.
L’ed. or. del volume è del 1964, uscita per le Edizioni Volpe, ed era stata pubblicata col titolo
Il Fascismo, saggio di un’analisi critica dal punto di vista della Destra. Sulla figura di Evola, teorico dell’antisemitismo da posizioni rigorosamente tradizionaliste, nonché punto di riferimento
fondamentale del radicalismo di destra europeo nel secondo dopoguerra, vedi F. Germinario,
Evola,Giulio Cesare, in V. de Grazia e S. Luzzatto, Dizionario del fascismo, v. I, A-K, Einaudi, Torino 2002, pp. 497-498 e la bibliografia ivi citata).
33
Per i riferimenti al guicciardinismo degli italiani, vedi U. Franzolin, Il repubblichino cit., p.
36, nonché l’epigrafe, con una citazione da Gucciardini, in Id., I vinti di Salò, Settimo Sigillo,
Roma 1995, p. 4. È sempre Evola a sostenere che il «valore [della Repubblica sociale] sta… nel
suo aspetto combattentistico e legionario. Come qualcuno ha giustamente osservato, esso sta
nel fatto che, forse per la prima volta in tutta la storia italiana, col secondo fascismo una massa non indifferente di Italiani scelse coscientemente la via del battersi su posizioni perdute, del
sacrificio e dell’impopolarit per obbedire al principio della fedeltà ad un capo e dell’onore militare. In questo senso esso sorse da ciò che resistette ad una prova del fuoco…» (J. Evola, Il fascismo visto dalla destra cit., p. 118).
34
F. Grazioli, Dalla X MAS alla rivolta di Algeri cit., p. 56.
35
U. Franzolin, I vinti di Salò, Settimo Sigillo, Roma 1995, p. 77.
36
L. Del Bono, Il mare nel bosco, Volpe, Roma 1980, p. 18.
37
G. Spina, Diario di guerra cit., p. 109.
108
Eros e Tanathos, morte per protesta contro la patria e morte impolitica
38
M. Zafagna, L’ultima bandiera cit., p. 22.
39
L. Tadolini, I franchi tiratori di Mussolini. La guerriglia contro gli invasori angloamericani da
Napoli a Torino, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 1998, p.23.
40
E. Z. [Enzo Zanotti], Il mio 25 aprile. Testimonianze sullo scioglimento dei reparti militari, in
R.S.I. addio…1943-1945, a cura di E. Bettini, G. Govi, E. Zanotti, Editrice «Lo Scarabeo»,
Bologna 1993, p. 41.
41
J. Evola, Orientamenti, Roma,«Imperium», 1950, ma cit. dalla ristampa, Ar, Padova 2000,
p.18. Numerose sono state le ristampe e le traduzioni straniere di questo saggio di Evola. Un
elenco delle edizioni italiane e straniere più significative vedilo in J. Evola, Gli uomini e le rovine, quarta edizione riveduta e con una Appendice e Orientamenti. Le bozze della seconda edizione, con un saggio introduttivo di Alain de Benoist, Mediterranee, Roma 2002, p. 4.
42
Vedi F. Anfuso, Da Palazzo Venezia a Lago di Garda (1936-1945), ed. or. Cappelli, Bologna
1957, ma cit. dalla ristampa, Settimo Sigillo, Roma 1996; R. Graziani, Ho difeso la patria,
Garzanti, Milano 1950, ma cit. dalla n. ed., Una vita per l’Italia. «Ho difeso la patria», Mursia,
Milano 1986; G. Pansa, Borghese mi ha detto, Palazzi, Milano 1971. Per un’analisi della memorialistica di Anfuso, Graziani e Borghese, vedi F. Germinario, L’altra memoria cit., pp. 4355, pp.77-82.
43
F. Christin, Con gli alamari nella RSI. Storia del 1 Battaglione Granatieri di Sardegna 1943/45,
Settimo Sigillo, Roma 1995, p. 21. Ma vedi anche quanto scrive C. Mazzantini, I balilla andarono a Salò. L’armata degli adolescenti che pagò il conto della Storia, Marsilio, Venezia 1995,
pp. 75-76.
44
Vedi quanto scrive in proposito M. Zanfagna, L’ultima bandiera cit., p. 94 (ma in questo senso anche p. 18, p. 22, p. 105).
45
La definizione è di G. Bonvicini, Decima marinai! Decima comandante! La fanteria di marina 1943-45, Mursia, Milano 1988, ma cit. dalla ristampa 1996, p. 56. Ma su questo vedi anche M. Zanfagna, L’ultima bandiera cit., p. 38, nonché A. Guerin, L’ultima raffica, Edizioni
«Sentinella d’Italia», Molfalcone 1980, p. 17.
46
G. Tarasconi, Fiamma bianca camicia nera, NovAntico, Pinerolo 1994, p. 62.
47
E. B. [E. Bettini], R.S.I. addio!, in R.S.I. addio…1943-1993 cit., p. 9.
48
U. Franzolin, I vinti di Salò cit., p. 78.
49
Testimonianza del tenente di vascello Sergio Nesi in F. Martinelli, «Breve sogno». Gli ultimi
della Decima Mas Storie di vita 1943-1945, Liguori, Napoli 2005, p. 41.
50
U. Franzolin, Il repubblichino cit., p. 170.
51
Id., I vinti di Salò cit., p. 165.
52
Tutte le citazioni ivi,p. 65.
53
Per l’analisi di queste posizioni nella memorialistica della Repubblica sociale, almeno limitatamente ai casi di Graziani e Borghese, vedi F. Germinario, L’altra memoria. L’Estrema destra,
Salò e la Resistenza cit., pp. 52-55 (Graziani), 77-82 (Borghese).
109
storia nazionale
«La Resistenza è morta,
viva il buon vecchio Mussolini».
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
di Aram Mattioli
1. In tutti i paesi europei stritolati dal rullo compressore della seconda
guerra mondiale, essa ha mantenuto fino ad oggi un ruolo centrale nella
memoria collettiva di ogni popolo1. Non diversamente è avvenuto in Italia,
ma la cultura della memoria in Italia è però stata - e lo è tuttora - se­gnata
da peculiarità che si fanno evidenti quando la si esamini da una prospettiva di comparazione. Per decenni non furono le azioni e i crimini dei venti anni del passato regime fascista ad essere in primo piano nella memoria
della Repubblica italiana - come invece è il caso della Repubblica federale
tedesca -, ma lo furono invece i venti mesi di occupazione dell’esercito hitleriano e la Resistenza contro gli invasori tedeschi che si venne costituendo a par­tire dall’autunno del 1943. L’innegabile realtà che l’Italia fascista
fosse il più stretto alleato del Terzo Reich e che, solcando la scia del «Nuovo ordine europeo» vagheggiato da Hitler, avesse scatenato immotivati at­
tacchi e guerre di conquista che in Africa, in Russia, nei Balcani arreca­rono
a centinaia di migliaia di uomini pene e dolori incommensurabili, non si
è mai creata uno spazio adeguato nella memoria collettiva degli ita­liani.
Menzogne esistenziali ampiamente diffuse hanno rimosso tutto quello che
venne commesso in nome dell’Italia prima della caduta di Mussolini il 25
luglio 1943.
Nell’esporre quale fu l’uso pubblico della storia contemporanea nell’Italia del dopoguerra tenterò quindi anzitutto di chiarire perché questo
avvenne nel periodo della guerra fredda e cercherò poi di comprendere come la cultura italiana della memoria2 sia cambiata dopo il crollo del vecchio sistema partitico nel 1992-93. Uno sguardo partico­lare verrà rivolto
all’abbattimento di tabù compiuto in senso revisioni­stico dalla Casa delle
libertà, alla politica della memoria condotta dalla coali­zione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi, che ha governato dal 2001 alla primavera del 2006, quando ha perso le elezioni.
111
Aram Mattioli
2. Nel 1945, subito dopo la liberazione dall’occupazione nazista, gli
italiani si raccontavano una significativa barzelletta. La Rai voleva stabilire, tramite un concorso nazionale, chi fosse l’italiano con la migliore me­
moria. I partecipanti furono numerosi. Alla finale, trasmessa in tutto il
paese, c’erano tre concorrenti: il primo affermò orgogliosa­mente di poter dire l’orario di partenza e di arrivo di tutti i treni delle fer­rovie italiane. Messo alla prova, la superò brillantemente, citando esat­tamente perfino l’orario di arrivo e partenza di treni delle linee seconda­rie. Il secondo
fece ancora più colpo sostenendo di avere in testa tutti i numeri dell’intero
elenco telefonico italiano. Anch’egli superò senza esitazioni la prova, consistente nel recitare i numeri di telefono del cen­tinaio di italiani che si chiamavano Mario Rossi. Gli ascoltatori erano ormai convinti che nessuno potesse superare questa fenomenale prova di memoria, ma il terzo riuscì in
questa impossibile impresa affermando semplicemente: «Io mi ricordo ancora, anche se vagamente, di essere stato fascista»3.
Come molte altre barzellette di contenuto politico, anche questa rac­
chiude più di un granello di verità. In effetti, nel dopoguerra furono molti gli italiani che ebbero un atteggiamento in parte benevolo, autoassolutorio e complessivamente non privo di ingenuità verso il ventennio della dittatura fascista, una dittatura che comunque - secondo le più recenti
valutazioni - costò pur sempre la vita a un milione di uomini, soprattutto al di fuori dei confini nazionali. Fino a oggi la maggior parte degli italiani non si è mai confrontata seriamente con il problema di chi davvero
siano stati gli uomini che mantennero al potere il duce per venti interi anni e che ini­zialmente applaudirono calorosamente la sua aggressiva politica di espansione, almeno fino a quando non portò alla disfatta militare del
1943. È quindi coerente con l’elusione di questo interrogativo che il periodo dell’occupazione - e del collaborazionismo - avviatosi con l’8 settembre
1943 sia a lungo ri­masto nella memoria e solo con l’intento di ricostruire
la «guerra di libera­zione nazionale» combattuta contro i nazifascisti, proprio come se la Repubblica so­ciale italiana e la sua politica collaborazionistica non siano mai esistite4.
Nell’Italia della guerra fredda molti italiani pensavano seriamente di
aver vissuto due esistenze in una: la prima, «non vera», nell’Italia fasci­sta,
non sarebbe stata che un semplice preludio alla seconda, quella «vera», vissuta sotto la nuova Repubblica nata dallo spirito della Resistenza5. Prescindendo dai neofa­scisti organizzati nel Movimento sociale italiano (Msi),
112
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
perenni nosta­lgici emarginati dal sistema politico italiano fino al 1994, la
maggior parte degli altri liquidava i propri trascorsi fascisti - quando pure erano costretti a giustificarsi - come un trascurabile «errore di gioventù». Oggi numerosi storici sostengono che la stragrande maggioranza degli
italiani dopo il 1945 abbia compiuto un «deciso gesto di negazione, distor­
sione e dimenticanza verso il fascismo in generale e Mussolini in parti­
colare, che rispondeva al bisogno di tacitare la cattiva co­scienza di un popolo che in maggioranza aveva convintamente seguito il duce»6.
Accanto all’incipiente guerra fredda e alla prematura amnistia generale disposta nel 1946 dal ministro della Giustizia, il comunista Palmiro To­
gliatti, per i fascisti legalmente condannati7, fu in particolare il mito della
Resistenza, diffuso tra il popolo dalle nuove élites repubblicane a soffocare
sul nascere ogni domanda autocritica circa il comportamento degli italiani sotto il passato regime8. Per decenni il consenso di base della repub­blica
fondata nel 1946 si fondò sulla convinzione che gli italiani avevano abbattuto la dittatura fascista con le proprie forze e che i com­battenti antifascisti avevano concorso con le armi in pugno alla libera­zione del paese. Il movimento di resistenza armata ascese a mito fon­dante della repubblica e ben
presto la Resistenza venne elevata a reli­gione civile. Così la costituzione entrata in vigore nel 1948 è completa­mente impregnata dallo spirito dell’antifascismo repubblicano. Al cosid­detto «arco costituzionale» appartennero,
per tutto il lungo periodo della guerra fredda, tutti i partiti che nel 1943
si erano organizzati nel Comitato nazionale di liberazione, dalla Democrazia Cristiana fino al Partito comunista italiano, i cui membri avevano fornito le unità combattenti numericamente più forti e dato anche il maggior
contributo di sangue.
Ogni anno i vertici dello stato celebrano i riti della religione civile anti­
fascista in occasione della festa nazionale del 25 aprile. Ancora oggi nel
Nord e nel Centro migliaia di lapidi commemorative, di medaglie d’oro a
città, paesi e province, migliaia di monumenti e di intitolazioni di edifici
pub­blici e strade ricordano gli anni della lotta armata. Per decenni la Resistenza è stata celebrata come il punto apicale della storia nazionale, come il «secondo Risorgimento». L’«esperienza della Resistenza» - constatava
nel 1992 lo storico Jens Petersen, «creò una profonda e pregnante coscienza generazionale, che a lungo ha agito come fenomeno politico-culturale
nel dopoguerra»9. Il mito della Resistenza visse il suo punto più alto tra il
1963 e il 1985, nei due decenni compresi tra l’ingresso del Partito socia113
Aram Mattioli
lista italiano nei governi guidati dalla Democrazia Cristiana e la fine della
presidenza di Sandro Pertini, un politico amato da tutte le parti e che aveva avuto un ruolo preminente nella Resistenza10.
Il mito resistenziale ebbe influenze sia positive che negative sugli sviluppi italiani del dopoguerra. Senza dubbio esso favorì la formazione e il
radicamento di una cultura democratica, procurando alla neonata repubblica una forte legittimazione e operando come fattore di integrazione al
di là delle appartenenze a ceti e ambienti diversi. Come rappresentazione
egemonica del passato relegò i nostalgici del duce ai margini della società
e della politica11. Contemporaneamente portò però anche a una esasperata
radiazione del passato fascista dalla memoria collettiva12. «Sebbene l’Italia
sia stato il primo paese europeo in cui sia arrivato al potere un movimento fascista e sebbene il potere di Mussolini sia durato quasi il doppio della
dittatura di Hitler, il Ventennio venne accuratamente rimosso dalla storia
italiana del dopoguerra»13. A volte il mito della Resistenza candeggiò anche
gli abiti macchiati di sangue di criminali fascisti che seppero cambiare bandiera al momento giusto. Un tale Alpini che nella Jugoslavia occupata aveva stuprato, incendiato villaggi e ucciso ostaggi, una volta ammise apertamente con lo storico Claudio Pavone: «Una volta aperti gli occhi, che potevo fare? Divenni partigiano»14.
Già anni or sono l’ex-resistente Vittorio Foa, facendo una opportuna
autocritica, ebbe a sostenere che i tedeschi avevano largamente contribuito a ridare tranquillità agli italiani e a farli di nuovo sentire in pace con se
stessi15. Lo storico contemporaneo Enzo Collotti vide nel cambio di alleanza del 1943 non solo un grosso alibi per i criminali di guerra italiani ma
anche un evento chiave per spiegare e rendere possibile la successiva amnesia collettiva16. I crimini di guerra commessi durante l’occupazione tedesca sulla popolazione civile del Nord e del Centro Italia, e in particolare i
massacri di Marzabotto e di Sant’Anna di Stazzema e delle Fosse Ardeatine17, hanno pressoché cancellato dalla memoria collettiva ogni colpa fascista. Nella cultura della memoria dominata dall’esperienza della Resistenza
fu sempre centrale la contrapposizione tra il «bravo italiano» e il «cattivo
tedesco» - il barbaro invasore e devastatore18. In breve, il mito della Resistenza sorresse per decenni una consolidata autorappresentazione assolutoria, e questo anche quando la ricerca storica aveva ormai da tempo documentato inquietanti aspetti del passato fascista del paese, come l’incontrovertibile fatto che durante la conquista dell’Etiopia i militari italiani ave114
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
vano commesso pesanti crimini di guerra e avevano fatto uso sistematico
di gas venefici19.
A partire dai primi anni novanta il mito della Resistenza si andò progressivamente sfaldando, perdendo anche il suo carattere di imperativo sociale. Molti furono i motivi per sottoporlo finalmente a una verifica20. Con
il passare del tempo sempre più esponenti della generazione dei fondatori antifascisti della repubblica uscirono dall’arena politica, tra cui anche figure simboliche come Ferruccio Parri, Alcide De Gasperi, Giuseppe Saragat, Palmiro Togliatti, Leo Valiani, Luigi Einaudi e Sandro Pertini. La nuova generazione politica che successe loro era meno segnata dalle esperienze
della seconda guerra mondiale e dalla cultura dell’antifascismo, anche per
motivi biografici. Ad arrecare danni gravi alla religione civile della repubblica fu sicuramente lo scandalo senza precedenti di «Mani pulite», che nel
1992-93 fece collassare la vecchia partitocrazia, spazzando via la vecchia
classe politica quasi da un giorno all’altro. A relativizzare la Resistenza nel
suo valore di religione civile furono inoltre nuove risultanze storiche, come
quelle di Claudio Pavone, uno storico di sinistra che nel 1991 suscitò scalpore con la tesi che tra il 1943 e il 1945 non aveva avuto luogo solo una
guerra di liberazione nazionale contro l’occupante tedesco, ma anche una
guerra civile e di classe, tutta interna all’Italia, la cui posta altro non era se
non il futuro ordinamento sociale del paese21. Ulteriori studi accertarono
che i partigiani comunisti attivi nel «triangolo della morte» tra Bologna,
Reggio Emilia e Ravenna liquidarono in selvagge epurazioni dozzine di fascisti - o presunti tali - anche mesi dopo la Liberazione22.
Sfruttando il momento favorevole la destra italiana - che si era andata
rafforzando a partire dai primi anni novanta23, tanto da venire a far parte
nel 1994 della coalizione guidata dall’imprenditore dei media Berlusconi,
capo per nove mesi di un governo in cui per la prima volta sedevano politici di provenienza neofascista in rappresentanza del Msi - sferrò attacchi
sempre più aspri contro la cultura della memoria coniata dalla Resistenza.
Poco dopo le elezioni parlamentari, in cui il Msi - con il 13,5 per cento dei
voti - ottenne il miglior risultato della propria storia, il suo leader Gianfranco Fini definì Benito Mussolini, giustiziato nel 1945 da un commando partigiano, come il «più grande statista del 20° secolo»24 e Irene Pivetti
della Lega Nord, la giovane presidente della Camera, affermò che la paternalistica dittatura di Mussolini era stata un bene per le donne25. Tra i precursori scientifici del revisionismo storico che ben presto si manifestò an115
Aram Mattioli
cora più chiaramente si distinsero gli storici più legati alla destra borghese,
come Ernesto Galli della Loggia26 e soprattutto Renzo De Felice.
Già nel 1975 nella sua famosa Intervista sul fascismo De Felice, che con
la sua monumentale biografia di Mussolini era diventato lo storico dell’Italia contemporanea di maggiore notorietà internazionale, aveva sostenuto
apoditticamente che le differenze tra la Germania nazionalsocialista e l’Italia fascista sarebbero state «enormi» e che pertanto non era sensatamente
possibile comparare i due regimi27. Infatti non ci sarebbero state nell’Italia
fascista un’autoctona ideologia razzista e nemmeno una sistematica violenza di massa contro l’opposizione tali da reggere il confronto con il regime
del terrore nazionalsocialista. Le «leggi razziali» emanate nel 1938 andrebbero inquadrate nel contesto dell’avvicinamento in politica estera alla Germania nazista, ma non sarebbero affatto scaturite da un originario orientamento razzista dell’Italia fascista28. L’assoluta centralità di Auschwitz per
l’interpretazione della Germania nazionalsocialista impedirebbe di trovare
in quegli anni qualcosa che ne reggesse il paragone. Per De Felice insomma, l’Italia fascista, che non avrebbe a suo dire perpetrato alcun genocidio,
«è fuori del cono d’ombra dell’Olocausto»29.
Wolfgang Schieder ha recentemente classificato l’interpretazione di De
Felice, che ha trovato largo seguito, come un «gettarsi allegramente alle spalle il passato»30. Per lo storico romano è infatti irrilevante che la Repubblica sociale abbia volonterosamente collaborato alla Shoah e nel giro
di pochi mesi abbia consegnato ai tedeschi 8.500 ebrei destinati alle fabbriche di morte (ne sopravvissero solo 1.007). Né maggior rilievo per l’interpretazione generale del fascismo hanno per De Felice le brutali guerre
di conquista volute da Mussolini, con gli umilianti regimi di occupazione
e l’introduzione di una sistematica apartheid nelle colonie africane. A De
Felice interessa unicamente sgravare la dittatura di Mussolini da ogni corresponsabilità nei grandi crimini della Germania nazionalsocialista e farla
quindi apparire, a paragone di quella hitleriana, come una dittatura moderata31.
Nelle sue ultime pubblicazioni prima della morte, De Felice tratteggiò
il Duce addirittura come un «patriota», che anche quando Hitler lo insediò
a capo della Rsi altro non avrebbe voluto che il bene del proprio paese. Alla domanda di come mai Mussolini nell’autunno 1943 avesse accondisceso al desiderio di Berlino di diventare il capo del nuovo stato vassallo creato
nel Nord e Centro Italia, De Felice rispose nel 1995: «Che piaccia o meno,
116
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
Mussolini accettò il progetto di Hitler per una motivazione patriottica: un
vero e proprio sacrificio sull’altare della difesa dell’Italia. Non lo spingeva
il desiderio di vendetta, perché non fu un dittatore assetato di sangue del
tipo di Stalin o Hitler … Mussolini tornò al potere per mettersi al servizio
della patria, perché lui solo poteva impedire a Hitler di fare dell’Italia una
seconda Polonia; tornò al potere per rendere il regime di occupazione meno oppressivo e tragico»32. Nei tempi più fervidi della cultura della memoria antifascista solo simpatizzanti neofascisti come lo storico e senatore del
Msi Giorgio Pisanò avevano osato esternare opinioni come queste.
Questo nuovo sminuire e sdrammatizzare l’Italia fascista non rimase
comunque senza contraddittorio, sebbene dopo il 1995 si facesse sempre
più largo un revisionismo storico orientato a destra33. Quando nel 2001 la
«Casa delle libertà»34 di Silvio Berlusconi vinse le elezioni politiche, la destra italiana ebbe per la prima volta l’occasione di intraprendere il tentativo - e da una posizione di governo - di spezzare l’egemonia antifascista nel
settore della cultura della memoria e di riorientarla a proprio piacimento35.
Un’opportunità che non si lasciò sfuggire.
3. Chi abbia presente come oggi vengono ufficialmente commemorati
nella Repubblica federale tedesca i crimini del regime nazista, non può fare a meno di notare, quando ha occasione di soggiornare in Italia, che qui
le cose stanno ben altrimenti. Non sarebbe immaginabile - almeno come
fatto duraturo - che nella Germania d’oggi un produttore di bevande commercializzi bottiglie di vino con etichette effigianti Adolf Hitler o Benito
Mussolini, come alcuni anni fa, con successo, ha preso a fare una ditta della provincia di Treviso. In alcuni negozi e punti di ristoro delle autostrade
sono in vendita e fanno bella mostra di sé bottiglie di merlot del Veneto,
con simili etichette ben visibili, senza che l’autorità giudiziaria si senta in
obbligo di intervenire36. Sarebbe inimmaginabile in Germania anche che
l’Obersalzberg presso Berchtesgaden, il buen retiro di Hitler, possa divenire - come è avvenuto per Predappio, la città natale di Mussolini in Romagna - una meta di pellegrinaggio per l’estrema destra di tutt’Europa, sotto gli occhi delle autorità e con grande soddisfazione dei locali venditori di
souvenir37. Non sarebbe possibile in Germania che città e amministrazioni locali onorino pubblicamente ex-politici nazisti, come invece lo è stato
nell’Italia governata dalla Casa delle libertà. Alcune amministrazioni locali rette da Alleanza Nazionale cominciarono nel 2001 a riabilitare i fasci117
Aram Mattioli
sti «buoni» (a loro dire) con pubblici gesti di riconoscimento. Così la piscina pubblica dell’Aquila venne intitolata ad Adelchi Serena (1895-1970),
ex-podestà della città e segretario generale del Pnf. Sul lungomare di Bari
venne collocato un busto di bronzo in memoria di Araldo di Crollalanza
(1892-1986), ex-ministro fascista dei Lavori Pubblici e poi a lungo senatore del Msi. Nel paese di Tremestieri Etneo, presso Catania, si intitolò una
strada a Benito Mussolini, mentre su una parete di una scuola elementare di Palmanova venne restaurato il motto «Credere, obbedire, combattere» di mussoliniana memoria 38. Va considerata un’anomalia italiana anche
la circostanza che nel governo di Berlusconi non presero posto solo politici che avevano fatto carriera nel neofascista Msi, ma che con Mirko Tremaglia, ministro per gli Italiani all’estero, entrò addirittura un vecchio fascista militante, che in gioventù aveva combattuto armi in pugno per il regime collaborazionista di Mussolini.
Pur con tutte le fini distinzioni tra le posizioni di Forza Italia, Alleanza
Nazionale e Lega Nord, la politica della memoria perseguita dal 2001 dalla
coalizione di centro destra di Berlusconi si caratterizza comunque per l’atteggiamento assolutorio nei confronti della dittatura fascista e la sua parziale rivalutazione. «Nel linguaggio ufficiale dei partiti di centro-destra»ha constatato poco tempo fa lo storico Paul Ginsborg, che insegna a Firenze - «il fascismo non sarebbe stato tanto malvagio, Mussolini sarebbe stato
portato fuori strada da Hitler e solo dopo l’introduzione delle leggi razziali
nel 1938 il regime sarebbe uscito fuori dai giusti binari»39. Per alcuni esponenti all’interno della Casa delle libertà il regime mussoliniano non rappresenta affatto una dittatura comunque riprovevole, senza ma e forse40.
Il fascismo sarebbe pertanto uscito di rotta solo da quando iniziò a subire
l’influenza della Germania nazionalsocialista - il male calato da fuori sull’Italia. Così ad esempio il premier Silvio Berlusconi, durante un’intervista con lo «Spectator» nella tarda estate del 2003 ebbe a definire la dittatura mussoliniana «benigna», sostenendo contro ogni evidenza che il duce e i
suoi scherani non avevano mai ucciso e che si erano limitati a mandare gli
antifascisti in vacanza su isole amene come Ponza e Ventotene41. Quando
nell’opposizione e all’estero si scatenò una tempesta di indignazione, Berlusconi si scagionò sostenendo che come «patriota» italiano aveva solo inteso difendere Mussolini da un inopportuno paragone con un assassino di
massa come Saddam Hussein42.
Che non si trattasse però solo di una leggerezza casuale il re delle gaf118
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
fes incresciose lo dimostrò nel dicembre 2005, solo pochi mesi prima della
fine della legislatura. Durante una conferenza stampa Berlusconi dichiarò
che il fascismo non era mai stato «criminale»: «Ci furono le tremende leggi razziali perché si voleva vincere la guerra insieme a Hitler. Il fascismo in
Italia ha sì qualche ombra, ma nulla di paragonabile al nazismo o al comunismo»43. Nella stessa occasione, interrogato da un giornalista a proposito
di Paolo Di Canio, il capitano della Lazio, che pochi giorni prima, durante una partita con la Juventus, aveva deliziato i tifosi di estrema destra della sua squadra con il saluto romano (per la terza volta in un anno), Silvio
Berlusconi negò qualunque importanza a questo inequivocabile gesto. «Di
Canio è un ragazzo per bene, non è fascista. Lo fa solo per i tifosi, non per
cattiveria. Un bravo ragazzo, ma un po’ esibizionista»44. Un’asserzione questa del premier davvero incomprensibile, visto che nel caso di Di Canio si
tratta di un notorio fautore di Mussolini, che porta tatuata la parola «dux»
sull’avambraccio destro45. In molte altre democrazie queste scandalose dichiarazioni di Berlusconi gli sarebbero costate la carica, non però in Italia.
Un caso tanto strabiliante si spiega con il fatto che in una parte non
piccola dell’opinione pubblica italiana si è sedimentata un’immagine del
duce addirittura deferente e pervasa di un occulto fascino, che si dimostra praticamente immune a ogni risultanza storica accertata46. Mussolini
è popolare soprattutto perché avrebbe fatto sì che l’Italia venisse rispettata nel mondo. In ogni caso è ancor oggi possibile acquistare in molti negozietti e chioschi italiani calendari o - specialmente sulle spiagge adriatiche
- cartoline e grembiali da cucina con l’effigie del duce, mentre anche l’offerta di audiocassette con i discorsi mussoliniani non è limitata a equivoci
negozietti di articoli militari e paramilitari. È capitato che anche altissimi
rappresentanti dello Stato abbiano menzionato i presunti meriti di Mussolini come uomo di stato. In un’intervista in cui l’ex-presidente della Repubblica Francesco Cossiga annunciava il suo definitivo ritiro dalla politica nel dicembre 2005, questo che è stato uno dei personaggi di maggior rilievo nella vita politica italiana dichiarava che dall’unità ad oggi l’Italia ha
espresso solo quattro veri statisti: Camillo Benso di Cavour, fondatore dell’Italia unita, Giovanni Giolitti, il grande riformatore liberale all’epoca della Prima guerra mondiale, il politico democristiano Alcide De Gasperi, che
rifondò l’Italia democratica e repubblicana dopo la seconda guerra mondiale e - prescindendo dalle smanie di grandezza e da quel tanto di distruttivo che si annidava nel suo carattere - anche Benito Mussolini, che du119
Aram Mattioli
rante il suo governo avrebbe ammodernato il paese47. In sintonia con questo riconoscimento il Comitato olimpico italiano fece restaurare nel 2006
l’obelisco eretto in onore di Mussolini nel quartiere romano dell’Eur, che
ospita gli impianti sportivi costruiti in epoca fascista: un monumento ancor oggi illuminato nelle ore notturne, nonostante l’evidente scritta MUSSOLINI DUX48.
Nell’interpretazione revisionista del 20° secolo di Berlusconi è centrale
l’affermazione che non il nazionalsocialismo e tantomeno il fascismo, ma
il comunismo, sarebbe stata «l’impresa più inumana della storia»49. Considerandosi un «anticomunista senza complessi», come lui stesso volentieri si definisce, il capo di Forza Italia considera un «obbligo morale» mantenere viva, soprattutto e comunque, la memoria della violenza criminale
dei regimi comunisti50. Il 27 gennaio 2006, «giorno della memoria» delle
vittime della shoah, il premier Berlusconi definì sì il genocidio degli ebrei
d’Europa una «follia», ma non mancò di ricordare che accanto al nazismo
ci fu anche un totalitarismo comunista, che ha sulla coscienza un numero
ben maggiore di vittime della Germania di Hitler.51 Sebbene questo crimine non abbia avuto luogo sul suolo italiano, era ben chiaro chi intendeva
discreditare Berlusconi con questa affermazione: il Partito comunista italiano, che pure aveva preso le distanze dalle posizioni staliniste già con l’eurocomunismo della segreteria di Enrico Berlinguer (1972-1984), e i partiti democratici di sinistra che gli erano succeduti52.
Ossessionato dall’idea che tutti i suoi avversari politici fossero senza eccezioni comunisti che miravano a creare in Italia un regime criptocomunista, Berlusconi tentò non solo di acquisire il voto dell’elettorato, ma anche
di infliggere il colpo di grazia alla cultura della memoria antifascista. Il revisionismo berlusconiano venne compendiato per il vasto pubblico su un
giornale internet di Forza Italia in due tesi: secondo la prima il modello rivoluzionario che aveva ispirato i comunisti italiani durante la Resistenza
non sarebbe stato altro che il prodromo di una «rivoluzione bolscevica» di
stampo sovietico, mentre la seconda sostiene che una nazione democratica
moderna si può dire veramente antitotalitaria solo quando si senta legata
simultaneamente vincolata a valori antifascisti e anticomunisti53.
Quanto poi il premier prendesse sul serio la sua stessa professione di antitotalitarismo divenne evidente durante la campagna elettorale del 2006.
Per un pugno di voti in più, il duce della «Casa delle libertà» non esitò a
stringere alleanze con partiti al limite estremo dell’arco politico: con Alter120
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
nativa Sociale di Alessandra Mussolini («Meglio fascista che frocio!») e con
il Msi-Fiamma tricolore di Luca Romagnoli («Semplicemente non si può
sostenere che il fascismo sia stato un male assoluto»)54. Del resto fin dal suo
ingresso in politica Silvio Berlusconi, che con Forza Italia intendeva appropriarsi dell’eredità della Democrazia cristiana, non aveva mai mostrato remora alcuna nei confronti della destra estrema. Già nel 1994 immise nel
suo primo governo esponenti del Msi e della xenofoba Lega Nord, facendo fare loro un vero e proprio balzo in avanti sul cammino verso la rispettabilità. Alessandra Mussolini lo ringraziò nel febbraio 2005 chiamandolo «un vero leader»55. Che partiti borghesi scendano a patti con movimenti dell’ultra destra è una peculiarità tutta italiana, assolutamente estranea al
costume di ogni altro paese dell’Europa occidentale, e basti pensare a Francia, Germania e Svizzera. «Mi addolora - constatava amaramente qualche
tempo fa la democristiana Tina Anselmi, che in gioventù aveva fatto parte
della Resistenza - che oggi in Italia si possa nuovamente essere fascisti senza che nessuno se ne senta urtato»56.
Nella nuova Italia di Berlusconi il revisionismo storico non si palesò solo nei discorsi domenicali, ma anche in coerenti atti politici. Durante la
sua carica il premier mostrò un atteggiamento sempre più freddo verso il
25 aprile. Nel 2005, in occasione del Sessantesimo anniversario della Liberazione, si fece scusare per non aver partecipato alla cerimonia nazionale di
Milano, cui era presente anche Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica57. Alcuni ministri e politici di Alleanza Nazionale erano peraltro
soliti nella giornata del 25 aprile, disprezzata in quanto «festa rossa», recarsi sulle tombe dei militi fascisti della Repubblica sociale: gesti fortemente
simbolici che oltraggiano non solo chi ha combattuto nella Resistenza, ma
anche le numerose vittime dell’occupazione tedesca e dei collaborazionisti
fascisti. Dopo la vittoria elettorale del 2001, all’interno della nuova maggioranza di centro destra si discusse apertamente di abolire la festa nazionale del 25 aprile, una decisione che non avrebbe però mancato di scatenare una lunga e diffusa protesta, perché l’antifascismo è - oggi come ieri - un
tratto distintivo e saliente dell’identità degli ambienti di centrosinistra. Il
governo decise allora di battere un’altra strada: creare altre e differenti giornate commemorative, il che avrebbe sensibilmente modificato il panorama
della memoria e il filo che corre tra antifascismo, Resistenza e Costituzione
repubblicana si sarebbe allentato, o magari anche spezzato58.
Prima della presa del potere da parte della Casa delle libertà c’erano
121
Aram Mattioli
già tre feste nazionali dedicate ad avvenimenti della storia recente. Accanto al 25 aprile le più importanti erano il 2 giugno, ricorrenza della fondazione della repubblica e il 4 novembre, «festa dell’Unità nazionale e delle
Forze Armate», istituita nel 1922 per ricordare la vittoria nella prima guerra mondiale59. Nel 2000 il governo di centrosinistra presieduto da Giuliano Amato istituì il «Giorno della memoria» da celebrarsi il 27 gennaio. In
questo giorno, quello in cui l’Armata Rossa nel 1945 liberò il campo di
sterminio di Auschwitz, vengono commemorati anche in Italia i 6 milioni
di morti della Shoah e le vittime dell’antisemitismo di Stato fascista. Pienamente consapevoli del significato di questa ricorrenza votarono a favore
anche alcuni parlamentari dello schieramento di centrodestra. L’Italia veniva così ad avere un numero di feste nazionali superiore alla media internazionale.
Per ribaltare la cultura della memoria egemonizzata dai circoli antifascisti, le camere del Parlamento italiano controllate dalla Casa delle libertà decisero nel 2004 e nel 2005 di introdurre due nuove festività commemorative: il 10 febbraio e il 9 novembre. Il 10 febbraio 2005 vennero per
la prima volta ricordati ufficialmente gli 8.000 compatrioti trucidati nel
1943 e nel 1945 dai partigiani di Tito e l’esodo di massa degli italiani da
Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. Nel 1947 il trattato di pace di Parigi aveva assegnato questi territori alla Jugoslavia ed entro il 1954 circa 300.000
italiani preferirono abbandonare la loro terra d’origine60. Con il «Giorno
del ricordo»61, approvato quasi senza opposizione, entravano per la prima
volta nella cultura ufficiale della memoria dell’Italia avvenimenti che durante la guerra fredda erano stati usati dai neofascisti non solo come munizioni politiche contro i comunisti, ma anche come critica nazionalista contro i primi governi democristiani del dopoguerra, accusati di aver svenduto parti del territorio nazionale. Intellettuali critici come Claudio Magris,
Angelo Del Boca e Giacomo Scotti ricordarono invano che gli italiani della zona di confine con l’area slava meridionale non erano stati solo vittime ma anche, a partire dal 1922, carnefici. Il nuovo «giorno del ricordo»
dissimulava i motivi per i quali i partigiani di Tito alla fine della seconda
guerra mondiale gettarono gli italiani, legati a coppie, a morire miserevolmente sul fondo delle profonde foibe carsiche. Si trattò infatti di rappresaglie per la politica di occupazione italiana nella penisola balcanica, un’occupazione che tra il 1941 e il 1943 costò la vita a decine di migliaia di greci e jugoslavi62.
122
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
Se il «Giorno del ricordo» mostra inequivocabilmente tutti i tratti peculiari della politica della memoria propria di una formazione postfascista
come Alleanza Nazionale, il progetto di istituire il 9 novembre un «Giorno della libertà» esce invece direttamente dalla file di Forza Italia. Con i
voti della maggioranza di centrodestra la Camera dei deputati licenziò il 6
aprile 2005 l’istituzione di un’ulteriore festa commemorativa. Il «Giorno
della libertà» ricorda da allora la caduta del muro di Berlino nel 1989, «un
evento simbolo per tutti i paesi oppressi»63 dell’Europa dell’Est, come dice il testo della legge, e il susseguente crollo del blocco orientale. Da allora, cerimonie pubbliche e lezioni di approfondimento nelle scuole devono
rievocare la cesura del 1989 nella storia mondiale e contemporaneamente celebrare i «valori della libertà e della democrazia contro il totalitarismo
comunista». Diversamente dal «Giorno del Ricordo», questa nuova festività incontrò però una vasta contrarietà tra le file dell’opposizione di centrosinistra. Una simile festività, introdotta unicamente in Italia, era infatti
cieca da un occhio, perché univocamente diretta contro le dittature comuniste. In realtà con essa si intendeva denigrare la storia antifascista del Pci
e dei suoi eredi politici e il suo vero scopo era quello di svuotare di senso il
25 aprile, per potersene poi sbarazzare del tutto, come argomentavano gli
oppositori. Sebbene la coalizione di centrodestra non abbia ancora - almeno fino ad oggi - presentato alcuna iniziativa di legge a tal proposito, è comunque innegabile che dal 2001 il giorno della Liberazione è stato retrocesso a essere una festività tra tante altre.
4. Negli ultimi anni si è svolta in Italia, dove nel 20° secolo le élites politiche hanno costantemente strumentalizzato la storia per i propri scopi, un’accanita battaglia per la supremazia nell’interpretazione storica. Dopo lunghi decenni di emarginazione per la destra e le sue rappresentazioni
della storia, la vittoria elettorale della Casa delle libertà le offrì per la prima volta dopo il 1945 l’occasione di riformare in questa direzione la cultura della memoria. Nel bello e nuovo mondo di Berlusconi non solo la
dittatura fascista venne parzialmente riabilitata, ma furono anche concluse equivoche alleanze elettorali con partiti neofascisti. La potenza mediatica concentrata nelle mani del capo del governo consentì agli esponenti del
centrodestra di propagare con un certo successo tra il pubblico la tesi che
non siano state la Germania nazionalsocialista, e tantomeno l’Italia fascista, ma le dittature comuniste la sciagura più atroce dell’Europa del 20° se123
Aram Mattioli
colo. Si rivelò quindi una mossa indovinata l’aver introdotto due nuove festività nazionali, che hanno alterato l’equilibrio del panorama della memoria a favore della destra.
La politica revisionista della memoria attuata dalla «Casa delle libertà» ha allontanato i cittadini dalle nuove conclusioni tratte dalla ricerca
storica sull’Italia fascista e la sua aggressiva e tracotante politica di espansione e occupazione in Africa e nei Balcani. I gravi crimini perpetrati dall’Italia fascista sia durante le guerre che nelle successive occupazioni in Libia, Etiopia, Jugoslavia, Grecia e poi anche in Russia, non hanno avuto finora nessun effettivo riconoscimento nella cultura pubblica della memoria, come significativamente indica il fatto che la proposta avanzata per
ben tre volte a partire dal 2002 da Angelo Del Boca di erigere un monumento alle 500.000 vittime dell’occupazione coloniale non ha finora trovato ascolto64. E non risulta nemmeno che sia mai stata presa in considerazione l’idea di dedicare una giornata commemorativa a tutte le vittime
della dittatura mussoliniana, che ha sulla coscienza non meno di un milione di vittime.
La politica revisionista della storia praticata dalla coalizione di centrodestra ha anche aperto una profonda spaccatura nel paese. Una vera e propria tempesta di proteste sommerse infatti la proposta di legge avanzata dai deputati di Alleanza Nazionale, mirante a parificare ai combattenti
della Resistenza i cosiddetti «ragazzi di Salò» - gli ultimi soldati di Mussolini, miliziani e fedeli collaboratori dei nazisti - riconoscendo loro la qualifica di «militari belligeranti». In questa tardiva riabilitazione sarebbero andati ricompresi non solo i soldati della quattro divisioni «Littorio», «Monterosa», «San Marco» e «Italia», che avevano operato fianco a fianco con la
Wehrmacht e unità delle SS, ma anche gli appartenenti a famigerate bande
di criminali di guerra come la Decima Mas del principe Junio Valerio Borghese65. I gaglioffi di allora sarebbero stati dichiarati «soldati assolutamente
normali», addirittura «buoni patrioti», caduti «anche» per l’Italia. Agli occhi dei suoi fautori, questo processo di risciacquatura avrebbe dato un forte contributo alla riconciliazione nazionale. Un audace - o forse spudorato
- tentativo che non ottenne però il risultato sperato. E come avrebbe potuto? Se fosse andata a buon fine la responsabilità di tutte le ingiustizie commesse sarebbe stata completamente offuscata e l’abisso tra i fascisti e gli antifascisti - i quali avevano rischiato la vita per ristabilire la democrazia - sarebbe stato colmato non da motivazioni storicamente fondate, ma da un
124
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
provvedimento di natura squisitamente politica.
All’attacco di questa legge scandalosa si mossero compatte le associazioni partigiane, intellettuali di rango ed esponenti e simpatizzanti del centrosinistra. Espressero la loro disapprovazione anche democristiani di spicco
come i senatori a vita Giulio Andreotti e Oscar Luigi Scalfaro, ex-presidente della Repubblica. Da quando questo progetto di legge comparve nell’agenda politica anche il presidente in carica, Carlo Azeglio Ciampi, supremo custode della Costituzione, non perse poi occasione di ricordare gli
obblighi scaturiti dalla Resistenza. Certo temendo il forte danno di immagine all’interno e all’estero, nel gennaio 2006, solo poche settimane prima
delle elezioni, i partiti della maggioranza berlusconiana ritirarono a sorpresa il progetto di legge, sebbene avesse già superato i primi ostacoli parlamentari. Così l’attacco più pesante finora sferrato ai valori fondamentali
della Costituzione finì per il momento nel nulla.
Dopo la sconfitta di stretta misura subita da Berlusconi nelle elezioni dell’aprile 2006, molti cittadini italiani si augurano adesso che il nuovo
governo retto da Romano Prodi riannodi stretti legami tra l’antifascismo
e la cultura politica, perché la storia non abbia più a subire ulteriore violenza da ignoranza, volute distorsioni e semplificazioni compensatorie. Un
numero crescente di italiani, resi più attenti e saggi dall’esperienza, sembra
oggi per la prima volta intenzionato a confrontarsi seriamente con tutta la
propria storia nei suoi diversi aspetti e quindi anche con gli aspetti criminali della dittatura fascista. Una viva attenzione e sensibilità per i simboli è
stata dimostrata dal nuovo presidente eletto, l’ex-comunista e oggi democratico di sinistra Giorgio Napolitano66. Infatti per la sua prima uscita da
Roma, nel maggio 2006, Napolitano, fresco di elezione a presidente, scelse
l’isola di Ventotene, su cui la dittatura fascista aveva confinato centinaia di
avversari del regime, per rendere onore all’antifascista Altiero Spinelli, deceduto nel 1986, che già nel 1941 aveva sognato un’Europa unita in uno
stato federale e democratico.
Traduzione dal tedesco di Massimo Tirotti
125
Aram Mattioli
Note al testo
1
Cfr. Sieger und Besiegte, Materielle und ideelle Neuorientierung nach 1945, a cura di Holger Afflerback, Christoph Cornelissen, Tübingen, Basel 1997; Umkämpfte Vergangenheit. Geschichtsbilder, Erinnerung und Vergangenheitspolitik in internationalem Vergleich, a cura di Petra Bock,
Edgar Wolfrum,Göttingen 1999; Memory and Past in Post-War Europe. Studies in the Presence of the Past, a cura di Jan-Werner Müller, Cambridge 2002; Barbara Spinelli, Der Gebrauch
der Erinnerung, Europa und das Erbe des Totalitarismus, München 2002.
2
Cfr su nozione e concetto in particolare Christoph Cornelissen, Was heisst Erinnerungskultur? Begriff - Methoden - Perspektiven in «Geschichte in Wissenschaft und Unterricht», 54
(2003), p. 548-563, in partic. p. 555. Qui la «cultura della memoria» viene intesa come «Nozione sopraordinata di ogni pensabile forma di cosciente ricordo di avvenimenti, personalità
e processi storici», per quanto esse portino un «contributo al formarsi di autorappresentazioni
culturalmente fondate» o a una «identità fondata storicamente».
3
James Walston, History and Memory of the Italian Concentration Camps, in «The Historical
Journal», 40 (1997), p. 169.
4
Lutz Klinkhammer, Der Reiststenza-Mythos und Italiens fascistischeVergangenheit, in Sieger und
Besiegte, Materielle und ideelle Neuorientierung nach 1945 cit., pp. 127 ss.
5
Cfr Norberto Bobbio, Autobiografia, a cura di Alberto Papuzzi, Roma-Bari 1997, p. 3. «Nei
venti mesi fra il settembre 1943 e l’aprile 1945 sono nato a una nuova esistenza, completamente diversa da quella precedente, che io considero come una pura e semplice anticipazione della
vita autentica, iniziata con la Resistenza […]» ampiamente illustrata anche nel caso di scrittori
e registi come Elio Vittorini, Alberto Moravia, Ignazio Silone e Roberto Rossellini, da Mirella Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938-1948, Milano 2005.
6
Alessandro Campi, Mussolini und die italienische Nachkriegsgesellschaft. Italien zwischen Erinnern und Vergessen in Erinnerungskulturen, Deutschland, Italien und Japan seit 1945, a cura di
Christoph Cornelissen, Lutz Klinkhanner, Wolfgange Schwentker, Frankfurt am Main 2003,
pp. 110 ss.
7
Cfr. Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti, 22 giugno 1946, Milano 2006. Palmiro Togliatti
fu ministro della Giustizia nel governo di unità nazionale presieduto da Alcide De Gasperi. Come ministro competente dispose nel 1946 un’amnistia per reati civili e militari commessi sotto
il regime fascista. Motivò il decreto con la necessità di «pace politica e sociale». Di conseguenza, 7.000 fascisti condannati tornarono immediatamente in libertà, anche se colpevoli di reati
gravi. Si stima che complessivamente circa 11.800 criminali politici siano stati rilasciati.
8
Sulla precoce regolazione dei conti con la dittatura fascista, cfr Hans Woller, Die Abrechnung
mit dem Faschismus in Italien 1943 bis 1948, München 1996.
9
Jens Petersen, Der Ort der Resistenza in Geschichte und Gegenwart Italiens, in «Quellen und
Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 72 (1992), p. 551
10
Esauriente in merito Filippo Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Roma-Bari 2005.
11
Francesco Germinario, L’altra memoria. L’estrema destra, Salò e la resistenza, Torino 1999.
12
Cfr. adesso Wolfgang Schieder, Die Verdrängung der faschistischen Tätervergangenheit im Nachkriegsitalien in Der erste faschistische Vernichtungskrieg. Die italienische Aggression gegen Äthiopien 1935-1941, a cura di Asfa-Wossen Asserate, Aram Mattioli, Köln 2006.
13
Alexander Nütznadel, Der italienische Faschismus - Eine Bilanz neuerer Forschung in «Neue
Politische Literatur», 44 (1999), p. 311.
126
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
14
Claudio Pavone, Introduction in «Journal of modern Italian Studies», 9 (2004), p. 274.
15
Vittorio Foa, Questo Novecento, Torino 1996, p. 145.
16
Ezio Collotti, Lutz Klinkhammer, Il fascismo e l’Italia in guerra. Una conversazione tra storia e storiografia, Roma 1996, p. 21.
17
Cfr. Carlo Gentile, Marzabotto 1944; Steffen Prauser, Roma/Fosse Ardeatine 1944 e Id.,
Sant’Anna di Stazzema, in Orte des Grauens. Verbrechen im Zweiten Weltkrieg, a cura di Gerd R.
Überschär, Darmstadt 2003, pp. 136-146, 207-215 e 231-236.
18
Davide Bidussa, Il mito del bravo italiano, Milano 1994; Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza 2005.
19
Cfr. tra le descrizioni più recenti: Aram Mattioli, Experimentierfeld der Gewalt. Der Abessinienkrieg und seine internationale Bedeutung 1935-1941, Zürich 2005; Giulia Brogini Künzl, Italien und der Abessinienkrieg 1935-36. Kolonialkrieg oder Totaler Krieg?, Padeborn-München 2006.
20
Jens Petersen, Der Ort der Resistenza cit.; Gian Enrico Rusconi, Die italienische Reistenza
auf dem Prüfstand in «Viertelsjahrshefte für Zeitgeschichte», 42 (1994), pp. 379-402.
21
Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Torino 1991.
22
Cfr Pietro Di Loreto, Togliatti e la «doppiezza». Il Pci tra democrazia e insurrezione 1944-48,
Bologna 1991; l’interpretazione neofascista di Giorgio Pisanò, Il triangolo della morte, Milano 1992; i libri divulgativi di Giampaolo Pansa: Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia
dopo il 25 aprile, Milano 2003; Id., Sconosciuto 1945, Milano 2005.
23
Cfr Friedrike Hausmann, Kleine Geschichte Italiens von 1945 bis Berlusconi. Aktualisierte und
erweiterte Neuausgabe, Berlin 2002, p.159; Jens Renner, Der Neue Marsch auf Rom. Berlusconi und seine Vorläufer, Zürich 2002. Cfr. anche, con qualche riserva per la sua ortodossa collocazione a sinistra Gerhard Feldbauer, Marsch auf Rom. Faschismus und Antifaschismus in
Italien, Köln 2002.
24
«La Stampa», 30 marzo 1994.
25
Barbara Palombelli, E venne Santa Irene…, in «La Repubblica», 23 aprile 1994.
26
Cfr. in primis Ernesto Galli della Loggia, La morte della Patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Bari 1996.
27
Renzo de Felice, Der Faschismus. Ein Interwiew mit Michael Ledeen. Mit einem Nachwort von
Jens Petersen, Stuttgart 1977, p.30. «Sono due mondi, due tradizioni, due storie talmente diversi, che è difficilissimo riunirli poi in un discorso unitario» (Id., Intervista sul fascismo, a cura di Michael A. Ledeen, Roma Bari 1975, p.24)
28
Renzo de Felice, Mussolini il Duce, vol. 2: Lo stato totalitario 1936-1940, Torino 1981, p.
312.
29
Intervista di Giuliano Ferrara a Renzo De Felice, in Il fascismo e gli storici oggi, a cura di Jader Jacobelli, Roma-Bari 1988, p. 6. In questa intervista, originariamente apparsa sul «Corriere della
Sera» del 27 dicembre 1987, De Felice afferma: «So che il fascismo italiano è al riparo dall’accusa di genocidio, è fuori dal cono d’ombra dell’Olocausto».
30
Wolfgang Schieder, Die Verdrängung der fascistischen Tätervergangenheit im Nachkriegsitalien
in Der erste faschistische Vernichtungskrieg cit.
31
Cfr. su questa posizione: Jens Petersen, Nachwort: Zum Stand der Faschismusdiskussion in Italien, in Renzo de Felice, Der Faschismus cit., pp.124 ss; Brunello Mantelli, Faschismus,
127
Aram Mattioli
Geschichte Italiens, Selbstverständnis der Republik. Kritische Anmerkungen zur jüngsten Debatte
über die Beziehung von Geschichte und Gegenwart, in Faschismus und Faschismen im Vergleich.
Wolfgang Schieder zum 60. Geburtstag, a cura di Christoph Dipper, Rainer Hudemann, Jens
Petersen, Köln 1998, pp. 79-104; Interpretazioni su Renzo De Felice, a cura di Pasquale Chessa,
Milano 2002 e anche, dalla prospettiva di un ex-allievo: Emilio Gentile, Renzo De Felice, Lo
storico e il personaggio, Roma-Bari 2003.
32
Renzo De Felice, Rosso e nero, a cura di Pasquale Chessa, Milano 1995, pp. 114 ss.
33
Cfr. Jens Renner, Der Neue Marsch auf Rom cit., p. 49-65.
34
Il nucleo di questa alleanza di centro-destra era formato da Forza Italia, Alleanza Nazionale,
Lega Nord, con inoltre l’Unione dei democratici cristiani e di centro (UDC) e il Nuovo partito socialista.
35
Rolf Wörsdörfer, Krisenherd Adria 1915-1955. Konstruktion und Artikulation des Nationalen im italienisch-jugoslawischen Grenzraum, Paderborn-München 2004, p. 480.
36
Daniela Kuhn, Oliver Meiler, Der Geist aus der Flasche in «Tages-Anzeiger», 20 novembre 2002. Una denuncia presentata da cittadini indignati per «apologia del fascismo» venne
definita «sciocca» e «una perdita di tempo» dal magistrato competente e non venne aperto alcun procedimento.
37
Oliver Meiler, Der lange Marsch auf Predappio, in «Tags-Anzeiger», 5 aprile 2002.
38
Numerosi esempi in Angelo Del Boca, Un bilancio deprimente di violenze fasciste e razziste in
«Studi Piacentini», 33 (2003), p. 21. Val la pena di ricordare che ancora nel 1995 era fallito il
tentativo d’avanguardia di Francesco Rutelli, sindaco «verde» di Roma, di intitolare una strada
a Giuseppe Bottai (1895-1959), ministro fascista dell’educazione, che non solo si era impegnato per la formazione del «nuovo uomo fascista», ma nel 1938 si era anche impegnato intensamente per le famigerate «leggi razziali»
39
Paul Ginsborg, Berlusconi. Politisches Modell der Zukunft oder italienischer Sonderweg?, Berlin 2005, p. 137
40
Un’eccezione all’interno della Casa delle libertà è infatti Gianfranco Fini, leader di Alleanza Nazionale, nominato da Berlusconi ministro degli Esteri nel novembre 2004. L’abile politico bolognese, ex-capo del neofascista Msi, prese sempre più le distanze dall’eredità fascista, tra
l’indignazione e la collera di una parte dei suoi seguaci. Durante una visita in Israele nel novembre 2003 condannò il fascismo come «male assoluto», definì «infami» le leggi razziali del
1938 e «una sciagura» la Repubblica sociale italiana. Va però detto che la presa di distanza e la
condanna storica di Fini non si è finora mai esplicitamente estesa ai crimini commessi in nome dell’Italia in Africa e nei Balcani.
41
Cfr «Mussolini non uccise»: Bufera su Berlusconi, in «Corriere della Sera», 12 settembre 2003;
Oliver Meller, Berlusconi wertet Mussolini auf in «Tages-Anzeiger», 12 settembre 2003; Wirbel um eine Äusserung Berlusconis über Mussolini, in «Neue Zürcher Zeitung», 12 settembre
2003; Berlusconi und die Opfer des Faschimus. Von einer peinlichen Äusserung zur nächsten, in
«Neue Zürcher Zeitung», 13-14 settembre 2003.
42
Mussolini non è Saddam, non ha ucciso nessuno, in «Corriere della Sera», 12 settembre 2003.
43
Maurizio Caprara, Berlusconi: il fascismo? Non fu criminale in «Corriere della Sera», 21 dicembre 2005.
44
Ivi.
45
Birgit Schonau, Tore für den Duce, in «Die Zeit», 17 febbraio 2005, p. 61. La prima volta la
Lega Calcio condannò Paolo Di Canio a un’ammenda di 10.000 euro. L’attaccante non si di-
128
Lo stravolgimento della storia nell’Italia di Berlusconi
chiarò pentito. Nelle partite contro il Livorno e la Juventus, l’11 e 17 dicembre 2005, ripeté il
saluto romano e venne nuovamente multato di 10.000 euro e un giorno di squalifica. Il fanclub laziale degli «Irriducibili» organizzò allora una dimostrazione di protesta davanti alla sede
della Lega Calcio. In segno di solidarietà con Di Canio, tre club di tifosi della Lazio inziarono
una colletta per raccogliere i 10.000 euro per loro star.
46
Cfr. a questo proposito: Jens Petersen, Der Ort Mussolinis in der Geschichte Italiens nach 1945
in Europäische Sozialgeschichte. Festschrift für Wolfgang Schieder, a cura di Christoph Dipper,
Lutz Klinkhammer, Alexander Nützenädel, Berlin 2000, pp. 505-524; Alessandro Campi,
Mussolini und die italienische Nachkriegsgesellschaft cit., pp. 108-122.
47
Rückzug des «Picconatore» Francesco Cossiga, in «Neue Zürcher Zeitung», 30 dicembre 2005 .
48
Alexander Smoltczyk, La Duce Vita, in «Der Spiegel», 26 giugno 2006, p. 108
49
Nazismo una follia, ma il comunismo…, in «La Repubblica», 27 gennaio 2006
50
Silvio Berlusconi, Azzurra, la nave della libertà. In www.forza-italia.it/silvio berlusconi/10_
azzurra.html.
51
Nazismo una follia, ma il comunismo cit.
52
Cfr. sulla tematizzazione e elaborazione del passato comunista da parte della sinistra italiana: Jens Petersen, Die Italienische Kultur und der Weltkommunismus. Abschied von einer Illusion, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Biblioteken», 78 (1998),
pp. 567-578.
53
Stefano Doroni, Quale storia per gli Italiani?, in «Ragionpolitica.it», edito dal Dipartimento
formazione Forza Italia, 14 ottobre 2005 (http://www.ragionpolitica.it/testo.3985.html).
54
Birgit Schönau, Rechte Freunde, in «Die Zeit», 23 marzo 2006, p.9.
55
Aldo Cazzullo, Mussolini: Silvio un vero leader, Fini è come Badoglio, in «Corriere della Sera», 17 febbraio 2003.
56
Ivi.
57
Franz Haas, Widerstand gegen die Resistenza, in «Neue Zürcher Zeitung», 27 aprile 2005
58
Così Angelo Del Boca, La verità è sgradita ai partiti della maggioranza, in «Studi Piacentini», 34 (2004), p. 257.
59
Cfr. Maurizio Ridolfi, Le feste nazionali, Bologna 2003.
60
Cfr. Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, Milano 2003; Guido Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Roma 2005; Gianni Oliva, Profughi. Dalle foibe all’esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, Milano 2005: Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano 2005; Giacomo Scotti, Dossier foibe,
San Cesario 2003.
61
Nel febbraio 2004 la Camera dei deputati approvò con sorprendente linearità il progetto di
legge presentato dal deputato triestino di AN Roberto Menia con 502 sì, 15 no e 4 astensioni
62
Cfr. Davide Rodogna, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943). Prefazione di Philippe Burrin, Torino 2003; H. James Burgwyn,
Empire on the Adriatic. Mussolini’s conquest of Yugoslavia 1941-1943, New York 2005; Gianni
Oliva, «Si ammazza troppo poco». I crimini di guerra italiani 1940-1943, Milano 2006.
63
Parlamento italiano, Legge 15 aprile 2005, n. 61: Istituzione del «Giorno della libertà» in data 9 novembre in ricordo dell’abbattimento del muro di Berlino, art. 1.
64
Angelo Del Boca, La giornata della memoria, 14 luglio 2006, in www.eddyburg.it/article/
129
Aram Mattioli
articlewiew/6998/0153.
65
Cfr. Giorgio Bocca, Salò. La riabilitazione impossibile, in «La Repubblica», 18 febbraio 2005;
Thomas Radigk, Radikale Rechtssprechung. Neues Gesetz macht Mussolini’s «Ragazzi di Salò» posthum zu Helden, in www.3sat.de/kulturzeit/themen/78639/index.html
66
Italiens Staatspräsident gibt historische Fehlbeurteilung in «Neue Zürcher Zeitung», 2-3 settembre 2006. Già nel 1986 Giorgio Napolitano aveva per la prima volta apertamente ammesso di
essersi totalmente sbagliato nel suo giudizio politico dalla rivolta d’Ungheria. Allora membro
del Pci, nel 1956 Napolitano aveva giustificato l’intervento militare sovietico e la repressione
della rivolta popolare ungherese come «elemento per la promozione della stabilità internazionale». Alla fine dell’agosto 2006, due mesi prima della sua visita di stato in Ungheria, si scusò
per il suo errore di valutazione storica. Secondo quanto riporta la stampa italiana, le autorità
politiche ungheresi hanno accettato le scuse di Napolitano.
130
La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia»
nei mesi successivi alla fine della guerra*
di Matteo Banzola
22 aprile 1945: l’uscita a Bologna di un nuovo quotidiano
Liberata definitivamente la città il giorno precedente, il 22 aprile 1945
i cittadini bolognesi trovano nelle edicole quattro nuovi quotidiani. Tra
questi vi sono anche il «Corriere Alleato» e il «Corriere dell’Emilia», fatti
uscire per espressa volontà del PWB (Psicologycal Werfare Branch). Il primo quotidiano, dopo due sole uscite, cesserà le pubblicazioni; il «Corriere
dell’Emilia», invece, dopo aver mutato il nome in «Giornale dell’Emilia»
(17 luglio 1945) continuerà a uscire fino al 1953, dopodiché verrà a sua
volta rimpiazzato dal risorto «Il Resto del Carlino». Non ripercorreremo la
storia del quotidiano. Altri se ne sono già occupati1. Qui importa mettere
a punto alcune delle sue caratterizzazioni principali.
Nella lunga risalita dalla Sicilia al Nord Italia, gli Alleati hanno acquisito una notevole conoscenza delle vicende italiane. L’Italia, rimasta divisa in
due parti e travagliata dal confronto di quattro forze che si sono combattute (nazisti e «repubblichini» da una parte e Alleati e partigiani dall’altra),
esprime nel dopo liberazione due stati d’animo quasi contrapposti: l’aspirazione a un rinnovamento radicale nel Centro-Nord del paese (espresso
in particolare dalle forze di sinistra che qui sono preponderanti), e un desiderio di tranquillità sociale a tutti i costi che scivola in un senso di indifferenza e di ripulsa per i progetti di cambiamento elaborati dalle forze della
Resistenza – come dimostra la parabola momentanea ma significativa del
movimento dell’Uomo qualunque – al Sud.
In questa dicotomia la strategia degli Alleati è opposta nei due versanti del paese: al Sud e nelle isole pubblicano quotidiani «indipendenti» per
smuovere dal torpore le forze politiche e le istituzioni; nel Centro-Nord, al
contrario si pubblicano per stemperare le forti aspirazioni al rinnovamento
e per contrastare le forze di sinistra ben radicate. Il «Giornale dell’Emilia»
131
Matteo Banzola
rientra in questo filone. Il suo primo direttore, Gino Tibalducci, è ben accetto al PWB perché, «essendo iscritto al PLI, veniva accreditato come un
moderato». Tuttavia, il tempo della guerra fredda è vicino, ma non è ancora arrivato. Gli uomini del PWB non sono affatto dei conservatori:
Quasi tutti gli ufficiali del Pwb americano erano dei liberal […] fautori di un liberalismo sociale progressista [e] ritenevano che il rinnovamento del sistema educativo fosse la premessa per il miglioramento e lo svecchiamento della società italiana […] A loro parere, l’Italia aveva bisogno di un bagno culturale, spirituale e politico purificante
per liberarsi , dopo la lunga dittatura, dalle scorie che la intossicavano. […] A un simile lavacro rigeneratore avrebbero dovuto essere sottoposti anche i quadri giornalistici,
che andavano rinnovati con forze giovani e sane. […].
Anche se il Sud li ha delusi profondamente, non per questo gli Alleati
rinunciano a portare avanti i propri obiettivi. Tutt’altro, li perseguono con
decisione. Il «Giornale dell’Emilia» risulta così improntato a un tono «sereno e obiettivo»2, anche se poco informativo e vi trovano spazio tutti i partiti politici – anche se il Pci gode di minor spazio rispetto ad altri e si tenta
nei suoi confronti una forma di «isolamento» privilegiando il Psi.
Tuttavia, l’epurazione nei confronti dei giornalisti, valutata con timore
dal quotidiano3, è di fatto inesistente4 e pertanto fin da subito nelle stanze
della redazione accanto a cronisti giovani (Biagi, Bergonzini, Zardi), si ritrovano le vecchie firme del «Resto del Carlino»5. Col trascorrere del tempo sarà la «continuità» a prevalere sul rinnovamento anche perché, sebbene
«Il Resto del Carlino» sia ancora congelato da un’intricata vicenda riguardante la proprietà della testata, dietro le quinte del «Giornale dell’Emilia»
iniziano a muoversi gli agrari e gli industriali bolognesi.
In occasione del saluto che il quotidiano rivolge al PWB prima che
questo si accinga a lasciare il territorio italiano, Tibalducci scrive che:
Dopo la fine veramente ingloriosa di un grande giornale bolognese che fu al servizio
del fascismo e della sua effimera repubblica – i lettori sanno il nome del quotidiano cui
vogliamo alludere – il «Giornale dell’Emilia» vuole assumere, con ben altro volto, con
ben altro spirito, il posto lasciatogli. Non, dunque, un’eredità che rigettiamo con sdegno, ma una possibilità che l’affetto e la comprensione dei nostri molti lettori, ci hanno permesso di realizzare6.
Presa di distanza più teorica che reale a dire il vero perché, nonostante venda 120-130 mila copie giornaliere, il «Giornale dell’Emilia» rimane
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La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
in perdita al punto da arrivare sull’orlo della chiusura. È Oscar Maestro a
toglierlo dai guai, garantendo uno stipendio all’intero personale che, dalla
partenza degli Alleati da cui hanno ricevuto in dono la testata, si sono costituiti in cooperativa. Maestro dà il via a una complessa operazione finanziaria al termine della quale, «nel marzo del 1946 […] agrari e industriali
acquistarono il «Giornale dell’Emilia»»7.
Il primo segno tangibile di questo processo è la sostituzione di Tibalducci
con Tullio Giordana, un anziano giornalista piemontese, ritiratosi dalla
professione durante il fascismo e successivamente partigiano. Il nuovo direttore è ben consapevole di lavorare nella città più «rossa» d’Italia e se nelle elezioni comunali del 23 marzo 1946 trova scontata l’affermazione della sinistra – socialista e comunista –, non afferra però il senso dell’affermazione democristiana. Vecchio liberale, Giordana spera che il Partito liberale possa riprendere il percorso interrotto dal fascismo e divenire anch’esso
un partito di massa.
La sua strategia mira ritagliare al quotidiano un raggio d’azione regionale, consapevole che per raggiungere questo obiettivo bisogna aver sempre presente la realtà politica e sociale della regione e i condizionamenti
inevitabili che da questa derivano.
La ricerca di questo equilibrio risulta abbastanza evidente in più occasioni. Nonostante sia sua la locuzione «triangolo della morte»8, esclude che
si possa sostenere che sia il Pci a organizzare i crimini e lo invita a operare
per fermare il regolamento di conti contro gli ex fascisti che sta insanguinando la città, il suo circondario e più in generale la regione; in occasione
del referendum del 2 giugno 1946 lascia trasparire le sue preferenze repubblicane, pur senza schierarsi apertamente: solo dopo che le consultazioni
hanno confermato la scelta repubblicana rimprovera aspramente i monarchici per il loro tentativo di contestare l’esito referendario.
Tuttavia, i condizionamenti dei veri padroni della testata sono innegabili e pesanti. Quando, appena finita la guerra, nelle campagne si riaccende la vertenza agraria tra la sinistra da una parte che intende ripristinare
il concordato Paglia-Calda e l’associazione degli agrari che lo rifiutano, il
«Giornale dell’Emilia» si schiera, progressivamente, ma inequivocabilmente, a sostegno degli agrari9:
Questi poveri agrari! Se ne stanno quatti quatti nelle loro terre, subiscono senza difesa le più aperte sopraffazioni, rinunziano – come per il patto mezzadrile – a tradizioni
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Matteo Banzola
antiche pur di avere la pace, non fanno politica, non hanno giornali, non si sono curati nemmeno di ricostruire il partito che c’era prima del fascismo con un bel gruppo
di tecnici alla Camera, si rassegnano con gli affitti bloccati a far debiti per pagare tasse
sempre nuove, e – teste di turco della propaganda estremista – si lasciano menar colpi senza protestare […]10.
Articolo quanto meno tendenzioso, che sorvola sulla nota e grave responsabilità degli agrari bolognesi nell’avvento del fascismo11 e che, come
vedremo, è ancora molto sentita nell’immediato dopo guerra.
Il risultato delle elezioni mostra con chiarezza che per contrastare
l’avanzata delle sinistre è sulla Democrazia cristiana che bisogna puntare,
non sui liberali. Giordana, nonostante le polemiche anche dure nei confronti delle mancanze e delle difficoltà dell’amministrazione comunale (la
«riforma tranviaria», l’acquedotto ecc.), paga il suo rifiuto di scendere nel
campo della criminalizzazione dell’avversario politico e viene sostituito da
Luigi Emery (27 ottobre 1946), persona che meglio risponde alle esigenze
della proprietà del quotidiano12.
Criminalità e mercato nero
Il 27 agosto del 1946 il «Giornale dell’Emilia» pubblica una «Statistica
della delinquenza» basata, stando a quanto informa il quotidiano, su fonti
derivate direttamente dalla polizia. Da essa risulta che:
In tutta la provincia sono stati denunciati 1.647 furti semplici, e 1.690 furti aggravati. Degli autori dei primi ne sono stati arrestati 371, dei secondi 295. Arrestati inoltre
425 individui implicati nei suddetti reati. Le rapine segnalate sono state 149, le estorsioni 36, i sequestri di persona a scopo di rapina od estorsione 11. I tutori dell’ordine
hanno potuto scoprire 40 delitti di rapina e catturate 48 persone; scoperti anche 17
reati di estorsione ed arrestati 19 responsabili; scoperti 3 sequestri di persone a scopo
di rapina e arrestati conseguentemente 5 responsabili.
Le truffe perpetrate assommano a 127, delle quali 103 scoperte ed arrestate 73 persone. Gli omicidi denunciati ammontano a 32, dei quali 10 scoperti con la cattura di
14 persone. I fermati per accertamenti sono stati 376, nonché 8 minorenni: 4 maschi
e 4 femmine.
Da dove nasce questa esplosione della criminalità?
Una prima risposta sia pure sommaria è indicata proprio dal giornale.
Questa deriva dalla «particolare situazione determinata dalla guerra».
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La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
La guerra immiserisce, ha un effetto livellatore in negativo sullo
standard di vita della popolazione. Impoverimento generalizzato provocato dalla spoliazione sistematica di tutte le risorse disponibili della regione
da parte dei tedeschi durante il periodo 1943-194513 (a cui si deve aggiungere l’insipienza e la fragilità delle misure messe in campo dalla Repubblica
Sociale nel campo del razionamento alimentare e più in generale nella gestione delle risorse)14, dagli effetti devastanti dei bombardamenti Alleati
che si ripercuotono pesantissimamente sul tessuto economico e sulle infrastrutture della città15; dalla presenza di vaste zone agricole che sono ancora disseminate di mine.
La disoccupazione nella provincia riguarderebbe circa «80.000 lavoratori […]» dei quali «circa 2.000 elementi [tra cui] 400 specializzati (250
uomini e 150 donne)» nella sola Bologna – cifra arrotondata per difetto16.
Due anni dopo la situazione è ancora molto precaria: nel 1947, un bracciante lavora effettivamente meno di 140 giornate in un anno (e la stima
è approssimata per eccesso); un bracciante donna, ancor meno: 71. Se poi
si guarda ai mesi autunnali e invernali (da ottobre a marzo), un uomo può
sperare in 49 giornate lavorative; una donna deve rassegnarsi a lavorarne
meno di 10. Nei mesi più precari un bracciante lavora circa 1 giorno ogni
3,5; una donna, un giorno ogni 18. E questo supponendo un clima favorevole, che permetta di lavorare. Per quel che riguarda la disoccupazione nelle campagne, nel gennaio 1947 su 27.172 braccianti uomini iscritti
agli uffici di collocamento comunale, 22.523 sono disoccupati; su un totale di 25.412 donne, 25.106 sono senza lavoro. Sono stime impressionanti,
drammatiche ed eloquenti. Ma le condizioni di chi vive in città non sono
migliori; rispetto alle stime del 1938, nel 1947 a Bologna il costo della vita era aumentato di 47 volte17.
Il legame tra la povertà e l’esplodere della criminalità e specificamente della microcriminalità è netto ed evidente. È sufficiente una scorsa alle
tre rubriche che il giornale pubblica quasi quotidianamente – Trista storia
d’ogni giorno, Spicciole di nera e Stillicidio dei furti – per vedere come generi alimentari, vestiario, biciclette, oggetti di prima necessità insomma, che
scarseggiano o che si trovano solo ai prezzi proibitivi del mercato nero siano tra i più rubati. Un solo esempio:
Ieri mattina, verso le 11,30, è stato derubato della Topolino, lasciata in via Orefici, il
signor Sebastiano Mondini che ha accusato un danno di 400 mila lire.
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Matteo Banzola
Nella notte dal 14 al 15, ignoti sono penetrati, dopo aver scassinato la porta della cantina, nello stabile in via Achillini 8, ed hanno asportato indumenti e vari oggetti ai
danni di Gemma Fornarola, per un valore di 50 mila lire. In un’altra cantina, di proprietà di Antonio Incesti, recavano un danno di 15 mila lire ed infine, dopo una terza incursione nella cantina di proprietà di Argenta Senigallia, si impossessavano di altra merce per un valore di 13 mila lire.
Ignoti, penetrati nel domicilio del colono Francesco Marangoni, di Giuseppe, abitante in via Celletta 8, a Imola, asportavano varie lenzuola e la somma di 700 lire. Il danno complessivo ammonta a 50 mila lire18.
Come si vede, si tratta di una mercanzia occasionale (persino gli alveari e il Vangelo vengono rubati19), magari rivenduta in piazza Re Enzo, nei
pressi del cosiddetto «Quartier generale dei borsaneristi20» o più semplicemente barattata forse nella campagna circostante, più ricca di generi alimentari della città. Ciò che traspare dalle cronache è la povertà che attanaglia Bologna, deducibile sia dal tipo di mercanzia oggetto di furto (generi
di prima necessità), sia dalla vastità del fenomeno delinquenziale.
Anche analizzando un altro fenomeno tipico dell’immediato dopoguerra come la rapina si giunge a simili conclusioni. Procurarsi un’arma nell’Italia di quel periodo è estremamente facile21, al punto che un detto popolare vuole che a Bologna ci siano, nascoste sottoterra, «più armi che patate»22. Chi abita in città è più soggetto a scippi e borseggi – specie sui tram
e nei luoghi affollati come la stazione o magari, come fa Francesco Cacciari, una specie di «professionista nel […] genere» del borseggio, «approfittando della enorme ressa al passaggio della Madonna di San Luca»23 -, ad
agguati o a «fermi» di passanti e ciclisti favoriti dalla pessima illuminazione
pubblica e dall’oscurità – «complice indispensabile delle rapine, delle aggressioni, delle irruzioni, d’ogni colpo che avvengono dopo il calar del sole»24 – nonché a cadere vittima degli ingegnosi stratagemmi dei truffatori.
Nelle campagne la situazione è parzialmente diversa. La campagna è
isolata. Dopo il calar della sera i bordi delle strade si popolano di bande di
«grassatori» dedite a rapinare le poche vetture di passaggio e i passanti; attività redditizia oltre che quasi priva di rischi: è facile dileguarsi nei campi, nascondersi dietro agli alberi, fuggire attraverso la campagna circostante coperti dal buio della notte25. Pertanto, abitazioni isolate, casolari, cascine e persino piccoli paesi diventano facile preda di bande criminali.
Tuttavia, se gli articoli riguardanti questo fenomeno sono frequentissimi, una lettura attenta fa rilevare distinzioni importanti.
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La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
La prima: una cosa è assaltare una fattoria o una casa, tutt’altra è tenere in pugno un paese intero «per sei ore» come nel caso di Gaggio Montano nella notte tra il 16 e il 17 novembre 1945, o di Savigno l’11 dicembre sempre del 1945, oppure di Cologna ferrarese il 22 marzo del 1946.
In questi casi si tratta di bande criminali molto numerose – una cinquantina di persone quella che s’impossessa di Gaggio Montano, una sessantina
quella che assalta Savigno mentre in dodici attaccano Cologna Ferrarese –
i cui componenti si sono dati un’organizzazione precisa con tanto di «capi» e ruoli definiti. Isolare e controllare un paese intero presuppone la conoscenza e il saper padroneggiare strategie che sono altre e che vanno oltre
a quelle necessarie per compiere una semplice rapina. In questi casi è presente il retaggio di capacità sviluppate nel corso della guerra civile26 poi applicate a fini criminali.
La seconda considerazione da compiere riguarda il divario tra l’impressionante frequenza di questi fatti e la loro riuscita, decisamente inferiore
a quanto si potrebbe ritenere. Molte rapine vanno a segno, ma molte altre falliscono sia per l’imperizia degli assalitori27, sia per la reazione talvolta
blanda28, talaltra risoluta29 degli aggrediti, oppure per il soccorso di un vicino di casa30. E anche quando riescono, spesso il loro successo è solo parziale. Riportiamo tre esempi. Il primo riguarda il signor Pellacani:
Due settimane or sono, uno sconosciuto mascherato ed armato di rivoltella, si presentava all’abitazione dell’operaio Primo Setta, lavorante specializzato della ditta Pellacani, costringendolo, sotto minaccia di morte, ad uscire di casa. Sulla via erano altri compari che pure armati attendevano il Setta, il quale era accompagnato dinanzi alla dimora del Pellacani, adducendo il pretesto che agenti della polizia di Bologna desideravano
parlargli. Il Pellacani, subodorando qualcosa di losco, non aderiva alla richiesta e si limitava di fronte alle insistenti chiamate, a gettare da una finestra la somma di 5.000 lire. Non contenti, gli sconosciuti obbligavano il Setta a chiedere al Pellacani che consegnasse altre 100 mila lire. Senonché, avendo questi respinta la richiesta e, contemporaneamente, accesa la luce esterna dell’abitazione, gli individui si allontanavano precipitosamente, non senza prima aver esploso colpi d’arma da fuoco contro la casa31
Il secondo, i fratelli Mascagni: «notti or sono a Colombara di Monte
San Pietro, un’autovettura 1100 si fermava davanti alla casa dei fratelli
Mascagni. Potevano essere le 22,15 circa. Cinque uomini discendevano
dalla macchina, bussavano alla porta della casa e sorprendendo la buonafede dei padroni, riuscivano ad entrare qualificandosi come agenti di poli137
Matteo Banzola
zia». La banda intende rapinare i tre fratelli, «chiedendo la somma di cinquantamila lire. S’intavolarono trattative e finalmente i grassatori se ne andavano dopo averne ricevute quindicimila soltanto». Il terzo, l’agente agrario Cesare Rimondi al quale viene addirittura chiesto
[…] che racimolasse quanto gli fosse possibile tra i coinquilini. Ricevute 3 mila lire i malviventi reiteravano minacce, pretendendo altro denaro, tanto che il Rimondi era costretto poco dopo a raddoppiare la cifra già estorta. Ancora una volta, avuto il denaro,
gli sconosciuti avanzavano altre richieste e profferivano nuove minacce. Finalmente si
allontanavano preannunciando che sarebbero ritornati32.
Ora, al signor Pellacani vengono richieste 100.000 e lui ne concede
5.000; a casa dei fratelli Mascagni si tratta per la somma da estorcere; i rapinatori di Cesare Raimondi si consolano di una sorta di colletta tra coinquilini di sole 6.000. Più che di rapine a mano armata sembra di trattarsi
di patteggiamenti a mano armata.
Torniamo alle vittime degli agguati e dei fermi in città. Al signor Renato Barberi, «due sconosciuti […] mediante la persuasiva minaccia di una
rivoltella» lo costringono «a consegnare il portafogli contenente la somma
di 750 lire e la bicicletta del valore di 8000 lire. In più, per »appiedare»
completamente la vittima, esigevano anche le scarpe»33. Il giornale la mette in battuta di spirito, ma la penuria di scarpe a Bologna è reale. Lo confermano sia il ripetersi di vicende simili, sia il fatto che le scarpe sono uno
degli oggetti più ricercati dai ladri34. Il signor
Gino [illeggibile], maresciallo di finanza ora a riposo, verso le 20,45 dell’altra sera,
giunto nei pressi della sua abitazione era avvicinato da due sconosciuti che, estratte le
rivoltelle, lo rapinavano del portafogli contenente la somma di 900 lire e documenti
personali, dell’orologio da polso e del soprabito che indossava. I malviventi si allontanavano poi indisturbati35.
Dopo questi articoli è forse possibile trarre qualche considerazione. Il
mercanteggiare la somma da estorcere oppure l’accontentarsi di somme
minime o di quel che si trova da rubare, indica che aggressori e vittime provengono tutti dal terreno comune dell’impoverimento generale provocato
dal conflitto. Nessuna delle vittime di questi articoli ha subito violenza fisica, non un colpo d’arma da fuoco è stato indirizzato all’aggredito. Si fa uso
delle armi per impaurire e per intimidire, ma non ci si è accanisce a cercare
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La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
o a pretendere quello che, in ultima analisi, gli assalitori sanno di non poter trovare o pretendere. Contrariamente a quanto sostiene certa memorialistica che vuole l’Emilia-Romagna come una regione insanguinata e terrorizzata dalla criminalità, la lettura delle cronache del tempo porta a ridimensionare fortemente questo fenomeno. I bolognesi cercano svago al cinema, nei bar oppure chiacchierando per strada fino a tarda notte, nelle
feste, nelle balere. Certo, l’eventualità di essere derubati in un vicolo poco
illuminato, in un viottolo di campagna o lungo una strada che porta fuori
città, è concreta e anche molto frequente, ma allo stesso tempo si è consapevoli che pochi spiccioli o, nel peggiore dei casi, qualche abito sono sufficienti quasi sempre a placare le richieste dei banditi.
Ciò non significa – ovviamente – negare il fenomeno della criminalità
o tentare di ridimensionarlo deliberatamente, ma a fronte degli innumerevoli agguati e rapine a mano armata da parte di singoli e di bande sorprende l’esiguità degli omicidi a scopo di rapina. Nei circa cinquecento giorni
di cronaca nera che abbiamo esaminato non si contano più di venti-trenta casi, anche quando non si voglia operare una distinzione importante tra
chi rimane ucciso nel corso di una rapina – solitamente per la reazione agli
aggressori da parte della vittima – e l’omicidio a scopo di rapina in senso
proprio. Distinzione fondamentale in realtà perché, se «la strada del banditismo appare facilmente praticabile [in quanto] la credenza è quella che
ci si entri senza problemi e altrettanto agevolmente si possa uscirne»36 dopo essersi arricchiti in breve tempo, maggiori sono i rischi che il colpo implica e il valore del bottino, più alte sono le probabilità che il rapinatore diventi anche un assassino.
Comunque «Brutto il dopoguerra. Quanti poveri arricchiti più o meno onestamente e quanti ricchi impoveriti più o meno giustamente»37. Tra
chi arricchisce ingiustamente, vanno sicuramente annoverati i «borsaneristi». Il mercato nero – o «borsa nera» come si diceva allora – è un’eredità
dell’inefficiente conduzione della guerra da parte del regime fascista prima e della Repubblica sociale poi. Nel periodo di cui ci occupiamo, i suoi
meccanismi sono già collaudati – la merce entra in città a bordo treni e, soprattutto, per mezzo dei camion – ed è un fenomeno fiorente, perché si basa su bisogni generalizzati: «Al mercato nero ci andavamo tutti. Si prendeva quello che si poteva con la tessera [del razionamento], poi si andava nel
retrobottega»38, oppure sotto il portico del Podestà e in Piazza della mercanzia dove è particolarmente fiorente quello delle sigarette e del tabacco.
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Il mercato nero che si svolge nel centro della città che ha per protagonista
una cittadinanza bisognosa di tutto – dagli alimentari ai copertoni da bicicletta39, dalle sigarette alla benzina40 – è solo l’ultimo aspetto del fenomeno, quello dello smercio al dettaglio ed è per certi aspetti persino tollerato
dalle autorità41, che lo considerano disdicevole ma inevitabile. Ad alimentarlo concorrono – quasi certamente – la microcriminalità, oppure l’intraprendenza personale di chi sfrutta la propria abitazione o il retrobottega
per confezionare sigarette o la capacità di creare relazioni magari con i soldati Alleati, ben forniti di sigarette e carne in scatola42, o la vendita della
merce a prezzo maggiorato come nel caso di certi fornai – taglieggiamento
a cui i clienti di solito non si ribellano in quanto, in una sorta di do ut des,
spesso i primi non staccano i bollini dalla carta annonaria dei secondi permettendogli così di riutilizzarli43.
A un secondo livello esistono poi traffici più ampi e con molteplici interlocutori implicati nella vendita illegale di farina, pasta, generi alimentari44, di gomme per auto precedentemente rubate45.
Ora, se è improbabile che chi smercia al minuto sigari e sigarette, qualche genere alimentare proveniente dalla campagna circostante o anche il
bottino di una rapina o di un furto si sia veramente arricchito; se questa
possibilità ha maggiori probabilità di successo per chi è inserito in traffici più cospicui e ramificati, c’è però un terzo livello, più ristretto e più mimetizzato che ha come protagonisti persone facoltose. Clamoroso il caso
di un «arcimilionario», che è al contempo «uno dei più attivi e più astuti contrabbandieri» di sigarette e (si presume) di cocaina della città. È il signor «Achille Berti, proprietario di vari palazzi in via Galliera, nonché di
tenute e fabbricati in Brianza», che «fin dai primi giorni della liberazione
cominciò a far la spola fra la Svizzera, dove si riforniva soprattutto di sigarette e cocaina, e l’Italia, dove smerciava la merce, ricavandone guadagni
favolosi»46; altro personaggio ben in vista in città, il conte Clemente Theodoli, è coinvolto in un traffico di granaglie47. Attorno al commercio illegale di zucchero – merce rara e costosa – si formano vasti interessi e ampie
ramificazioni criminali48.
Una società squilibrata
Gli ultimi esempi che abbiamo riportato dimostrano che l’equazione
impoverimento = criminalità, non è sempre applicabile. Quali sono le al140
La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
tre ragioni per le quali ci si trova di fronte a un’esplosione di criminalità
così ampia?
La questione dell’ordine pubblico diventa un tema «caldo» per due motivi fondamentali. Innanzitutto, i partiti politici sono in fase di riorganizzazione e sono ancora ben lontani dall’improntare di sé la Repubblica sancita dal referendum del 2 giugno 1946. Particolarmente pregnante l’Emilia
e per Bologna è il caso del Pci, impegnato fin dalla «svolta di Salerno» nella costruzione del «partito nuovo», partito di massa ramificato e presente
su tutto il territorio nazionale per mezzo di una struttura piramidale, strutturato «in modo di assicurare in modo permanente la presenza […] delle classi lavoratrici nell’agone politico»49. Operazione grandiosa che riuscirà grazie al prestigio che i comunisti si sono conquistati per la loro strenua
opposizione al fascismo, per il loro impegno, per le capacità dimostrate nel
corso della Resistenza e (per i suoi militanti) per il legame con l’Unione Sovietica, il paese vincitore del nazismo.
Ma sia il legame con l’Urss – che porta al partito accuse di «doppiezza»
nei confronti della ritrovata democrazia – che lo sviluppo impetuoso del
partito (345.171 iscritti nella sola Emilia-Romagna nel 194550) con il suo
carico di forti tensioni interne, intemperanze di singoli e di gruppi che talvolta scivolano nella criminalità, gli creano difficoltà notevoli. Il militante
comunista «rivoluzionario prudente, disciplinato e generoso […] rispettoso del culto religioso e delle istituzioni»51 e delle direttive del partito è ancora di là da venire:
Il direttore della carceri di via Pratello era informato, da qualche tempo, che i detenuti avevano confezionato una bandiera comunista. Poiché il regolamento vieta che i detenuti detengano simboli di qualsiasi natura, ieri il direttore diede ordine ad un guardiano di [togliere] la bandiera: ma una volta entratone in possesso il guardiano lacerò
il drappo sotto gli occhi dei detenuti stessi. Il gesto non garbò ai carcerati i quali, ritenendo di essere stati offesi nella loro fede politica, inscenarono una tumultuosa manifestazione di protesta che avrebbe forse raggiunto notevoli proporzioni se l’intervento
dei carabinieri non avesse riportato la calma nell’ambiente52.
Da un lato, vent’anni di fascismo hanno profondamente disabituato il
popolo italiano alla politica attiva53; dall’altro, la Resistenza, per le ragioni
contingenti della lotta ha avvicinato alla politica le giovani generazioni in
un modo forzatamente d’azione, diretto, pragmatico, nel quale la mediazione non ha trovato la necessaria possibilità di inverarsi e che adesso ren141
Matteo Banzola
dono indistinto il confine tra legalità e illegalità:
Il giorno 3 scorso certo Bernardino Ghini […] denunziò che due notti prima quattro
sconosciuti, riusciti con un pretesto a farsi aprire la porta di casa, vi penetravano con le
armi in pugno e, tenendo sotto la minaccia delle armi i familiari, accusavano suo padre di aver commesso tempo addietro due omicidi politici e imponevano a prezzo del
loro silenzio di consegnare duecento mila lire. Il Ghini si proclamava innocente, e asseriva di non avere in casa la somma richiesta. I quattro figuri perquisita la casa, rinvenivano cento mila lire circa di cui si impossessavano, abbandonando quindi il posto
dopo aver ingiunto ai rapinati di tacere pena la vita.
Le «attivissime indagini» delle forze dell’ordine portano all’arresto di cinque ragazzi iscritti all’Anpi – che immediatamente li espelle. Provvedimento
teso proprio a ristabilire la demarcazione tra legalità e illegalità in un momento di trapasso – dalla caduta rovinosa del fascismo al consolidamento
della Repubblica – nel quale da un lato le forze della «continuità» si stanno velocemente riorganizzando mentre le speranze di rinnovamento del
paese stanno segnando il passo (l’epurazione prima «lasciò liberi alcuni tra
i maggiori responsabili del fascismo incriminando invece il personale dei
livelli più bassi», poi l’amnistia di Togliatti del giugno del 1946 la chiuderà definitivamente54); dall’altro le forze dell’ordine, malpagate e in fase
di riorganizzazione non solo sono poco efficienti come dimostrano le frequenti evasioni dalle carceri sulle quali ironizza causticamente il giornale55, ma addirittura semi-sconosciute dai cittadini. È quanto si deduce da
un articolo del novembre del 1945 che segnala l’attività di «polizie» non
bene definite, che si sono installate in appositi posti di blocco, all’ingresso delle città lungo la vecchia via Emilia dedite al taglieggio dei camionisti:
[…] Ci si chiede giustamente: in base a quale provvedimento legislativo è stata costituita questa polizia che sembra si chiami «C.I.S.» (Corpo Ispettori Stradali?). Chi ha
determinato l’ammontare delle penalità che non risultano da nessuna legge? Quali sono i regolamenti giuridicamente vigenti che disciplinano il traffico nella nostra regione, dopo la partenza dell’A.M.G.?56
Domande che rivelano un senso di disorientamento e, implicitamente,
la tangibile debolezza dello Stato italiano, la sua lontananza dai cittadini.
Oltre al retaggio di una sfiducia profonda che la cittadinanza ha avuto nei
riguardi dei molti corpi di polizia della Rsi (colpevole di innumerevoli an142
La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
gherie e misfatti57), già maturata nel ventennio dove per la capillarità delle spie al soldo della polizia era necessario soppesare ogni affermazione58,
c’è adesso un pullulare di criminali che si travestono con divise alleate o da
poliziotti59, che si spacciano per partigiani per fugare diffidenze e conquistare la fiducia delle vittime.
La Questura dirama il seguente comunicato.
Consta che si verificano visite a domicilio da parte di sedicenti agenti di P.S. e di ancora più sedicenti «patrioti». Trattasi, invece, nella quasi generalità, di autentici delinquenti, fatti uscire, come è noto, dalle carceri dai nazifascisti, il giorno precedente alla liberazione di questa città.
Può darsi che in taluni casi non si tratti di reduci delle patrie galere - come infatti si è
potuto constatare - ma di individui audaci che, approfittando del momento, si autodefiniscono patrioti, mentre non sono che miserabili figuri i quali nientemeno, vorrebbero oggi farsi una verginità «chiedendo il saldo del conto» a chi ebbe a compiere il
meritorio dovere di farli squalificare dalla società perché indegni.
Gli autentici patrioti - i quali sanno bene, ormai, che le azioni illegali non sono consentite né tollerate, ché tali sono gli ordini ed i propositi dei Comandi e delle autorità responsabili - debbono collaborare con gli organi della P.S. ad acciuffare questi mestatori che potrebbero gettare ombre sulle schiere dei patrioti. La cittadinanza prenda buona nota di questo comunicato ed esiga sempre che le persone che si presentano alla porta di ciascun domicilio esibiscano la tessera alleata bilingue arancione con
la scritta sul frontespizio «Civil Police» la quale tessera contiene le generalità e la qualifica di chi la esibisce.
Il popolo italiano del tempo è un popolo in cammino. La stessa Bologna
brulica di sfollati, profughi, soldati stranieri sbandati, persone che percorrono la penisola in tutte le direzioni. Tutto questo da un lato moltiplica le
occasioni per delinquere (se si guarda alla composizione delle bande criminali si può supporre che molte di queste si siano formate proprio in derivazione di questo rimescolamento: è facile riscontrare gente del luogo che
delinque con stranieri, siano soldati o meno, oppure con connazionali di
tutt’altra provenienza); dall’altro accentuano quel senso di spaesamento,
di mancanza di appoggi sicuri a cui aggrapparsi che colpisce alcune frange
della popolazione come dimostra la triste sequela di suicidi – per amore,
per aver perduto il lavoro, per la miseria quotidiana – di questo periodo.
Dal canto loro, le forze politiche fanno appello alla ragionevolezza e al
buon senso anche con una sorta di irritata frustrazione contro «la serie di
delitti, di grassazioni, di inaudite rapine, di feroci vendette che infestano
143
Matteo Banzola
le nostre contrade di città e di campagna»60 ma il punto è, come scrive il
ministro dell’interno dell’epoca, che «per turbare l’ordine pubblico bastava un nonnulla»61. È vero; gli animi sono facili a surriscaldarsi: per placare una rissa scoppiata in un bar «a causa di un inno cantato dai civili riuscito poco gradito ai militari italiani» interviene il sindaco Dozza in persona62; nelle strade quando scoppia una discussione animata63; per questioni
di donne con i militari Alleati.
Per poter comprendere quella «resa dei conti» tra antifascisti e fascisti
che si protrae ben al di là della fine del conflitto è indispensabile tener presente questo clima particolare, che è una miscela di sentimenti contrastanti: speranze di rinnovamento, desiderio impellente di ricostruire una società nuova e più giusta, ma anche frustrazione nel constatare come le forze che la Resistenza ha posto alla guida del paese stentino a concretizzare un’azione efficace mentre quelle della conservazione siano abili e pronte
nel riorganizzarsi. Alla base di queste sensazioni stanno la memoria – specie nelle campagne – di un «contromondo», quello delle leghe bracciantili,
delle conquiste per il lavoro e nel mondo del lavoro, delle case del popolo,
di una solidarietà di classe costruita lentamente ma con tenacia, frantumata dalla violenza dello squadrismo e avvilita dal ventennio fascista
È in questo grumo di sensazioni e umori che si innesta il desiderio di
chiudere definitivamente i conti con il fascismo. È nei mesi immediatamente successivi alla liberazione che si registra chiaramente quella «fretta»
di fare i conti fino in fondo con quel passato. Sono i mesi in cui l’azione
dello Stato stenta a decollare, dove vaste zone del paese sono di fatto incontrollabili dalle forze dell’ordine, dove chi ha preso parte alla Resistenza o
chi è stato oppositore del regime sente il «diritto» di sbarrare la strada non
tanto al ritorno di un regime crollato miseramente (e meschinamente) sotto l’urto del conflitto, ma a quel tipo di società che l’ha generato e – con
connivenze tanto palesi quanto imbarazzanti – lasciato libero di irrobustirsi e prosperare, anche ricorrendo alla forza e alle armi, se necessario.
Di questo ne erano consapevoli anche le forze dell’ordine. In un rapporto dell’Arma dei Carabinieri dell’agosto del 1945 infatti, si afferma:
[…] prima dell’avvento del fascismo l’Emilia, e in particolare tutto il territorio comprendente le province di Modena, Bologna, Forlì, Ravenna e Ferrara fu un focolaio di
gravi agitazioni. Per affermarsi e per impedire che le masse seguissero altri partiti, il fascismo dovette in quella zona dare largo sviluppo allo squadrismo. Il fascismo ferrare-
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La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
se […] fu per lunghi anni uno dei più importanti centri di costituzione di squadre fasciste e d’azione che si riversavano sistematicamente nelle province limitrofe, specie in
quelle di Bologna, Forlì, Ravenna e Modena, per compiervi spedizioni punitive. Tutto
ciò ha concorso a creare profondi rancori. A ciò si aggiungano le distruzioni operate
dalla guerra e i soprusi compiuti, in larga scala e in maniera talvolta efferata, durante
la dominazione nazifascista. Si è così determinata un’atmosfera di odi e violenza che
spiega, se non giustifica, i criminosi atti di reazione verificatisi dalla data della liberazione in poi […]64.
A Bologna, secondo i dati ufficiali di una statistica redatta dopo le elezioni del 1946, sono 21 le «persone uccise, prelevate o ferite in dipendenza sicuramente della vertenza agraria» dopo la liberazione e «dopo il primo
periodo di carattere insurrezionale» e 47 le «persone uccise, ferite o prelevate per rappresaglia antifascista»65. Eppure sul quotidiano bolognese fino a tutta l’estate del 1946 il tema della violenza politica viene trattata raramente. Se nel periodo immediatamente successivo alla liberazione questo relativo silenzio su un tema così caldo può spiegarsi da un lato col fatto che il quotidiano si trova, per così dire, ancora in una fase di rodaggio
e dall’altro col fatto che la direzione del quotidiano forse sapendo che, talvolta, «in diverse località avvengono taciti accordi tra fronte della Resistenza e angloamericani, [per cui] questi ultimi permettono ai partigiani alcuni giorni di piena libertà nella caccia e nell’eliminazione dei fascisti»66, si
astiene dal proporre questa materia; il protrarsi di questo silenzio potrebbe imputarsi proprio alla continuità del quotidiano col regime e la Rsi. A
fianco delle nuove leve, nelle stanze della redazione lavorano persone fortemente compromesse col regime e perfino con l’esperienza salotina. In un
momento in cui si verificano – e si protraggono a lungo – forti reazioni se
non vere e proprio cacce all’uomo nei confronti soprattutto di squadristi
della prima ora e dei «repubblichini» dell’ultima67; la vertenza agraria tra
la Federterra e gli agrari si fa sempre più aspra e incandescente e lo stesso
giornale – in conseguenza delle posizioni sempre più scopertamente favorevoli ai secondi – è attaccato dalla sinistra «con le scritte in rosso sui muri
della città Giornale dell’Emilia venduto: i partigiani non dimenticano le gravi offese»68, l’assumere un atteggiamento di aperta condanna di questi avvenimenti può rivelarsi se non rischioso sul piano personale, almeno controproducente su quello dell’immagine della testata.
Sono tempi che consigliano prudenza insomma. È probabilmente anche per questa ragione che il quotidiano, nel trattare il tema della violen145
Matteo Banzola
za a sfondo politico, sceglie di mostrarne gli effetti tragici sul piano personale e familiare:
I crevalcoresi davanti allo spettacolo triste delle rovine che la guerra ha lasciato dietro
di sé non si sono abbattuti e subito dopo la liberazione hanno ripreso la loro attività.
Tutti hanno dato il loro fervido contributo per ricostruire e cancellare ogni traccia del
passato. E ad osservare l’entusiasmo nella ripresa materiale si ha la sensazione di una
totale ripresa morale.
Purtroppo, nel clima idilliaco di fratellanza e di collaborazione l’odio non è completamente spento, cova in qualche animo, pronto ad accendersi con un livido e sanguinario bagliore.
È dell’altra sera un doloroso episodio che ha le sue radici negli avvenimenti di cui tutto il Paese è ancora dolorante. Il 56enne Luigi Busi fu Enrico, commesso viaggiatore, nato a Crevalcore e residente da 25 anni con la moglie Maria a Trieste in via Enrico Toti 24 quattro giorni or sono aveva fatto ritorno al paese natio per visitare la vecchia madre che da oltre tre anni non vedeva, la signora Ada Busi, di 75 anni, abitante
in via Marconi 4. Egli, come si è detto, era giunto a Crevalcore sabato 23, proponendosi di ripartire oggi alla volta di Trieste. E dopo avere abbracciato la madre e il fratello Sirio, onesto e laborioso parrucchiere del luogo, si era recato a visitare vecchi amici e
conoscenti. La scorsa sera, verso le 23, dopo aver sostato all’osteria di Alfonso Pioli in
via Sbaraglia, si incamminava verso l’abitazione della madre, distante circa 200 metri.
Ma a una cinquantina di metri dalla casa, un colpo di pistola, sparatogli nell’oscurità
a bruciapelo, lo abbatteva esanime al suolo. Il proiettile, penetrato nella schiena dello
sciagurato e uscito dalla parte anteriore, aveva attraversato il polmone destro e provocata un’emorragia interna, per cui, dopo poco, fra le braccia del fratello Sirio ed assistito da numerosi compaesani accorsi – gridando: «Maledizione, Maria, Maria» - spirava. Il movente del delitto è forse chiaro: il Busi, nei suoi 25 anni di permanenza a Trieste, aveva ricoperto prima del 25 luglio ’43 varie cariche fasciste e talvolta si era esibito in Crevalcore in uniforme fascista con i galloni di fiduciario del sindacato. Non si
sa, però, se egli abbia o meno collaborato con i nazifascisti. Un fratello del Busi aveva
appartenuto alle brigate nere e, condannato a 6 anni per collaborazionismo dall’Assise
straordinaria di Bologna, decedette per paralisi cardiaca nelle carceri di San Giovanni
in Monte. Sembra che i carabinieri siano sulle tracce dell’assassino69.
In altre occasioni il movente politico è solo accennato: « L’ucciso sarebbe stato - secondo talune voci non ancora accertate - un fascista fazioso70».
Due giorni dopo, la precisazione: «I familiari della vittima hanno smentita
l’asserzione che il Savoia sia stato un fazioso71». La prassi dell’accennare e
del lasciare intuire senza prendere posizione, se in linea teorica può rispondere alla deontologia corretta del mestiere secondo la quale i giornalisti si
limitano a informare i cittadini proponendo loro cronache «oggettive», in
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La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
realtà, nell’immediato consente di porre in imbarazzo l’avversario ideologico del quotidiano, mentre sul lungo periodo permette di preparare il lettore al momento in cui, in concomitanza dell’acuirsi della guerra fredda e
con le sue conseguenze sulla nostra politica interna, il «Giornale dell’Emilia» effettuerà il ribaltamento delle vittime – l’antifascismo – in carnefici e
dei carnefici – i fascisti – in vittime72. Passaggio lento e articolato, ma facilitato dalla caratteristica principale della cronaca nera, la ripetitività, che
permette di dosare e sfumare gli ingredienti più idonei per «spostare» l’opinione del lettore a favore dell’indirizzo prescelto dalla testata.
E tuttavia, la specificità di questo momento storico è data dalla commistione tra le aspettative o le speranze che si ripongono e si attendono nella/dalla politica e la quotidianità, spicciola, minuta. Il rapporto conflittuale dei bolognesi con i soldati Alleati ne è un esempio. La convivenza con le
truppe Alleate è resa difficile da almeno tre fattori. Gli Alleati, e soprattutto gli «americani» sono incontestabilmente più efficienti: la Military Police americana è «attrezzatissima» e «come d’incanto» è in grado di sedare tafferugli73 o di contrastare adeguatamente il mercato nero74; al contrario, «i mezzi a disposizione dei tutori dell’ordine [italiani] non sono ancora del tutto adeguati alle necessità»75. Gli Alleati sono ricchi: dispongono
a profusione di carne in scatola e di sigarette di ottima fattura; i bolognesi sono costretti ad arrangiarsi in mille modi e ad accontentarsi del trinciato razionato (quando c’è). Infine, i mass media – cioè il cinema e la stampa
– propongono agli italiani un’immagine favolosa dell’America: nei reportage che il giornale pubblica la domenica, gli Stati Uniti vengono descritti come il paese del benessere diffuso, delle opportunità, dell’avanguardia
scientifica; sono il paese della grandiosità: i grattacieli, le autostrade infinite, le praterie sterminate, le fabbriche gigantesche; sono, innegabilmente,
il paese del successo, basti citare il nome di Hollywood76.
Nella convivenza quotidiana queste disparità vengono – per così dire –
sanzionate dai militari Alleati, ben consapevoli che la «polizia italiana» e le
«pattuglie cittadine» sono «legate entrambe a severe disposizioni che ne limitano i poteri nei rapporti con le forze alleate»77; posizione di forza dalla
quale deriva lo sdegnoso disprezzo con cui trattano i civili – basti pensare
all’elevatissimo numero di cittadini vittime di «investimenti» automobilistici provocati da autisti Alleati a danno dei cittadini78 – e che spesso li porta a tenere comportamenti eccessivi e arbitrari con relativa facilità, come
dimostra il fatto che, in quasi tutti gli articoli di nera che li vedono coin147
Matteo Banzola
volti, viene rilevata la loro tendenza a bere smodatamente.
Alla superiorità indiscutibile delle forze alleate fa da contrappasso la
frustrazione spesso priva di sbocchi della popolazione. In particolare gli
uomini bolognesi sono costretti a constatare il grande fascino che i militari alleati esercitano sulle loro donne. Fascino ricattatorio perché mentre
i bolognesi sono costretti ad arrabattarsi fra mille ristrettezze nel mezzo di
una realtà non solo materiale tutta da ricostruire e da riassestare, gli alleati profittano della loro pressoché illimitata disponibilità di beni di consumo per circuirle:
Che cosa facevano prima le «segnorine»? Che cosa faranno poi? Sono tante, le ragazze delle «jeep», e non tutte del mestiere. Qualcuna appartiene alle «buone famiglie».
Girano a braccetto di un «Tommy», di un «boy». Avevano studiato l’inglese e il pianoforte, come impongono le rispettabili usanze. Trovano che è molto «chic» passeggiare
al braccio di un ufficiale della «Raj», di un tenente del IV corpo. Cercano di dimostrare, agli alleati, la nostra gratitudine. Hanno subito il fascino di Hollywood; in fondo
tutti questi giovanottoni vengono dal paese di Bob Taylor o di Clark Gable, parlano
la stessa lingua. Dànno in cambio delle prestazioni, scatolette di «meat and vegetable stew» e cioccolata. «Camel», «Lucky Strike» e «Chesterfield» sono i messaggi giunti da oltreocenao. Questa è per molti la vera faccia della democrazia. La storia dei popoli amici è sintetizzata da un nome: Sir Raleigh, quello dalla barba, la cui effige sta
sui pacchetti delle sigarette.
Le «segnorine» vivono la loro grande indimenticabile giornata. Hanno distrutto i nazionalismi, abolite le frontiere. Un grande passo sul cammino della fraternità universale è stato compiuto. Anche i negri sono creature di Dio. Un giorno gli alleati se ne andranno, con nel cuore un pegno della nostra larga ospitalità. Cosa faranno le «segnorine», senza «jeep», senza «Camel»? Qualcuna, forse, perderà le chiome. Ci sono uomini intransigenti. Qualche altra conserverà, ahimè, una viva testimonianza dei tempi
passati. E attenderà, come Butterfly, che spunti il filo di fumo. Rimarrà loro un bagaglio di frasi scadute, ormai senza significato: «My little girl», il ricordo di un «love» finito. La colpa è della fame, di Hollywood, e di quelle infernali scatolette di «meat and
vegetable stew»79.
Non occorre indugiare sull’acredine malcelata dell’articolista; piuttosto è da mettere in rilievo il fatto che, effettivamente, alcune «ragazze bolognesi, accusate di frequentare ufficiali e soldati Alleati […]»80 le «chiome»
le perderanno davvero. La tensione esplode clamorosamente la sera del 15
settembre 1946:
Agitazione e nervosismo iersera, per le vie della città. Da un episodio di scarso rilievo
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La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
sono scaturite imprevedibili conseguenze. Un gruppo di soldati polacchi sedeva verso
le 20 ad uno dei tavolini all’aperto del caffè «Garibaldi», trincando tranquillamente,
quando uno di essi, forse brillo, cominciava ad alzare la voce, e a un certo punto estraeva di tasca la rivoltella, puntandola contro un compagno. Interveniva prontamente un
cameriere che toglieva l’arma all’esaltato. La fulminea scena era sufficiente a far nascere
un leggero trambusto, gente in massa accorreva credendo di godersi chissà quale spettacolo. La situazione, tuttavia, poteva dirsi ormai calmata dall’intervento di alcuni carabinieri, che avevano persuaso il militare ad allontanarsi, quando alcuni dei presenti
si rivolgevano contro le «segnorine» che sedevano ai caffè in compagnia di soldati alleati, ingiuriandole aspramente.
«La prima aggredita». Veniva così a crearsi nella folla un vasto movimento di ostilità
nei confronti delle donne, che in gran numero sostavano in compagnia di militari alleati. La prima ad essere presa di mira era la non più giovane «peripatetica» Giuseppina Gellini, detta Olga, di 45 anni, da Comacchio, la quale veniva strappata ai suoi cavalieri, afferrata per le vesti e spogliata completamente dai più facinorosi, che l’avrebbero anche percossa se carabinieri e agenti dell’ufficio di notturna della Questura, con
deciso intervento, non gliel’avessero sottratta. Rifugiatasi in un primo tempo nel gabinetto del «Grand’Italia», la donna semisvenuta, veniva ricoperta con alcuni panni fatti venire da casa sua e quindi accompagnata in Questura. Frattanto la piazza Garibaldi
s’era venuta riempiendo di folla, in parte solo curiosa di sapere che stesse accadendo,
in parte tumultuante e indignata contro le compiacenti amiche degli alleati. Un’altra
di esse la ventunenne Doranda Fanti era aggredita, spogliata, percossa; una terza - una
meridionale di passaggio, di cui non conosciamo il nome - veniva sottratta a stento all’ira della folla dalla «Military Police».
«Battuta di caccia». L’arrivo di alcuni camion di poliziotti ad affiancare la opera dei pochi carabinieri e agenti di questura intervenuti, aveva il potere di sedare, almeno localmente, il tafferuglio (erano circa le 22). Ma nelle strade adiacenti continuava la caccia
alle «segnorine», che si erano date alla fuga. Dietro le mura di Porta Galliera, verso le
21,45, quattro donne venivano spogliate, e gli alleati che erano in loro compagnia sentivano il peso di alcuni robusti pugni. Una peripatetica veniva raggiunta e percossa in
via S. Andrea; un’altra non trovava sorte migliore in via Bertiera. E con ogni probabilità la caccia alle amiche dei militari alleati ha avuto altri episodi, di cui non siamo giunti a conoscenza. Davanti al «Grand’Italia» sarebbe anche stato picchiato un noto caricaturista, già compromessosi nel periodo repubblichino, il quale voleva spacciarsi...
per un agente della polizia! Vari tavolini e sedie sono stati fracassati: ma non si ha notizia di rotture più gravi. Uno strascico che ha profondamente impressionato l’animo di
quanti si sono trovati testimoni, si è avuto tra piazza Maggiore e piazza Roosevelt, dove ha sede la «Military Police». Un reparto automontato di polizia alleata, prelevava in
piazza Maggiore da un gruppo di persone che stava commentando vivacemente l’accaduto un ragazzo e percuotendolo sotto gli occhi degli astanti lo conduceva con sé. Al-
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Matteo Banzola
lora si formava una nutrita schiera di persone, che in massima parte dai sedici ai venti anni, si recava nei pressi di piazza Roosevelt, protestando contro il gesto compiuto
dagli uomini della «M.P.» e reclamando la restituzione del prelevato. Il contegno ostile di queste persone - che tuttavia non urlavano, né compivano gesti apertamente provocatori - irritava i poliziotti alleati, che a un certo momento, verso le 23,15, facevano
un’improvvisa irruzione della piazza, sparando colpi di rivoltella e seminando il panico
fra gli astanti, che si eclissarono con corse disperate nelle quattro direzioni.
«Deplorevole episodio». Un giovane che si trovava a passare per quei paraggi casualmente e, non sapendo nulla di nulla, era rimasto sorpreso dalla fuga repentina degli altri, veniva afferrato e portato nella sede della «M.P.». Un ragazzo era rincorso da un policeman fin dentro l’ufficio di notturna della Questura, e sotto la minaccia del revolver
puntato era condotto via, nonostante si affannasse a protestare di non aver fatto nulla.
Altri due giovanotti erano catturati e a suon di percosse condotti alla «M.P.».
Delle cinque persone, che, salvo errore, sono state complessivamente prelevate dalla
polizia, una sola è stata rilasciata, per quanto ci consta al momento di andare in macchina: si tratta di un ragazzo che era stato ridotto alquanto malconcio, ed è stato premurosamente accompagnato a casa dai carabinieri.
Alle 23,30 giungeva su due camions una compagnia del Battaglione Mobile dei Carabinieri, che sostava fino a tarda ora di fronte alla Questura, insieme con i reparti di polizia81.
Strascichi e contrasti inevitabili dell’immediato dopoguerra, certamente; ma queste cronache non riportano soltanto un’immagine ben diversa
dei «liberatori» da quella ufficiale, restituiscono il clima di quel periodo –
sia pure ingigantito e sicuramente manipolato – tanto più in una testata
attentissima alle critiche e che nutre vive simpatie per gli Alleati. Esse sono
il segno, in realtà di «una emergenza eccezionale in un mondo che crollava, che era crollato, e di cui non si vedeva la ripresa. Emergenza eccezionale, emergenza anche negli animi, e non soltanto nelle macerie che si vedevano fuori»82. Emergenza eccezionale che inizierà a rientrare a partire dal
1948 quando, dal punto di vista della criminalità, l’illegalità inizierà a diminuire sensibilmente83.
Perché la cronaca nera?
Il «Giornale dell’Emilia» offre due pagine (quattro la domenica): una
nazionale e una di Cronaca di Bologna, pagina che, quasi quotidianamente è occupata per più di metà dalla cronaca nera. Un’ampiezza che pone almeno un interrogativo: qual è il ruolo della cronaca nera? A quali obiettivi è finalizzata?
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La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
Innanzitutto «un quotidiano si scorre»84 e ciò spiega i titoli altisonanti,
pensati per calamitare immediatamente l’attenzione del lettore. Tuttavia,
quando negli articoli si cercano i moventi, si scopre una ricorrente banalità
(una lite poi degenerata, la gelosia di un marito, una reazione); quasi mai si
indaga sul vissuto della vittima, raramente si cercano di illuminare i motivi
profondi o sociali del crimine. In realtà questa è una strategia dagli obiettivi precisi: leggendo, il lettore ritrova le contraddizioni, i problemi e le nevrosi che egli stesso vive nella propria vita di tutti i giorni. L’effetto sul lettore è, da un lato, quello di mantenere costante un confuso sentimento di
angoscia e di insicurezza da ottenersi tramite quella ossessionante ripetitività cui abbiamo accennato in precedenza (nella cronaca nera – scrive acutamente Dardano – «mutano i nomi, ma non i fatti, né gli attori, che sono sempre gli stessi, sempre trattati e descritti allo stesso modo»85; monotonia che si riflette nella ripetizione di «stereotipi lessicali»: «una sciagura è
sempre agghiacciante; l’arrivo o meglio l’intervento della polizia, tempestivo;
il funzionario, solerte; l’operazione, brillante; l’evento atroce e raccapricciante»), dall’altro nel confonderlo proponendogli fenomeni differenti in un
unico articolo – come nel caso delle tre rubriche che abbiamo citato all’inizio, spesso semplici trafiletti dove si ritrovano rapine a mano armata, furti di varia entità, borseggi ecc. –; con la spersonalizzazione dei protagonisti
(i «banditi», i «grassatori», i «soliti ignoti», «lo sconosciuto» ecc.); e infine,
impedendogli di stabilire una scala di priorità tra le varie forme di criminalità: una rapina a mano armata o un tentato omicidio possono essere narrati con tono disteso se non scherzoso86. Questa tecnica moltiplica nel lettore la percezione dei pericoli in cui quotidianamente potrebbe incorrere:
all’interno di una società sana (i cui assetti non vengono mai messi in discussione) si muovono personaggi potenzialmente pericolosi che per motivi anche banali possono scatenarsi; dietro a persone dall’aspetto rassicurante si possono celare malfattori della peggior specie; gli sconosciuti odorano
di brutte intenzioni. Solamente dopo che il criminale è stato assicurato alla
giustizia, a ben guardare, ci si accorge che mostrava segni premonitori – caratteriali e perfino fisici – del crimine che avrebbe commesso87.
Guido Tattini è un assassino:
Verso le 23,30, alcuni individui armati di moschetto e di rivoltella, si portavano in via
S. Carlo 15, dove risiede la famiglia di Guido Tattini, di Giovanni. Riusciti a entrare,
non si sa come, nell’interno dell’appartamento, penetravano nella camera da letto dove, accanto ai figli, dormiva la moglie del Tattini, Dinora Sabbatini, di Ermenegildo,
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Matteo Banzola
di anni 30, da Castel San Pietro. Gli sconosciuti, senza alcuna pietà per la presenza dei
piccoli e del loro innocente sonno, sparavano un colpo di rivoltella alla nuca della povera donna uccidendola all’istante. Gli assassini rovistavano, secondo quanto è stato
dato sapere, nei cassetti dei mobili e asportavano la somma di 25 mila lire. Ultimata la
nefanda impresa i malfattori uscivano dalla casa incontrando il Guido Tattini in direzione del quale esplodevano un colpo di pistola che lo feriva alla coscia sinistra […]88.
Questo il fatto. Ma le indagini dei carabinieri portano ad altri risultati.
Dirimpettaia della famiglia Tattini è «la signorina Evelina Dovesi, giovane
campagnola dai capelli castani e crespi, occhi vicinissimi al naso aquilino,
mento sfuggente: un ovale banalissimo e affatto seducente; ma un corpo
sodo e appetitoso», con la quale egli ha una relazione. Considerati i tempi
che corrono, l’uxoricida trova verosimile simulare una rapina da parte di
una banda armata e uccide la moglie nel sonno. Sarà solo la sua imperizia
ad attirare su di sé l’attenzione degli inquirenti.
Ma ad essere sintomatica è la descrizione che ne viene fatta dopo che si
è dimostrata la sua colpevolezza:
[…] Guido Tattini. Trent’anni. Striminzito, guance affossate, capelli folti e grossi, nerissimi, occhi, come nei camaleonti, «indipendenti», vischiosi e incolori per effetto di
ombre scure nella cornea bianca e scoloriture dell’iride, simili a due tinte dissolte da
umidità e sbavate una sull’altra […]89.
Il lettore viene così posto di fronte all’immagine del «mostro», di qualcuno che – sulla scia di una fisionomica volgarizzata e dalle coloriture romanzesche – fin dal suo aspetto esteriore tradisce e nasconde qualcosa di
oscuro e terribile. Sia pure monotona e ripetitiva, la cronaca nera si rivela una specialità di successo proprio grazie all’infinita gamma di possibilità che il giornalista ha disposizione per intervenire sulla vicenda e «condire» gli avvenimenti90. Genere di intrattenimento essa ha comunque come
scopo di fondo quello di suscitare nel lettore un bisogno profondo di ordine e di sicurezza sociale, (tema caro al quotidiano che nemmeno a tre mesi
dalla liberazione giunge a chiedere per la vigilanza notturna persone «particolarmente a ciò idonee ed indicate, da scegliersi preferibilmente tra ex carabinieri o ex guardie di P.S.» cioè ex fascisti e, successivamente, a domandare
«armi agli onesti per difendersi dai banditi»91); di diffondere una paura sottile e discreta; di distogliere il lettore da altre esigenze che intacchino gli assetti della società esistente. Nella «nera» insomma è presente un sottaciuto
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La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
fine conservatore (forse non è un caso che la netta maggioranza dei grandi scrittori di gialli provengano dalla cronaca nera e siano – o siano stati –
schierati politicamente a destra). La cronaca nera dunque, sebbene sia uno
«specchio deformante»92 della realtà, svela molto di come una società e un
popolo vedono sé stessi. Tra i molti aspetti che devono ancora essere studiati ne indichiamo solo alcuni: sulla base di statistiche sarebbe possibile
individuare le «preferenze» del quotidiano (quale cronaca nera privilegia) e
da questo dato di fondo indagarne le ragioni e i fini; la trasposizione di fatti locali a livello nazionale; studiare come la fonte viene trasformata in cronaca; infine, studiare le tecniche giornalistiche che sottostanno alla proposizione della cronaca sulla carta stampata (si pensi, come abbiamo accennato, ai «mostri in prima pagina»). È un terreno quasi inesplorato che ci auguriamo venga studiato al più presto.
Note al testo
*
È necessaria un’avvertenza preliminare. La fonte principale che abbiamo utilizzato è costituita dagli articoli del quotidiano. Da un lato, attraverso essi abbiamo cercato di cogliere alcuni
aspetti della realtà storica della Bologna del tempo; dall’altro basiamo sul loro contenuto le nostre considerazioni. Operazione non priva di rischi dal momento che né il lettore né lo storico
hanno modo di controllare il grado di veridicità del loro contenuto. Sarebbe opportuno incrociare questa fonte con altre – ad esempio con il materiale depositato presso il Tribunale, con relazioni prefettizie ecc., ma purtroppo non ci è stato possibile e resta un lavoro da compiere.
1
Cfr. N. S. Onofri, I giornali della liberazione a Bologna (1945-1947), Centro Emilia-Romagna
per la storia del giornalismo – Istituto storico provinciale della Resistenza, 1997, cap. IV.
2
. N. S. Onofri, I giornali della liberazione a Bologna cit., pp. 86, 36-37, 88.
3
Epurazione dei giornalisti, in «Giornale ell’Emilia», 23 maggio 1945.
4
Cfr. N. S. Onofri, I giornali della liberazione a Bologna cit., cap. II.
5
Cfr. l’elenco dei giornalisti stilato da N. S. Onofri, I giornali della liberazione a Bologna cit.
p. 87.
6
Il «P.W.B.» lascia l’Italia, in «Giornale dell’Emilia», 15 luglio 1945.
7
N. S. Onofri, I giornali della liberazione a Bologna cit., p. 104.
8
Cfr. Castelfranco – Manzolino – Piumazzo un triangolo tracciato col sangue, in «Giornale dell’Emilia», 26 maggio 1946.
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Matteo Banzola
9
Una trattazione estesa e sistematica di questa vicenda esula dai fini di questo lavoro. Rimandiamo a G. Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti dall’Ottocento alla fuga dalle campagne, Donzelli, Roma 1994 e a due soli articoli indicatori del percorso del quotidiano bolognese. L’accordo rurale di Forlì ripudiato dagli Agricoltori, in «Giornale dell’Emilia», 4 luglio 1945 e Interviste-lampo. Un contadino e un «padrone» che vanno molto d’accordo, in «Giornale dell’Emilia», 14 ottobre 1945.
10
Dov’è finita l’Inchiesta sull’Emilia, in «Giornale dell’Emilia», 27 giugno1947.
11
Cfr. G. Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti cit.; Bologna 1920, a cura di L. Casali, Cappelli, Bologna, 1980 e M. Franzinelli, Squadristi Protagonisti e tecniche della violenza fascista
(1919-1922), Mondadori, Milano, 2003, pp. 61-69 e passim.
12
Cfr. N. S. Onofri, I giornali della liberazione a Bologna cit., p. 112.
13
Cfr. K. Scheel, Il terrore nazista e il saccheggio dell’Emilia-Romagna, in L. Arbizzani, Al di qua
e al di là della linea gotica 1944-45: aspetti sociali, politici e militari in Toscana e in Emilia-Romagna, Regioni Emilia Romagna e Toscana, Bologna e Firenze 1993, pp. 373-376.
14
Cfr. P. Zagatti, Il problema dell’alimentazione, in Bologna in guerra, a cura di Brunella Della
Casa e Alberto Preti, Franco Angeli, Milano 1995, pp. 223-252.
15
«A iniziare dal 16 luglio 1943 fino al 18 aprile 1945, Bologna subì 94 incursioni aree – e tra
esse 32 veri e propri bombardamenti che in complesso causarono 2.006 morti e più di 2.000
feriti». Cfr. L. Bergonzini, Demografia, composizione sociale e condizioni di vita della città in
guerra, in Bologna in guerra cit., p. 163.
16
Il documento si trova in Archivio di Stato di Bologna, Prefettura, Archivio Generale 19441949, Serie I, Affari Generali, b. 1, prot. N. 802, anno 1945.
Cfr. A. M. Bozza, Le lotte agrarie nelle campagne bolognesi (1946-1949), in «Italia Contemporanea», 1974, n. 144, p. 82.
18
Trista storia d’ogni giorno, in «Giornale dell’Emilia», 17 ottobre 1945.
17
19
Cfr. Spicciole di nera, in «Giornale dell’Emilia», 19 ottobre 1945 e Vangelo rubato in chiesa, in
«Giornale dell’Emilia», 7 ottobre 1945.
20
Locuzione ricavata dall’art. Promettono sigarette ma vendono solo il fumo, in «Giornale dell’Emilia», 4 giugno 1946.
21
Sulla facilità con cui si può entrare in possesso di un arma, cfr. E. Piscitelli, Da Parri a De
Gasperi. Storia del dopoguerra 1945-1948, Feltrinelli, Milano 1975, p. 72.
22
Testimonianza orale di Nazario Sauro Onofri.
23
Un borsaiolo alla Madonna. Si accoda alla processione per operare addosso ai fedeli, in «Giornale dell’Emilia», 28 maggio 1946.
24
Cfr. Tenebre e ladri. Due nostri nemici, in «Giornale dell’Emilia», 28 settembre 1945.
25
Tra i molti articoli cfr. Rouge-noir e mitra, in «Giornale dell’Emilia», 20 maggio 1946; Banditi
con mitra bloccano un autotreno, in «Giornale dell’Emilia», 11 marzo 1946; Otto rapinatori sulla
via Emilia rubano un’auto e spogliano i viaggiatori, in «Giornale dell’Emilia», 26 ottobre 1945;
Strada sbarrata. Grassatori in agguato, in «Giornale dell’Emilia», 4 aprile 1946.
26
Il cui significato va inteso nel senso proposto da C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico
sulla moralità della Resistenza, Bollati-Boringhieri, Torino 1991.
27
Cfr. il caso di Fausto Gadani in Gruppi di malviventi armati razziano nelle campagne, in «Giornale dell’Emilia», 27 giugno 1945. Si tratta di una serie di avvenimenti riuniti in un singolo articolo.
154
La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
28
Sotto la bocca d’una pistola resiste all’aggressore e la spunta, in «Giornale dell’Emilia», 12 aprile 1946.
29
I ladri con la bomba e l’agricoltore col fucile, in «Giornale dell’Emilia», 6 gennaio 1946.
30
Cfr. Aspro combattimento fra banditi e contadini, in «Giornale dell’Emilia», 16 maggio 1946.
31
Cfr. nota 29.
32
Ibid. I corsivi sono nostri.
33
Aggressioni rapine e furti, in «Giornale dell’Emilia», 27 luglio 1945.
34
Per qualche esempio, Cfr. «Giornale dell’Emilia», 29 maggio 1945; 27 luglio 1945; 1° settembre 1945; 6 settembre 1945; 21 settembre 1945; 27 settembre 1945; 2 marzo 1946.
35
Cfr. Trista storia d’ogni giorno, in «Giornale dell’Emilia», 28 settembre 1945.
36
M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 84.
37
Ivi, p. 77, nota 22.
38
Testimonianza orale di Nazario Sauro Onofri.
39
Cfr. Incredibile ma vero. Vendeva sulla strada copertoni da biciclette, «Giornale dell’Emilia», 3
luglio 1946.
40
Cfr. ad esempio, Buon bottino per l’annonaria, in «Giornale dell’Emilia», 17 settembre 1946.
41
Nell’Annuario Statistico dell’anno 1946 pubblicato dal Comune, del prezzo delle sigarette viene indicato sia quello legale sia quello a borsa nera.
42
Cfr. Mercato bianco e nero, in «Giornale dell’Emilia», 4 giugno 1946.
43
Cfr. Il prezzo del pane, in «Giornale dell’Emilia», 25 ottobre 1945. Del resto, a loro volta, le
carte annonarie sono oggetto di furto, cfr. Oltre 100 mila carte annonarie trafugate a Malalbergo, in «Giornale dell’Emilia», 12 dicembre 1946.
44
Cfr. Sequestro d’un carico di farina, in «Giornale dell’Emilia», 24 gennaio 1946, ma gli esempi possono moltiplicarsi.
45
Cfr. Cinque arresti e cinque denunce dopo un grosso furto di gomme, in «Giornale dell’Emilia»,
27 ottobre 1945.
46
Cfr. Pagherà senza scomporsi una multa favolosa, in «Giornale dell’Emilia», 11 ottobre 1946,
e Identificato l’arcimilionario che faceva il contrabbando di sigarette, in «Giornale dell’Emilia»,
14 ottobre 1946.
47
Vecchio patrizio implicato in un illecito traffico di grano, in «Giornale dell’Emilia», 30 dicembre 1946.
48
Su questa vicenda È scoppiato lo scandalo dello zucchero, in «Giornale dell’Emilia», 13 ottobre
1946; Lo scandalo dello zucchero riserva nuove sorprese, in «Giornale dell’Emilia», 14 ottobre
1946; Un ragioniere di Banca nello scandalo dello zucchero, in «Giornale dell’Emilia», 15 ottobre 1946; Lo scandalo dello zucchero. Com’era stato organizzato il trucco, in «Giornale dell’Emilia», 16 ottobre 1946.
49
A. Ventrone, La cittadinanza repubblicana. Forma-partito e identità nazionale alle origini della democrazia italiana (1943-1948), Il Mulino, Bologna 1996, p. 34.
50
R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Il «partito nuovo» dalla liberazione al 18
aprile, Einaudi, Torino 1995, p. 18.
155
Matteo Banzola
51
A. Ventrone, La cittadinanza repubblicana cit., p.37.
52
Il guardiano strappa la bandiera e i detenuti si ribellano, in «Giornale dell’Emilia», 1° maggio
1946.
53
Non va dimenticato che «non esisteva nel regime fascista nessun meccanismo di elezione a nessun livello e a nessun grado», cfr. quanto dice S. Lupo in Atti del Convegno di studi, Faenza 6
dicembre 2003, Fascismo italiano. Crisi e caduta di un regime, Istituto storico della Resistenza e
dell’Età contemporanea di Ravenna, 2004, p. 20.
54
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino 1989, pp.120-21
55
Tra i molti articoli, cfr. soprattutto Arrestiamoli sulla parola, in «Giornale dell’Emilia», 25 febbraio 1946.
56
Cose che succedono lungo la via Emilia, in «Giornale dell’Emilia», 24 ottobre 1945.
57
Tra gli articoli riguardanti il «famigerato capitano Tartarotti» - un «professionista della violenza» (L. Bergonzini, La svastica a Bologna. Settembre 1943- aprile 1945, Il Mulino, Bologna
1998¸ p. 45) - e protagonista particolarmente feroce e spietato del fascismo repubblicano bolognese, cfr.: Il «bieco» capitano Tartarotti arrestato con la sua banda, 28 giugno 1945; Il famigerato Tartarotti comparirà alle Assise il 3 luglio, 3 luglio 1945; Tartarotti alla sbarra, 4 luglio 1945;
Il processo alle Assise, 5 luglio 1945; Il verdetto alle Assise di Bologna, 6 luglio 1945; Il contegno
dei condannati, 18 luglio 1945.
58
M. Franzinelli, Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista, Mondadori, Milano 2001.
59
Cfr. L’avventura d’un camionista, in «Giornale dell’Emilia», 17 giugno 1946.
60
Cfr. Presa di posizione dei partigiani contro illegalismi e incomprensioni, in «Giornale dell’Emilia», 26 agosto 1945 e Una mozione del Partito comunista. Combattere le forze reazionarie e ogni
forma di illegalità, in «Giornale ell’Emilia», 9 agosto 1945.
61
G. Romita, Dalla monarchia alla repubblica, Nistri Lischi, Pisa 1959, p. 189.
62
Cfr. Grosso diverbio in un’osteria, in «Giornale dell’Emilia», 4 settembre 1945.
63
Viaggio di fortuna fallito. Tira alle gomme di un camion e scatena un putiferio, in «Giornale dell’Emilia», 30 settembre 1945.
64
Cfr. G. Crainz, L’Emilia Romagna fra guerra civile, lotte sociali e costruzioni di un modello politico, in La formazione della Repubblica. Modelli e immaginario repubblicani in Emilia e Romagna
negli anni della Costituente, a cura di M. Salvati, Franco Angeli, Milano 1999, p. 149, n. 21.
65
Cfr. R. Canosa, Storia della criminalità in Italia dal 1946 a oggi, Feltrinelli, Milano 1995, p.
21, n. 5.
66
Cfr. M. Dondi, La lunga liberazione cit., p. 106 e n. 49.
67
L’ex autista di Tartarotti riconosciuto e malmenato dalla folla, in «Giornale dell’Emilia», 7 settembre 1946.
68
Cfr. Ancora qualche cosa da dire, in «Giornale dell’Emilia», 18 maggio 1946.
69
«Maledizione. Maria. Maria!». Un colpo di pistola nella schiena a bruciapelo, in «Giornale dell’Emilia», 28 marzo 1946.
70
Spari dall’auto in corsa agricoltore ucciso sul calesse, in «Giornale dell’Emilia», 2 maggio 1946.
71
Trafiletto senza titolo, in «Giornale dell’Emilia», 4 maggio 1946.
156
La cronaca nera sul «Giornale dell’Emilia» nei mesi successivi alla fine della guerra
72
Sull’argomento cfr. i giudizi sintetici ma precisi di L. Casali-D. Gagliani, Movimento operaio
e organizzazione di massa. Il Partito comunista in Emilia-Romagna, in La ricostruzione in Emilia-Romagna, a cura di P. P. D’Attorre, Pratiche Editrice, Parma, pp. 262-266.
73
Due colpi di rivoltella a un albero di Piazza Garibaldi, in «Giornale dell’Emilia», 6 settembre
1945.
74
Mercato nero, in «Giornale dell’Emilia», 5 dicembre 1945.
75
Statistica della delinquenza, cit.
76
Scrive I. Pezzini in La figura criminale, in Storia d’Italia. Annali 12: La criminalità, Torino, Einaudi 1997, p. 77, che «alla fine della guerra l’Italia è invasa da tutto ciò che la cultura americana di massa aveva prodotto negli ultimi vent’anni».
77
Cfr. il commento all’articolo Due alleati alticci del 4 dicembre 1946, pubblicato tre giorni dopo.
78
Cfr. M. Dondi, La lunga liberazione cit., pp. 82-83 e n. 34.
79
Tempi moderni, in «Giornale dell’Emilia», 12 settembre 1945.
80
«Rapature» fuori serie, una protesta dell’Anpi del 10 agosto 1945.
81
Segnorina denudata per strada in seguito a una rissa in un caffè, in «Giornale dell’Emilia», 16
settembre 1946.
82
P. Albonetti, Introduzione negli Atti della giornata di studi, La lunga liberazione. Gli atti sono consultabili presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Ravenna.
83
Cfr. le statistiche riportate da R. Canosa in Storia della criminalità in Italia. 1845-1945, Einaudi, Torino 1991, pp. 326-27.
84
Cfr. U. Eco, Guida all’interpretazione del linguaggio giornalistico, in V. Capecchi - M. Livolsi,
La stampa quotidiana in Italia, Bompiani, Milano 1971, p. 354 (corsivo nostro).
85
M. Dardano, Il linguaggio dei giornali italiani, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 115.
86
Cfr. Invitato a concludere un affare è assalito e rapinato, in «Giornale dell’Emilia», 17 luglio
1945; e Amore pugilato e rapina, in «Giornale dell’Emilia», 10 febbraio 1946.
87
Cfr. Tenebroso delitto a Castel San Pietro. Freddata nel sonno al fianco dei teneri figlioli, in «Giornale dell’Emilia», 31 gennaio 1946; e L’uxoricida di Castel San Pietro svela il suo nefando delitto, in «Giornale dell’Emilia», 2 febbraio 1946 .
88
Tenebroso delitto a Castel San Pietro. Freddata nel sonno al fianco dei teneri figlioli, in «Giornale dell’Emilia», 31 gennaio 1946.
89
Rapina o uxoricidio?, in «Giornale dell’Emilia», 31 febbraio 1946.
90
Ad esempio, nella vicenda appena narrata, l’attenzione del lettore è tenuta sospesa da una strategia efficace. Il giornalista infatti raccoglie sia «la versione del marito», sia quella «del maresciallo dei Carabinieri», sia la «versione dell’opinione pubblica».
91
Cfr. Sorveglianza notturna. Una lettera e una richiesta dei commercianti al Prefetto, in «Giornale
dell’Emilia», 31 luglio 1945; e «Giornale dell’Emilia», 31 gennaio 1946.
92
P. Murialdi, Il giornale, Il Mulino, Bologna 2002, p. 15.
157
Africa e dintorni
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo
rivisitate in due convegni
di Angelo Del Boca
Il 2006 è stato un anno particolarmente felice per gli studi sul colonialismo
italiano. Dal 5 al 7 ottobre si è tenuto a Milano, al Museo di Storia contemporanea, un convegno dal titolo L’Italia e l’Etiopia. A settant’anni dall’impero fascista, al quale hanno partecipato trenta studiosi con relazioni di notevole
rilievo. Non meno importante il convegno che si è aperto a Tripoli il 12 dicembre dal titolo Italian colonialism and concentration camps in Libya (1929
– 1943). The state of art in historical research today, che ha visto la presenza di una ventina di storici, italiani e stranieri.
A proposito del primo convegno, quello che si è tenuto a Milano, dobbiamo
fare alcune considerazioni. Per la verità, il convegno ha avuto uno svolgimento eccellente, con un pubblico attento che ha sempre gremito, per tre giorni, la
grande sala del Museo. Ma non ha aperto, come speravamo, quel dibattito sul
colonialismo italiano, tante volte auspicato e sempre disatteso. Complice anche lo sciopero dei mass-media, nessuno ha parlato del convegno. Un silenzio
che la dice lunga sul tema del colonialismo. No, i tempi non sono ancora maturi. Visto anche che un uomo politico come Gianfranco Fini, che ha ricoperto
importanti cariche istituzionali, può tranquillamente pronunciare simili giudizi: «Non tutte le pagine del colonialismo sono negative. L’Europa, ritengo,
sia stata un elemento di grande civilizzazione e se guardiamo come sono ridotte oggi Etiopia, Somalia e Libia, e a come stavano quando c’era l’Italia, credo
che ci sarà una rivalutazione del nostro ruolo in quei paesi». Avevamo invitato Fini al nostro convegno. Peccato lo abbia disertato. Avrebbe colmato le abissali lacune di cui soffre.
Di seguito pubblichiamo le mie relazioni, che hanno aperto i convegni di
Milano e Tripoli, e la proposta di legge, d’iniziativa dei Deputati, per l’istituzione di un Giorno della Memoria in ricordo delle 500 mila vittime africane
durante l’occupazione coloniale italiana.
159
Angelo Del Boca
Contro l’Etiopia la più vile, inconsulta,
sciagurata aggressione del fascismo
1. Il Convegno che si apre oggi a Milano, dal titolo «L’Italia e l’Etiopia.
A settant’anni dall’impero fascista», patrocinato dal Comune di Milano e
dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia,
è di una considerevole importanza, e non soltanto per il folto e selezionato gruppo di relatori, ma perché, per la prima volta, non ha causato polemiche, contestazioni, veti e rinvii. Generalmente, quando il tema dei convegni riguarda il colonialismo italiano, i finanziatori si dileguano, diventa
difficile reperire una sala che ospiti il dibattito, e non mancano i divieti.
Così, ad esempio, è accaduto a Piacenza, nel 1990, quando il locale
Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea cercò di organizzare un convegno sul tema «Le guerre coloniali del fascismo». «Ancora prima che la notizia del convegno fosse resa di dominio pubblico – scrivevamo in quei giorni – cominciarono a giungerci, da taluni ambienti politici
e militari, voci di dissenso e di critica. Il tema del convegno veniva definito “troppo delicato”. La presenza a Piacenza di storici libici ed etiopici era
giudicata “inopportuna”. Dopo le critiche giunsero gli avvertimenti. L’iniziativa dell’Istituto storico doveva comunque ottenere il benestare di almeno tre ministeri, quelli degli Esteri, degli Interni e della Difesa. Contemporaneamente alcuni enti privati, che avevano aderito all’iniziativa e avevano
anche quantificato il loro contributo finanziario, revocarono il loro sostegno con scuse impacciate e poco credibili»1. Fummo perciò costretti a rinunciare al progetto del convegno e utilizzammo i saggi già commissionati
a 24 storici italiani e stranieri per realizzare un volume edito da Laterza.
Sei anni dopo tentavamo di nuovo di imbastire un convegno, questa
volta con il titolo «Adua. Le ragioni di una sconfitta» cadendo proprio nel
1996 il centenario della disastrosa battaglia. Questa volta riuscimmo a trovare denaro per finanziare il convegno, la sala che l’ospitasse, ma quando
chiedemmo l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica questo onore ci fu negato. Del resto, sulla ricorrenza, nel nostro paese si faceva il più
completo ed inspiegabile silenzio: «Le televisioni di Stato hanno completamente ignorato l’anniversario, così come si sono astenuti dal rievocare la
battaglia il “Corriere della Sera” e “La Stampa”, due quotidiani che generalmente sono molto attenti a scadenze del genere. Il silenzio su Adua è stato così ben orchestrato che, essendo da lungo tempo cessata da diffusione
160
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo rivisitate in due convegni
delle veline del Minculpop, si può pensare soltanto ad un’epidemia di amnesie oppure di autocensure»2.
Ci siamo attardati su questi due episodi, per sottolineare la scarsa fortuna che gli studi sul colonialismo hanno avuto in Italia in questo dopoguerra. Dapprincipio, a creare ostacoli, ad impedire l’accesso agli archivi storici, a sottrarre dagli stessi parte della documentazione, era la lobby colonialista, ben radicata negli organismi dello Stato. Poi furono gli stessi governi della Repubblica ad operare perché del periodo coloniale si tramandasse
una visione edulcorata o addirittura elogiativa. Basti ricordare che soltanto
nel 1996, a sessant’anni dagli avvenimenti, il ministro della Difesa, generale Corcione, ammetteva, nel corso di una seduta parlamentare, che l’Italia fascista aveva sistematicamente impiegato le armi chimiche durante la
campagna di conquista dell’Etiopia.
Tuttavia va detto, per la verità, che non si può attribuire interamente alla lobby colonialista e alle istituzioni governative la colpa di una par-
Questa fotografia dell’imperatore Hailè Selassiè mentre aziona un cannoncino antiaereo
«Oerlikon» durante un’incursione aerea italiana sulla città di Dessiè, scelta dal Negus come suo
quartier generale, ben raffigura la lotta del popolo etiopico contro l’aggressione fascista. Nel
tentativo di bloccare le armate italiane, gli etiopici, male armati, subirono perdite gravissime:
oltre 300 mila morti.
161
Angelo Del Boca
tenza tardiva delle ricerche sul colonialismo e dello stato attuale, non esaltante, degli studi. Il colonialismo italiano, come argomento di indagine,
non ha avuto assolutamente fortuna nei primi decenni del dopoguerra. Se
si fa eccezione per La prima guerra d’Africa di Roberto Battaglia, che è del
1958, bisogna arrivare all’inizio degli anni settanta per leggere qualche libro scientificamente valido. Ed è soltanto negli ultimi vent’anni - nonostante il persistere dei divieti, le sottrazioni di documenti, i mancati incoraggiamenti da parte di chi avrebbe dovuto promuovere una revisione critica del nostro operato in Africa - che gli studi sul colonialismo hanno fatto qualche sostanzioso progresso.
2. Ben diversa è la situazione degli studi coloniali nei paesi europei dal
passato imperialista. Con la Francia, ad esempio, non si possono neppure fare confronti. Basterebbe citare il convegno di Lione, del giugno 2006,
dal titolo Pour une histoire critique et citoyenne. Le cas de l’histoire franco-algerienne, che ha visto la presenza di oltre cento relatori. Basterebbe citare le
ricerche a tutto campo compiute da Gilbert Meynier, che hanno prodotto
due straordinari ed esaustivi volumi sulle vicende del Fronte di liberazione nazionale algerino3.
Un altro paese che non ha timore di confrontarsi con il proprio passato coloniale è il Belgio. Nel 2005, in occasione dei lavori di modernizzazione del Musée Royale de l’Afrique centrale, è stato pubblicato un volume di grosso formato, a cura di Jean-Luc Vellut, che contiene una quarantina di saggi e ha per titolo La mémoire du Congo. Le temps colonial 4. Impegnandosi a superare le barriere della mistificazione e della demistificazione,
Jean-Luc Vellut scrive nell’introduzione: «Gli autori della presente opera
non hanno paura di deludere gli aficionados delle drammatizzazioni semplicistiche. La loro ambizione punta piuttosto a mostrarsi più attenti che
mai alla varietà degli attori e alla loro parte di autonomia, quale che sia la
loro origine, quale che sia il loro “colore”. Non si tratterà dunque di una
storia “cromatizzata”, dove i colonizzati non appaiono che come delle ombre ora vittime di un sistema coerente, ora, al contrario, beneficiari riconoscenti di un’opera civilizzatrice»5.
Va anche ricordato che l’argomento del colonialismo italiano trova
sempre più cultori all’estero, in modo particolare negli Stati Uniti, Germania, Svizzera, Francia, Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, ad esempio, è apparsa nel 2003 un’antologia di scritti a cura di Patrizia Palombo, dal titolo
162
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo rivisitate in due convegni
A Place in the Sun 6. Due anni dopo veniva pubblicata una seconda antologia, a cura di Ruth Ben-Ghiat e Mia Fuller, intitolata Italian Colonialism 7.
Vanno inoltre ricordati almeno due altri libri apparsi negli USA: The Building of an Empire 8 di Haile M.Larebo, professore di storia alla Clemson
University, South Carolina, e Legacy of Bitterness. Ethiopia and Fascist Italy,
1945-1941 9, dell’italo-americano Alberto Sbacchi, già professore di storia
contemporanea all’Atlantic Union College, nel Massachusetts.
In Svizzera, da alcuni anni, è riconosciuto come il più attento e prolifico studioso del colonialismo italiano Aram Mattioli, già professore di storia all’Università di Lucerna. Il suo ultimo contributo si intitola Experimentierfeld der Gewalt 10, che possiamo tradurre con Laboratorio della violenza. La tesi principale di Mattioli, infatti, è che la guerra italo-etiopica
del 1935-36 è stata la prova generale della seconda guerra mondiale, per
l’uso sistematico del terrore e delle armi chimiche e per l’impiego su scala
industriale delle forze armate. Anche Giulia Brogini Künzi sottolinea, nel
suo volume Italien und der Abessinienkrieg 1935-36 11 il carattere assolutamente nuovo dell’impresa africana voluta da Mussolini, tanto da porsi la
domanda: Kolonialkrieg oder Totalerkrieg? Guerra coloniale oppure guerra totale? Il terzo studioso svizzero che vogliamo ricordare è Rainer Baudendistel, autore di una straordinaria ricerca fatta negli archivi della Croce
Rossa Internazionale. Con Between bombs and good intentions 12, Baudendistel ricostruisce la storia del conflitto italo-etiopico del 1935-36 rivelando che la Croce Rossa Internazionale non si schierò in difesa dell’Etiopia,
cioè del paese aggredito, ma mantenne un atteggiamento ambiguo tanto
da favorire, in qualche occasione, il regime fascista.
Anche in Germania non sono mancati, negli ultimi anni, studiosi che
hanno manifestato un vivo interesse per le nostre vicende coloniali. Stefan
Altekamp, ad esempio, con il suo Rückker nach Africa. Italienische Kolonialarchaologie in Libyen 1911-1943 13, ci offre un completo panorama delle
ricerche compiute in Libia dagli archeologi italiani a partire dal 1911, l’anno della parziale conquista della colonia mediterranea, al 1943, che segna
la fine della dominazione italiana sulla «quarta sponda». Gabriele Schneider, docente alla Freien Universität Berlin, si occupa invece, con Mussolini
in Africa 14, dell’esercizio della politica fascista nelle colonie africane, con
particolare attenzione ai fenomeni del razzismo e dell’antisemitismo.
Per ciò che concerne la Francia, ci limiteremo a segnalare il convegno,
tenuto a Caen nel 2003, dal titolo L’Afrique coloniale et post-coloniale dans
163
Angelo Del Boca
la culture, la littérature et la societé italiennes 15, e la raccolta di articoli, a cura di Marie-Hélène Caspar, scritti da Dino Buzzati nell’anno trascorso in
Etiopia (aprile 1939-aprile 1940) come corrispondente del «Corriere della
Sera». Come precisa la curatrice dell’antologia, «l’interesse risiede soprattutto nel materiale che non assomiglia a nessun altro perché evoca un periodo a lungo occultato per motivi politici: quello della colonizzazione»16.
3. Gli ultimi anni sono stati comunque, anche per il nostro paese, anni fortunati per gli studi sul colonialismo. Proseguendo nella sua lodevole
iniziativa editoriale, l’Istituto per l’Africa e l’Oriente ha pubblicato un terzo volume della collana «Fonti e studi per la storia della Libia», ossia Tripoli bel suol d’amore di Salvatore Bono17; e un quarto volume della «Serie
Italia Libia»18, in applicazione del comunicato congiunto italo-libico del
4 luglio 1998, che impegna l’ISIAO e il Libyan Studies Centre a condurre accurate ricerche nei luoghi di detenzione dei deportati libici durante il
periodo coloniale.
Di notevole interesse è anche l’iniziativa dell’Università degli Studi di
Pavia di pubblicare la collana «Quaderni del Centro Studi Popoli Extraeuropei», che intende raccogliere materiali relativi alle aree afroasiatiche, utili tanto alla ricerca quanto alla didattica. Sono stati pubblicati sinora tre
volumi: La politica indigena italiana in Libia 19 di Giambattista Biasutti;
Africa e Vicino Oriente nella stampa periodica italiana (1990-91) di Marco Mozzati20; e Le relazioni fra Arabia Saudita e Stati Uniti (1979-2004) 21
di Fabio Lucchini.
Intendiamo inoltre segnalare alcuni libri apparsi negli ultimi due anni,
di autori italiani, sia perché colmano evidenti lacune sia perchè affrontano temi con una diversa ed originale angolazione. Cominciamo con Una
guerra per l’impero, un’accurata ricerca con la quale Nicola Labanca affronta per la prima volta, in maniera sistematica, la sterminata memorialistica dei combattenti della guerra d’Etiopia22. Seguono, di notevole valenza:
Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche alle indipendenze nazionali di Giampaolo Calchi Novati e Pierluigi Valsecchi23; La Colonia Eritrea. La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912) di Isabella Rosoni24, dell’Università di Macerata; L’Europa e gli altri. Il diritto coloniale tra l’800 e il ‘900, un’opera collettiva in due volumi di complessive
1400 pagine25. Segnaliamo infine Memorie di una principessa etiope di Martha Nasibù26. Questa libro , scritto in italiano, da una nobile che ha cono164
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo rivisitate in due convegni
sciuto le umiliazioni e le privazioni di un lungo confino nell’Italia fascista,
non soltanto ha il grande pregio di introdurci in un mondo del tutto sconosciuto a noi occidentali, quello complesso dell’aristocrazia etiopica degli anni venti e trenta, in bilico fra le suggestive eredità del feudalesimo e
le forti aspirazioni alla modernità, ma ci restituisce anche, intatta e mirabile, la figura del padre dell’autrice, il degiac Nasibù Zamanuel, il quale per
sette mesi bloccò l’avanzata nell’Ogaden dell’armata del generale Graziani
e morì in esilio con i polmoni corrosi dall’iprite che aveva inalato durante
il conflitto. Nel corso del 2006 è stato anche possibile accedere ad un archivio di capitale importanza per la storia delle relazioni italo-libiche, di
cui, addirittura, non si conosceva l’esistenza. Si tratta dell’archivio di proprietà dell’avvocato libico Anwar Fekini, che comprende, fra i documenti di maggior rilevanza, le Memorie del nonno, Mohamed Fekini, uno degli oppositori tripolitani più coerenti e tenaci all’occupazione italiana della
Libia; circa cinquecento allegati (soprattutto lettere) alle Memorie, che coprono il periodo 1911-1950; e la raccolta di poesie dell’ambasciatore Ali
Noureddine Fekini, padre dell’avvocato Anwar, dal titolo Ricordi della resistenza e dell’esilio. L’insieme dei documenti (più di millecinquecento pagine) costituisce un unicum che, per taluni aspetti, ribalta la visione che noi
occidentali abbiamo del popolo libico e di quel periodo storico. Da un primo utilizzo di questo archivio, ci è stato possibile scrivere un volume dal
titolo A un passo dalla forca. Il libro, corredato da una cinquantina di fotografie inedite, apparirà nel giugno del 2007 in quattro versioni, italiana,
francese, inglese e araba27.
Il 2006 è stato anche l’anno della pubblicazione, sul quotidiano «la Repubblica», di alcuni articoli su una delle più bestiali stragi compiute in
Etiopia dalle truppe del generale Ugo Cavallero. Gli articoli, oltre a suscitare sgomento, provocavano commenti e proposte di notevole rilievo. Il
giurista Antonio Cassese, ad esempio, suggeriva di seguire l’esempio della
Germania, che ha reagito al nazismo scavando a fondo nel proprio passato
recente, facendolo conoscere, attraverso un ferratissimo dibattito fra storici
(Historikerstreit) alle più giovani generazioni, erigendo infine monumenti
e musei alla memoria. Egli suggeriva inoltre di costituire una commissione
di storici che esaminasse ciò che è accaduto in Etiopia (e nelle altre colonie
italiane, aggiungiamo noi) e preparasse «una documentazione ed un’analisi
rigorose»28. In seguito alla proposta di Antonio Cassese, chiedevamo ospitalità allo stesso giornale per avanzare un ulteriore suggerimento. Quello di
165
Angelo Del Boca
istituire una Giornata della memoria per i 500 mila africani che l’Italia crispina, giolittiana e fascista hanno sacrificato nel corso delle loro sciagurate campagne di conquista. Dell’iniziativa veniva messo al corrente anche il
ministro degli Affari Esteri Massimo D’Alema29.
Prima che si chiuda l’anno si terrà a Tripoli, per iniziativa del Libyan
Studies Centre e di alcuni storici italiani, un seminario sui campi di concentramento costruiti e gestiti dagli italiani nella regione desertica della
Sirtica, dal 1930 al 1934, con un bilancio di 40 mila morti.
4. Dopo questa lunga carrellata informativa, ho il piacere e l’onore di
aprire i lavori di questo convegno che concerne la più vile, inconsulta, sciagurata aggressione ordita dal regime fascista. Non soltanto l’Etiopia era
uno Stato sovrano, membro della Società delle Nazioni, ma con questo
Paese Mussolini aveva da poco sottoscritto un Patto ventennale di amicizia. Soltanto il Giappone di Hirohito era capace di fare altrettanto.
Sulla campagna di conquista dell’Etiopia e sull’effimero impero dell’Africa Orientale sono stati ormai scritti decine di volumi. Ma restano
ancora da approfondire molti episodi, alcuni dati statistici, alcuni aspetti
non marginali dell’avventura fascista. Ad esempio, sappiamo, con esattezza quanti quintali di iprite e di fosgene sono stati lanciati durante la guerra
dei sette mesi e nei cinque anni della controguerriglia, ma non sappiamo
quasi nulla dell’effettivo danno arrecato ai militari e ai civili etiopici. Non
disponiamo di una sola cifra attendibile, così come non siamo in grado di
stabilire, neppure lontanamente, il bilancio definitivo delle perdite etiopiche. Uno degli argomenti ancora tutto da trattare è la resistenza etiopica
alla dominazione italiana e i metodi e l’episodica della repressione fascista.
Eppure all’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito ci sono tonnellate di documenti sull’argomento, a cominciare dagli utilissimi diari di
battaglione. E all’Università di Addis Abeba sono depositate centinaia di
tesi di laurea e di dottorato sull’attività degli arbegnuoc, che coprono tutte
le regioni del vasto impero di Hailè Selassiè.
Potremmo continuare con altri suggerimenti. Ma noi siamo certi che
anche da questi tre giorni di intenso lavoro avremo modo di arricchire le
nostre conoscenze. Confidiamo, inoltre, che questo convegno possa aprire
quel dibattito sul colonialismo italiano, tante volte auspicato e sempre disatteso30. I tempi ci sembrano più che maturi. A settanta anni dagli avvenimenti non dovrebbero esserci più ostacoli, né esitazioni, né timori.
166
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo rivisitate in due convegni
Note al testo
1
Le guerre coloniali del fascismo, a cura di Angelo Del Boca, Laterza, Roma-Bari 1991, p. VI.
2
Adua. Le ragioni di una sconfitta, a cura di A. Del Boca, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 6.
3
Gilbert Meynier, Histoire intérieure du FLN, 1954-1962, Fayard, Paris 2002; Mohammed
Harbi, Gilbert Meynier, Le FLN. Documents et histoire, 1954-1962, Fayard, Paris 2004.
4
La Mémoire du Congo. Le temps colonial, a cura di Jean-Luc Vellut, Editions Snoeck, Gand
2005.
5
Ivi, p. 21.
6
Patrizia Palumbo, A Place in the Sun, University of California Press, Berkeley 2003.
7
Ruth Ben-Ghiat, Mia Fuller, Italian Colonialism, Palgrave, Macmillan, New York 2005.
8
Haile M.Larebo, The Building of an Empire. Italian Land Policy and Practice in Ethiopia,
1935-1941, Clarendon Press Oxford, New York 1994.
9
Alberto Sbacchi, Legacy of Bitterness, Ethiopia and Fascist Italy, 1935-1941, The Red Sea
Press, Lawrenceville 1997.
10
Aram Mattioli, Experimentierfeld der Gewalt. Der Abessinienkrieg und seine internationale Bedeutung 1935-1941, Orell Füssli Verlag, Zurich 2005.
11
Giulia Brogini Künzi, Italien und der Abessinienkrieg 1935-36, Schöningh, Paderbon 2006.
12
Rainer Baudendistel, Between bombs and good intentions. The International Commettee of the
Red Cross (ICRC) and the Italo-Ethiopian war, 1935-1936, Berghahn Books, Oxford 2006.
13
Stefan Altekamp, Rückker nach Afrika. Italienische Kolonialarchaologie in Libyen, 1911-1943,
Bohlau Verlag, Köln 2000.
14
Gabriele Schneider, Mussolini in Afrika. Die faschistische Rassenpolitik in den italienischen
Kolonien, 1936-1941, SH-Verlag, Köln 2000.
15
Mariella Colin, Enzo Rosario Laforgia, L’Afrique coloniale et postcoloniale dans le culture,
la littérature et la società italiennes, Presses Universitaires de Caen, 2003.
16
Marie-Hélène Caspar, L’Africa di Buzzati. Libia: 1933, Etiopia: 1940, Université Paris X,
Nanterre 1997, p. 1.
17
Salvatore Bono, Tripoli bel suo d’amore. Testimonianze sulla guerra italo-libica, ISIAO, Roma 2005.
18
Salaheddin Hasan Sury, Giampaolo Malgeri, Gli esiliati libici nel periodo coloniale, 19111916, Raccolta documentaria, ISIAO, Roma 2005.
19
Giambattista Biasutti, La politica indigena italiana in Libia. Dall’occupazione al termine del
governatorato di Italo Balbo (1911-1940), Centro Studi Popoli Extraeuropei «Cesare Bonacossa», Università degli Studi di Pavia, 2004.
20
Africa e Vicino Oriente nella stampa periodica italiana, 1990-1991, a cura di Marco Mozzati,
Centro Studi Popoli Extraeuropei «Cesare Bonacossa», Università degli Studi di Pavia, 2004.
21
Fabio Lucchini, Le relazioni fra Arabia Saudita e Stati Uniti (1979-2004), Centro Studi Popoli Extraeuropei «Cesare Bonacossa», Università degli Studi di Pavia, 2005.
22
Nicola Labanca, Una guerra per l’impero. Memorie della campagna d’Etiopia, 1935-36, Il Mulino, Bologna 2005.
23
Giampaolo Calchi Novati, Pierluigi Valsecchi, Africa: la storia ritrovata. Dalle prime for-
167
Angelo Del Boca
me politiche alle indipendenze nazionali, Carocci, Roma 2006.
24
Isabella Rosoni, La Colonia Eritrea. La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912)
Edizioni Università di Macerata, 2006
25
L’Europa e gli altri. Il diritto coloniale tra ’800 e ’900, a cura di Pietro Costa, Giuffrè, Milano 2005.
26
Martha Nasibù, Memorie di una principessa etiope, Neri Pozza, Vicenza 2006.
27
Angelo Del Boca, A un passo dalla forca, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007.
28
«la Repubblica», 23 maggio 2006.
29
Oltre che sul quotidiano «la Repubblica», il nostro appello è stato pubblicato su «Lettera ai
compagni» (n. 3, maggio-giugno 2006); «Patria indipendente» (n. 6, giugno 2006); «Nigrizia»
(nn. 7/8, luglio-agosto 2006).
30
Si veda: A. Del Boca, Il mancato dibattito sul colonialismo, in L’Africa nella coscienza degli italiani, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 111-127.
168
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo rivisitate in due convegni
Odio e disprezzo come genesi del lager libico
1. È difficile trovare, nella pur lunga storia del colonialismo italiano,
pagine più buie, più crudeli, più cariche di odio di quelle che riguardano
la genesi e la creazione dei campi di concentramento nel sud-bengasino e
nella Sirtica.
Il 20 giugno 1930, dopo che Graziani aveva inutilmente dato la caccia
ad Omar al-Mukhtàr nella zona Fayed, pur impiegando, come i suoi predecessori, forze dieci volte superiori, il maresciallo Badoglio inviava una
lunga lettera a Graziani nella quale, dopo aver espresso l’opinione che la
controguerriglia tradizionale non avrebbe mai dato alcun frutto e che era
necessario adottare nuovi metodi, anche se severissimi e catastrofici per i
libici, soggiungeva: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale, largo e ben preciso, tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi
nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la
rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata
tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire
tutta la popolazione della Cirenaica»1.
Dinanzi a quest’ordine crudele che, in effetti, avrebbe causato la morte di almeno 40 mila libici, Graziani non mostrava né dubbi né esitazioni,
e precisava a sua volta: «I capi e le popolazioni refrattarie e sorde ad ogni
voce di persuasione e di richiamo ricevevano così il trattamento che si erano meritato. Il rigore estremo, senza remore né tregua, cadeva inesorabile
su di esse»2. A partire dal giugno 1930, mentre aveva inizio la deportazione
delle popolazioni dalla Cirenaica, tra Badoglio e Graziani si stabiliva una
sorta di gara a chi si mostrava più inflessibile, più brutale, più feroce. Una
gara che aveva, a Roma, due implacabili istigatori: il ministro delle Colonie De Bono e il capo del Governo Mussolini.
Il 7 luglio Badoglio riferiva a De Bono: «Gli Auaghir sono tutti riuniti fra Giardina, Soluch e Ghemines. Ho loro parlato assai severamente ieri mattina. Domani sarà ultimato il concentramento dei Braasa, Dorsa e
Abid fra Tolmeta e Tocra. Martedì si inizierà lo spostamento degli Abeidat.
[…]. La raccolta dell’orzo sull’altipiano sarà terminata con la fine dei movimenti di concentramento, cosicché nessun indigeno dovrà più trovarsi
sull’altipiano, e chiunque sarà incontrato sarà passato per le armi come ribelle»3. Nella stessa giornata del 7 luglio, Badoglio emanava il foglio d’ordine n. 151 riservato ai comandanti militari, nel quale precisava, con lo
169
Angelo Del Boca
stesso linguaggio brutale, che l’ultima campagna contro Omar al-Mukhtàr
andava condotta con questi nuovi metodi: «Bisogna assolutamente bandire il sistema arabo della sparatoria da lontano. Perciò limitare allo stretto indispensabile l’uso del fuoco, e cercare la soluzione radicale nell’attacco all’arma bianca, e in un inseguimento che non deve avere limiti, inseguimento che deve essere feroce, inesorabile. Deve essere una vera caccia
al ribelle nella quale sarà redditizio ogni atto della più sfrenata audacia»4.
Graziani, dal canto suo, annunciava dopo un supposto «tradimento» degli
Abeidat: «Il tribunale speciale, portatosi, subito dopo il fatto, ad Ain Gazala, istruiva il processo nell’interno stesso del campo ed i principali capi responsabili scontarono il fio della loro colpa col capestro»5.
Dove Badoglio e Graziani attingessero tanto odio e tanta determinazione a stroncare la ribellione in Cirenaica non è facile spiegare. Nella riconquista del Fezzan si erano mostrati meno inflessibili, meno crudeli, al punto da consentire a migliaia di mugiahidin di sconfinare in Algeria e da risparmiare la vita ai fratelli Madhi e Ahmed es-Sunni che pure avevano dato filo da torcere per vent’anni. Probabilmente non perdonavano ad Omar
al-Mukhtàr di aver rotto la tregua del 29 giugno 1929 a Sidi Rahuma, che
gli italiani, in malafede, avevano considerato come una resa senza condizioni, il che li portava a considerare il vecchio Omar non soltanto un ribelle ma anche un traditore.
La nostra attenzione e la nostra pietà si sono rivolte alle vittime della macchina infernale dell’universo concentrazionario, trascurando, anche
per carenza di documentazione, quelle dei trasferimenti forzati. In realtà, anche per queste operazioni, che coinvolsero almeno 100 mila persone, non fu risparmiata la ferocia, come risulta da una relazione del commissario regionale di Bengasi, Egidi. La cabila in questione era quella degli Auaghir, di stanza fra Tocra e Bersis, che avrebbe dovuto raggiungere
Ghemines con una marcia di duecento chilometri. Sin dai primi giorni, i
più anziani e i più deboli tendevano a rallentare il passo e a staccarsi dalla
colonna. Ma gli ordini impartiti agli ascari eritrei del II battaglione erano
severissimi. Si legge nella relazione: «Non furono ammessi ritardi durante
le tappe. Chi indugiava, veniva immediatamente passato per le armi. Un
provvedimento così draconiano fu preso per necessità di cose, restie come
erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro beni. Anche il bestiame che, per le condizioni fisiche, non era in grado di proseguire la marcia, veniva immediatamente abbattuto dai gregari a cavallo del nucleo irre170
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo rivisitate in due convegni
golare di polizia, che avevano il compito di proteggerlo e di custodirlo»6.
Ancora più lungo e tragico il viaggio dei 20 mila Abeidat e Marmarici che, in pieno inverno, furono costretti a compiere una marcia di 1.100
chilometri dalla Marmarica alla Sirtica. Accusati di complottare con Omar
al-Mukhtàr, per punizione Graziani ordinava il loro trasferimento a Marsa
Brega e sceglieva per la marcia, che sarebbe durata due mesi, la stagione più
inclemente. «Questo energico provvedimento – scriveva, risentito, Imerio
da Castellana – all’estero fece versare torrenti d’inchiostro e fu condannato
come barbaro»7. Nessuno, che si sappia, ha mai tenuto la macabra contabilità dei morti lungo l’infinito cammino da Tobruk a Marsa Brega.
2. L’argomento dei campi di concentramento libici non è stato a sufficienza indagato e presenta ancora oggi, a settantacinque anni dalla loro creazione, vistose lacune, che confidiamo vengano colmate nel corso di
questo convegno. Se sappiamo, ad esempio, da alcune tremende testimonianze raccolte da Eric Salerno, come vivevano e morivano gli internati nei
lager, non conosciamo invece il numero esatto dei reclusi e dei decessi (e la
loro tipologia). Così come ignoriamo totalmente il numero dei libici deceduti durante le marce di trasferimento, in gran parte abbattuti a fucilate e
abbandonati sulle piste.
Manca anche una precisa ricostruzione del campo di concentramento, poiché le mediocri fotografie di cui disponiamo sono avare di dettagli,
quando non sono soltanto immagini truccate per la propaganda. Così come non sappiamo, con precisione, a chi fosse affidata la custodia dei campi, e per quali motivi, ogni giorno, venissero eseguite tante impiccagioni
e fucilazioni, di cui nessuno, per evidenti motivi, ha tenuto la contabilità.
Sarebbe anche interessante reperire le relazioni dei pochi medici che hanno operato nei lager, e conoscere l’atteggiamento dei funzionari coloniali
dinanzi alla furia distruttrice di Graziani. All’odierno stato delle ricerche,
siamo al corrente che soltanto il commissario Giuseppe Daodiace cercò di
opporsi agli ordini di Graziani. «Che io non li approvassi – scriveva al sottosegretario agli Esteri Brusasca il 7 gennaio 1951 – risulta dalle tante e ripetute mie proteste, scritte ed orali, per il fatto che non si facevano mai prigionieri in occasione di scontri fra le nostre truppe e i ribelli e si fucilavano anche donne e bambini»8.
Un altro argomento che, a mio avviso, merita di essere approfondito riguarda la chiusura dei campi nel 1933 e la destinazione dei sopravvissuti.
171
Angelo Del Boca
Ritornarono alle loro terre sul Gebel o rimasero nel sud-bengasino o nella
Sirtica? Persero «l’abitudine al nomadismo ed acquistarono i gusti e le esigenze delle popolazioni sedentarie» come auspicava Graziani?9, o faticarono a reinserirsi in una società che per tre anni, mediamente, li aveva visti
colpiti da una crudele segregazione?
Per finire, mi permetto di mettere al corrente i partecipanti di questo
convegno su di una lodevole iniziativa presa da Marco Boggero, del Department of Political Science della Yale University. Avvicinandosi due date
molto significative per la celebrazione della memoria di Omar al-Mukhtàr
– i 75 anni dal giorno dell’impiccagione del patriota e i 150 dalla sua nascita – Marco Boggero sta lavorando ad un volume collettivo che si propone di fare il punto sulla fortuna postuma del grande guerrigliero, in tutti
i campi, da quello politico a quello religioso, a quello letterario. Chi è interessato a questo progetto, può chiedere l’indirizzo di Boggero al collega
Nicola Labanca.
3. Prodotto tipico dell’odio e del disprezzo per un avversario che si vuole annientare, il campo di concentramento ideato e costruito dagli italiani
in Libia è, con la forca, lo strumento repressivo più crudele e malvagio che
la mente umana abbia potuto escogitare. Oggi ne parliamo per delinearne
tutti i macabri aspetti, ma anche nella speranza che simili strumenti siano
banditi per sempre.
Pur rendendomi conto che i CPT, i Centri di Permanenza Temporanea, istituiti in Libia negli ultimi anni, nell’ambito della lotta all’immigrazione clandestina, con il consenso e il finanziamento delle autorità italiane, non si possono configurare come autentici campi di concentramento,
essi rientrano tuttavia in quel novero di strumenti odiosi di repressione che
credevamo estinti.
Per una succinta descrizione dei CPT, riferisco alcuni giudizi di persone
che di recente hanno potuto visitare questi campi. Ha scritto il giornalista
Jas Gavronski il 22 maggio 2005 dopo una visita al campo di Eli Fellah, alla periferia di Tripoli: «Eli Fellah straripa di inumanità, di brutture da terzo
mondo. Come straripano, dalle inferriate strette che danno sul cortile, i resti di cibo buttati verso gli “stranieri” assieme alle coperte unte, agli stracci,
a immondizia varia. È il modo in cui i rinchiusi ci dicono come sono trattati, mentre noi passiamo vicini ai loro stanzoni a cercare la dignità umana richiesta dall’Occidente e scopriamo che qui non sanno che cosa sia»10.
172
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo rivisitate in due convegni
Qualche mese dopo il prefetto Mario Mori, direttore del Sisde, visitava
il CPT di Sebha e più tardi, durante un’audizione del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, riferiva testualmente: «Il centro prevede di ospitare cento persone ma ce ne sono 650, una ammassata sull’altra,
senza il rispetto di alcuna norma igienica e in condizioni terribili»11. «Sono peggiori delle carceri – dichiarava a sua volta il senatore dei DS Nuccio Novene – Un paese civile non dovrebbe permettere che si arrivi a simili forme di degrado»12.
Poiché la responsabilità dell’ideazione e della costruzione di questi campi va certamente divisa tra i governi di Roma e di Tripoli, pur riconoscendo
che le finalità di questa operazione è quella di cercare di risolvere un problema assai grave e della massima urgenza, siamo tuttavia nettamente contrari a forme repressive che purtroppo ricordano l’oggetto del nostro convegno. E vorremmo che da questo convegno, che ospita storici di chiara
fama, uscisse una precisa, inequivocabile condanna dei CPT e un invito
a ricercare strumenti più umani per risolvere i problemi della convivenza.
Aggiungere sofferenza a sofferenza non fa che acuire il contrasto fra il sud
e il nord del pianeta, con tutte le conseguenze che sappiamo.
Note al testo
1
ACS, Carte Graziani, b. 1, f. 2, sottof. 2.
2
Rodolfo Graziani, Cirenaica pacificata, Mondatori, Milano 1932, p. 104.
3
ASMAI, Libia, pos. 150/21, f. 90. Tel 146, «riservatissimo personale».
4
Ivi, pos. 150/22, f. 98.
5
Rodolfo Graziani, Cirenaica pacificata cit., pag. 165.
6
ASMAI, vol. V, Inventari e supplementi, pacco n. 5. Commissariato regionale di Bengasi, Relazione sugli accampamenti, 28 luglio 1932, p. 4.
7
Imerio da Castellanza, Orizzonti d’Oltremare, Berruti, Torino 1940, p. 134.
8
Archivio Brusasca, b. 44, f. 236.
9
ASMAI, Libia, pos. 150/22, f. 98. Graziani a De Bono, 2 maggio 1931. Oggetto: Situazione
delle popolazioni nomadi trasferite, p. 9.
10
«La Stampa», 29 maggio 2005.
11
«la Repubblica», 2 marzo 2006.
12
Ivi, 12 maggio 2005.
173
Angelo Del Boca
Proposta di legge d’iniziativa dei deputati
Istituzione del «Giorno della Memoria» in ricordo delle vittime africane
durante l’occupazione coloniale italiana
La presente proposta di legge intende raccogliere l’appello rivolto dallo storico Angelo Del Boca, il maggiore studioso italiano sulle imprese coloniali in Africa, di istituire il «Giorno della Memoria» in ricordo degli oltre 500 mila africani morti nel corso dell’occupazione italiana delle colonie. Gli studi dello storico Del Boca, hanno contribuito in questi anni a
smentire l’idea degli «italiani brava gente», colonizzatori buoni, andati nei
paesi africani per costruire ospedali, scuole e infrastrutture ed aiutare così le popolazioni locali.
In realtà, soprattutto nel corso del periodo fascista, le atrocità commesse dagli italiani, sia militari che civili, sono state numerose ed ora fortunatamente ampiamente documentate. Risulta dunque difficile continuare a
sostenere le tesi recentemente esposte dall’On. Fini, che «Non tutte le pagine del colonialismo italiano sono negative. L’Europa ritengo sia stata un
elemento di grande civilizzazione e se guardiamo a come sono ridotte oggi
Etiopia, Somalia e Libia e a come stavano quando c’era l’Italia credo che ci
sarà una rivalutazione del nostro ruolo in quei paesi».
In realtà il comportamento del governo italiano, sia durante i governi
Giolitti e Crispi, ma soprattutto durante il periodo fascista, non si differenziò molto da quello delle altre potenze coloniali.
Studi approfonditi hanno documentato, ad esempio, il largo uso di
aggressivi chimici contro le popolazioni locali. Utilizzati sporadicamente in Libia, i gas tossici vennero impiegati in maniera massiccia soprattutto in Etiopia negli anni 1935-36. «In tutto, durante il conflitto italo-etiopico del 1935-36, furono sganciate su obiettivi militari e civili 1.597 bombe a gas – scrive Del Boca - . In prevalenza del tipo C500.T. per un totale di 317 tonnellate. Altre 524 bombe a gas furono lanciate, tra il 1936 e il
1939, durante le operazioni contro i patrioti etiopici. Se si aggiunge infine
che durante la battaglia dell’Endertà furono sparati dalle batterie di cannoni di Badoglio 1.367 proiettili caricati ad arsine, non si è lontani dal ritenere che in Etiopia siano stati impiegati non meno di 500 tonnellate di
aggressivi chimici». Ma l’uso dei gas chimici non fu l’unica atrocità del governo fascista, ampia documentazione è pervenuta, infatti, circa l’istituzio174
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo rivisitate in due convegni
ne di veri e propri campi di sterminio dove il regime di Mussolini deportò migliaia di civili locali. Il generale Graziani ne predispose nella Sirtica,
dove fece trasferire più di 100 mila civili, ed in Somalia, a Danane a sud di
Mogadiscio. Un terzo campo venne stabilito in Eritrea, nell’isola di Nocra,
dove le condizioni di vita erano particolarmente intollerabili per i detenuti, costretti ai lavori forzati nelle cave di pietra, in cui a volte le temperature raggiungevano anche i 50 gradi.
Non meno cruenta la politica repressiva di cui l’intera storia delle conquiste coloniali è costellata. L’Etiopia venne particolarmente colpita dalla
violenza dei militari e dei civili italiani, ma anche Libia, Eritrea e Somalia
non furono risparmiate. Recentemente il quotidiano «la Repubblica» ha
pubblicato due intere pagine a cura del giornalista Paolo Rumiz riportando la ricerca svolta dallo storico Matteo Dominioni circa il ritrovamento di
un’immensa caverna, nei dintorni di Ankober, dove trovarono rifugio migliaia di uomini, donne e bambini per sfuggire ai rastrellamenti degli italiani. Furono migliaia gli etiopici uccisi in quella occasione, i cui resti sono
stati recentemente riportati alla luce.
Non meno cruenta la strage di Addis Abeba del 19-21 febbraio 1937,
che per questo abbiamo individuato come giornata simbolo in memoria
delle migliaia di civili etiopici, eritrei, libici e somali morti nel corso delle
conquiste coloniali. Durante una cerimonia preparata nella capitale etiopica venne organizzato un attentato contro il viceré Graziani, che rimase ferito con più di 250 schegge nel corpo: il bilancio fu di 7 morti e cinquanta feriti. Immediatamente scatta la rappresaglia degli italiani: i militari aprono il fuoco colpendo indiscriminatamente i presenti, di cui centinaia rimangono a terra uccisi, mentre si scatena la furia dei civili italiani
che danno fuoco alle case uccidendo in maniera indiscriminata da 3 a 20
mila persone, a seconda delle stime. Nello stesso tempo migliaia di civili
furono rastrellati dai carabinieri italiani ed infine ammassati nei campi di
concentramento. Qualche mese dopo, la strage dei monaci di Debrà Libanòs, il più importante centro conventuale dell’intera Etiopia, dove vivono,
negli oltre tremila tucul, monaci e laici, accusati di complicità nell’attentato a Graziani del 19 febbraio. Con l’assenso dello stesso Mussolini, scatta
la rappresaglia con oltre duemila morti.
Questa è dunque la storia dell’occupazione coloniale italiana in Africa,
questa è la sofferenza cui gli «italiani brava gente» hanno sottoposte le popolazioni occupate.
175
Angelo Del Boca
Su questo importante pezzo della nostra storia ancora non è stata avviata una efficace riflessione collettiva. Certamente gli studi condotti, tra mille difficoltà, in questi anni hanno contribuito ad illuminare con una luce
diversa la presenza degli italiani in Africa, ma ancora molto cammino deve
essere compiuto sul piano della ricerca, della documentazione e della diffusione di una coscienza collettiva diversa.
La memoria e la verità sulla politica italiana in Africa nel periodo coloniale stenta a farsi strada nel nostro paese: il famoso film Il Leone del deserto che racconta la storia del leader della resistenza libica Omar al-Mukhtàr,
impiccato da Graziani, per anni è stato censurato nel nostro paese. Mentre l’inchiesta televisiva realizzata da Ken Kirby dal titolo Fascist Legacy che
la Rai ha acquistato dalla BBC, ormai da tempo, non è mai andata in onda. Una reticenza questa nei confronti di una pagina, certo non lusinghiera, della nostra storia che non può essere rimossa e negata dalla coscienza
collettiva. Per questo abbiamo ritenuto di presentare questa proposta: per
contribuire ad avviare un processo di riflessione collettiva sui crimini perpetrati dal regime fascista ai danni delle popolazioni africane. La giornata
della memoria, istituita proprio nel giorno della strage del 19 febbraio ad
Addis Abeba seguita all’attentato a Graziani, (art. 1) vuole essere l’occasione perché si avvii un processo di studio e di riflessione che coinvolga soprattutto le giovani generazioni nelle scuole (art. 3). Accanto a questo riteniamo importante che il Governo si faccia direttamente carico di avviare un percorso di approfondimento, studio, ricerca e documentazione sulla
presenza italiana in Africa, coinvolgendo i maggiori studiosi, ricercatori e
storici sul tema da mettere a disposizione del paese (art. 2). Di questo sentiamo l’urgenza, perché lo studio di una pagina oscura della nostra storia
possa contribuire a far sì che simili eventi non possano più accadere.
Art. 1
(Istituzione del Giorno della Memoria in favore delle vittime africane durante il periodo dell’occupazione coloniale italiana)
1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 19 febbraio, data dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto dall’esercito italiano, «Giorno della Memoria», al fine di ricordare gli oltre 500 mila africani
uccisi durante il periodo di occupazione coloniale in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia.
176
La Libia dei lager e l’Etiopia aggredita dal fascismo rivisitate in due convegni
2. La giornata di cui al comma 1 è istituita al fine di ricordare gli eccidi, le campagne militari, le leggi razziali, l’impiego di aggressivi chimici, la
deportazione e la prigionia e in generale la politica di occupazione cui i governi Crispi, Giolitti e Mussolini hanno sottoposto le popolazioni di paesi
africani dominati dall’Italia.
Art. 2
(Istituzione di una commissione di studio)
1. Il Presidente del Consiglio con proprio decreto istituisce una Commissione di storici ed esperti con il compito di esaminare le vicende che
hanno caratterizzato il periodo dell’occupazione italiana dei territori di
Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia.
Art. 3
(Promozione della giornata della Memoria)
1. In occasione del «Giorno della Memoria», di cui all’art. 1, sono organizzate cerimonie, iniziative, incontri e momenti di riflessione, in modo
particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, sul periodo di occupazione
coloniale militare italiano nei paesi di Etiopia, Eritrea, Libia e Somalia in
ricordo dei 500 mila africani vittime del regime di occupazione, in modo
da conservare la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia del
nostro paese, affinché simili eventi non possano più accadere.
Art. 4
(Entrata in vigore)
1. La presente proposta di legge entra in vigore il giorno successivo della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
177
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
di Arturo Varvelli
Il decreto di confisca dei beni della comunità italiana in Libia
A inizio di luglio del 1970 il governo libico raccoglieva le ripetute richieste italiane di un incontro chiarificatore1. Il governo italiano sin da poche settimane dall’arrivo di Gheddafi al potere nel settembre del 1969 aveva sollecitato il nuovo governo libico all’apertura di un colloquio. L’Italia
aveva essenzialmente due interessi da salvaguardare: la presenza della comunità e le relazioni commerciali e petrolifere. L’Italia nel 1956 aveva ottenuto che «il governo libico [garantisse] ai cittadini italiani proprietari di
beni in Libia, nel rispetto della legge libica, il libero e diretto esercizio dei
loro diritti»2. Ciò aveva permesso, nonostante il crescente nazionalismo nei
paesi arabi e alcuni periodi di tensione verso gli occidentali, la permanenza della comunità italiana in Libia, anche se il numero di italiani era sceso
dalle 45 mila persone degli anni cinquanta a meno di 20 mila del 1969.
Nell’ambito della politica commerciale ed energetica italiana, la Libia
rivestiva un ruolo sempre più incisivo, soprattutto dopo la crisi del 1967,
che aveva segnato una svolta sostanziale nei problemi mediorientali e mediterranei. L’effetto più immediato di questa crisi era stata la chiusura del
canale di Suez (che si sarebbe protratta fino al 1975), con conseguenze
molto pesanti per l’Italia, sia per i commerci con l’Oriente che per i rifornimenti petroliferi (ad esempio la perdita delle concessioni petrolifere dell’Eni nel Sinai). La Libia era venuta così a rappresentare la fonte d’approvvigionamento alternativa alla direttrice mediorientale sbarrata. L’Eni, che
importava petrolio e gas dalla Libia attraverso altre compagnie petrolifere,
aveva ottenuto diverse concessioni di grande rilevanza e sperava di mettere
presto in produzione i propri giacimenti.
Nel giro di pochissimi giorni dall’apertura libica, due avvenimenti
avrebbero tuttavia prodotto forti preoccupazioni circa la situazione dei be179
Arturo Varvelli
ni e della collettività italiana in Libia e gettato un’ombra sulla reale possibilità di dialogo tra Italia e Libia: la nazionalizzazione dell’Asseil, la compagnia di distribuzione di prodotti petroliferi facente parte del gruppo Eni, e
il discorso di Gheddafi a Misurata, interamente centrato sull’Italia.
Se la prima misura non aveva un chiaro carattere anti-italiano, poiché
coinvolgeva anche società di altre nazionalità, il discorso di Gheddafi lasciava pochi dubbi a considerazioni circa la volontà di non colpire la comunità italiana.
Il 4 luglio 1970 il Consiglio del Comando della Rivoluzione disponeva
con la legge n. 69/70 la nazionalizzazione di tutte le società di distribuzione dei prodotti petroliferi operanti in Libia: l’Asseil, la Petrolibia, che operava in Libia esclusivamente come società finanziaria della prima, e le società dei gruppi Shell e Esso3. L’Asseil era una società posseduta al 50 per
cento dall’Agip e al 50 per cento da azionisti privati libici, con un capitale di quasi 700 milioni di lire. Il provvedimento penalizzava sicuramente
una società italiana che aveva buona parte del controllo della distribuzione del petrolio in Libia, ma garantendo l’indennizzo ai soci, il danno veniva notevolmente ridotto. Quanto alla quarantina di dipendenti italiani
che vi lavoravano la direzione dell’Eni prevedeva un facile reimpiego in Italia4. La nazionalizzazione si inseriva in tutta una serie di decisioni che erano state prese dal governo fin dal gennaio precedente, quando un discorso
di Gheddafi alle compagnie petrolifere straniere aveva dato il via al negoziato sul prezzo del greggio tra le compagnie stesse e un comitato libico appositamente formato per la questione e guidato dall’ex primo ministro El
Maghrabi e dal vice premier Jallud. In maggio il governo libico aveva costretto la compagnia indipendente statunitense Occidental a ridurre notevolmente la produzione. La perdurante chiusura del canale di Suez, la domanda di petrolio in continua crescita e la momentanea interruzione nella
TAPline che attraversava la Siria, ponevano il governo libico in una posizione di forza che nei mesi e negli anni seguenti si sarebbe concretizzata in
un rialzo notevole delle royalties sul greggio per tutte le compagnie e nella
libicizzazione, e poi nazionalizzazione, per molte di esse5.
Cinque giorni dopo la promulgazione della legge sulla nazionalizzazione delle società di distribuzione di petrolio, in occasione di una manifestazione a Misurata, il 9 luglio, anniversario dell’occupazione della città da
parte delle truppe italiane nel 1912, Gheddafi lanciava forti invettive contro la comunità italiana6. Dopo una breve premessa che dava atto dell’at180
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
teggiamento amichevole verso gli arabi del governo attuale e che ribadivano il favore con il quale sarebbe stata accolta una visita del ministro degli
Esteri italiano, Gheddafi affermava che la presenza di circa 15 mila coloni
italiani in Libia derivava dal «passato colonialista che non poteva essere dimenticato». Per il Colonnello, gli italiani che risiedevano in Libia dovevano «riesaminare le ragioni della loro permanenza» e, se avessero nutrito ancora propositi e idee colonialiste, il libici avrebbero avuto il diritto e il potere di «chiedere una resa dei conti». Per Gheddafi non era accettabile «che
le terre libiche siano di proprietà di stranieri». Accennava poi alla possibilità che il trattamento degli italiani in Libia potesse dipendere da quello riservato agli arabi in Italia: se essi avessero avuto le loro scuole, le loro moschee e i loro negozi in Italia, allora la Libia avrebbe concesso gli stessi diritti agli italiani7.
Il discorso fece scattare un vero e proprio allarme alla Farnesina. L’Ambasciatore Giovanni Lodovico Borromeo fu incaricato di mettersi al più
presto in contatto col ministro degli Esteri Buessir per avere chiarificazioni in merito alle dure parole rivolte nei confronti degli italiani. Il 12 luglio Borromeo veniva ricevuto dal sottosegretario agli Esteri Mansour El
Kikhia e dal direttore generale degli Affari Politici Abu Kreis. La conversazione tra l’ambasciatore italiano e El Kikhia ebbe toni genericamente
sdrammatizzanti. Il sottosegretario chiariva che, avendo parlato in occasione dell’anniversario dell’occupazione cittadina, il presidente Gheddafi
si era rivolto al passato e non al presente, e che tale distinzione era stata da
lui stesso fatta: non era quindi il caso di dare eccessiva rilevanza alle parole
e al loro tono che erano dovuti alla circostanza e all’ambiente8.
Borromeo faceva però osservare che l’attacco del Colonnello riguardava anche il presente e contemporaneamente cercava di smontare i singoli addebiti all’Italia. Alla comunità italiana erano state rivolte accuse false e
ingiustificate. Circa quella sorta di reciprocità sul trattamento dei cittadini
reclamata da Gheddafi, Borromeo dichiarava che l’Italia sarebbe stata lieta di facilitare la costruzione sia di moschee, proprio un terreno era già stato regalato per tale scopo, sia di scuole, sia di centri culturali libici. Quanto ai permessi di lavoro per i libici, veniva ricordato che in Italia venivano
concessi senza difficoltà.
Borromeo con tono fermo ribadiva la disponibilità all’apertura di trattative su ogni questione per cui la Libia non si riteneva soddisfatta. Il duro discorso di Gheddafi, non doveva precludere la possibilità di lasciare li181
Arturo Varvelli
bera la strada del negoziato e la ricerca di una intesa politica tra i due paesi. Tuttavia un handicap pesante era rappresentato dall’impossibilità per il
ministro degli Esteri Aldo Moro, occupato nella prolungata crisi di governo9, di accelerare i tempi per una sua visita in Libia. Borromeo era costretto, nelle conversazioni con Kikhia, a prendere tempo e ad annunciare che
la visita del ministro non poteva ancora attuarsi data la crisi governativa,
ma che da parte italiana si teneva ad essa fortemente10. Le indicazioni ricevute in merito il giorno precedente dal segretario generale della Farnesina
Roberto Gaja erano state chiare:
Poiché nostra crisi ministeriale è in corso, non mi pare possibile parlare in termini concreti, nel colloquio che avrai domani con codesto Ministro Affari esteri, di visita dell’On.le Ministro a Tripoli; e mi sembra facile ad eventuali accenni libici far rilevare che
ci riserviamo di riprendere contatto su tale tema appena possibile11.
Dal rapporto inviato dall’ambasciatore Borromeo risultava che il governo libico tenesse dopo il discorso di Gheddafi, un tono alquanto conciliante e che il sottosegretario El Kikhia volesse decisamente minimizzare
le pubbliche dichiarazioni del proprio leader. Ma alla Farnesina non si era
convinti che a queste precisazioni potesse realmente seguire una correzione
della politica nei confronti dell’Italia. Si era scettici riguardo ad un sincero
interesse dei libici ad aprire colloqui sui rapporti tra i due paesi12.
Pochi giorni dopo, convocato da Gheddafi per un breve incontro, Borromeo trovava parziale conferma alle parole di Kikhia riguardo alla disponibilità libica ad un incontro. Venivano ribaditi i concetti di fondo espressi
nel discorso di Misurata contro i «residui del fascismo» in Libia e contro la
comunità italiana che veniva percepita come un corpo estraneo e non gradito dal governo libico, ma non erano stati fatti balenare immediati provvedimenti contro la comunità13.
L’ambasciatore Borromeo si rendeva conto che per risolvere la situazione vi era la necessità di dare il via al più presto a colloqui diretti con le autorità libiche e proponeva al ministro Moro di «cominciare subito contatti tecnici mediante una delegazione di funzionari di livello medio». Questa
soluzione trovava concorde la direzione generale dell’Emigrazione e degli
Affari Sociali, che vedeva utile avviare i preliminari per una soluzione delle
questioni di carattere tecnico (economici, finanziari, di assistenza tecnica).
La direzione valutava che il problema del trattamento riservato agli italiani,
182
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
se preso isolatamente, «non avrebbe offerto all’Italia alcun margine di manovra e andava se mai affrontato in un contesto globale dei rapporti italiani con la Libia» dove si sarebbero potute fare valere ragioni di convenienza
al mantenimento di buone relazioni tra i due paesi14.
Anche Aldo Moro considerava opportuno seguire questa tattica, chiedendo la mediazione dell’Egitto, come era stato fatto sin dal dicembre precedente:
Io sono d’accordo per una trattativa a medio livello, che serva almeno per capire meglio. D’altra parte converrà far avvertire gli egiziani di questi sviluppi non certo positivi15.
Tuttavia, la crisi di governo, che si sarebbe risolta soltanto i primi giorni di agosto con la formazione del governo presieduto da Colombo che
avrebbe confermato agli Esteri Aldo Moro, non solo finì con il dilazionare la visita a Tripoli, ma implicò anche la lentezza con cui venne organizzata la missione tecnica che si era stabilito dovesse fare da apripista e che sarebbe servita a valutare i veri proponimenti dei libici nei riguardi della comunità italiana.
Dopo il discorso del Colonnello Gheddafi l’inquietudine e l’apprensione all’interno della comunità italiana erano, a ragione, notevolmente accresciute. Il numero di richieste di rimpatrio si erano moltiplicate fino a
raggiungere circa 200 ogni settimana. Aderendo a richieste che gli venivano di continuo rivolte, Borromeo aveva ricevuto in quei giorni, un gruppo di una ventina di connazionali esponenti delle varie categorie della collettività italiana. L’ambasciatore non nascondeva la serietà della situazione
dopo il discorso di Gheddafi e il successivo incontro con lui. Insisteva però sul concetto di serietà piuttosto che di gravità che non gli sembrava fosse «il caso di applicare alla situazione stessa per ora», rivelando in realtà la
completa impreparazione a prevedere il decreto di confisca che sarebbe stato preso di lì a pochi giorni16. L’ambasciatore cercava di riportare le circostanze in quella che gli appariva «la giusta dimensione», e di sdrammatizzare la situazione:
Ho espresso a tutti questo pensiero: a) coloro che sono nel dubbio tra rimanere e rimpatriare e non hanno vere ragioni per rimanere è opportuno che partano; b) coloro invece, e sono i più, che hanno qui interessi, famiglia, commercio, proprietà o professione è opportuno che rimangano17.
183
Arturo Varvelli
Non mancava di precisare che il rimpatrio degli italiani dalla Libia ormai andava considerato come un «fatto storico» inevitabile, ma esso sarebbe dovuto avvenire «come ordinato e dignitoso ripiegamento e non come
esercito in rotta»18. Inoltre, a mitigare le fondate apprensioni della comunità, l’ambasciatore assicurava l’interessamento del governo italiano. Del resto, ripeteva, alla richiesta formulata nel suo colloquio con Gheddafi che
fossero rimossi i divieti di vendita dei beni italiani e di trasferimento del
denaro, era stato risposto che la questione sarebbe stata esaminata. Restava
comunque una forte preoccupazione che Borromeo manifestava nell’insistenza con la Farnesina per l’immediata apertura di un dialogo coi libici:
Mi permetto comunque di insistere sulla necessità di provvedere all’invio delle delegazioni tecniche perché ciò infonderebbe maggior calma nei connazionali e potrei dimostrare a Gheddafi stesso la nostra seria intenzione di preparare l’incontro politico a
governo formato19.
Il messaggio di Borromeo era datato 17 luglio 1970. Quattro giorni
dopo Gheddafi giocava d’anticipo sull’azione diplomatica dell’Italia e faceva approvare dal governo libico il decreto relativo alle proprietà italiane in
Libia. Nell’articolo 1 veniva stabilito il ritorno al popolo libico di tutte le
proprietà immobiliari degli italiani, e cioè gli immobili e i terreni di qualsiasi tipo, agricoli, non agricoli e desertici, senza alcun indennizzo «date le
perdite che questo popolo ha avuto durante il colonialismo». Le proprietà venivano confiscate, mezzi da trasporto, animali e tutti gli strumenti di
lavoro compresi. Il provvedimento veniva giustificato con la giusta aspirazione del popolo libico «a riavere le proprietà prese ai propri padri ed avi
durante il colonialismo italiano che ha portato la morte in questo paese e
profanato le cose sacre, impossessandosi delle proprietà del popolo e sottomettendone le persone»20. Gheddafi faceva seguire il decreto da un proprio commento in cui parlava dell’epoca nera del colonialismo, ma al cui
ultimo paragrafo era detto:
Tranquillizzo la collettività italiana che è venuta con intenzioni di colonizzare che oggi
noi siamo superiori ed assicuriamo che le loro vite non saranno toccate, i luoghi santi
non saranno toccati, e che questo grande popolo fa riprendere il suo diritto e rispetterà coloro che sono ora nelle sue mani non armati21.
Si apriva così la pagina più nera per la comunità italiana in Libia: di fat184
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
to l’espropriazione integrale dei propri beni l’avrebbe costretta nei mesi seguenti ad un precipitoso rientro in Italia. Era l’inizio di una crisi nei rapporti tra Italia e Libia che sarebbe stata ricomposta, solo parzialmente, l’anno successivo con la visita di Moro a Tripoli.
La reazione diplomatica dell’Italia
Una decisione così radicale da parte del governo libico creò in quello
italiano grande disorientamento poiché l’adozione delle misure avveniva
proprio nel momento in cui si era delineata la concreta possibilità di fissare le modalità di un incontro politico ad alto livello destinato a stabilire un
dialogo conveniente per entrambi i paesi.
La Farnesina e il ministro Moro erano assolutamente consapevoli della situazione. I provvedimenti di nazionalizzazione che erano diretti solo
contro la comunità italiana, con una «motivazione polemica e anti-italiana»22, erano in specifico contrasto non soltanto con le norme generali di
diritto internazionale, ma anche con le disposizioni della Risoluzione 388
delle Nazioni Unite del 1950 sulla Libia e con il Trattato italo-libico firmato a Roma il 2 ottobre 1956. Quest’ultimo stabiliva che «nessuna contestazione potrà essere avanzata nei confronti delle proprietà dei cittadini italiani in Libia, acquistati anteriormente alla costituzione dello Stato Libico».
Il decreto emanato da Gheddafi colpiva 273 proprietari di aziende agricole e 720 proprietari di beni immobili o aree fabbricabili. L’estensione
globale delle aziende agricole nazionalizzate veniva valutata intorno ai ventimila ettari, mentre una prima valutazione complessiva di tutte le proprietà era indicata tra i 50 e 60 miliardi di lire italiane23. La sorpresa per una
così aperta manifestazione di ostilità appare evidente dalle convinzioni che
Moro esprimeva il giorno dopo il provvedimento:
I provvedimenti giungono in un momento in cui da parte nostra ci si predisponeva a
dare seguito al più adeguato livello (gradito ai libici) alla presa di contatto politico conseguita grazie all’appoggio datoci dalla RAU. […] Nei riguardi particolarmente della RAU noi abbiamo molto apprezzato l’azione svolta, soprattutto dal Presidente Nasser, a favore dei rapporti italo-libici. L’ultima comunicazione fattaci pervenire dal Presidente Nasser, pur lasciando intravedere difficoltà, ci pareva escludere questa azione
improvvisa di Gheddafi24.
Per contrastare il provvedimento era necessaria ogni azione possibile,
185
Arturo Varvelli
anche cercando l’appoggio di altri paesi arabi amici. Il ministro a pochissime ore dal decreto riponeva ancora speranze nella collaborazione dell’Egitto. Inviava quindi indicazioni precise all’Ambasciata italiana al Cairo affinché ancora una volta facesse presente al governo egiziano la particolare gravità dell’azione libica, tale da riflettersi negativamente - ed era questo che
andava ricordato al Cairo - sui rapporti col mondo arabo e sulla posizione amichevole che l’Italia desiderava mantenere o addirittura migliorare.
Richiamandosi ai passati interventi, ed in particolare all’interessamento di
Nasser, Moro si augurava che un ulteriore intervento egiziano valesse a fare rientrare le decisioni annunciate da Gheddafi e a dare alla questione relativa alla sistemazione degli antichi interessi italiani in Libia un corso più
conforme all’atmosfera che avrebbe dovuto caratterizzare i rapporti tra due
paesi amici25. Tuttavia la fiducia nella mediazione egiziana sarebbe caduta nel giro di pochi giorni di fronte alla constatazione di come non vi fosse nessuna marcia indietro da parte del governo libico.
Altre istruzioni erano state prontamente inviate a Borromeo affinché
prendesse immediato contatto con le autorità libiche al massimo livello allo scopo di ottenere i necessari chiarimenti circa la portata delle misure,
elevando al tempo stesso la più ferma protesta. Con gli stessi propositi era
stato convocato al ministero degli Esteri l’Incaricato d’Affari libico. Ai capi
missione arabi in Italia veniva fatta presente la linea costantemente seguita
dal governo italiano per porre su un piano di reciproca fiducia e collaborazione i rapporti italo–libici, e allo stesso tempo venivano rimarcate le inevitabili ripercussioni del decreto libico sull’opinione pubblica italiana che
non potevano sicuramente giovare alla causa araba26.
L’annuncio della confisca dei beni italiani, che nei fatti avrebbe costretto al rimpatrio della comunità, aveva suscitato più stupore che sdegno nella maggioranza degli italiani27. Era principalmente il Movimento sociale
italiano a condurre contro Tripoli una violenta campagna dai toni nazionalistici e nostalgici. Questi ambienti chiesero, nei primissimi giorni dopo
il decreto, di rompere le relazioni con Tripoli o di operare ritorsioni in sede Nato e in sede Mec. L’orientamento di Moro e della Farnesina fu moderato e realista: ciò fu prontamente percepibile dalla ferma condanna che il
ministro aveva espresso contro gli atti teppistici, che qualche squadra fascista aveva compiuto ai danni dell’ambasciata libica a Roma28.
Moro, riconfermato agli Esteri nel nuovo governo presieduto da Emilio Colombo, a pochissimi giorni dal provvedimento, si trovava quindi al186
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
le prese, da una parte, con le pressioni provenienti da destra che spingevano il governo a dure misure di ritorsione, dall’altra, con le aspettative della sinistra comunista che invitavano a riconoscere il carattere rivoluzionario e antimperialista del regime libico e il diritto di questo a considerarsi
non impegnato da accordi sottoscritti precedentemente, e chiedevano allo stesso Moro parole di condanna del colonialismo italiano29. Il ministro riteneva opportuno, prima di ogni decisione, arrivare ad una chiarificazione delle relazioni con la Libia, poiché era convinto che il provvedimento danneggiasse profondamente, non solo gli interessi italiani, ma anche quelli libici30.
Il primo risultato dell’azione intrapresa presso tutti le ambasciate arabe furono le espressioni di solidarietà nei confronti del governo italiano:
la misura era generalmente reputata ingiustificata, errata dal punto di vista psicologico e dannosa per la causa araba nel suo complesso. La promessa dei paesi arabi fu quella di attivare azioni di pressione su Tripoli perché
modificasse un atteggiamento che poneva in discussione la credibilità degli impegni assunti dal mondo arabo. Un altro risultato fu l’aver ottenuto
alcune informazioni e indiscrezioni che potevano essere valutate quasi come concause del provvedimento emanato dal governo di Gheddafi. In particolare l’ambasciatore dell’Arabia Saudita aveva creduto di vedere un nesso tra la misura adottata dalla Libia e la notizia pubblicata il 12 luglio da
«L’Unità» circa la fornitura di munizioni ad Israele. La notizia, era stato osservato dal rappresentante, non era stata smentita nonostante la richiesta
di precisazione da parte araba31.
La questione veniva reputata irrilevante dal ministero. Tuttavia, il fatto che venisse ipotizzato da un paese importante come l’Arabia Saudita un
collegamento tra i presunti aiuti ad Israele e il decreto libico era sintomatico della delicatezza della situazione e della rilevanza dell’atteggiamento dell’Italia circa la questione del conflitto arabo-israeliano32.
Alcune informazioni ricevute al ministero da Mustafa Ben Halim, ex
primo ministro libico dal 1954 al 1957 e firmatario dell’accordo con il
quale erano stati regolati i rapporti italo libici nel 195633, rivelavano poi
che Gheddafi sarebbe stato molto contrariato da un incontro segreto fra alcuni esponenti dell’ala sinistra del movimento rivoluzionario libico e i tre
parlamentari italiani che erano giunti in visita a fine giugno, nel corso del
quale sarebbe stata ventilata la fondazione d’un «Psiup libico». Il progetto avrebbe non poco irritato Gheddafi, fondamentalmente anticomunista,
187
Arturo Varvelli
al punto da diventare «la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso» delle delicate relazioni tra i due paesi34. Secondo l’ex primo ministro libico,
«l’infantilismo politico» di Gheddafi sarebbe stato tale da fargli scambiare
un’iniziativa autonoma di tre parlamentari italiani di sinistra per un’indebita interferenza italiana nelle faccende interne libiche.35
Erano tutte indicazioni che andavano prese con estrema cautela, ma
che evidenziavano come aspetti quali l’inesperienza e l’immaturità della
nuova classe dirigente libica avessero potuto giocare ruoli determinanti
nella faccenda. Questa prima fase di reazione del governo italiano veniva
chiusa con l’invio di una lettera del presidente del Consiglio Mariano Rumor, dimissionario ma ancora in carica, al presidente del Consiglio rivoluzionario della Libia Muammar Gheddafi. Rumor esprimeva ferma protesta per la decisione, che aveva costituito una dolorosa sorpresa, «tenuto
anche conto del desiderio da Lei espresso alcuni giorni or sono di ricevere al più presto una delegazione ufficiale italiana ad alto livello», venendo
così incontro ad un desiderio analogo espresso più volte dall’Italia in passato. Per Rumor era un’occasione persa per affrontare una trattativa globale al fine di impostare su nuove basi di effettiva reciproca collaborazione i futuri rapporti tra i due paesi. Il presidente del Consiglio evidenziava
a Gheddafi, inoltre, il rischio che l’atteggiamento assunto dal governo libico nei confronti della collettività italiana si potesse ripercuotere negativamente sull’opinione pubblica mondiale, con danno dell’immagine della Libia e della causa del popolo arabo. La lettera si faceva però più conciliante lasciando aperta la possibilità di dialogo tra i due paesi. Rumor lanciava un appello a Gheddafi:
Faccio appello alla Sua sensibilità perché siano evitate conseguenze difficilmente valutabili, a seguito di possibili incomprensioni ed equivoci su questioni che ci eravamo sempre offerti di passare in rassegna in uno spirito di reciproca comprensione. Allo
scopo di non lasciare intentato ogni mezzo, confermo la nostra volontà di una trattativa globale, che, come Ella può ben comprendere, non potrà peraltro essere condotta
se non allorché gli interessi dei nostri connazionali in Libia saranno presi in considerazione in armonia con i principi generali del diritto ed in contatti bilaterali36.
Le incertezze sull’opportunità di adottare provvedimenti economici
Parallelamente all’avvio di una ampia iniziativa diplomatica presso i
paesi arabi, il ministero degli Esteri, fin dal giorno seguente alla confisca
188
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
dei beni italiani, cominciò a valutare l’opportunità di alcune misure di ritorsione. Lo studio e la valutazione di queste misure sarebbe durata a lungo
e avrebbe subito l’influenza dell’evolversi delle relazioni tra la Libia e l’Italia in tutto il mese di agosto. All’indomani del decreto venivano però compiute le prime osservazioni. Furono innanzitutto scartate alcune possibilità come quella di una qualsiasi reazione di forza, non solo perché considerata anacronistica, ma anche del tutto controproducente, sia per la presenza russa nel Mediterraneo, sia, in maggior luogo, per le reazioni che si
sarebbero avute nel mondo arabo e in genere in tutto il mondo occidentale. Nei primi giorni inoltre si sperava di poter ancora evitare una evacuazione di massa degli italiani, che invece sarebbe di lì a poche settimane divenuta una esigenza dato il trattamento riservato alla comunità italiana e
alla sua richiesta di un veloce rimpatrio37.
Si potevano prospettare invece alcune soluzioni. Era considerato più
conveniente istituire una tassa sui prodotti petroliferi importati dalla Libia fino alla copertura dell’indennizzo da versare agli italiani espropriati.
In questo caso si sarebbe trattato di un provvedimento limitato nel tempo
dalla necessità di riparare quella che veniva considerata un’ingiustizia senza
precedenti poiché si era agito nei confronti dell’Italia in maniera discriminatoria e senza previsione di indennizzo. Plausibile era anche intraprendere una azione sul piano giuridico. Riguardo a ciò, però, vi era fin da subito scetticismo sul risultato, comunque l’azione poteva essere condotta anche a titolo dimostrativo, senza avere l’intenzione di portarla fino in fondo.
Molta importanza veniva data alla possibilità di predisporre una campagna
di stampa con lo scopo di sfatare la leggenda di un’Italia sfruttatrice, mettendo in evidenza quanto la Libia fosse costata in termini di sacrifici finanziari e di lavoro, poiché la colonizzazione era avvenuta mettendo a coltura terreni desertici e creando una fiorente agricoltura. Questa azione veniva valutata efficace anche per contrastare, presso tutti i diplomatici arabi e
dei paesi non allineati accreditati a Roma, l’impressione di una Italia sfruttatrice che il Colonnello Gheddafi aveva voluto dare38.
La misura di ritorsione che venne maggiormente presa in considerazione in quel primissimo momento, e che fu oggetto di valutazioni accurate anche nei giorni successivi, fu sicuramente quella legata a sanzioni economiche, e in particolare alla riduzione delle importazioni petrolifere a favore, se possibile, di altri paesi produttori, quali quelli del Golfo Persico,
Egitto, Siria o Algeria. Tuttavia già dalle prime analisi compiute dal diret189
Arturo Varvelli
tore della sezione Affari Economici del Ministero, Giovanni Vincenzo Soro, risultava alquanto sconveniente un approvvigionamento di greggio da
questi mercati anziché dalla Libia. Solo nel periodo agosto-dicembre del
1970 si prevedeva un maggior onere di 94 miliardi di lire. Per l’anno 1971,
laddove le importazioni dalla Libia fossero state sospese, l’ammontare dell’aumento di spesa sarebbe stato di 225 miliardi di lire. Inoltre l’eventuale
crisi dei rapporti commerciali con la Libia avrebbe posto in pericolo gli investimenti già effettuati dall’Eni nel settore delle ricerche minerarie e quelli che occorrevano ulteriormente per la messa in produzione dei giacimenti scoperti39.
L’importazione di greggio dalla Libia era cresciuta notevolmente negli ultimi anni. Nel 1969 l’Italia aveva importato complessivamente 102,5
milioni di tonnellate di greggio; di questo quantitativo, 28,6 milioni di
tonnellate, pari a circa il 28 per cento del totale, erano state fornite dalla
Libia. Poiché parte del petrolio importato dall’Italia veniva poi destinato
alla domanda estera (il 35% circa del totale), veniva stimato che nel 1969
il greggio libico destinato all’economia italiana era pari a 18,3 milioni di
tonnellate. Era un quantitativo considerevole difficilmente rimpiazzabile,
la sostituzione del quale avrebbe comportato maggiori oneri per i costi di
trasporto da zone più lontane. Erano previsioni che la Direzione Generale Affari Economici considerava oltretutto ottimistiche poiché non tenevano conto di un probabile aumento dei noli sulle rotte dal Golfo Persico all’Italia nel caso di un embargo delle esportazioni libiche40.
Un’analisi dell’Eni sull’incidenza della chiusura del canale di Suez sugli approvvigionamenti petroliferi all’Italia, confermava la grande convenienza delle fonti nord africane, in particolare libiche soprattutto se si tenevano in conto le caratteristiche qualitative del petrolio che veniva estratto in Libia41.
In definitiva ciò che risultava chiaro dalle analisi compiute al Ministero degli Esteri era che l’adozione di eventuali misure di ritorsione nei confronti della Libia non sembrava applicabile senza che ne derivassero conseguenze dannose per l’economia italiana. Nonostante il passivo della bilancia italiana (nel 1969 erano stati 102 miliardi di lire le esportazioni; 272
miliardi, di cui 270 erano rappresentati dalla voce petrolio, le importazioni), la Libia costituiva sempre un mercato non trascurabile. Inoltre il blocco delle esportazioni italiane, tra cui beni di necessità come quelli alimentari e farmaceutici, avrebbe causato certamente un vuoto immediato nel190
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
l’economia libica, ma la Libia sarebbe stata capace di reperire rapidamente
altrove le merci negate dall’Italia. Ulteriori danni sarebbero occorsi alle imprese italiane di costruzione operanti in Libia. Un’eventuale interruzione
dei lavori avrebbe lasciato incompiute opere il cui completamento rivestiva notevole importanza per lo sviluppo dell’economia libica, ma avrebbero potuto essere terminate da altri paesi, Egitto e Jugoslavia in primis. Ciò
avrebbe comportato la perdita di attrezzature, macchinari e crediti maturati per i lavori già compiuti e l’impossibilità di ottenere il riconoscimento
dei maggiori costi sostenuti dalle imprese dal 1967, contenzioso che era già
in atto42. L’onere per l’economia italiana dell’imposizione di sanzioni economiche, che si sarebbe tradotto in un blocco della importazione del greggio, sarebbe stato alquanto elevato. Il 25 luglio l’ambasciatore Soro dava
una valutazione che non lasciava spazio a manovre:
Contrariamente a quanto potrebbe ritenersi, il fatto che l’Italia acquisti attualmente
ben il 22 % della totale produzione petrolifera libica non costituisce un elemento di
forza nei rapporti con tale Paese. Valutando la situazione in base ai dati ed ai valori attuali, infatti, una eventuale distorsione dei traffici di importazione di greggio in Italia
causerebbe un sacrificio notevolissimo per l’Italia43.
Un’ulteriore possibilità, che venne valutata in quel primo momento, fu
una ritorsione sui beni libici in Italia. In particolare si sarebbe potuto attuare un blocco dei conti bancari. Anche le proprietà immobiliari potevano essere messe sotto sequestro. Veniva però prontamente rilevato che la
maggior parte dei conti e delle proprietà libiche in Italia appartenevano a
cittadini libici di origine ebraica, emigrati o espulsi dalla Libia in quegli
anni, e ad oppositori del regime, sicché la misura non avrebbe colpito il governo libico44. Queste prime consultazioni all’interno del Ministero misero in evidenza l’inattuabilità di efficaci sanzioni economiche, poiché dannose per l’Italia e con una limitata incidenza sull’economia libica. Oltretutto un blocco delle importazioni avrebbe leso gli interessi della Germania Federale e degli Stati Uniti che si approvvigionavano di greggio libico
tramite l’Italia. Restava possibile giocare la carta giuridica. Tuttavia anche
questa possibilità aveva le sue controindicazioni. Se era necessario giocare questa carta anche per motivi interni, «poiché l’opinione pubblica non
[avrebbe permesso] di lasciarla cadere», ciò doveva essere fatto in maniera
tale «da non peggiorare ulteriormente i rapporti con la Libia»45. Un ricorso all’Onu avrebbe infatti sicuramente urtato il governo libico, acutizzan191
Arturo Varvelli
do la crisi nelle relazioni tra i due paesi. Questa non era l’intenzione del governo italiano preoccupato per la comunità italiana spogliata delle proprie
proprietà e in ostaggio ai libici, e consapevole della necessità di continuare
il dialogo con il mondo arabo.
La tutela della collettività come primo obbiettivo della politica mediterranea dell’Italia
Nei giorni seguenti il decreto, la situazione della comunità italiana si
fece sempre più critica, principalmente perché le autorità libiche impedivano la partenza di migliaia di persone che desideravano lasciare il paese.
Il comportamento libico veniva giustificato dalla necessità di avere un inventario dei beni che gli italiani dovevano abbandonare e, di conseguenza, dalla volontà di un ferreo controllo sull’applicazione delle disposizioni
emanate. Oltretutto nei giorni seguenti la collettività fu oggetto di soprusi e di vendette da parte dei libici, che non risparmiarono neanche l’ambasciata, bersaglio di diversi atti vandalici dimostrativi, quali lo sfregio della
bandiera e il lancio di sassi. La comunità italiana in Libia aveva ascoltato la
sentenza a suo danno, così spietata e inappellabile, senza vedere alcuna giustificazione alle decisioni libiche e interpretava il decreto solamente come
una vendetta ingiusta per responsabilità che non sentiva proprie e che erano semmai da addebitarsi, come scrive Del Boca, a Giolitti e Mussolini46.
La preoccupazione del ministro degli Esteri Moro era per la grave situazione a cui era sottoposta la comunità italiana. Il 27 luglio Moro inviava
istruzioni a Borromeo perché rinnovasse nella maniera più ferma la protesta italiana per l’accaduto e annunciasse che l’Italia avrebbe fatto «tutte le
riserve necessarie sulla responsabilità e tratto le proprie conseguenze giuridiche sul caso». Moro chiedeva a Borromeo di fare intendere la necessità che da parte libica si procedesse al più presto a «qualche atto distensivo,
che tale potesse essere percepito anche dalla comunità italiana», primo fra
tutti la facilitazione del rimpatrio di coloro che intendevano lasciare sollecitamente la Libia. I toni usati da Moro erano simili a quelli di un ultimatum: se la Libia non voleva deliberatamente pregiudicare del tutto le reciproche relazioni, «l’utilità di un gesto simile doveva avere tutta l’attenzione delle autorità»47.
Il giorno seguente, il 28 luglio, il presidente della Repubblica Saragat
scriveva una lettera a Gheddafi proprio a tutela della comunità italiana.
192
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
Nell’apprendere le violenze che erano in corso a danno della Rappresentanza italiana a Tripoli, Saragat rivolgeva direttamente un appello a Gheddafi affinché fossero prontamente fatte cessare:
è mia convinzione che debba essere assolutamente evitato di aggravare le complesse
questioni tra i nostri due Paesi col venire meno ai principi che hanno finora ispirato le
nostre relazioni fondate sul rispetto verso la persona umana e la considerazione verso le
Rappresentanze straniere. Confido pertanto che Ella vorrà, Signor Presidente, condividere questi miei sentimenti e intervenire per evitare l’aggravarsi e l’estendersi di manifestazioni di violenza che, venendo a colpire i nostri cittadini, porterebbero a deteriorare la situazione attuale con inutili danni nei rapporti umani tra i nostri due popoli48.
La risposta di Gheddafi non tardava. Con una ambivalenza che sarebbe stata il suo carattere distintivo negli anni a seguire, il 29 luglio il Colonnello negava che fossero in corso atti di violenza, garantiva la protezione e
«l’incolumità fisica delle persone», ma soprattutto rivendicava il diritto sulle proprietà «usurpate a torto mediante aggressione e dinanzi al quale non
vale il testo di alcuna convenzione». Infine esprimeva ancora una volta il
desiderio di mantenere relazioni amichevoli e la speranza che l’Italia confermasse il proprio atteggiamento nei confronti dei problemi arabi49.
Anche la risposta del Leader della rivoluzione sembrava avvalorare la
convinzione del governo italiano che i provvedimenti fossero prevalentemente dovuti a problemi interni al nuovo governo, così come scrive Pietro
Nenni nel suo diario dopo aver partecipato il 28 luglio alla riunione della
Commissione degli Esteri, «la rivoluzione dei giovani militari libici aveva
bisogno del nemico ereditario contro il quale scatenare le passioni popolari. Ora in Libia il nemico ereditario è, dal 1911-1912, l’italiano»50. Anche le notizie che giungevano al ministero portavano a conclusioni simili51. L’ambasciatore Borromeo era stato informato di spaccature in seno al
Consiglio della rivoluzione e in particolare di forti contrasti tra due correnti, quella filo-palestinese e quella filo-egiziana. Posizioni simili, presenti fin
dai primi giorni del colpo di stato, e di cui la Farnesina aveva avuto subito
notizia, si erano ulteriormente irrigidite con la dichiarata disponibilità dell’Egitto all’accettazione del piano di sistemazione del conflitto mediorientale, elaborato dal segretario di Stato americano, William Rogers52.
Al ministero degli Esteri furono indette alcune riunioni per trattare
congiuntamente la situazione mediorientale, quella in la Libia e il piano
Rogers. Era necessario che l’Italia esprimesse il proprio parere sul piano
193
Arturo Varvelli
elaborato dal Dipartimento di Stato statunitense.
Una eventuale mancata presa di posizione sulla questione mediorientale, infatti, veniva giudicata non opportuna per l’Italia «perché si sarebbe
data l’impressione di lasciarsi condizionare proprio dagli avvenimenti libici», e, quindi, di rinunciare ad una politica attiva nel settore. L’azione italiana verso la Libia andava quindi inquadrata nella cornice più vasta dei
rapporti dell’Italia con il mondo arabo, tenendo conto di tutte le implicazioni sul piano internazionale che ne derivavano53. L’amicizia con gli stati
arabi rimaneva una scelta obbligata54.
Il ministro Moro era favorevole all’accettazione del piano Rogers da
parte dell’Italia e a connetterlo in qualche modo alla questione libica, facendo capire che «l’amicizia e la vicinanza italiane alla causa araba non erano incondizionate, ma legate anche al comportamento dei paesi arabi nei
confronti degli interessi italiani». Riguardo al piano Rogers, Moro pensava
che l’appoggio italiano non dovesse apparire come una accettazione di una
azione politica elaborata altrove quanto piuttosto un naturale sbocco dell’attività diplomatica che la Farnesina aveva messo in atto nei mesi precedenti55. Il 28 luglio il ministro degli Esteri chiariva alla commissione Esteri della Camera gli scopi immediati dell’azione del governo italiano sia nei
contatti bilaterali con la Libia che in sede multilaterale: la tutela con tutti
i mezzi possibili degli interessi italiani; la sicurezza dei cittadini italiani in
Libia, agendo con fermezza, ma al tempo stesso cercando di evitare ogni
motivo di inutile «escalation» della tensione; il libero rimpatrio degli italiani in modo dignitoso e ordinato, cercando di fare in modo che questa
operazione, «umanamente così dolorosa», non fosse resa inutilmente più
drammatica da vessazioni e angherie o anche da semplici ricatti; l’assistenza ai connazionali rimpatriati ed il loro indennizzo56.
Quindi, ciò che maggiormente impensieriva, e che traspariva sia dai discorsi pubblici che dalle consultazioni al ministero, era l’angosciosa situazione degli italiani in Libia ai quali era negata la possibilità di espatriare.
La situazione era chiaramente intollerabile e poteva obbligare l’Italia – secondo le parole di Moro - ad «un gesto forte»57. A causa della tensione pesantissima di quei giorni in Libia, un incidente che avesse comportato delle vittime avrebbe condotto la situazione ad uno stato gravissimo.
194
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
L’incontro di Beirut del 1° agosto 1970 tra Moro e Buessir
L’azione di protezione della collettività predisposta da Moro doveva andare in due direzioni, da una parte investire il Consiglio di Sicurezza dell’Onu della questione (rappresentando essa una minaccia per la pace) allo scopo di permettere agli italiani di lasciare la Libia; dall’altra stabilire un
contatto tra i membri dei due governi58.
L’occasione si sarebbe presentata entro pochi giorni. Tramite il ministro
degli Esteri turco Caglayangil, che ospitava in visita ufficiale il 29 e 30 luglio il ministro degli Esteri libico Buessir, l’ambasciatore italiano ad Ankara Mondello faceva presente la preoccupazione e la riprovazione italiana
per i provvedimenti adottati contro gli italiani59. Mentre negli ultimi giorni di luglio l’attività diplomatica di Moro si rendeva più dinamica nel tentativo di allargare il fronte dei possibili canali per giungere ad un colloquio
coi libici e per garantire un rimpatrio pacifico degli italiani, stabilendo, in
particolare, contatti con la Francia, la Gran Bretagna e anche l’Unione Sovietica60, si riusciva, tramite la Turchia, a fissare un incontro con il ministro
degli Esteri libico per il 1° agosto nella sede neutrale di Beirut, dove Buessir aveva in programma un viaggio61.
In pochi giorni, sempre tramite il governo di Ankara, si era riusciti a
concordare coi libici un’agenda dei colloqui che verteva su tre punti: la situazione della collettività italiana in Libia, la regolamentazione dei rapporti e degli interessi economici sorti con l’accordo del 1956, le prospettive
future nelle relazioni tra i due paesi. Per prevenire ogni possibile equivoco circa gli scopi dell’incontro, era stato precisato al ministro libico, prima
tramite il Governo turco e poi in apertura di colloquio, che da parte italiana si faceva ogni riserva sul fondamento giuridico dei provvedimenti di
confisca, nonché si confermava la validità e la legittimità dell’accordo italo-libico del 195662.
Dopo lo scambio di saluti ed alcune frasi di cortesia, la conversazione
iniziava con un aspro esordio del ministro libico circa la condizione della
Libia e dei libici durante l’occupazione italiana. Una lunga serie di affermazioni accusavano l’Italia di aver condotto una «politica di annientamento» in Libia e la comunità italiana di essere vissuta in Libia dopo il 1943
come un corpo del tutto estraneo al resto del paese, continuando a coltivare le stesse idee colonialiste di Graziani, Caneva e Balbo più di quelle
di Fanfani o di Moro63. A parere di Buessir, quindi, l’occupazione da par195
Arturo Varvelli
te dell’Italia giustificava le misure di confisca. D’altro canto, aggiungeva,
era desiderio del suo governo intrattenere le migliori relazioni con l’Italia
democratica, di cui apprezzava principi e orientamenti, confidando che
le future relazioni tra i due paesi sarebbero state improntate ad amicizia e
collaborazione in tutti i campi nel rispetto dei reciproci interessi. Inoltre
aggiungeva una serie di dichiarazioni distensive, affermando che non era
intenzione del suo paese prendere provvedimenti nei confronti delle concessioni petrolifere italiane, che i provvedimenti riguardavano solo la vecchia collettività, che i tecnici italiani era ben accetti e che la Libia preferiva
comperare dall’Italia che da altri paesi64.
Il ministro Moro, senza rilevare gli spunti polemici del suo interlocutore, osservava che la Repubblica Italiana era lontana da ogni idea di colonialismo, comunque superata e fuori dalla mentalità del popolo italiano,
e che i rapporti stabiliti con tutti i paesi di recente costituzione, ed in particolare con quelli più vicini e più legati all’Italia, erano basati sul rispetto
dell’indipendenza, della sovranità e sulla parità fra stati. Inoltre prendeva
le distanze dall’Italia colonialista:
C’è stato per l’Italia un periodo coloniale, come per altre potenze europee. È difficile fare in questo momento la storia, proprio sotto la pressione degli eventi. Vorrei solo osservare che alcune caratteristiche di costrizione erano proprie di un regime che le
applicava anche in patria.
Noi come democratici, abbiamo una diversa concezione ideale, sia nei rapporti sociali che in quelli internazionali. L’Italia democratica è nata dalla resistenza e la sua costituzione è basata sui principi di libertà e sul rispetto dei popoli. Vi sono nel passato di
ogni stato ragioni che dividono i popoli. In Europa abbiamo combattuto perlomeno
due terribili guerre, ma abbiamo pensato che proprio questo debba indurci a cooperare, ad unirci in una comunità.
Credo che l’Italia democratica abbia sempre mantenuto questo atteggiamento di rispetto verso la Libia come Nazione; rispetto che abbiamo espresso col pronto riconoscimento del regime rivoluzionario65.
Moro aggiungeva che, se fosse avvenuto in precedenza un incontro, come era stato più volte proposto, a qualsiasi livello ed in qualsiasi sede, sarebbe stato possibile inquadrare e risolvere i rapporti fra italiani e comunità libica nell’ambito di una cooperazione paritaria, ma «ciò non era potuto avvenire per i molteplici impegni del governo libico»66. L’intenzione
del ministro Moro era chiaramente quella di comprendere gli intendimenti del governo libico. Il governo italiano si era sforzato di tenere un atteg196
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
giamento equilibrato e costruttivo, ma poteva anche cedere, e ciò veniva
esplicitatamene ricordato all’interlocutore, alla pressione parlamentare e
alle sollecitazioni dell’opinione pubblica italiana fortemente disorientata
di fronte all’improvviso atteggiamento libico. Assolutamente intollerabile
era che la collettività italiana in Libia non fosse gradita, ma al tempo stesso non le fosse permesso di lasciare il paese in seguito alle più diverse formalità da espletare.
Altra necessità del ministro italiano era capire in quali settori dell’economia libica fosse ancora possibile la presenza italiana. Accanto alle assicurazioni circa la posizione dell’Eni ottenuta da Buessir, l’interesse di Moro era conoscere l’atteggiamento verso gli altri settori, per esempio quello agricolo, nel quale l’esproprio aveva reso evidente che i 3-4 mila italiani
che vi lavoravano non erano graditi, ma nel quale un accordo con l’Italia
avrebbe permesso alla Libia di assicurarsi competenze preziose. Simile discorso poteva essere fatto per i commercianti e gli artigiani, e ancor più per
gli operai che lavoravano nelle imprese edili67. Aldo Moro coglieva che il
ritiro della comunità italiana poteva aprire un grande vuoto nell’economia
libica, che in qualche maniera sarebbe stato colmato da paesi stranieri, poiché i libici non possedevano le adeguate conoscenze. Quindi cercava di fare riflettere il suo interlocutore sulla questione con il duplice scopo di poter
mantenere in Libia almeno una parte della comunità e di non creare spazi
che sarebbero stati sicuramente occupati da altre potenze.
Il risultato minimo, ma essenziale della missione di Moro, non era il ritiro del provvedimento, che, con realismo, veniva valutato impossibile, ma
era la facilitazione del rimpatrio della comunità, e eventualmente una specificazione meno indiscriminata delle applicazioni dei provvedimenti.
Il ministro libico negava che vi fosse una strategia deliberatamente
preordinata per impedire il rimpatrio, ma che tutto ciò che era richiesto era una dichiarazione dei beni posseduti. Inoltre per quanto riguardava i tecnici delle imprese dichiarava che «se questi gradissero rimanere, potranno rimanere. Così gli esperti elettricisti, coloro che sono arrivati quattro o cinque anni fa. Questi potranno rimanere»68. Tuttavia, la situazione,
ne era consapevole Buessir, spingeva la comunità italiana a partire in massa poiché sia i vecchi residenti che i nuovi arrivati non desideravano rimanere. Queste decisioni, aggiungeva poi il ministro libico, erano state prese
per riparare ad un «errore della storia». A fine colloquio si convenne che si
sarebbe parlato dei due punti rimanenti in agenda, quello che il ministro
197
Arturo Varvelli
Buessir chiamava «il completamento dell’accorso del 1956 con l’eliminazione delle sue deficienze», e che sembrava essere il punto più caro ai libici,
e quello riguardante le relazioni future, in un incontro successivo da stabilirsi. Veniva inoltre concordato che l’Italia avrebbe mandato altri funzionari presso l’ambasciata a Tripoli per facilitare le pratiche di rimpatrio69.
Moro dall’incontro ne poteva ricavare alcune conseguenze. Innanzitutto i libici desideravano il mantenimento di relazioni economiche con l’Italia, graditi erano l’Eni e tecnici specializzati. Difficilmente avrebbero riconosciuto i diritti italiani sanciti dall’accordo bilaterale del 1956, ma erano
favorevoli ad una revisione dello stesso. Ad Aldo Moro il ministro Buessir
era sembrato un uomo ponderato e conoscitore dei problemi internazionali: «ho motivo di ritenere che, in armonia con le assicurazioni liberamente datemi, egli si adopererà perché l’atteggiamento del suo Governo sia ad
esso conforme». Il convincimento di Moro trovava un inizio di conferma
nell’immediata revoca di alcune fastidiose ordinanze relative al rimpatrio,
di cui Buessir si era affrettato a far pervenire notizia70. Moro presentava il
bilancio dell’incontro in una relazione:
è mia impressione che il colloquio con la delegazione libica sia stato utile e opportuno. Non potevamo certo aspettarci che il Ministro rinunciasse alle giustificazioni storico-sociologiche date dal governo rivoluzionario ai provvedimenti presi contro di noi,
giustificazioni che non solo mancano di fondamento giuridico, ma sullo stesso piano
storico appaiono per lo meno anacronistiche71.
L’incontro era stato utile anche per riaffermare come il trattamento riservato alla comunità italiana – secondo criteri di «sicurezza e dignità che
noi abbiamo chiesto, sollecitato ed ordinato» scriveva Moro -, costituisse
un elemento essenziale per valutare la dichiarata volontà di Tripoli di sviluppare le reciproche relazioni, e le misure che diversamente il governo sarebbe stato costretto a prendere72.
Così un incontro preparato in poche ore e che si era svolto sotto la
pressione delle conseguenze delle decisioni del governo libico sarebbe finito per risultare assai importante per l’avvenire delle relazioni tra i due paesi. L’agenda stabilita per l’incontro, in particolare, avrebbe influenzato le
relazioni per un lungo periodo. Il rifiuto del riconoscimento dell’accordo
bilaterale del 1956, che tra le altre cose stabiliva una sorta di compensazione economica a favore di Tripoli, avrebbe pesato sui negoziati futuri tra
i due paesi, e la richiesta di risarcimento per i danni del colonialismo sa198
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
Questa fotografia del giovanissimo Gheddafi è stata scattata nella sua biblioteca nel 1972, poco dopo che il «rais» aveva deciso l’espulsione immediata dei ventimila italiani ancora presenti in Libia.
199
Arturo Varvelli
rebbe stata riproposta dai libici ogni qual volta che da parte italiana si fosse cercato di ottenere un indennizzo per i beni nazionalizzati della collettività italiana. Tuttavia Moro non usciva dall’incontro a mani vuote. Con
buona dose di realismo aveva intuito che non vi era facile soluzione al problema della comunità italiana in Libia, si preparava a gestirne l’esodo nella maniera più decorosa, e lasciava aperti gli spiragli per un riavvio delle relazioni che, adesso ne aveva la certezza, era anche interesse della Libia conservare e, probabilmente, rafforzare in alcuni settori economici e in particolare in quello petrolifero.
La «delusione» italiana di fronte alla mancata mediazione egiziana
Al rientro in Italia, mentre la lunga crisi di governo volgeva al termine, Moro si rimetteva al lavoro sulla questione libica, riprendeva i contatti
diplomatici senza scartare l’eventualità di adottare alcune misure di ritorsione nei confronti del governo di Tripoli. In particolare vagliava ancora la
possibilità – per accantonarla poi in via definitiva - di dirottare le importazioni di petrolio dalla Libia verso altre fonti di approvvigionamento, prevalentemente il Golfo Persico e, per una parte minore, il Medio Oriente, il
mar Nero e il Venezuela. L’ultimo appunto della Direzione Generale Affari economici, come i precedenti, confermava il gravoso aumento della spesa che avrebbe comportato una simile decisione73.
Nell’agosto 1970, oltre ai più urgenti provvedimenti d’assistenza all’esodo della comunità italiana dalla Libia74, l’attività del ministero degli
Esteri fu impegnata in due forme di intervento: da una parte veniva svolta
un’azione diplomatica ad ampio raggio presso i governi arabi per la tutela
degli interessi italiani in Libia e nello stesso tempo prese in considerazione
alcune misure di ritorsione.
Il ministro Aldo Moro, a inizio agosto, aveva di nuovo diramato a tutte le ambasciate dell’area mediorientale e mediterranea chiare indicazioni:
si doveva operare per convincere i governi di questi paesi a compiere ancora dei passi in favore della comunità italiana. Ciò su cui bisognava fare
leva erano gli inevitabili riflessi che una situazione così critica stava determinando nell’opinione pubblica italiana e che non poteva non condurre
l’Italia a prendere adeguate misure, con conseguenze che proprio i governi
arabi sarebbero stati i primi a deprecare. Del resto, la Farnesina invitava a
mettere in evidenza che provvedimenti tanto vessatori contro una colletti200
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
vità straniera «non potevano non infirmare la credibilità delle tesi che sostenevano la possibilità della coesistenza in Palestina di collettività di varie
religioni in un medesimo Stato»75.
L’azione diplomatica intrapresa presso i governi arabi dimostrava presto
la sua efficacia. Nei primi giorni di agosto il governo del Cairo esprimeva,
per la prima volta dal dicembre precedente, cioè da quando il governo italiano gli aveva affidato compiti di intercessione presso i governanti libici, il
proprio scetticismo nel dare seguito alle richieste italiane perché lo considerava inopportuno per se. Il direttore generale degli Affari Politici Roberto Ducci, a seguito di ciò, convocava al ministero l’ambasciatore dell’Egitto per avere spiegazioni sul nuovo atteggiamento del Cairo. Le giustificazioni date dal rappresentante egiziano apparivano chiaramente pretestuose
quando chiamavano in causa la «delicatezza della questione mediorientale» e la suscettibilità dei colonnelli libici che imponeva prudenza e cautela all’azione egiziana76.
Sia per dare sostegno agli italiani, che per continuare il dialogo bilaterale iniziato a Beirut tra i due paesi, il ministro Moro decideva di inviare in
missione in Libia il ministro plenipotenziario Mario Giretti. Per due volte Giretti tra il 7 e il 18 agosto si recava in Libia. Grazie a queste missioni
fu possibile ricostruire più chiaramente le circostanze che avevano portato
alla confisca dei beni italiani e comprendere le responsabilità della politica egiziana. Il 12 agosto, la Direzione Generale degli Affari Politici poteva
trarre le prime conclusioni.
Il comportamento libico, che appariva in contrasto con lo sviluppo
«tutto sommato normale» che le relazioni italo-libiche avevano avuto nei
primi mesi dopo il colpo di stato, trovava la sua origine, nell’analisi della direzione, essenzialmente nei contrasti in seno ai membri del Consiglio
Rivoluzionario77. Se agli inizi la propensione per la causa palestinese si era
identificata con quella per Nasser, ritenuto fideisticamente il suo campione, erano poi affiorati molti dubbi circa la correttezza di una tale identificazione. Su questo punto si era verificata, come riportato al Ministero da
più parti, ambasciatore Borromeo compreso, una grave frattura78. L’ambasciatore Calenda, ora alle dirette dipendenze del direttore generale degli
Affari Politici Ducci, giungeva a ritenere che il gruppo guidato da Gheddafi, che deteneva il potere effettivo, non fosse in condizioni di reggere
senza l’appoggio di Nasser. Proprio per tenersi in equilibrio fra le esigenze di Nasser, dettate dalla ragione di stato egiziana, e le posizioni degli al201
Arturo Varvelli
tri membri del Consiglio convinti sostenitori della resistenza palestinese e
meno compromessi con gli egiziani, Gheddafi aveva organizzato una Conferenza a Tripoli dei paesi arabi sulla questione del conflitto con Israele e
aveva compiuto i viaggi a Baghdad e a Damasco79.
Calenda, redigendo un appunto per Aldo Moro, individuava le cause
dei provvedimenti contro gli italiani:
Può sembrare paradossale, ma la presenza della nostra collettività era l’ultima e più
forte difesa, certo maggiore della presenza delle basi straniere, dell’indipendenza libica. Era intorno alla nostra collettività che si andava formando, favorito dalle nuove ricchezze, un nucleo sempre più ampio di classe dirigente, di media e piccola borghesia80.
Era, dunque, interesse dell’Egitto, l’eliminazione di questa collettività.
Veniva ricordato, inoltre, che da lunga data elementi del Cairo sobillavano
i notabili dell’antico regime, non solo contro la comunità italiana da tempo presente in Libia, ma anche contro gli elementi di nuova immigrazione che vi arrivavano per svolgere compiti quasi sempre tecnici. Anche la
sommossa del 1967 a Tripoli, veniva rammentato a riprova di ciò, era stata preparata dal Cairo e il suo organizzatore era stato l’ambasciatore della
Rau, appartenente ai servizi di sicurezza egiziani. Con la scomparsa della
collettività italiana e l’assunzione nei gangli del paese di funzionari egiziani, la Libia diventava di fatto una propagine dell’Egitto. Questa situazione veniva giudicata un vero e proprio «infeudamento». Ciò rappresentava
per il Cairo, di fronte alla propria opinione pubblica, la sola contropartita
al fallimento dei suoi piani di influenza in Siria e nello Yemen, nonché del
conflitto con Israele. La conclusione che veniva ricavata da questa situazione non lasciava spazio a dubbi:
L’operazione contro di noi, voluta e manovrata dal Cairo, ha un altro significato: di
cercare di isolare nel consiglio rivoluzionario con provvedimenti apparentemente nazionalisti gli avversari della politica filo-egiziana di Gheddafi81.
I provvedimenti che nei piani di Gheddafi avrebbero dovuto suscitare
una vasta reazione positiva nella popolazione, invece, tutto sommato, nonostante gli annunci alla radio, l’esposizione per le strade di cartelli che raffiguravano le vittime della repressione coloniale, gli slogan antitaliani diffusi con gli altoparlanti, non avevano raccolto una adesione incondiziona202
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
ta, visto anche che non si era verificato nessun incidente grave su iniziativa
della piazza. Ciò che se ne ricavava era che la Libia si apprestava a rimanere
per un certo tempo sotto l’occupazione egiziana82. Il pericolo reale - osservavano alla Farnesina - restava quello paventato nelle prime settimane dopo il colpo di stato: la penetrazione, proprio attraverso l’Egitto, dei sovietici in Libia. Anche le notizie dell’invio in Libia di mezzi militari da parte dell’Urss, giunte in quelle settimane, non facevano altro che aggravare le
preoccupazioni in questo ambito83.
L’ambasciatore Calenda invitava il ministro Moro in queste circostanze
«a ri-orientare la politica araba italiana» dopo gli avvenimenti di Libia. In
generale i rapporti col mondo arabo erano stati considerati in stretta connessione col conflitto con Israele. Ma questa, per l’ambasciatore, era una
«posizione formalistica». In verità la causa araba era un flatus vocis che serviva agli arabi per dissimulare le loro interne rivalità e discussioni. Calenda
si faceva in questo caso portavoce della necessità della rielaborazione della
politica araba italiana che era già condivisa in gran parte negli ambienti politici ed economici dell’Italia. Nei confronti del mondo arabo l’Italia avrebbe dovuto modulare una più attiva azione «in chiave politica e di politica
mediterranea», differenziando il proprio atteggiamento verso i singoli paesi dell’area84. Per quanto riguardava l’Egitto Calenda consigliava di fare capire al Cairo che non si era disposti a passare un colpo di spugna su quanto era successo in Libia. Di conseguenza si doveva prendere un «atteggiamento assai più distaccato in tutte le questioni di diretto interesse egiziano, che sono soprattutto economiche» 85.
Sulla Libia, l’atteggiamento doveva rimanere cauto finché non si fosse
proceduto al rientro di tutti gli italiani. La prudenza dell’Italia aveva finito per rafforzare il Consiglio Rivoluzionario, ma questo sembrava comunque temere le reazioni italiane, se non altro per il riflesso che esse potevano
avere su quella parte di popolazione che era poco favorevole ai suoi orientamenti filo-egiziani.
Proprio per sondare ulteriormente la volontà libica il ministro plenipotenziario Giretti era stato inviato a Tripoli. Il diplomatico italiano aveva
avuto modo di intrattenersi lungamente con il direttore generale degli Affari Politici del ministero degli Esteri libico, Abu Kreis, e poi col ministro
degli Esteri Buessir. Giretti ribadiva, come già affermato dal ministro Moro in circostanze ufficiali, la volontà italiana di fare tutto il possibile per superare la crisi. Dichiarava inoltre che l’Italia aveva dato ormai troppe pro203
Arturo Varvelli
ve di comprensione per i problemi dei paesi in via di sviluppo e di amicizia verso i paesi arabi perché si potesse dubitare di tale volontà e ringraziava
dei provvedimenti presi dalle autorità libiche che effettivamente avevano
semplificato le procedure di rimpatrio86.
Sulla situazione della collettività italiana, Giretti poteva osservare nella sua permanenza in Libia un parziale miglioramento. A ciò aveva contribuito l’incontro tra i Ministri a Beirut e il lavoro dei funzionari italiani inviati a Tripoli. Non vi era più panico nella comunità, anche se permaneva
una condizione generale di ansia, provocata essenzialmente dal timore che
in occasione del 1° settembre, anniversario della rivoluzione, potessero avere luogo pericolose manifestazioni di nazionalismo xenofobo87.
Nel corso degli incontri Giretti aveva dichiarato al ministro libico la disponibilità italiana a continuare il dialogo «ad alto livello» con il Presidente Gheddafi e con lo stesso Buessir, una volta risolto il problema umano dei
connazionali. Fra le questioni che più interessavano l’Italia rimaneva quella, già affrontata da Moro a Beirut, circa la volontà o meno del governo libico di avvalersi in futuro del lavoro degli italiani. Appariva utile anche individuare quali particolari categorie professionali potevano ancora operare
in Libia88. Le risposte del ministro Buessir che riceveva Giretti erano perlomeno evasive. Riguardo all’incontro ad alto livello e alla sua preparazione, francamente aveva ammesso di non essere in grado di prendere alcuna
decisione senza la preventiva consultazione del Consiglio della Rivoluzione. Circa la questione delle categorie di italiani che avrebbero potuto lavorare in Libia si era limitato a fare la distinzione tra la collettività «residente», quella antica, che aveva carattere di residuo colonialista, e che non era
desiderata, e quella «importata», che era desiderata. Solamente per le imprese edili italiane era stata espressamente assicurata la possibilità di lavorare senza intoppi89.
Oltre all’incontro con le autorità libiche Luciano Giretti aveva avuto modo di avere un colloquio con il Delegato apostolico per l’Africa del
Nord, residente ad Algeri, mons. Portaluppi. Portaluppi si dichiarava convinto che le decisioni di Gheddafi e dei suoi colleghi, apparentemente difficili a spiegare e a comprendere per il loro repentino scatenarsi, rispondessero ad un disegno ben preciso e concordato con Nasser e il governo egiziano. Per il Delegato apostolico, dalle informazioni ricevute, la ventata
anticolonialista non era che il pretesto per giustificare la decisione. Il disegno era quello di sostituire gli italiani con gli egiziani, in ogni settore del204
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
l’economia libica90.
A riprova di ciò vi era il fatto evidente che dalla emanazione dei provvedimenti di confisca, un rilevante numero di egiziani aveva già raggiunto la Libia: almeno sei o sette mila persone. Questi, dalle informazioni ricevute da Giretti, erano tecnici, meccanici specializzati in vari campi, amministratori e conduttori di piccole aziende, officine e proprietà agricole.
Persino le suore negli ospedali, osservava Portaluppi, venivano prontamente sostituite con infermiere egiziane91. Anche le proprietà agricole degli Italiani sarebbero interessate, sia pure più marginalmente, ad un paese come
l’Egitto che aveva una popolazione di 35 milioni di persone, molte delle
quali con problemi di sussistenza.
Il disegno, nelle conclusioni che ne ricavava Giretti, era più ambizioso e, permeando la Libia di Egiziani, mirava alla supremazia dell’Egitto sul
piccolo paese vicino fino ad arrivare al controllo della ricca disponibilità di
petrolio della Libia92.
La reazione di Moro alle notizie sulle conversazioni avute da Giretti fu
di profonda delusione. La situazione si profilava di difficile soluzione, soprattutto in tempi brevi. L’autorità libica continuava a dilazionare molte
impegnative prese di posizione. Anche le richieste di precise garanzie che
Moro richiedeva per riavviare i rapporti tra i due paesi sembravano cadere
nel vuoto. Inoltre la presenza sempre più massiccia degli egiziani in Libia,
anche legata all’invio dei mezzi militari sovietici, che faceva temere uno scivolamento sempre più veloce di Tripoli verso il Cairo e verso Mosca, dava
poche speranze all’Italia di conservare relazioni privilegiate con la Libia e di
potervi mantenere parte della collettività. Il 14 agosto Moro annotava:
Se le intenzioni, come non c’è da dubitare, sono quelle enunciate, vi è ben poco da
trattare. Conviene far rientrare la collettività al più presto possibile, tenendo conto della data del 1° settembre. È mia impressione che così si debba fare anche per le imprese di costruzione, lasciando per ora impregiudicati i casi di ENI e FIAT. Certo converrebbe far sapere che, con ciò i rapporti fra i due paesi si chiudono per un tempo indefinito, ma temo che ciò possa far ritardare le partenze ormai urgenti93.
Moro però non rinunciava a sondare se ancora vi fosse la possibilità per
alcuni coloni e negozianti di rimanere in Libia in una condizione giuridica nuova e pienamente garantita. Moro non si rassegnava alla sospensione
delle relazioni, ma cercava - e sarebbe stata questa una costante della politica nei confronti della Libia fino alla sua visita a Tripoli nel maggio succes205
Arturo Varvelli
sivo - di lasciare sempre aperta la porta al dialogo e di dimostrare la propria
disponibilità a riavviare, non senza alcune condizioni, i rapporti tra i due
paesi. Ma le conclusioni parziali che venivano tirate ad un mese circa dai
provvedimenti non potevano che essere negative. Il primo obbiettivo che
si era posto Aldo Moro nell’incontro di Beirut con Buessir, ossia la partenza indolore degli italiani dalla Libia, sembrava poter essere ottenuto, ma le
relazioni politiche non si erano chiarite quanto il Governo italiano avrebbe voluto. Il ministro commentava amaramente:
Resta poi il fatto politico di non aver ottenuto altro che la rapida espulsione, e ciò ci
mette in difficoltà come per un insuccesso della nostra politica estera94.
Dalle missioni di Giretti in Libia, si era rilevato il fatto che gli egiziani
si accingessero con grande soddisfazione a sostituire tutti coloro che erano in procinto di partire. Questa situazione dava conferma a Moro, se ancora ve ne fosse stato bisogno, che quello dell’Egitto di Nasser in Libia si
profilava come un vero e proprio disegno egemonico e che vi erano gravi
responsabilità egiziane sulla cacciata degli italiani dalla Libia: non solo per
non avere compiuto, come invece era stato assicurato, alcuna azione in difesa degli interessi italiani, ma addirittura per aver spinto i governanti libici a prendere drastici provvedimenti nei riguardi della collettività italiana
con lo scopo di garantirsi, anche tramite il controllo dell’economia libica,
una influenza completa sul paese.
L’analisi del problema e le decisioni di Aldo Moro
Al ministero, nello stesso periodo, si era stabilito che un gruppo di lavoro sotto la direzione generale dell’Emigrazione e degli Affari Sociali tenesse riunioni periodiche a distanza di qualche giorno l’una dall’altra per
l’esame dei problemi connessi con la situazione determinatasi in Libia.
Oggetto dei lavori, a cui spesso prendeva parte il ministro Moro, ma che
solitamente erano presiedute dal segretario generale Roberto Gaja95, furono innanzitutto le condizioni degli italiani espulsi dalla Libia, le misure più adeguate per facilitarne il rimpatrio, lo stabilimento di indennizzi e
il loro reinserimento lavorativo, un’attività svolta in accordo con il Ministero degli Interni in parallelo continuava lo studio delle possibili misure
di ritorsione, una volta scartate quelle strettamente legate alle importazio206
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
ni petrolifere96. Una misura che era ritenuta applicabile, senza conseguenze negative per l’Italia, anche se di «estrema gravità», era quella di interrompere il cavo telefonico, costruito dall’Italia e da cui dipendevano tutte
le comunicazioni della Libia con il resto del mondo, compresi i paesi arabi.
Nell’eventualità, veniva osservato, non sarebbe stato necessario annunciare
esplicitamente che il cavo veniva interrotto, ma interromperlo e constatare di fatto il suo non funzionamento, lasciando implicitamente intuire che
questa era una misura di ritorsione applicata dal governo italiano e usando
questo mezzo come deterrente ad altri eventuali misure anti-italiane97.
Nel frattempo anche la direzione generale degli Affari Politici si dichiarava favorevole a cominciare a graduare alcune misure.
Dopo diverse analisi quelle che sembravano potersi applicare erano: 1)
introdurre il visto di uscita per i libici residenti in Italia; 2) essere maggiormente prudenti nella concessione dei visti a Tripoli, esigendo le referenze
in Italia e gli scopi del viaggio; 3) «porre in rubrica di frontiera» alcuni elementi noti per il loro atteggiamento antitaliano; 4) diminuire i voli settimanali dell’Alitalia e della Libyan Airlines; 5) diminuire le comunicazioni marittime mensili; 6) mettere sotto controllo il cavo telefonico e le comunicazioni in arabo per Tripoli ed il Cairo, ed eventualmente Mosca; 7)
sconsigliare gli investimenti in Libia fin quando non sarebbero state favorevolmente soddisfatte le pendenze libiche nei riguardi delle nostre grandi imprese edili; 8) iniziare sulla televisione italiana, tenendo conto che
era captata in Libia, una serie di trasmissioni che illustrassero l’opera svolta dall’Italia, prima e dopo l’indipendenza: la costruzione di strade, i lavori effettuati nei siti archeologici, le bonifiche agricole, le ricerche geologiche, ecc.; 9) iniziare anche una serie di trasmissioni sulla politica italiana
nel Mediterraneo: sulla possibilità di sviluppare i reciproci rapporti economici anche alla luce della politica comunitaria, accuratamente evitando di
parlare dell’Egitto, magari facendo risaltare la politica positiva svolta dall’Algeria98.
I consigli della direzione generale degli Affari Politici venivano in parte accolti da Aldo Moro. Il ministro si riprometteva di meditare su queste questioni. Era però in perfetto accordo sulla politica da adottare con
l’Egitto. Quello dell’Egitto era percepito come un vero tradimento, poiché
il governo italiano aveva posto grande fiducia, fin dal dicembre precedente, in una sua azione presso i libici a favore dell’Italia. Moro esprimeva così il proprio pensiero:
207
Arturo Varvelli
è ovvio che, in questa fase, conviene essere molto cauti nelle aperture economiche all’Egitto, al quale va detto in tutte lettere che siamo delusi per quello che non ha fatto
(sottointendendo quello che ha fatto) relativamente alla Libia in questa circostanza99.
Riguardo alle misure da adottare, Moro prendeva alcune decisioni. Bocciava la possibilità di richiedere il visto d’uscita per i libici, poiché avrebbe
significato con molta probabilità rendere più difficile l’esodo della comunità italiana. Concordava, invece, sulla necessità di misure volte a frenare
l’entrata dei libici in Italia. Ma la questione più importante era sicuramente quella del controllo dei libici in Italia. A Roma infatti avevano il loro
centro gli ex-notabili del passato regime che complottavano apertamente,
e alcuni membri del Consiglio Rivoluzionario avevano compiuto frequenti
viaggi100. Moro, in proposito, dava indicazione che il Sid, il servizio segreto
italiano, mantenesse contatti con i libici in Italia. Questa sarebbe risultata
una politica produttiva nei mesi seguenti, permettendo all’Italia, insieme
al controllo del cavo telefonico sottomarino, per il quale veniva dato il via
libera, di venire a conoscenza dei movimenti degli esuli libici e della preparazione di un piano per la sostituzione di Gheddafi101.
Riguardo le trasmissioni televisive Moro suggeriva un atteggiamento
molto prudente: esse erano «una cosa assai delicata, ma sarebbe bene che
qualche cosa fosse fatto a commento degli avvenimenti e senza esaltazione
del periodo coloniale»102. Scartate le azioni di forza e le rappresaglie economiche poco efficaci e che avrebbero solamente esacerbato gli animi, Aldo Moro si apprestava, quindi, ad un paziente lavoro di persuasione presso il governo libico che lo convincesse «dell’ingiustizia commessa». Andava quindi evitato ogni elemento che potesse acuire la tensione: anche eventuali trasmissioni televisive dovevano andare in tal senso, nel tentativo, che
ora si profilava a lunga distanza, di riparare gradatamente le lacerazioni inflitte al tessuto dei rapporti tra i due paesi103.
La richiesta di Moro a U Thant a protezione della comunità italiana
Da metà agosto il flusso dei rimpatriati era considerevolmente aumentato e il ministero degli Esteri si era adoperato con gli altri dicasteri competenti perché le operazioni di rimpatrio si svolgessero in maniera efficiente
e con la necessaria assistenza. Le misure che venivano valutate erano quelle di carattere pratico, come il trasporto degli italiani con mezzi marittimi
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L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
straordinari, l’accoglimento dei profughi in centri di raccolta, la sistemazione dopo il primo periodo, se possibile, in alberghi e pensioni, la concessione e l’erogazione di anticipi di indennizzo e di forme di credito agevolato che potessero consentire di riprendere le proprie attività economiche,
soprattutto quelle artigianali e di piccolo commercio104.
La preoccupazione del ministero, come si è già ricordato, era che più
italiani possibile potessero lasciare la Libia entro il 1° settembre, anniversario della rivoluzione, giorno in cui molti temevano il verificarsi a Tripoli manifestazioni anti-italiane. Il ministro Moro, a proposito, dava ordini all’ambasciatore Borromeo di compiere i passi necessari per evitare che
le celebrazioni del 1° settembre, che stavano determinando tante ansie negli italiani in Libia e che erano in parte anche all’origine «di questa forse
eccessiva psicosi di precipitato rientro», avessero a svolgersi in maniera da
non ledere l’incolumità e la dignità degli Italiani rimasti. Azioni parallele erano condotte presso l’Incaricato d’Affari libico e l’ambasciatore egiziano a Roma, con cui ormai Moro giocava a carte scoperte. Le indicazioni
del ministro erano di manifestare l’apprensione italiana per l’esodo massiccio che avrebbe privato la Libia non solo della vecchia collettività, ma anche di quella nuova composta da elementi affluiti negli ultimi anni per la
realizzazione di importanti opere, necessarie allo sviluppo economico della
Libia105. Questo esodo non solo suscitava amarezza e gravi preoccupazioni
nell’opinione pubblica italiana, ma veniva anche ad incidere sul piano politico, poiché se non fossero intervenuti immediati provvedimenti capaci
di assicurare una nuova e garantita condizione agli italiani, sarebbe venuta meno ogni possibilità di trattative per il rilancio di una moderna e fruttuosa collaborazione italo-libica. L’Italia, in sostanza, chiedeva disposizioni
che rassicurassero gli italiani di più recente immigrazione e di varia condizione, possibilmente prima del 1° settembre106. A risposta delle preoccupazioni italiane, espresse già in una lettera inviata da Moro i primi di agosto,
dopo l’incontro di Beirut, il ministro degli Esteri libico Buessir trasmetteva un messaggio che tuttavia non rassicurava affatto gli italiani che direttamente non erano stati colpiti dai provvedimenti di confisca. Buessir, ribadendo che i provvedimenti presi non erano propriamente diretti contro la
collettività italiana residente in Libia, specificava che essi tendevano «a restituire alcuni diritti legittimi alla Libia sulle sue terre e alle sue proprietà,
precedentemente usurpate o sfruttate per tanti anni»107. Nonostante le garanzie che dava Buessir nella stessa lettera sulla piena protezione delle mi209
Arturo Varvelli
noranze straniere in Libia, le manifestazioni previste per il 1° settembre
continuavano a creare forti apprensioni e a polarizzare l’attenzione della
Farnesina108. Era interesse italiano, oltre che le procedure di rientro avvenissero senza incidenti, che alle manifestazioni libiche, data la situazione
di crisi nei rapporti tra Italia e Libia e il torto subito dalla collettività italiana, non vi fosse la partecipazione di delegazioni ufficiali, soprattutto di
paesi amici109. In questa direzione vennero prima sondati i governi occidentali e poi compiuti passi affinché ciò non avvenisse. In particolare una
partecipazione della Francia, che sembrava avere buone relazioni coi libici,
destava perplessità. L’ambasciatore italiano a Parigi Malfatti, su indicazioni
di Moro contattava il Quai d’Orsay e otteneva una parziale risposta positiva alle richieste italiane: il governo francese rinunciava ad inviare a Tripoli
un sottosegretario di Stato in occasione delle celebrazioni del primo anniversario della Rivoluzione libica, come era stato preventivato, ma riteneva
invece di dover mantenere la risposta favorevole data alla richiesta del governo libico di consegnargli 4 tra i Mirages dell’accordo stipulato, così che
potessero prendere parte alla sfilata militare programmata per quei giorni.
Ciò veniva fatto, nelle dichiarazioni dei francesi, per mantenere quella influenza presso il Consiglio Rivoluzionario, che Parigi desiderava utilizzare anche a favore dell’Italia110. Il ministro degli Esteri Moro non si dichiarò soddisfatto di questa decisione francese. Il governo italiano era amareggiato del fatto che «il gran parlare» che si faceva a Parigi e a palazzo Farnese
di cooperazione italo-francese nel Mediterraneo non trovasse una concreta
applicazione in quella circostanza111.
La decisione francese di inviare i Mirages, che avrebbero regolarmente
partecipato alla parata militare il 1° settembre, guidati da piloti egiziani e
francesi, fu comunque presa, ma il problema italiano venne portato all’attenzione delle autorità libiche da parte dei francesi. L’ambasciatore francese a Tripoli Georgy incontrava infatti, il 31 agosto, prima dell’inizio delle manifestazioni, il numero due della rivoluzione, il maggiore Jallud, ricevendo rassicurazioni circa l’incolumità degli italiani112.
Le celebrazioni di Tripoli, che durarono diversi giorni, si svolsero senza particolari incidenti. Tuttavia il Colonnello Gheddafi non si trattenne
dal vantarsi pubblicamente della confisca dei beni italiani. Questa era certamente una carta troppo importante per non essere giocata sul piano interno, alla ricerca del consenso dell’opinione pubblica del proprio paese.
Gheddafi si compiacieva, nei suoi discorsi pubblici, nell’elencare il gran
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L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
numero di consiglieri stranieri espulsi, compresi 127 italiani. Inoltre forniva dati precisi riguardo ai beni confiscati alla comunità italiana, che definiva «cancro italiano»113. L’ammontare dei beni espropriati, in base alle prime perizie che venivano svolte in Libia dagli addetti commerciali del ministero, erano misurabili tra 140 e 195 miliardi di lire. Nei primi giorni di
settembre a questa situazione andava aggiunta la nazionalizzazione completa delle banche e la confisca della partecipazione italiana, che faceva seguito alla loro libicizzazione nel novembre del 1969 e contravveniva all’impegno che il governo libico aveva assunto non più tardi del 12 luglio con
la stipulazione di accordi con il Banco di Roma e con il Banco di Napoli114. Ciò che ne ricavava la Farnesina era la conferma della scelta di Gheddafi di non rispettare gli accordi internazionali. Il disprezzo del regime libico verso i diritti della minoranza italiana e l’emergenza di carattere umanitario aveva spinto già Moro il 5 agosto a indirizzare al Segretario Generale
delle Nazioni Unite una lettera con la quale, dopo «l’azione di informazione» che era già stata svolta il 23 luglio, all’indomani del decreto di confisca, aveva richiamato l’attenzione sulle violazioni del diritto internazionale
e dei diritti dell’uomo perpetrate da parte libica e aveva richiesto a U Thant
di considerare la maniera più opportuna di svolgere un’azione al fine di garantire ai cittadini italiani in Libia il rispetto dei diritti umani, facilitare i
rimpatri, ed assicurare condizioni normali di esistenza a coloro che avessero desiderato rimanere sul posto, con il consenso delle autorità libiche. Per
tutto il mese di agosto tuttavia il Segretario Generale dell’Onu non aveva
compiuto alcun passo con il governo libico115.
Proprio il 1° settembre, in coincidenza coi festeggiamenti libici, Moro
si incontrava a Roma con U Thant, in occasione di una sua sosta, e gli ribadiva le considerazioni già fatte a inizio agosto. Per l’Italia, che aveva sempre operato nel modo più corretto verso la Libia indipendente e aveva contribuito allo sviluppo economico e sociale del paese, l’atteggiamento libico
nei suoi confronti creava problemi che provocavano «giuste reazioni emotive» nella pubblica opinione italiana e rendeva al governo italiano più difficile il perseguimento della politica di apertura e di equilibrio verso i paesi
mediterranei. Moro richiamava ancora l’attenzione del segretario generale
delle Nazioni Unite sugli sviluppi della situazione creata dai provvedimenti presi dal governo libico nei confronti della collettività italiana, in violazione della Risoluzione dell’assemblea dell’Onu del 1950 e dell’accordo
italo-libico che ne costituiva l’applicazione. Esprimeva inoltre la propria
211
Arturo Varvelli
insoddisfazione per l’inattività dell’Onu sulla questione. Da parte italiana
non era ancora stato richiesto un intervento formale del segretario generale. Moro infatti faceva sapere a U Thant che il governo italiano sperava che
il Segretario Generale agisse indipendente da una richiesta ufficiale116. Un
intervento presso l’Onu da parte italiana avrebbe comportato sicuramente un ulteriore pericoloso peggioramento dei rapporti con la Libia, mentre ancora l’esodo degli italiani era in corso. Ma durante i colloqui avuti
tra il ministro italiano e il segretario generale in quella occasione, era parso
chiaro, con disappunto di Aldo Moro, che non era intenzione di U Thant
intervenire tempestivamente. Soltanto a fine settembre infatti il segretario
generale delle Nazioni Unite avrebbe consegnato un promemoria sulla situazione riguardante il trattamento della comunità italiana al rappresentante libico all’Onu117.
La ripresa delle relazioni italo-libiche: il lento riavvio di un dialogo
Nel mese di settembre il problema di carattere umanitario si era praticamente risolto con il rientro in patria di gran parte della comunità. Nei
due mesi successivi al decreto di Gheddafi, gli italiani rientrati in patria
erano stati più di 12 mila. I conti tenuti dal ministero degli Affari Esteri registravano esattamente 9.325 rimpatriati per via marittima e 2.858 per via
aerea. Il rientro si era svolto in maniera dignitosa e senza gravi problemi.
Questo permetteva al ministro Moro di affermare che l’azione intrapresa
dal ministero presso le autorità libiche, i contatti mantenuti con l’Incaricato d’Affari libico a Roma e con i governi di paesi amici e di paesi arabi
avevano raggiunto il loro risultato. Erano stati infatti ottenuti dalle autorità libiche importanti concessioni: la riduzione ad uno soltanto dei documenti richiesti per la partenza, l’autorizzazione al ritiro dai conti correnti
di una modesta somma, il permesso di esportare le proprie masserizie, gli
oggetti personali, i mobili ed una autovettura per famiglia, e corretti controlli doganali118.
Nel mese di settembre - mese critico in Medio Oriente per i sanguinosi combattimenti tra il governo giordano e il movimento di resistenza palestinese, e il conseguente emergere di acute contraddizioni e aspri contrasti
all’interno del mondo arabo - avveniva un ulteriore rimpasto ministeriale in Libia. In seguito ai numerosi scontri interni, di cui tutte le diplomazie occidentali avevano avuto notizia, Gheddafi mutava i rapporti di pote212
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
re all’interno del governo con un rafforzamento della componente militare119. Il cambiamento più importante riguardava proprio il ministero degli
Esteri, che veniva tolto a Buessir e affidato al maggiore Mohammed Najm.
Najm aveva presieduto il tribunale militare speciale costituito per giudicare trentadue persone implicate in un complotto contro Gheddafi. Era,
quindi, in quel momento, un uomo fidato del Colonnello. Aveva anche
fatto parte di un comitato interarabo che nel giugno precedente era riuscito a concordare una tregua proprio tra giordani e palestinesi. Il nuovo ministro degli Esteri era, tuttavia, un giovane piuttosto inesperto di politica
estera, fatto che fece correttamente presumere un’ulteriore presa di potere
e di controllo del ministero da parte di Gheddafi. Nella funzione di sottosegretario veniva confermato Mansour El Kikhia, una delle più attive e influenti personalità all’interno del ministero degli Esteri libico, che avrebbe assunto un ruolo sempre più importante nel Ministero, venendo, di fatto, a reggerlo dai primi mesi del 1971. Anche di fronte a questi interlocutori l’atteggiamento italiano nel settembre del 1970 rimaneva improntato
all’apertura. Moro riteneva necessario per motivazioni economiche e politiche salvare qualcosa nelle relazioni con la Libia. Nel momento in cui
buona parte dei partiti e dell’opinione pubblica italiani sembravano essere
maggiormente sensibili alla causa araba e al problema palestinese120, Moro
non voleva compromettere la politica di amicizia coi paesi arabi, che stava
riscontrando l’approvazione di un largo schieramento politico in Italia.
La volontà di distensione da parte italiana era manifestata dalle decisioni di non espellere i libici che si trovavano in Italia a diverso titolo e di non
ritirare l’ambasciatore da Tripoli. Quest’ultima scelta veniva presa a seguito dell’invio di una lettera del nuovo ministro degli Esteri Libico Majm al
ministro Moro121. Il 22 settembre l’ambasciatore Giovanni Lodovico Borromeo era, infatti, convocato al ministero degli Affari Esteri libico, dove
il nuovo direttore generale degli Affari Politici Ali El Treki, gli consegnava una lettera di Najm indirizzata ad Aldo Moro. Treki nell’accompagnare la consegna della lettera si rivolgeva a Borromeo con alcune significative
espressioni: «una pagina che si chiude», «recupero dei beni tolti ai libici»,
«azione compiuta non in odio agli italiani», «nuove relazioni con l’Italia»122.
La lettera poteva essere valutata, nel suo complesso, come promettente.
Il nuovo ministro libico riteneva chiusa di fatto una fase delle relazioni tra
i due paesi. Ripeteva che i provvedimenti presi dal Governo rivoluzionario
nei riguardi dei cittadini italiani e dei loro beni miravano all’abolizione dei
213
Arturo Varvelli
residui del passato coloniale e alla rettifica, imposta da esigenze nazionali,
di alcune condizioni. Nella lettera si esprimeva chiaramente la volontà di
iniziare una nuova fase delle relazioni, al fine di sviluppare una produttiva
cooperazione «all’insegna del mutuo rispetto». La missiva apertamente indicava quali erano le aspettative e gli interessi dei libici:
Tale cooperazione, alla quale noi miriamo, è possibile che si sviluppi attraverso scambi gli commerciali e gli accordi relativi ad essa in diversi campi, e attraverso il lavoro
compiuto dalle imprese e dai tecnici italiani allo scopo di contribuire al progresso economico in vista di un prospero futuro del nostro paese123.
Sarebbero stati considerati «ospiti graditi» in Libia gli italiani che avessero lavorato coi libici «per il raggiungimento di questo obiettivo, anche
se residenti nel paese fin da prima, a condizione che non [fossero] legati al
passato colonialista». Era la prima volta che veniva fatta da parte del governo libico una dichiarazione così esplicita. La lettera garantiva inoltre che
non ci sarebbe stato nessun caso di discriminazione nel trattamento dei
nuovi italiani rispetto agli altri stranieri residenti in Libia. Il ministro Najm
terminava rinnovando l’invito a visitare la Libia che era già stato rivolto in
precedenza, al fine di poter esaminare le modalità più opportune di cooperazione tra i due paesi124. La lettera costituiva una evidente base per aprire trattative tra i due paesi che si sarebbero protratte fino al febbraio 1974,
con la firma del trattato di cooperazione tra Italia e Libia. Da parte sua il
governo italiano, e Aldo Moro in particolare non avevano ancora rinunciato alla richiesta di risarcimenti al governo libico per i decreti di confisca,
tuttavia la lettera di Najm era la parziale apertura che l’Italia attendeva per
poter riportare la questione sul piano del negoziato.
Una prima indiretta risposta del governo italiano arrivava due giorni
dopo quando, alla Commissione Esteri della Camera, Moro dava pubblicità della missiva di Najm: dall’apertura libica ricavava la prova che la politica seguita fino a quel momento dall’Italia era stata saggia e avveduta nella sua moderazione e, soprattutto, poteva portare a risultati concreti. Questo era dimostrato dal desiderio espresso dal governo libico di riprendere
il cammino della collaborazione tra i due paesi. Moro esprimeva apprezzamento per questi intendimenti e, pur non nascondendo affatto che il dialogo non sarebbe stato facile, poiché il contenzioso tra Italia e Libia rimaneva pesante, dichiarava di aspettarsi che la buona volontà espressa da par214
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
te libica trovassero conferma in provvedimenti concreti125. Il 28 settembre
Aldo Moro rispondeva a Najm ribadendo il proprio apprezzamento per i
propositi espressi nella lettera e facendo orgogliosamente presente che da
oltre venti anni, ormai, l’Italia aveva costantemente e chiaramente dimostrato, in ogni manifestazione concreta della sua politica, la più sincera
comprensione per le esigenze dei paesi come la Libia, «giovani per recente
indipendenza e antichi per nobiltà di tradizioni e di cultura». Per Moro si
rendeva necessario un superamento della crisi: occorreva che a breve i due
governi si adoperassero di comune accordo per avviare e condurre a buone
fine un negoziato inteso a dare giusta soluzione ai problemi pendenti e a
porre le basi di una collaborazione futura. Il ministro italiano non si limitava a dichiarazioni di principio, ma offriva la propria disponibilità e volontà ad aprire immediatamente le pratiche preliminari per il negoziato:
Posso assicurare Vostra Eccellenza che questa buona volontà esiste da parte italiana e
che siamo senz’altro disposti a intavolare un negoziato del genere, inviando a Tripoli
persona di mia piena fiducia abilitata a condurlo, che potrebbe essere costì fin dai prossimi giorni e che potrebbe eventualmente essere assistita da esperti126.
La volontà di Moro era di riuscire, tramite contatti preliminari, a concordare una bozza di intesa prima di recarsi a Tripoli, evitando di giungere
in visita senza una linea di convergenza prestabilita tra le due parti e con il
pericolo di vedere fallire l’incontro. Egli infatti si preoccupava di assicurare Najm e Gheddafi che, appena predisposto l’incontro attraverso contatti
che avrebbero chiarito i problemi e le questioni pendenti, sarebbe stato lieto di accogliere l’invito a recarsi presso il governo libico.
Le ultime decisioni di Gheddafi dopo la scomparsa di Nasser
La proposta di incontri preparatori fatta da Aldo Moro riceveva prontamente risposta da parte di Gheddafi tramite l’Egitto. Moro non aveva rinunciato a fare pressioni sull’Egitto affinché le relazioni tra Italia e Libia
potessero di nuovo regolarmente incanalarsi. È presumibile pensare che
il ministro degli Esteri italiano ritenne che Nasser non volesse deteriorare i rapporti con un paese amico, e fosse anche in debito verso l’Italia, sia
per l’attività diplomatica che l’Italia svolgeva circa il conflitto con Israele,
sia per gli aiuti economici e tecnici, che ancora il maggio precedente era215
Arturo Varvelli
no stati concessi all’Egitto. L’ambasciatore italiano al Cairo, Eugenio Plaja,
teneva i contatti con gli egiziani sulla questione libica. Anche l’ambasciatore egiziano a Roma Mortagui era stato diverse volte interpellato nel mese di settembre sempre al fine che fosse facilitato il rimpatrio degli italiani
dalla Libia, con risultati che al governo italiano era sembravano più positivi che nei mesi precedenti. Finalmente la tattica italiana dava i suoi frutti. Il 24 settembre Mortagui comunicava che Nasser era intervenuto presso Gheddafi a favore dell’Italia. Il Colonnello libico si era detto disposto a
ricevere nelle settimane successive i rappresentanti italiani, al fine dirimere
il contenzioso tra Italia e Libia e di migliorare le relazioni tra i due paesi127.
In questo modo indiretto Gheddafi accoglieva la proposta di Moro.
L’intercessione di Nasser presso Gheddafi era avvenuta in un momento estremamente burrascoso per la questione mediorientale. In quei giorni,
durante la riunione dei capi di stato arabi, il Presidente egiziano era riuscito a portare al tavolo delle trattative il governo giordano e i rappresentanti del movimento di resistenza palestinese dopo dieci giorni di combattimenti. Grazie alla sua mediazione, il 27 settembre, si perveniva ad un accordo di tregua. Il giorno successivo Nasser moriva a causa di un attacco
cardiaco. La scomparsa di Nasser privava la leadership libica di quello che,
non solo era stato per più di un anno il maggiore referente politico, ma anche di una guida carismatica. La morte di Nasser e la sua sostituzione con
Anwar al Sadat avrebbe avuto nei mesi e negli anni seguenti importanti
implicazioni nelle relazioni tra Libia ed Egitto, non solo per il venir meno del rapporto personale di amicizia che aveva nutrito Gheddafi, ma anche per la diversità di orientamenti politici tra Sadat e Nasser in relazione
al mondo arabo e agli scenari internazionali. La scomparsa di Nasser, una
personalità generalmente apprezzata e ammirata in Libia, così come in tutto il mondo arabo, era destinata ad accrescere il malumore e l’intolleranza
per la posizione di subalternità che la Libia aveva assunto nei confronti dell’Egitto128. Lo stesso Gheddafi aveva accettato con entusiasmo la guida e la
protezione di Nasser. Non sarebbe stato lo stesso con Sadat129.
Proprio i funerali di Nasser al Cairo il 1° ottobre avrebbero costituito
una prima presa di contatto diretta tra Moro e Gheddafi, una anticipazione dell’incontro successivo. Un breve colloquio tra i due confermava la disponibilità all’apertura del negoziato e l’interesse libico a ricreare relazioni
proficue con l’Italia130. A seguito dell’abboccamento il presidente Gheddafi
aveva rilasciato alla televisione, nei giorni successivi, alcune dichiarazioni,
216
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
menzionando tra gli amici dei popoli arabi l’Italia al pari della Francia131.
Il ministro Moro a inizio di ottobre poteva quindi rilevare che dagli elementi emersi il governo libico intendesse riesaminare i rapporti tra i due
paesi, con l’intenzione di migliorarli. Il 5 ottobre però il governo italiano
doveva dubitare ancora delle reali intenzioni di Gheddafi. Le Autorità di
Tripoli invitavano infatti il resto degli italiani residenti in Libia a lasciare il
paese entro il 15 ottobre132.
Il carattere ultimativo della richiesta sconcertava e stupiva Moro e la
Farnesina. Questa pretesa contraddiceva il contenuto della lettera di Najim
del 22 settembre. A seguito della vicenda l’ambasciatore Borromeo interveniva per chiedere la sospensione del provvedimento o perlomeno lo spostamento del termine133, mentre, ancora una volta, era fatto presente ai
paesi arabi amici quanto le nuove misure di espulsione fossero intempestive e inopportune. Moro a seguito della richiesta decideva di richiamare provvisoriamente l’ambasciatore Borromeo dalla Libia, convocandolo a
Roma. Il ministro il 13 ottobre, parlando di fronte alla commissione Esteri del Senato lanciava un chiaro messaggio ai libici: erano necessari segnali di coerenza. Se davvero si voleva preparare un avvenire di fruttuosa collaborazione, occorreva un atteggiamento lineare che traducesse in decisioni di governo e in fatti concreti le buone intenzioni che a tratti venivano
espresse134. Il 18 ottobre Gheddafi poteva annunciare con soddisfazione
che l’ultimo scaglione di italiani indesiderati era partito135. Le autorità libiche, nei mesi successivi, avrebbero cancellato anche i segni della passata presenza degli italiani. Così sarebbe stato chiuso il loro organo di stampa «Il Giornale di Tripoli», mentre la Cattedrale del Sacro Cuore di Gesù
sarebbe stata trasformata in moschea e intitolata a Nasser. Venivano inoltre rimossi o abbattuti i monumenti che ricordavano la conquista italiana,
e qualche mese più tardi sarebbe anche stato smantellato «per esigenze di
carattere urbanistico», il cimitero cristiano, costringendo il governo italiano al reimbarco delle salme, compresa quella di Italo Balbo, di circa 20 mila soldati caduti in Libia136.
217
Arturo Varvelli
Note al testo
1
ASMAE (Archivio storico del ministero degli Affari Esteri), Moro (ministro degli Esteri) a Borromeo (ambasciatore a Tripoli), telegramma n. 14656, 27 luglio 1970. Aldo Moro scriveva:
«Solo alla vigilia del discorso di Misurata ci si dichiarò disposti ad accogliere le nostre rinnovate richieste di un incontro».
2
C. Segrè, L’Italia in Libia: dall’età giolittiana a Gheddafi, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 205206.
3
Archivio Eni, Direzione Estera, fascicolo 170 C, traduzione del testo della legge n. 69/70, Law
nationalizing fuel distribution.
4
Archivio Eni, Direzione Estera, fascicolo 170 C, appunto del 24 agosto 1970.
5
Ronald Bruce St. John, Qaddafi’s world design: libyan foreign policy 1969-1987, Saqi Books,
London 1987. La strategia libica in un primo periodo fu quella di concentrare le pressioni
sulle compagnie indipendenti per le quali il petrolio libico rappresentava una larga parte delle proprie risorse di greggio e particolarmente vulnerabile sotto il profilo della diversificazione delle risorse.
6
L’ambasciatore Borromeo in un rapporto seguente al discorso avrebbe riportato riguardo l’atteggiamento di Gheddafi durante l’invettiva: «Chi lo ha visto in televisione è rimasto impressionato dal timbro della voce e dal frequente asciugarsi la bocca». ASMAE, Borromeo a MAE,
telegramma n. 28700, 13 luglio 1970.
7
«Corriere della Sera», 11 luglio 1970.
8
ASMAE, Borromeo al MAE (ministero degli Affari Esteri), telegramma n. 28700, 13 luglio
1970.
9
Rumor il 6 luglio 1970 dava le proprie dimissioni aprendo una crisi formale che già si trascinava da tempo. L’incarico venne inizialmente dato ad Andreotti, che però non riuscì a formare il
governo. La mano passò così a Colombo che riuscì solamente all’inizio di agosto a formare un
governo di centro-sinistra. Cfr. A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia Cristiana dal
1942 al 1994, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 141.
10
ASMAE, Borromeo al MAE, telegramma n. 28700, 13 luglio 1970.
11
ASMAE, nota di servizio, da Segreteria generale a Tripoli, 11 luglio 1970.
12
Borromeo scriveva: «Kikhia ha voluto spiegarmi che Gheddafi non è un diplomatico ma un vero rivoluzionario, e pertanto luogo e modo del suo invito al Ministro degli Esteri italiano non
alterano un sincero, anche se rustico, desiderio di incontrarsi con l’Onorevole Moro». A questa frase il direttore generale degli Affari Politici del ministero, l’ambasciatore Roberto Ducci,
esprimendo il proprio scetticismo circa le precisazioni di Kikhia, annotava rivolgendosi al direttore dell’Ufficio IX, Mediterraneo e Medioriente, Frank Maccaferri: «Maccaferri: mi pare
esageri!»; Cfr. ASMAE, Annotazione di Ducci al telegramma di Borromeo a MAE, n. 28700,
13 luglio 1970.
13
ASMAE, appunto della ditrezione generale dell’Emigrazione e degli Affari Sociali per il ministro Moro, 15 luglio 1970.
14
Ibidem.
15
ASMAE, Annotazione di Moro, 18 luglio 1970, all’appunto della direzione generale dell’Emigrazione e degli Affari Sociali, 15 luglio 1970. A seguito delle indicazioni di Moro, il segretario generale del ministero, Roberto Gaja, dava immediate istruzioni perché si provvedesse con
gli egiziani.
218
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
16
Non erano mancati avvertimenti, come quelli fatti a Borromeo circa la necessità che «entro
breve tempo la Libia [dovesse] essere ripulita dai residui del colonialismo italiano» (Mino Vignolo, Gheddafi. Islam, petrolio e utopia, Rizzoli, Milano 1982, p. 137), o quelli che, secondo
la documentazione britannica, intimavano il rientro di almeno una parte della comunità come
presupposto al mantenimento della maggior parte della stessa (PRO – Public Record Office,
FCO, 39-825, «Political Relations between Libyan Arab Repubblic and Italy», Kealy, Tripoli, a
Morris, North Africa Dept., 14 ottobre 1971), ma ampiamente sottovalutati. Borromeo dopo
la cacciata degli italiani avrebbe infatti dichiarato: «Io non credevo che Gheddafi avrebbe mantenuto la minaccia» (Mino Vignolo, Gheddafi. Islam, petrolio e utopia cit., p. 137).
17
ASMAE, Borromeo a MAE, telegramma n. 29480, 17 luglio 1970.
18
Ibidem.
19
Ibidem.
20
Ogni proprietario italiano aveva l’obbligo di presentarsi al ministero degli Alloggi o all’Ente
per la riforma agraria entro 30 giorni dichiarando tutto quello che era in suo possesso. Nei successivi cinque articoli erano contenute le disposizioni per la denuncia dei beni ed erano elencate le sanzioni (un anno di carcere) per chi non avesse presentato la dichiarazione o l’avesse presentata infedele. ASMAE, Borromeo al MAE, telegramma n. 30002, 21 luglio 1970.
21
Ibidem.
22
ASMAE, Moro a Plaja, telegramma n. 14406, 23 luglio 1970.
23
ASMAE, Appunto per l’on. ministro della DGAE, 25 luglio 1970.
24
Ibidem.
25
Ibidem.
26
Lo scopo di questa azione era di fare realizzare ai paesi arabi le conseguenze dell’atteggiamento
libico nei confronti dell’Italia. ASMAE, Moro a ambasciate dell’area mediorientale, telegramma n. 14404, 23 luglio 1970.
27
Angelo Del Boca, Gheddafi: una sfida dal deserto cit., pp. 46-47; «Il Corriere della Sera», 22
e 23 luglio 1970; «Il Giorno», 22 luglio 1970; «La stampa», 22, 23 e 24 luglio 1970; «l’Unità», 22 e 23 luglio 1970.
28
Angelo Del Boca, Gheddafi: una sfida dal deserto cit., pp. 46-47.
29
Ibidem.
30
Documentazione in «Relazioni Internazionali», 8-15 agosto 1970, p. 792.
31
Nel dare i chiarimenti del caso all’ambasciatore dell’Arabia Saudita, il vice direttore degli Affari Politici, Perrone Capano, faceva notare che questo nesso non poteva esistere poiché il discorso di Misurata era precedente alla pubblicazione della notizia stessa e anche per il fatto che
da tempo il Ministero considerava possibile l’adozione di misure vessatorie nei confronti dell’Italia. ASMAE, Appunto del vice direttore generale degli Affari Politici Perrone Capano, 23
luglio 1970.
32
Il ministro Moro a seguito della vicenda, mostrando come in realtà non considerasse la questione del tutto ininfluente, inviava al ministro della Difesa Tanassi una lettera per fargli presente quanto negativamente avesse influito la mancata smentita del fatto nella politica italiana
coi paesi arabi e con la Libia stessa. ASMAE, Annotazione di Moro all’appunto del vice direttore generale degli Affari Politici Perrone Capano, 23 luglio 1970.
33
Ben Halim, ancora di giovane età, viveva in quel periodo a Beirut lavorando come consulen-
219
Arturo Varvelli
te di alcune compagnie petrolifere. Moderatamente progressista, a capo del governo Ben Halim era riuscito a impedire l’uso delle basi inglesi in Libia contro l’Egitto nel 1956. Ciò gli aveva fatto valere l’amicizia di Nasser.
34
ASMAE, appunto per il segretario generale Gaja del direttore generale del Personale Ferraris,
24 luglio 1970.
35
Ibidem. Sull’immaturità della Giunta rivoluzionaria, Ben Halim citava anche un giudizio di
Nasser, il quale nel fargli pervenire tramite un amico comune un’offerta di asilo politico, aveva
aggiunto che un eventuale passo in suo favore presso i dirigenti libici avrebbe raggiunto un effetto controproducente, «data la mentalità infantile e settaria di quei ragazzi». Le parole di Nasser riferite da Ben Halim potevano mettere seri dubbi sulla reale volontà dell’Egitto di condurre l’azione di intercessione richiesta da Moro sul governo libico.
36
ASMAE, lettera di Rumor a Gheddafi, senza data.
37
ASMAE, Appunto del vice direttore generale degli Affari Politici Perrone Capano, 22 luglio
1970.
38
Ibidem.
39
ASMAE, Appunto di Soro per Moro n. 073/14463, 23 luglio 1970. Le intenzioni del governo
italiano erano state nei mesi precedenti proprio quelle di incrementare le esportazioni di petrolio dalla Libia. Infatti la ridotta erogazione di greggio dalla Libia, congiuntamente alla chiusura del canale di Suez, all’aumento dei posted price da parte dell’Algeria, aveva formato da tempo oggetto di viva preoccupazione da parte della direzione generale degli Affari Economici del
ministero per le sue incidenze sui costi dell’energia in Italia, tanto che si era prevista la convocazione di una riunione dei ministri sulla questione.
40
ASMAE, allegato all’appunto di Soro per Moro n. 073/14463, 23 luglio 1970.
41
Era stato Soro a chiedere l’analisi all’Eni. Archivio Eni, Giuseppe Ratti a Soro, 24 luglio
1970.
42
ASMAE, Appunto della direzione generale degli Affari Economici, 23 luglio 1970.
43
ASMAE, Appunto della direzione generale degli Affari Economici per il ministro, 25 luglio
1970.
44
Ibidem
45
La frase è pronunciata da Roberto Gaja, segretario generale della Farnesina, durante una riunione con il ministro Moro tenuta il 29 luglio. Cfr. ASMAE, verbale della «Riunione sulla situazione del Medio Oriente, il piano Rogers e la Libia presieduta dall’ambasciatore Gaja, presente il ministro Moro», 29 luglio 1970.
46
Angelo Del Boca, Gli Italiani in Libia cit., pp. 471 e ss. La comunità prima della partenza
era obbligata a svolgere una quantità di pratiche vessatorie, che si trasformavano in umiliazioni poiché venivano fatte sotto la stretta sorveglianza e spesso sotto i dileggi e i maltrattamenti della polizia libica.
47
ASMAE, Moro a Borromeo, telegramma in partenza n. 14656, 27 luglio 1970.
48
ASMAE, lettera di Giuseppe Saragat a Gheddafi, 28 luglio 1970.
49
ASMAE, lettera di Gheddafi a Giuseppe Saragat, 29 luglio 1970.
50
Pietro Nenni, I conti con la storia. Diari 1967-1971, Sugarco Edizioni, Milano 1983, p.
494.
51
La Farnesina considerava probabile che i provvedimenti presi contro l’Italia fossero la conse-
220
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
guenza dell’instabilità interna del regime che cercava di scaricare così le proprie tensioni interne su una collettività straniera. ASMAE, verbale di riunione cit., 29 luglio 1970.
52
Il piano del segretario di Stato americano era finalizzato, attraverso tappe prestabilite, a porre
fine agli scontri tra Egitto e Israele. Il piano puntava all’adempimento della risoluzione 242 del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
53
Ibidem.
54
Nelle discussioni sulla questione, la volontà italiana che emergeva era quella di non appiattirsi sulle scelte statunitensi, anche per la posizione geografica dell’Italia, che si trovava in prima linea di fronte agli stati arabi. La ricerca dell’amicizia col mondo arabo rimaneva quindi
una priorità, a maggior ragione nell’eventualità di un ritiro, anche parziale, della VI flotta statunitense. Ibidem
55
Ibidem. L’accoglimento della tregua da ambo le parti contendenti avrebbe offerto a Moro la
possibilità di presentare questo avvenimento, premessa all’attuazione del piano Rogers, come il
coronamento di un lungo sforzo diplomatico, al quale l’Italia aveva partecipato fin dall’inizio.
I suggerimenti italiani per un «cessate il fuoco» e per un controllo selettivo degli armamenti,
Moro lo avrebbe evidenziato nei suoi discorsi pubblici, venivano accolti col piano Rogers.
56
L’indennizzo sarebbe stato dato dal governo italiano, che poi si sarebbe rivalso su quello libico.
Documentazione in «Relazioni Internazionali», 8-15 agosto 1970. cit.
57
Era proprio Moro ad esprimere questo timore nelle consultazioni al Ministero, e a preventivare la necessità di «un gesto forte», senza spiegare quale potesse essere. Esso, però, sarebbe stato finalizzato esclusivamente alla tutela dei cittadini italiani. Cfr. ASMAE, verbale di riunione cit., 29 luglio 1970.
58
Ibidem.
59
ASMAE, da Mondello (ambasciatore ad Ankara) al MAE, telegramma in arrivo n. 30668, 25
luglio 1970.
60
Con il ministro francese Shuman Moro ebbe uno scambio epistolare in cui Shuman dichiarava di voler contribuire per quanto possibile ad alleviare le difficili condizioni degli italiani di
Libia. Per la Francia la presenza italiana in Libia era desiderabile soprattutto perché il rientro
dei tecnici italiani avrebbe comportato la sostituzione degli stessi con tecnici egiziani o sovietici (ASMAE, Gardini, Parigi, telegramma in arrivo n. 31373, 30 luglio 1970). Moro chiedeva
in particolare ai francesi di intervenire presso le autorità libiche, valendosi delle buone relazioni
che intrattenevano coi libici, per ottenere la facilitazione delle pratiche di rimpatrio degli italiani (cfr. ASMAE, Moro a Gardini, telegramma in partenza n. 14999, 31 luglio 1970). Preoccupazioni simili a quelle dei francesi erano espresse dagli inglesi nei contatti avuti con l’ambasciatore italiano Manzini (cfr. ASMAE, Manzini al MAE, telegramma in arrivo n. 31374, 30
luglio 1970).
61
Il ministro Moro, accompagnato da una delegazione composta dal segretario generale della
Farnesina Roberto Gaja, dal direttore degli Affari Politici Roberto Ducci e dall’ambasciatore
Carlo Calenda, in quanto maggior esperto di questioni libiche al ministero, volava prontamente a Beirut per incontrare il ministro degli Esteri libico Salah Messeud Buessir.
62
ASMAE, resoconto del ministro degli Esteri Aldo Moro alla fine dell’incontro con il collega
Buessir, allegato al verbale dell’incontro fra il Ministro degli Affari Esteri on. Aldo Moro ed il
ministro degli Affari Esteri della Repubblica Araba di Libia Salah Messud Buessir, Beirut, 1°
agosto 1970.
63
La descrizione del ministro libico era minuziosa e mescolava fatti realmente accaduti con alcuni volutamente esagerati, fino ad altri spudoratamente falsi come la denuncia di una decima-
221
Arturo Varvelli
zione della popolazione che in realtà non si era mai consumata nei termini indicati: «In Libia
vi erano campi di concentramento per centomila uomini. Si dava loro orzo, come agli animali.
Nel 1911 i libici erano tre milioni, come i tunisini. Ora i tunisini sono 4 milioni e mezzo. Noi
siamo un milione e mezzo». ASMAE, verbale dell’incontro cit., 1° agosto 1970.
64
Ibidem.
65
Ibidem.
66
Ibidem.
67
Ibidem.
68
Ibidem.
69
Ibidem.
70
Ibidem.
71
ASMAE, resoconto del ministro degli Esteri Aldo Moro alla fine dell’incontro con il collega
Buessir, allegato al verbale dell’incontro cit. , 1° agosto 1970.
72
Ibidem. L’atteggiamento di Moro sulla situazione in cui si trovava la comunità italiana era stato duro. Il ministro aveva fatto presenti le vessazioni e le angherie a cui venivano sottoposti gli
italiani che desideravano rimpatriare e faceva notare come, dai provvedimenti di confisca, non
ci fosse stato nessun italiano che avesse ricevuto il visto di uscita. Il ministro aveva dichiarato
di auspicarsi di riprendere le più cordiali relazioni con la Libia, ma che se fosse mancato un gesto del governo di Tripoli, ciò avrebbe reso irreparabile il danno nei rapporti tra i due governi
e avrebbe costretto l’Italia a prendere adeguate contromisure.
73
ASMAE, appunto di Guazzaroni (DGAE) n. 077/15270, 4 agosto 1970.
74
La situazione degli italiani in Libia, monitorata costantemente dal ministero, sarebbe rimasta
di estrema gravità per alcuni giorni, ma poi sarebbe andata sempre più migliorando, sia con
l’arrivo di altri funzionari italiani dal Ministero degli Esteri per gestire la crisi, sia per la cessazione da parte libica, come concordato, di alcune eccessive ed assurde pretese di certificazione.
In meno di tre mesi, non senza altre complicazioni, l’esodo degli italiani sarebbe stato completato.
75
ASMAE, Gaja (segretario generale) alle ambasciate dell’area mediorientale, telegramma n.
15422/C, 8 agosto 1970.
76
L’ambasciatore egiziano Mortagui si giustificava dicendo che Gheddafi era impegnato in quegli stessi giorni in una difficile azione diplomatica a Baghdad per conto dell’Egitto: convincere
i dirigenti iracheni ad avvallare l’accettazione del piano americano di pace da parte di Nasser.
Ciò consigliava ancora maggiore ponderatezza all’Egitto (ASMAE, appunto del direttore generale Affari Politici, Roberto Ducci, 4 agosto 1970). I dirigenti iracheni, e in particolare il vice
presidente Tikriti, però, avevano compiuto, nel medesimo incontro, l’intervento a favore dell’Italia che era stato richiesto dal governo italiano a tutti i paesi arabi subito dopo l’emanazione dei provvedimenti di confisca. Moro decideva che l’Iraq fosse ringraziato per l’aiuto. Questa
circostanza era un indizio che il discorso fatto dall’ambasciatore egiziano a Ducci non aveva valido fondamento (ASMAE, telegramma di Gaja in partenza n. 15422/C, 8 agosto 1970).
77
ASMAE, Appunto della direzione generale Affari Politici a firma Calenda, 12 agosto 1970.
78
L’Egitto aveva piena consapevolezza della frattura all’interno del CCR. Gheddafi si era recato
segretamente da Nasser per due volte nel mese di maggio per consultarsi proprio riguardo le divisioni all’interno del nucleo dirigente libico. In quel periodo Gheddafi cercava di accentrare e
consolidare il potere su di sé. S. El Saadany, Egypt and Libya from inside, 1969-1976: the Qad-
222
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
dafi revolution and the eventual break in relations, by the former Ambassador to Libya, McFarland
& Company Inc. Publishers, Jefferson, Nord Carolina and London 1994, pp. 44-46.
79
ASMAE, Appunto della DGAP a firma Calenda, 12 agosto 1970.
80
Ibidem.
81
Ibidem.
82
L’esodo dei quadri qualificati e dei tecnici, in prevalenza italiani, anche se non solo, stava portando il paese alla paralisi economica e alla sostituzione di essi con personale egiziano, che ammontava a fine agosto, in base a informative del Sid, a circa 10 mila persone. La presenza egiziana creava un vivo malcontento, specie in Cirenaica. Il solo contingente militare egiziano era
valutato di 2.000 uomini circa. ASMAE, Appunto di Ducci per Moro, 24 agosto 1970.
83
Il primo approdo di materiale bellico sovietico era stato individuato dalle fonti occidentali addirittura il 2 giugno, quando proprio l’ambasciata italiana a Tripoli, e altri osservatori occidentali avevano individuato lo sbarco nel porto di Tobruk di una ventina di carri armati di fabbricazione sovietica T.34. A fine luglio era stata poi sbarcata un’altra sessantina di carri armati
T.54 e T.55, mezzi nettamente più moderni dei precedenti. Un’ulteriore fornitura di materiale
bellico, era stata effettuata dal mercantile sovietico «Sevan» a Tripoli il 9 agosto. In quella occasione erano stati sbarcati una trentina di trattori per artiglieria, 6 pezzi d’artiglieria Howitzer
da 122 mm. e 39 altri carri armati del tipo T.55. Massimilano Cricco, La vendita di armi sovietiche ed italiane alla Libia, 1970-1972, in «Journal of Libyan Studies», vol. 4, n. 1, summer
2003; e ASMAE, Rappresentanza permanente presso il Consiglio Atlantico a Segreteria Speciale, MAE, 17 agosto 1970.
84
ASMAE, Appunto della direzione generale Affari Politici a firma di Calenda, 12 agosto 1970.
Una politica mediterranea era, in quel periodo, al centro del dibattito in Europa. La Comunità
a partire dalla metà degli anni sessanta si era orientata su una politica mediterranea strutturata
essenzialmente su accordi commerciali preferenziali e di associazione con i singoli paesi del bacino. Solamente con la conferenza di Parigi del 1972, si sarebbe compiuto il primo passo in direzione di un organica politica mediterranea, inaugurando la «politica globale mediterranea»,
con l’obiettivo di superare la frammentazione degli accordi bilaterali precedenti. Accanto a forme diverse di cooperazione economica, finanziaria e tecnica, tali accordi avrebbero creato relazioni commerciali privilegiate e dato vita a nuove istituzioni comuni.
85
Ibidem.
86
Cfr. ASMAE, Appunto di Giretti (segreteria generale) al ministro Moro, 14 agosto 1970.
87
Giretti commentava sull’esodo dalla Libia: «Osservo a questo proposito che questa nostra povera gente sta dando un mirabile esempio di calma e di dignità. Debbono attendere ore sotto
il sole, seduti sulle loro povere valigie di cartone legate con lo spago e subiscono serenamente
le operazioni di controllo, mentre da un rauco altoparlante vengono diffuse di continuo le note dell’inno nazionale libico». Cfr. ASMAE, Appunto di Giretti (segreteria generale) al ministro Moro, 14 agosto 1970.
88
ASMAE, Appunto di Giretti (segreteria generale) al ministro Moro, 14 agosto 1970.
89
Ibidem.
90
Ibidem.
91
Questo afflusso di massa sarebbe stato inviso alla popolazione libica. Alcuni incidenti, che erano avvenuti nella regione del Fezzan a fine luglio causando 5 morti, sarebbero stati la conseguenza di uno scontro tra libici ed egiziani. Gheddafi in quella occasione si era recato immediatamente sul posto trattenendosi per tre giorni, per riportare la calma (Cfr. ASMAE, Appun-
223
Arturo Varvelli
to di Giretti (segreteria generale) al ministro Moro, 14 agosto 1970).
92
Ibidem.
93
ASMAE, Annotazione del ministro degli Esteri Aldo Moro del 17 agosto 1970 a Appunto di
Giretti al ministro Moro, 14 agosto 1970.
94
Ibidem.
95
Esse vedevano la partecipazione del direttore generale dell’Emigrazione Mario Pinna Caboni, del vice direttore degli Affari Politici Perrone Capano, e degli ambasciatori Carlo Calenda e Mario Giretti.
96
In particolare nel corso delle riunioni si valutò l’opportunità di alcune misure di lieve entità come il richiamo temporaneo dell’ambasciatore o l’introduzione della necessità di un visto
d’uscita per i libici che si trovavano in Italia e volevano lasciare il paese. Quest’ultima misura
aveva però alcune avvertenze. Innanzitutto la collettività libica in Italia era costituita solamente da 900 persone, di cui la metà oppositori del regime e metà studenti, perciò non vi sarebbe
comunque stata reciprocità nelle misure. Inoltre era interesse italiano attirare più studenti stranieri, e libici in particolare, e non prendere decisioni che potessero dissuaderli dal venire in Italia. ASMAE, Verbale della IV riunione del gruppo di lavoro per l’esame dei problemi connessi
con la situazione determinatasi in Libia, DGEAS, 5 agosto 1970.
97
La proposta d’interruzione del cavo telefonico era stata fatta dall’ambasciatore Carlo Calenda.
Essa era prontamente valutata come positiva dal vice direttore degli Affari Politici Perrone Capano che osservava: «non sarebbe necessario proclamare esplicitamente che interrompiamo il
cavo, basterebbe adeguarci anche noi ai metodi usati dagli arabi e dire che non funziona più».
Questa idea non applicata in seguito, avrebbe tuttavia permesso di idearne una più utile agli interessi italiani e poi impiegata: la messa sotto controllo delle comunicazioni libiche. Ibidem.
98
Ibidem.
99
ASMAE, annotazione del Ministro Moro del 16 agosto 1970 all’appunto della DGAP, 12 agosto 1970.
ASMAE, Appunto della DGAP, 12 agosto 1970. Dalle informazioni ricevute risultava che il
ministro della difesa libico El-Huni si fosse recato segretamente diverse volte in Italia servendosi di documenti falsi.
100
Noto come «the Hilton Assignment», questo piano, orchestrato da Omar Shalhi con l’aiuto
di alcuni funzionari inglesi e mercenari europei, che sarebbe stato fatto fallire dai servizi segreti
italiani, statunitensi e britannici, era stato descritto nell’omonimo libro dei giornalisti britannici Seale e McConville nel 1973. (P. Seale, M. McConville, The Hilton Assignment, Praeger, New York e Washington 1973).
101
ASMAE, annotazione del ministro Moro del 16 agosto a Appunto della DGAP, 12 agosto
1970.
102
Moro approvava infine alcune delle misure preventivate da Calenda: «Si può procedere con
cautela per i punti 2, 3, 6, 7, 8, 9». Il ministro quindi diceva di sì ad un rigoroso controllo dei
visti, all’espulsione di libici antitaliani, al controllo del cavo telefonico; sconsigliava ulteriori
investimenti in Libia e dava il via alla possibilità delle trasmissioni televisive, ma vincolandola
ad alcune condizioni. Cfr. ASMAE, annotazione del ministro Moro del 16 agosto 1970 ad appunto della DGAP, 12 agosto 1970.
103
ASMAE, Verbale della VI riunione del gruppo di lavoro sulla situazione libica, DGEAS, 18
agosto 1970. Il governo fornirà una sovvenzione di 200 mila lire per ogni capofamiglia e 150
mila lire per ogni membro della famiglia. Il ministero degli Interni erogò inoltre un sussidio
104
224
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
straordinario di 100 mila lire per ogni profugo. Una buona parte dei rimpatriati, dopo aver trascorso un certo periodo di tempo nei campi profughi, si sarebbe stabilita nelle province di Latina e di Roma (Cfr. Angelo Del Boca, Gli Italiani in Libia cit., p. 476). In materia di indennizzi, dopo la prima legge di acconto n. 1066 del 1971, che erogava circa il 10 per cento circa dei risarcimenti, i profughi sono rimasti in attesa del riconoscimento dei loro diritti fino al
1980, quando fu emanata la legge n. 16. Il problema maggiore nell’erogazione degli indennizzi da parte del Governo Italiano sarebbe sempre stato quello legato alla documentazione, non
essendo mai stato possibile ottenere da parte libica alcuna documentazione. Questo problema
risultava essere già stato preso in considerazione dalle riunioni sulla situazione libica nell’agosto 1970: «La concessione degli anticipi e degli indennizzi non dovrà mai, comunque, essere
subordinata al fatto di avere o meno presentato la denuncia alle autorità libiche delle proprietà
oggetto del decreto di confisca» (ASMAE, Verbale della VI riunione cit., 18 agosto 1970).
Moro scriveva: «Le misure adottate, che sono andate al di là degli stessi decreti di confisca e
che hanno finito per colpire direttamente o indirettamente tutti gli italiani e contribuito a creare una tanto diffusa ansietà, porteranno al risultato che tutti gli italiani lasceranno presto la Libia». ASMAE, Moro a Borromeo, telegramma s.n., 20-21 agosto 1970.
105
106
Ibidem.
ASMAE, testo della lettera di Buessir in risposta a Moro, Segreteria Generale, 23 agosto
1970.
107
108
ASMAE, Appunto per l’on. ministro della DGAP (Ducci), 25 agosto 1970.
ASMAE, Verbale della VI riunione del gruppo di lavoro sulla situazione libica cit., DGEAS,
18 agosto 1970.
109
110
ASMAE, Appunto Ducci a Moro, 20 agosto 1970.
All’Italia sul piano internazionale non avrebbe certamente giovato la partecipazione alla sfilata militare degli aerei francesi, molto probabilmente pilotati da francesi, per celebrare il trionfo del Colonnello Gheddafi. Il direttore generale degli Affari Politici della Farnesina, Roberto
Ducci, faceva valere queste ragioni presso l’ambasciatore francese a Roma Burin des Roziers.
Ducci esprimeva gratitudine al governo francese per il mancato invio del Sottosegretario, ma
il Governo italiano restava dell’avviso che quello francese «sarebbe stato meglio ispirato» a far
sapere a quello libico che, per motivi tecnici, i velivoli non potevano arrivare per il 1° settembre. L’ambasciatore Burin de Roziers era apparso piuttosto scosso dalle argomentazioni italiane
principalmente per la sua responsabilità delle buone relazioni fra Italia e Francia, ma pregava
Ducci di tenere presente che, qualsiasi fosse stata la decisione, ciò non avrebbe che intensificato gli sforzi francesi per essere d’aiuto all’Italia in quelle circostanze. Ibidem.
111
112
ASMAE, da Borromeo a DGAP, telegramma n. 36054, 3 settembre 1970.
Ma erano le cifre stesse, presentate dal leader libico, a dimostrare che l’opera compiuta dagli italiani in Libia in quegli anni non era presentabile come un danno per il paese, soprattutto quando essa si concretava nell’aver piantato più di 400 mila olivi, mezzo milione di piante
di agrumi, 184 mila mandorli, un milione di viti e 52 mila alberi da frutta, e nell’aver reso irrigui con opere di bonifica 5096 ettari di terreno. I dati concernenti i macchinari agricoli e industriali nonché quelli relativi all’edilizia, all’artigianato ed all’industria media e piccola, rappresentavano, in realtà, un eloquente elogio, tributato senza volerlo, all’apporto del lavoro italiano allo sviluppo della Libia. Gheddafi si era gloriato anche di aver confiscato depositi bancari appartenenti agli italiani ammontanti a circa 15 miliardi di lire italiane. Egli smentiva così
le affermazioni fatte in precedenza che gli italiani avessero da sempre sottratto i propri risparmi
all’economia libica (ASMAE, Appunto della DGAP, 5 settembre 1970).
113
225
Arturo Varvelli
114
Ibidem.
L’on. Moro alla Commissione Esteri della Camera, discorso del ministro Moro del 24 settembre
1970, in «Relazioni Internazionali», 3 ottobre 1970.
115
ASMAE, Ducci a Borromeo e Vinci, telegramma in partenza n. 16889/C, 2 settembre
1970.
116
117
ASMAE, Plaja a MAE, telespresso n. 03655, 8 ottobre 1970.
L’on. Moro alla Commissione Esteri della Camera: ampio giro d’orizzonte sui principali problemi
internazionali in «Relazioni Internazionali», 3 ottobre 1970, p. 924.
118
I militari nel gabinetto diventavano otto. Ministro degli Interni veniva nominato il Maggiore El Houni, ex capo dei servizi di informazione. Con questa mossa, tesa alla salvaguardia della
propria posizione di potere, Gheddafi evidenziava chiaramente la paura di incorrere in cospirazioni ai propri danni. El Houni sostituiva Jallud, nominato ministro dell’Economia e dell’Industria. La linea di politica estera di Gheddafi, caratterizzata dalla massiccia presenza egiziana
nel paese, non sembrava essere condivisa da alcuni membri del CCR.
119
«L’Unità» in quei giorni parlava di significativa convergenza tra il Partito comunista e il governo riguardo alle dichiarazioni che erano state rese alla commissione Affari Esteri della Camera
riguardanti il Medio Oriente. Gli unici che rimanessero su posizioni più filo-israeliane erano i
socialdemocratici e i repubblicani.
120
L’atteggiamento di non chiusura delle relazioni nei confronti della Libia era osservato con soddisfazione anche dalla Gran Bretagna. J.F. Walker dal North African Department si dichiarava felice per la scelta italiana di non abbandonare la battaglia per il miglioramento delle relazioni con la Libia («the struggle for bearable relations with Libya»). In questo i due paesi avevano interessi simili e convergenti. PRO, FCO 39/627, cit., NAD (Walker) a Roma e Tripoli, 1° ottobre 1970.
121
122
ASMAE, Borromeo a MAE , telespresso n. 2195/31, 22 settembre 1970.
ASMAE, lettera di Najm a Moro, 22 settembre 1970, allegata a Borromeo a MAE, telespresso n. 2195/31, 22 settembre 1970.
123
124
Ibidem.
L’on. Moro alla Commissione Esteri della Camera: ampio giro d’orizzonte sui principali problemi internazionali cit., p. 925.
125
126
ASMAE, lettera del ministro Aldo Moro al ministro degli Esteri libico Najm, senza data.
127
ASMAE, Moro a Plaja, telegramma in partenza n. 18657, 24 settembre 1970.
La popolazione libica, e parte dei militari che controllavano il paese, avevano mal tollerato la penetrazione egiziana in tutte le sfere sociali che si era fatta sempre più massiccia e che a
inizio del 1971, secondo i dati del ministero degli Esteri, avrebbe contato la presenza di circa 27.000 egiziani.
128
In Libia la notizia della morte di Nasser, data alla radio libica, si era sparsa con fulminea rapidità tra la popolazione. Il ministero degli Esteri libico aveva disposto 40 giorni di «lutto ufficiale» e tre giorni di «lutto generale». Decine di migliaia di persone avrebbero partecipato a Tripoli lo stesso giorno del funerale ad un lungo corteo diretto all’Ambasciata della RAU. ASMAE,
Borromeo a MAE, telespresso n. 2272, 2 ottobre 1970.
129
PRO, FCO 33/1094, Foreign Policy in Italy (1970), Record of conversations between the
Foreign Secretary and the Italian Ambassador at the Foreign Office at 5.00 p.m. on Thursday,
15 ottobre 1970.
130
226
L’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970
131
ASMAE, il Cairo (Plaja) a MAE, telespresso n. 03655, 8 ottobre 1970.
La pretesa libica cambiava poco, nei fatti, la situazione degli italiani in Libia poiché la maggior parte della comunità residente era già rientrata nei mesi precedenti.
132
A proposito dell’incontro Borromeo scriveva: «Incontro è stato di quelli che lasciano scarsa
traccia. Giovane è alto, magro, abbronzato, senza conoscenza lingue, piuttosto imbarazzato del
suo ruolo e, quindi, prudente nelle risposte. Vorrei almeno sperare che sia più autorevole del
predecessore, che invece dava impressione di maggiore capacità». ASMAE, Borromeo a MAE,
telegramma n. 42109, 8 ottobre 1970.
133
Documentazione: Alla commissione Esteri del Senato, la politica estera italiana nell’esposizione del
ministro Moro in «Relazioni Internazionali», 24 ottobre 1970, pp. 998-999.
134
Sarebbero rimasti in Libia meno di 500 residenti italiani, riconosciuti come «buoni» dal consiglio della Rivoluzione, e 1800 pendolari fra lavoratori, tecnici e dirigenti di imprese petrolifere e di lavori pubblici. Quelli rimasti erano il nucleo attorno al quale i nuovi dirigenti di Tripoli intendevano ricostruire la trama dei rapporti tra i due paesi, Angelo Del Boca, Gheddafi. Una sfida dal deserto cit., pp. 49-50.
135
136
Ibidem.
227
«Il Lavoro»:
un giornale di fronda in tempo di regime
di Stefania Vicari
Nasce sporco di carbone, nei cantieri navali di una Genova di inizio
1900. Cresce tra i lavoratori e si appoggia alle società di mutuo soccorso.
Lo leggono i carbuné, gli operai, i portuali e tutta la Genova di sinistra. A
dire il vero, lo legge anche il Mussolini socialista. La storia del quotidiano
«Il Lavoro» si sviluppa in circostanze molto particolari, vivendo il passaggio dall’Italia liberale al regime fascista nel tentativo di resistere alle costrizioni ideologiche dello stato mussoliniano. Questo studio punta a mettere in evidenza come la retorica della cronaca di guerra rispecchi la tentata
resistenza ideologica del quotidiano alle imposizioni del regime. Attraverso l’analisi testuale di 709 articoli sulla campagna d’Etiopia (1935-1936),
vediamo qui come il quotidiano di Genova riesce a sopravvivere alla omologazione fascista.
Introduzione
Il più accadde nel gennaio del 1925. La stampa italiana stava attraversando un periodo di profonda trasformazione in cui i fogli antifascisti non
potevano che rinascere clandestini1 mentre i restanti quotidiani subivano
una progressiva normalizzazione2. Si tracciava in quei giorni la netta distinzione tra stampa fascista e stampa nazionale (o fascistizzata): se il regime da
una parte puntava all’allineamento delle testate giornalistiche, dall’altra intendeva sfruttare il ruolo e il peso di quotidiani portanti come «La Stampa» e il «Corriere della Sera»3.
La continua ingerenza da parte degli organi di potere si fece più incalzante quando, proprio nel 1925, ai primi segnali di opposizione ai vincoli sulla libertà di stampa, direttori di testate nazionali vennero allontanati
dal loro ruolo4, in contemporanea con l’ingabbiamento della Federazione
Nazionale della Stampa Italiana5. Oltre ad essere soggetti a vincoli su stile
229
Stefania Vicari
e contenuto6, quotidiani e riviste venivano progressivamente costretti a basare la loro attività sui sussidi elargiti dall’Ufficio Stampa anche sotto forma di sovvenzioni segrete a giornali e giornalisti7. In queste circostanze, un
foglio operaio come «Il Lavoro» di Genova, continua le pubblicazioni anche durante l’impresa in Corno d’Africa, quando ogni forma mediatica è
ormai omologata al modello fascista8. In questo studio seguiremo i fili retorici che hanno caratterizzato la sopravvivenza e la trasformazione di un
quotidiano di fronda in tempo di regime. In altre parole, descrivere l’evoluzione de «Il Lavoro» significa ripercorrere le scelte di un attore ideologico che cerca di adeguarsi ad un regime politico antitetico piuttosto che abbandonare la sfera pubblica ufficiale. Analizzandone la retorica, cercheremo di capire il prezzo di tale scelta.
Il giornale dei portuali9
Origini
«Il Lavoro» nasce10 a inizio Novecento nelle mani dei carbuné: i baffuti uomini neri che caricano e scaricano il carbone nel porto di Genova. E’
proprio la dimensione portuale a segnare il legame tra lo sviluppo della testata e la storia della città: la forza di una coscienza collettiva si sviluppa attraverso l’opera delle due cooperative attive per rappresentare i portuali. A
sostenerne e dirigerne l’iniziativa si distingue un giovane socialista riformista di origine piemontese: Luigi Murialdi.
L’organizzatore era un giovane socialista piemontese che aveva scelto di dedicarsi ai
problemi della cooperazione. Si chiamava Luigi Murialdi, detto Gino; si era laureato in giurisprudenza a Genova, l’università nella quale andavano più volentieri gli studenti del basso Piemonte. Da studente si era iscritto al partito socialista. E al Congresso nazionale del 1900 aveva svolto una relazione sul movimento cooperativistico.
Aveva 28 anni. Era un riformista. Fu lui il principale artefice della nascita de Il Lavoro del 190311.
Sono le organizzazioni operaie del Genovesato a sostenere la nascita del
quotidiano dei carbuné, appoggiandosi al progetto di Murialdi di riunire le leghe delle cooperative e le società di mutuo soccorso. Alla testa della Camera del lavoro, Lodovico Calda accetta la proposta di Murialdi di
fondare uno strumento di sostegno per la lotta dei lavoratori finanziato da
230
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
un contributo fisso delle organizzazioni dei portuali. A due mesi da questi fatti, il 7 giugno 1903, esce in edicola il primo numero della nuova testata genovese, la cui proprietà si identifica in una cooperativa che ha come azionisti di maggioranza le leghe dei facchini e degli scaricatori di carbone e la cooperativa di consumo Emancipazione. La nascita del quotidiano è fondamentalmente legata alla storia del movimento operaio italiano,
al quale tuttavia aderisce con caratteri distinti. Tra le prime firme storiche
della testata vanno ricordate quelle di Angiolo Cabrini, Ferruccio Ancillotti, Carlo Massara e Fernando Barbieri, specializzatisi nella cronaca del movimento operaio.
L’era fascista
Il crescere dell’interazione fra cantieristica, industria meccanica e siderurgia caratterizza lo sforzo produttivo della città alla vigilia della prima
guerra mondiale, con il successo del complesso Ansaldo dei Perrone. Questi, rappresentando il volere degli imprenditori cittadini, si collocano da
subito in posizione interventista12. D’altro canto, l’opposizione del movimento operaio va velocemente indebolendosi soprattutto per l’adesione di
socialisti interventisti come lo stesso Canepa13. Un evento che si dimostrerà di fondamentale importanza per la sopravvivenza della testata durante il fascismo avviene proprio nel momento della dichiarazione interventista del quotidiano genovese. In concomitanza con questi avvenimenti si
verifica infatti sulle colonne dell’ «Avanti» l’improvviso testacoda di Benito Mussolini che firma un articolo pro-intervento sul quotidiano socialista
e neutralista. In seguito al suo licenziamento, Mussolini si avvicina alla testata ligure diretta dall’interventista Canepa. Invitato ad un comizio a Genova il 28 dicembre 1914, Mussolini non trova però l’accoglienza sperata
e si vede costretto a fuggire scortato dallo stesso Calda per evitare le colluttazioni fra neutralisti e forze dell’ordine14.
Questo momento segnerà un passaggio fondamentale nei rapporti tra
Mussolini e la testata genovese.
In realtà i primi momenti difficili per il quotidiano ligure si verificano già il 5 marzo 1922 quando, in seguito alle critiche di Canepa nei confronti dell’impresa di Fiume, una manifestazione in piazza De Ferrari sfocia nella devastazione della redazione. A partire da questo momento la testata continua sulla linea di denuncia della violenza delle squadre nere fino
231
Stefania Vicari
a quando nel giorno della Marcia su Roma l’editoriale del direttore provoca la sospensione delle pubblicazioni. Occorrono due settimane perché
Calda riesca a raggiungere un compromesso e il 15 novembre la testata riapre le pubblicazioni con Canepa declassato a semplice fondatore mentre
l’emergente Ansaldo resta al posto di caporedattore. Nonostante tutto, il
quotidiano continua a discapito del concorrente «Il Secolo XIX», voce del
levante popolato da ceti medi e alta borghesia. Lo scontro più forte con il
regime si verifica però il 31 ottobre 1926 quando, in seguito all’attentato
a Mussolini, il ministro degli Interni Federzoni ordina «di sospendere fino
a nuova disposizione, per misura di ordine pubblico, tutti i giornali d’opposizione»15. Tra le varie azioni punitive che si scatenano in tutta Italia, anche a Genova scoppia un grave incidente provocato da decine di facinorosi che assaltano la sede de «Il Lavoro».
La devastazione de «Il Lavoro» era stata effettuata sistematicamente, da gente esperta
di tipografia, che aveva provveduto ad asportare meccanismi e altre parti essenziali delle diverse macchine. Tale materiale si disse allora che fosse finito nella sede del quotidiano fascista «Il Giornale di Genova»16.
Se è impensabile che testate importanti come «La Stampa» e «Il Gazzettino» non debbano più uscire, sembrano invece decisamente scarse le
possibilità che «Il Lavoro» ricompaia in edicola senza un radicale cambiamento di gestione. Il duce decide inaspettatamente di lasciare il quotidiano nelle mani di Canepa e Calda, concedendo che il giornale, inquadrato
ovviamente nella stampa del regime, conservi qualche limitata differenza
rispetto agli altri quotidiani17.
Tale concessione va analizzata sotto un duplice aspetto: innanzitutto
Mussolini ha alle spalle un passato di amicizia con il sindacalista Calda, in
connessione a due fatti di dodici anni prima:
L’uno che la spinta decisiva per indurlo a prendere posizione in senso interventista gli
era venuta da un’intervista di Cesare Battisti, pubblicata proprio su «Il Lavoro» in data 13 ottobre 1914; e l’altro che nella sede di questo giornale egli aveva, qualche tempo dopo, trovato scampo alle ire dei suoi antichi compagni neutralisti che non gli perdonavano il suo inopinato passaggio all’interventismo più acceso18.
Il secondo aspetto importante si basa sul fatto che il giornale è legato
ad un bacino d’utenza relativamente vasto nelle zone operaie di Genova.
232
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
Per non parlare di un ampio gruppo di sindacalisti riformisti. L’incontro di
Calda con Mussolini provoca un altro effetto immediato: pochi giorni dopo, alla porta della redazione de «Il Lavoro» viene trovato un sacco abbandonato contenente le parti del macchinario asportate durante l’incursione
fascista. Scioltasi la Confederazione Generale Italiana del Lavoro il 4 gennaio 1927, alcuni ex dirigenti il 16 gennaio redigono un nuovo documento prendendo atto, con le dovute riserve, della nuova realtà rappresentata
dal regime fascista. I firmatari del documento costituiscono un raggruppamento associativo di assistenza culturale-sindacale denominata Associazione per lo studio dei problemi del lavoro, diretta da Rinaldo Rigola, e danno vita alla pubblicazione della rivista intitolata «Problemi del Lavoro». «Il
Lavoro» può quindi riprendere le pubblicazioni il 5 maggio 1927:
L’ideale a cui abbiamo dato l’ opera di un quarto di secolo non si serve né col ritirarsi dall’agone, né colla posizione sistematica e aprioristica al presente regime che, se si è
fondato ed è venuto vigoreggiando ed improntando di sé tanti elementi della vita nazionale, vuol dire che risponde a profonde ragioni storiche le quali devono avere il loro sviluppo ineluttabile. Agire nell’orbita del leale riconoscimento del fatto compiuto,
richiesto dal senso realistico delle condizioni del popolo italiano, nella evoluzione, mediante un esame critico che, sereno e disinteressato, diviene collaborazione al bene del
paese – questo è il nostro fermo e deciso proposito. [...]
Comprendiamo bene quanto sia ardua l’opera a cui con rinnovata lena ci accingiamo,
ma confidiamo di compierla degnamente mercè il favore del pubblico che ci conosce
e ci è restato e ci resterà fedele19.
Giovanni Ansaldo
Già collaboratore della «Rivoluzione liberale» di Gobetti, Giovanni Ansaldo ha la possibilità di entrare nel giornalismo proprio grazie a Canepa.
Arrivato al giornale nel 1919, si rivela figura emergente nei primi momenti caldi della redazione durante le azioni di violenza delle squadre fasciste,
confermando la sua posizione di caporedattore proprio quando Canepa si
vede declassato a semplice fondatore. Noto come fervente antifascista, nel
1926 è costretto al confino a Lipari, da cui potrà rientrare e continuare la
sua attività solo con lo pseudonimo Stella Nera. Le sue rubriche cominceranno ad essere conosciute anche al di fuori del giro giornalistico genovese
mentre corre voce che lo stesso Mussolini controlli quotidianamente i suoi
pezzi sulla testata ligure.
233
Stefania Vicari
Ma dopo il Decennale ritenne che il Fascismo fosse ormai un dato irreversibile della
vita nazionale e che, a restarne fuori, si fosse irreparabilmente accantonati; egli prescelse la via dell’inserimento e la percorse con la sua nota abilità sì retta a rispettare le frange della dignitosa obiettività20.
Analizzando le pagine de «Il Lavoro» e in particolare i pezzi di Ansaldo, a partire dal 1935, si nota una certa sensibilizzazione alle tematiche sociali legate alla preparazione per la campagna d’Etiopia. Lo stesso Mussolini, che in passato ha interdetto la firma di Ansaldo e personalmente comandato il suo confino, il 16 febbraio 1935 lo fa nominare vicedirettore
de «Il Lavoro» suscitando le vive proteste di Calda. Ansaldo resta alla redazione de «Il Lavoro» ancora per alcune settimane, nonostante sia ormai ai
ferri corti con Canepa e Calda. Il momento della rottura definitiva è legato
proprio alla sua decisione di partire per la campagna d’Etiopia: le dimissioni scattano infatti il 12 dicembre 1935, dopo la mancata pubblicazione di
un suo articolo inviato da Civitavecchia, poco prima della sua partenza per
Bengasi. Proprio l’Africa Orientale risolve ogni problema relativo al tesseramento al Partito Fascista21 e, una volta ufficialmente tesserato, nel settembre 1936, egli può assumere la direzione del giornale di Ciano.
La sua partenza suscitò sorpresa e sdegno tra gli oppositori (Carlo Rosselli in settembre l’aveva già pesantemente insultato come «osceno», osservando che «quando l’intelligenza si prostituisce a quel modo, vien voglia
di invidiare i cretini col gozzo»). A Genova non gliela perdonarono22. In
realtà, non è facile analizzare i motivi del voltafaccia di Ansaldo. Lo stesso Murialdi afferma che la sua uscita «avvenne in modi pochi chiari. C’era
chi sperava di trattenerlo, forse.
E poi la maggior parte dei colleghi era legata a lui, anche con devozione23». Probabilmente il liberalconservatore Giovanni Ansaldo si ritiene comunque distante dalle idee de «Il Lavoro». Innanzitutto è sempre più diffusa l’idea che il fascismo debba durare a lungo e Ansaldo inituisce come
una scelta ideologica sia ormai fondamentale per la sua carriera. Per il giornalista la politica è una gara per la conquista del potere, gli ideali e i principi si risolvono in mascherature, camouflages24. Ad aggiungersi ai contrasti ormai marcati con i gruppi antifascisti a cui un tempo era legato, si mescolano quindi probabilmente elementi propri del suo carattere, non ultima la notevole ambizione che lo spinge verso l’unica strada possibile per
mantenere e accrescere la propria notorietà.
234
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
Mobilitazione mediatica
Prima di passare all’analisi diretta delle pagine de «Il Lavoro» durante la campagna d’Etiopia, è interessante delineare le caratteristiche del sistema dei mezzi di comunicazione sotto il regime. Di particolare rilievo è
la stretta ingerenza fra il settore politico e quello culturale che si risolve in
una forma di esplicita propaganda al regime attraverso ogni strumento di
comunicazione25. In azione ormai da un decennio, il processo di epurazione e allineamento delle testate giornalistiche, attraversa la fase di maggior
compimento proprio nel momento della mobilitazione ideologica e militare per la campagna d’Etiopia. La carta stampata, pur mantenendo il primato per la quantità d’informazioni politiche e belliche, punta sempre più
sul settore opinionista, in una mistica di regime che può sconfinare dalla
notizia del fatto in sé tendenzialmente già diffusa dai bollettini radio. Al di
là del ruolo di delineare e appoggiare le principali motivazioni della guerra, comune a tutti i mezzi di comunicazione e culturali citati in precedenza, i giornali si impegnano maggiormente sulla linea di persuasione e nell’appoggio al duce per quanto riguarda la politica estera. In modo particolare i fogli nazionali giocano un ruolo fondamentale sul piano politicodiplomatico dei rapporti con Inghilterra e Francia, i due stati di maggiore
influenza per l’avvio della campagna italiana in Africa26. Per quanto riguarda invece il «nemico barbaro», a partire dall’incidente di Ual Ual27 si intensifica in maniera diretta la campagna denigratoria contro l’Etiopia, sostenendo le principali motivazioni della guerra, dal diritto a un «posto al sole» alla missione civilizzante, con un richiamo alla vocazione imperiale ereditata dall’impero romano.
Con l’entusiasmo seguito all’annuncio della riconquista di Adua, Mussolini esorta gli inviati a lavorare più alacremente in quanto la stampa estera sta dando molto risalto alle implicazioni politiche tra i paesi della Società delle Nazioni e i notiziari francesi dal fronte sono più seguiti dall’opinione pubblica internazionale rispetto a quelli italiani. Gli articoli dal fronte
toccano soglie di retorica ed esagerazione tali da irritare lo stesso De Bono
che telegraficamente denuncia a Mussolini le «strampalate notizie» che pervengono attraverso i bollettini radio e sulle pagine dei giornali28. Montanelli scrive dal fronte Eritreo parole di denuncia verso i colleghi giornalisti:
Riduciamo dunque i nostri desiderata a questo solo: che l’eloquenza guerriera della
235
Stefania Vicari
Madrepatria si adegui meglio alla realtà delle cose nostre. Come Ufficiale di Truppe
Eritree, che costituiscono la sacra «buffa» di questa guerra, dichiaro che niente è più
inadeguato delle «fulminee avanzate», delle «quadrate legioni», delle «folgoranti offensive» e di altro prezzemolo letterario di cui s’infiora la nostra stampa quotidiana. Mai
come in questo momento noi abbiamo sentito l’uggia di questo malvezzo delle parole
grosse e vuote: mai come in questo momento il sottoscritto, che è giornalista, ha sentito uno stimolo di rivolta contro quegli esemplari della sua categoria che si abbandonano all’esercizio retorico, salvo poi a sorriderne essi stessi tra loro e con quelli di noi
che fanno un salto, per una ragione o per l’altra, nelle retrovie29.
Eventi di minima entità diventano conflitti memorabili sulle pagine dei
giornali o, in certi casi, l’immaginazione giornalistica addirittura inventa
di sana pianta luoghi e nomi. La pubblicazione della notizia della costruzione di una strada di 50 chilometri nell’arco di 24 ore non può che provocare la reazione di De Bono: «Come si fa a stampare simili minchionerie? Il peggio è che in Italia ci credono30».
Se da un lato alcuni fatti vengono amplificati o addirittura inventati,
ci sono eventi che subiscono un’operazione di totale oscuramento, ne siano esempio le difficoltà iniziali del conflitto prima dell’utilizzo dell’iprite
e l’iprite stessa, così come le deportazioni e i massacri civili. Nei confronti
dei corrispondenti italiani, la censura entra infatti in azione quando vengono pubblicate indiscrezioni poco gradite segnalate da Roma con una nota di biasimo direttamente alla direzione del giornale31. Nei rari casi in cui
alcuni giornalisti siano testimoni di particolari azioni di guerra o sabotaggi, i loro resoconti non sono mai pubblicati. Eventi di violenza, fucilazioni di donne e bambini, attacchi notturni a guerra ultimata, non trapeleranno mai in Italia, mentre in Etiopia già fanno scandalo sulle pagine delle testate estere32.
Mussolini, intanto, focalizza l’attenzione dei quotidiani sulle sanzioni
economiche, allo scopo di rafforzare il consenso acquisito fomentando il
sentimento nazionale di fiera reazione all’assedio economico decretato da
52 stati della Società delle Nazioni. L’attenzione dei quotidiani si concentra quindi da una parte sulle imprese al fronte e dall’altra sulla fiera risposta in patria alle ingiuste sanzioni economiche. Viste le poche vittorie reali, il 10 dicembre scatta il divieto per tutti i giornalisti, italiani e stranieri,
di andare nelle zone del fronte.
Dovranno tutti accontentarsi delle informazioni dell’ufficio stampa e
dei dispacci dell’agenzia Stefani. Le disposizioni si attenuano con i primi
236
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
Il conflitto italo-etiopico del 1935-36 ripropose in tutta Europa la figura del Negus, anche in
funzione pubblicitaria, come in questa curiosa immagine conservata alla Bibliothèque Nazionale di Parigi.
successi a metà gennaio, in seguito all’azione di Graziani sul fronte sud e
con la prima battaglia del Tembien. Da questo momento in poi la guerra
domina le prime pagine di tutti i giornali e le testate con molti inviati possono mostrare la loro forza seguendo il conflitto in contemporanea sia dal
Comando che dal fronte, dove si spingono i giornalisti più intraprendenti.
Con l’avvicinarsi della vittoria l’enfasi cresce a dismisura e saranno pochissimi i giornalisti che manterranno almeno parzialmente uno stile sobrio.
237
Stefania Vicari
Murialdi vede in Enrico Emanuelli, che lavora per «La Stampa» in posizione di rincalzo e per «Il Lavoro», il giornalista più sobrio mentre Mario Appellius del «Popolo d’Italia» vince la palma della retorica e dell’esaltazione
della guerra distruttiva33.
«Il Lavoro» durante la campagna d’Etiopia
Trattando il momento della mobilitazione dell’opinione pubblica per
la campagna d’Etiopia, Murialdi sottolinea come sia interessante osservare l’opera de «Il Lavoro» con i suoi «atteggiamenti possibilistici nel gioco
diplomatico»34. Pur obbedendo agli ordini di servizio e contribuendo all’esaltazione del regime, il quotidiano smorza i toni attraverso una titolazione più grigia ed evitando l’uso del termine ‘Duce’. In questa fase, poi,
le note di Canepa, del suo vice Ansaldo e di Adriano Tilgher non perdono occasione per avversare le teorie naziste ed appoggiare l’intesa fra Italia,
Francia e Inghilterra. Nonostante questa presa di posizione, il quotidiano
si mostra in alcuni pezzi più sensibile alle aspirazioni dell’Italia fascista, soprattutto nella penna di Ansaldo che sta maturando una sempre più viva
amicizia con Ciano. Se nel giornale genovese si continuano a leggere articoli di autori non in sintonia con il regime, come i fondi di Soldi e gli elzeviri di Cajumi, Salvatorelli, Tilgher, Soldati e Bonfantini, i pezzi di Ansaldo cambiano gradualmente orientamento35. Nelle sue rubriche, contrassegnate dalla stella nera e intitolate Calendarietti o Epiloghi, egli finisce infatti per assecondare certi spunti della polemica antibritannica e soprattutto
riconosce «la nuova Italia» di Mussolini.
Con lo scoppio del conflitto in Etiopia, «Il Lavoro» fa riferimento ai
comunicati stampa giornalieri e le notizie divulgate dall’agenzia «Stefani»,
contando sul solo Emanuelli dal fronte. Tracciando un’analisi della retorica spesa sulle pagine dei giornali con l’avvicinarsi della presa di Addis Abeba, Emanuelli può essere annoverato tra i tre o quattro giornalisti che non
danno prova di eccessivo servilismo, spesso perché si limitano a descrizioni
letterarie e non devono stendere le cronache delle battaglie. Murialdi sottolinea l’importanza dello stile proprio dell’inviato speciale ed è opportuno soffermarsi qui a tracciarne le caratteristiche principali. Nato a Novara e di famiglia benestante, a metterlo in contatto con la testata ligure sarà
Bonfantini, ultimo sindaco antifascista della città.
Approdato quindi al giornale agli inizi degli anni trenta, Emanuelli può
238
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
essere annoverato tra i giovani che Canepa cerca e accoglie volentieri sulla
«terza» così come Elio Vittorini, Mario Bonfantini e Mario Soldati. In realtà i suoi primi passi giornalistici risalgono alle collaborazioni per l’ «Ambrosiano», quotidiano serale in cui cronaca spicciola e argomenti culturali
hanno la meglio sulla politica. Proprio questa impostazione culturale piuttosto che prettamente politica saranno di rilevanza fondamentale nei pezzi
che l’inviato speciale manda dal fronte come collaboratore per diversi quotidiani. Come sarà più evidente nell’analisi a seguire, il suo scrivere ha uno
sviluppo più narrativo che prettamente giornalistico: il soffermarsi sulla
descrizione dei territori osservati piuttosto che sulle cifre delle battaglie ritaglia uno stile unico e distaccato. Usando le parole dello stesso Murialdi
«la sua pacatezza nello scrivere coincidevano con lo spirito di chi leggeva
ancora “Il Lavoro” in quei tempi».
Temi e numeri
I dati a seguire derivano dallo studio sistematico della copertura giornalistica della campagna d’Etiopia da parte della testata genovese. I risultati sono ottenuti dall’analisi approfondita di 709 articoli pubblicati durante il conflitto e qui scelti in base a due fattori principali: periodo di pubblicazione e argomento trattato. A livello temporale, per consentire un’analisi più mirata e significativa, ho selezionato due momenti fondamentali del
conflitto: la fase iniziale dall’1 al 31 ottobre 1935, e il periodo finale che si
articola negli scontri decisivi dall’1 al 25 aprile e nella fase conclusiva fino
al 10 maggio. Due motivi principali sostengono questa scelta: innanzitutto molti degli scontri decisivi si sono effettivamente verificati nelle fasi iniziale e conclusiva del conflitto.
I sei mesi che separano i due intervalli di tempo, permettono poi di verificare i possibili cambiamenti nello stile della testata e le scelte redazionali dovute al mutato contesto socio-politico. A livello contenutistico, ho
definito sette categorie tematiche in cui suddividere gli articoli relativi al
conflitto. Diversi sono infatti gli aspetti della campagna presentati ai lettori sulle pagine dei quotidiani e questa scelta retorica rispecchia una specifica strategia informativa dettata da dinamiche prettamente ideologiche. Diversi studi sulla narrativa di guerra durante la campagna d’Etiopia si basano sull’analisi tematica della copertura giornalistica36 e, anche sulla traccia
questa letteratura, ho scelto come categorizzare i pezzi secondo le seguen239
Stefania Vicari
ti tematiche o settori informativi: relazioni internazionali, opera civilizzatrice della campagna, caratteristiche dell’identità abissina, azioni militari, esaltazione popolare in patria, smentite della stampa estera, celebrazione dei personaggi.
Dati percentuali sulla presenza delle diverse tematiche nei due periodi.
ottobre 1935
1° aprile10 maggio 1936
relazioni internazionali
57%
23%
opera civilizzatrice
6%
13%
identità abissina
15%
27%
azioni militari
11%
24%
esaltazione popolare
6%
9%
smentite della stampa estera
3%
1%
celebrazione dei personaggi
2%
3%
Ovviamente alcuni articoli trattavano contemporaneamente diversi temi ma ho deciso di attribuire ogni pezzo solo alla categoria tematica di
maggior spicco nella narrazione dei fatti. Questo primo passaggio mi ha
innanzitutto consentito di valutare l’entità e la tipologia delle variazioni
quantitative basandomi sulla percentuale di articoli dedicati ai diversi settori informativi nei due periodi del conflitto. Vista la disparità temporale
dei due intervalli presi in analisi (il primo periodo corrisponde a 30 giorni
mentre il secondo a 40), i seguenti dati numerici sono stati ottenuti con il
calcolo percentuale degli articoli delle singole tematiche sul totale dei pezzi analizzati.
Partendo dalla tematica delle relazioni internazionali notiamo che la
percentuale degli articoli presenti nel periodo finale del conflitto è più che
dimezzata. Se nel mese di ottobre più del 50 per cento dei pezzi erano dedicati all’azione diplomatica e al contesto europeo, ad aprile non esiste
più una tematica ugualmente predominante. Una delle prime differenze
da notare nel filone delle relazioni internazionali è segnata dall’assenza dei
fondi di Ansaldo che, in apertura della campagna d’Etiopia, costituivano
la principale voce d’accusa contro il governo britannico. Tra gli altri, è infatti interessante segnalare i cinque articoli di spalla redatti in prima pagi240
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
na dal giornalista ligure nelle prime due settimane del conflitto (in data 3,
5, 6, 10, 13 ottobre37), focalizzati sull’atteggiamento delle altre nazioni nei
confronti dell’Italia, in maniera particolare sull’azione diplomatica inglese in relazione alla campagna d’Etiopia. Ansaldo delinea il comportamento
inglese con accuse nette ed esplicite, imputando ad esso le cause principali
della crisi internazionale in corso. L’obiettivo dei suoi attacchi è la personalità stessa del governo inglese, sembra che il suo intento sia quello di concretizzare il volto di uno dei nemici più pericolosi per l’intero assetto europeo. I suoi articoli, in realtà, partendo dalla situazione internazionale finiscono col ritrarre l’Italia come unica reale vittima dall’azione britannica.
Le scelte diplomatiche del governo inglese vengono interpretate come strumenti per distruggere il «blocco latino» costituito dall’alleanza franco-italiana. L’azione inglese contro l’iniziativa italiana in Abissinia non sarebbe
quindi una scelta ideologica a protezione dell’Etiopia ma una presa di posizione strumentale per il mantenimento dell’egemonia sul Mediterraneo.
Nel suo Epilogo del 3 ottobre, Ansaldo scrive:
L’impresa abissina ebbe, agli occhi degli inglesi, fin dai principii, un peccato originale:
quello di essere stata decisa sotto gli auspici, per così dire, degli accordi di Roma. Era
il primo effetto della ristabilita armonia tra Italia e Francia, e perciò devono bocciarla subito, nettamente, per far capire agli interessati che l’appoggio francese nel mondo
non conta: e che i padroni dell’Africa sono a Londra, non a Parigi38.
Un pezzo del genere in apertura della campagna «era quanto di più gradito si potesse offrire a Mussolini»39 mentre corre voce che il duce controlli sovente proprio gli articoli di dell’ex antifascista ligure40. L’ironia di Ansaldo si fa via via più tagliente durante il mese di ottobre:
Finché in Etiopia non fu sparata una fucilata, certo gli uomini di governo inglese ebbero, in fondo al cuore la «speranzetta» di far prevalere integrale la propria tesi, che era
la tesi della mortificazione e dell’umiliazione italiana41.
E ancora, a interpretare la discesa della flotta inglese del Mediterraneo:
E questo movente «vero» secondo noi non può essere rintracciato altro – al solito – che
negli accordi franco-italiani di gennaio42.
Il 13 ottobre, la coalizione anti-italiana è costruita. Interessante, vista la
241
Stefania Vicari
testata giornalistica e la sua tradizione, è la chiusura del pezzo:
Mai, in realtà, tutti i partiti di sinistra del mondo sono stati giocati in modo così sovrano. […] Ma, in quanto a posizione bizzarra, vi raccomandiamo anche i partiti di sinistra francesi, tutti caldi nel propugnare le sanzioni, tutti fervidi nel proposito di voler
castigare l’Italia reazionaria, senza che traspaia loro l’ombra, l’ombra sola del sospetto
che così facendo essi sfogano sì i loro rancori ideologici, ma in definitiva la loro azione arriva al risultato di consolidare la potenza politica dell’Inghilterra conservatrice, e i
privilegi sociale dei ceti privilegiati inglesi, di cui Sir Anthony Eden, Sir Samuel Hoare
e Sir Stanley Baldwin sono i significativi campioni. Ah, in verità nulla vi è di ameno,
in questi giorni così gravi di amarezza e preoccupazioni, come leggere certi giornali di
sinistra francesi, così decisi, così risoluti nel propugnare proprio quella politica internazionale che piace e fa comodo ai conservatori inglesi43.
Un’accusa di questo genere non può sicuramente passare inosservata
in un quotidiano che da sempre sostiene la sua tendenza laburista e la volontà di mantenersi fedele alla sua natura originaria. Forse non a caso questo epilogo del 13 ottobre risulta l’ultimo della serie appena analizzata a
partire dall’inizio del mese. Ricordiamo che l’ultimo pezzo di Ansaldo sarà pubblicato il 13 novembre 1935 quando la sua esperienza nella Redazione de «Il Lavoro» si concluderà in un clima di forte tensione con il direttore Canepa e l’editore Calda. Detto questo, risulta interessante notare
come nel secondo periodo la situazione cambi. La vertenza degli accordi
fra Etiopia e Italia campeggia nelle cronache internazionali fino al 18 aprile in una serie di articoli che descrivono l’attività diplomatica in sede alla
Lega delle Nazioni. La titolazione si concentra su Ginevra e in particolare
sulle posizioni di Francia e Inghilterra. Vediamone una carrellata a partire dal 9 aprile: Sempre più accentuata divergenza tra i Governi di Parigi e di
Londra (9 aprile, p.6), Le riunioni dei Comitati dei Tredici e dei rappresentanti locarnisti a Ginevra (11 aprile, p.1, 6), Resistenze francesi alla politica
sanzionista inglese (11 aprile, p.6), Una nota italiana a Ginevra (13 aprile,
p.8), L’esercito sanzionista britannico infuria di nuovo mentre una nota ufficiosa smentisce il piano ginevrino attribuito al Governo, Ora la Francia delineerà la sua linea di condotta (14 aprile, p.6), Il rapido mutamento di stile
del sanzioniamo inglese, In Francia si è meno pessimisti sui lavori di Ginevra
(15 aprile, p.8), Il governo francese ha definito la sua linea di condotta a Ginevra (16 aprile, p.6), Il principio dei negoziati diretti proposto dall’Italia accettato dai Tredici (17 aprile, p.1), Il tentativo di riunione è fallito in segui242
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
to al rifiuto degli etiopici di accettare le condizioni dell’Italia (18 aprile, p.1).
Nel corso della fine del mese di aprile e l’inizio del mese di maggio, con la
crescita continua dei territori conquistati e l’avvicinarsi della fine del conflitto, gli articoli sullo scenario internazionale diminuiscono di numero e
d’intensità. L’attenzione si pone ora sulle conquiste piuttosto che sulle altre nazioni europee perché ormai non esiste più nessun ostacolo che possa
fermare la vittoria italiana.
È interessante notare come il dimezzarsi degli articoli relativi alle relazioni internazionali nella fase finale della campagna sia compensato dall’aumento dei pezzi sull’opera civilizzatrice italiana. La legittimazione dell’impresa nella fase conclusiva dell’impresa si sposta quindi sulla descrizione dell’azione civilizzatrice delle truppe italiane nei confronti del popolo
abissino. A distanza di sei mesi le informazioni sulle popolazioni etiopiche
sono aumentate; il quotidiano dedica maggior spazio alla descrizione dettagliata dei territori conquistati. Tra gli altri, si distinguono i cinque pezzi dell’inviato speciale Enrico Emanuelli (in data 8, 21, 30 aprile, 5 maggio44) incentrati sulla ricostruzione dei territori occupati. Il 21 aprile campeggia in seconda pagina, in taglio medio, un articolo totalmente dedicato al «nuovo aspetto della terra» grazie al dono degli Italiani all’Etiopia. Il
titolo non lascia spazio a dubbi: «I picconi dopo le mitragliatrici aprono il
cammino della civiltà nel cuore dell’Etiopia verde». In questo pezzo Emanuelli tende a sottolineare come il lavoro del Genio militare sia un dono
per la popolazione abissina con espressioni entusiastiche: «Non v’è riposo:
costoni di montagne, larghe pianure aspettano il piccone», «L’Abissinia sta
cambiando volto e si fa bella come una donna che cambia vestito», «gli indigeni sono tornati ad avere i loro campi», «sembra di passare dal purgatorio al paradiso». La cronaca dell’inviato speciale ritrae una frenetica attività
ricostruttiva da parte di soldati entusiasti di inforcare il piccone, con toni a
volte eccessivi e quasi ridicoli per una lettura decontestualizzata:
Ogni giorno si andava più avanti. Al passo Dubbar un giorno dopo la battaglia un cartello diceva: «Qui finisce la strada». Ventiquattro ore dopo il cartello era trasportato al
passo di Agumbertà. Quaranta chilometri di nuova strada che si potevano percorrere.
[…] Ero come un corridore che al momento di arrivare al traguardo se lo vedeva trasportato più in là di trenta, quaranta chilometri45.
E ancora il 5 maggio il giornalista descrive il suo viaggio sulla nuova camionabile:
243
Stefania Vicari
Questa cartolina, edita dalla Società nazionale «Dante Alighieri» subito dopo la perdita dell’Etiopia, ricorda agli italiani, con le parole di Mussolini, che «Là dove fummo, là dove i nostri
morti ci attendono, là dove noi abbiamo lasciato tracce potenti e indistruttibili della nostra civiltà, là noi torneremo». Ma in Africa non tornammo più, fummo spazzati via ovunque, dalle
colonie fasciste e da quelle prefasciste.
244
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
In pochi giorni la strada è stata tracciata, costruita. Soldati, militi, operai hanno compiuto questo prodigio. Passo Aibà, passo Aià, passo Mecan, passo Ezba, passo Agumbertà, passo Assanuaiè: migliaia di curve, roccia scavata, tonnellate di terra trasportata,
aurocarrette cariche di sassi che salivano sopra sentieri appena tracciati per portar sassi
là dove si doveva fare un terrapieno, centinaia di colpi di mine46.
Il suo pezzo del 30 aprile ritrae invece la scena della vigilia dell’avanzata italiana su Addis Abeba.
L’atmosfera è quella di attesa, «un’intensa vigilia», «Addis Abeba attende con calma l’arrivo degli italiani». L’arrivo delle truppe italiane assume il
significato della liberazione di un popolo soggiogato. Lo stile di Emanuelli, però, si distingue da una cronaca puramente celebrativa per sconfinare
in toni con velleità poetiche più che semplicemente elogiative. Un esempio ci viene dato dalla chiusura del pezzo:
Nessuno si stupisce se, al mercato, un poeta straccione canta epicamente le lodi degli
italiani vincitori dei quattro grandi Ras e del negus e li chiama, pizzicando le corde della sua arpa primitiva, «leoni, sempre più leoni»47.
Anche gli articoli dedicati all’identità del popolo etiope aumentano notevolmente nel periodo finale del conflitto. Per quanto riguarda le truppe
abissine, le descrizioni di Emanuelli stravolgono in parte gli antefatti degli articoli di ottobre. Nel pezzo Il valore dei vincitori e dei vinti del 2 aprile
1936 notiamo come essi siano qui descritti, per la prima volta, come guerrieri valorosi con una tradizione alle spalle. Non leggiamo di truppe disorganizzate e demotivate come nelle testimonianze delle cronache di ottobre
e nemmeno siamo indotti ad immaginare la ferocia primordiale descritta
al tempo dell’adunata abissina alla vigilia del conflitto. Il solito interesse di
Emanuelli nel raccontare episodi ambigui e misteriosi si manifesta qui nella descrizione della dipendenza del governo abissino dall’Intelligence Service britannico. In una descrizione tra il noir e la cronaca di costume l’inviato così commenta l’opera di spionaggio britannico:
Tra le più pericolose spie addette all’ufficio di informazioni britannico c’è una bellissima ventenne di nome Makela che è stata l’amante di ufficiali belgi48.
Le popolazioni, «estranee a questa ridda di torbidi interessi», sono qui
descritte come in attesa della liberazione, in rivolta contro «i soprusi dei
dominatori». Si delinea sempre di più l’identità del popolo etiope: incon245
Stefania Vicari
trati i guerrieri valorosi e tenaci sul campo di battaglia, da una parte si staglia la figura losca e corrotta del governo dominatore, dall’altra quella delle popolazioni inermi in attesa della fine della guerra. Una ulteriore caratterizzazione si riscontra nell’articolo a taglio medio di prima pagina del 1°
maggio dove Emanuelli descrive l’accoglienza delle popolazioni dei villaggi
lungo il fiume Robi. Compare per la prima volta la presenza femminile:
I soldati, i legionari, alzano in alto fucili e moschetti, urlano parole galanti e mandano
baci alle donne perdonando ai capelli lucidi di burro rancido, le donne, queste donne in cui abbondano corpi statuari, rispondono con i loro caratteristici trilli, gridi prolungati di gioia, mentre gli uomini s’inchinano riverenti e solenni come i pastori dei
faraoni antichi.
Mentre gli uomini:
Seminudi, armati di lunghe lance e di scintillanti scimitarre avevano un aspetto eroticamente bello e fiero, ma le intenzioni erano castissime: offrire galline e uova per avere
in cambio qualche indumento allo scopo di apparire meno selvaggi e più moderni49.
Il quadro si completa con queste descrizioni che riportano alla natura
primordiale degli stessi abissini, strumento migliore per mettere in risalto la grandiosità e la potenza organizzata delle truppe italiane. La figura di
questi personaggi si staglia sullo sfondo fantastico di un’Etiopia esotica e
misteriosa, attraente nel suo essere incontaminata. È questo l’aspetto in cui
Emanuelli si impegna maggiormente, dedicando interi articoli ai paesaggi abissini, circondandoli di un’aura poetica che si distacca dal contesto del
conflitto. Una sognante descrizione del territorio abissino si può trovare il
27 aprile nella cronaca di un volo su Gondar per il lancio di manifestini a
cui Emanuelli ha modo di partecipare. Si parla di «terra promessa»:
Una terra che mostra la sua ricchezza di colpo, senza misteri. Armenti che pascolano,
ruscelli d’acqua che rigano la terra e vanno a finire nel lago o dal lago partono […] alberi con tronchi dalla ramificazione rigogliosa che fanno veri boschi, vere selve50.
Così come il 7 maggio all’arrivo a Dessiè:
Si restava un po’ smarriti davanti alla conca verdeggiante, increduli quasi nel rimirare
i boschi, i filari di eucalipti, di salici; trasognati nel camminare per viali fiancheggiati da rose in fiore. L’Africa si presentava con un aspetto troppo civettuolo, quasi effe246
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
minato in questa sua dolcezza di colori, in questa sua placidità di panorami, in questa
sua svenevole accoglienza51.
Quello delle azioni militari è il quarto filone tematico che presenta variazioni consistenti tra le fasi iniziale e finale della campagna, sia quantitativamente che qualitativamente. A conclusione del conflitto l’esaltazione
delle imprese belliche si va accentuando notevolmente, soprattutto nelle
forme celebrative rivolte alle imprese aviatorie. Il culto della modernità traspare in questi pezzi unito alla tendenza eurocentrista che emerge soprattutto nel filone dell’opera civilizzatrice. Le corrispondenze di Emanuelli si concentrano sull’azione militare a partire dal 7 aprile, raggiungendo il
massimo dello sviluppo in coincidenza con l’offensiva dell’Ogaden (date:
7, 13, 15, 16 aprile, 7 maggio52). Oltre ad essere specchio di modernismo
tecnologico, l’aviazione assume atri due ruoli simbolici: in primo luogo essa diventa metafora dell’azione civilizzatrice dell’esercito italiano, attraverso il lancio dei manifestini più volte narrato da Emanuelli. L’altro volto
emergente, soprattutto sul finire del conflitto, nelle cronache dell’inviato
speciale è l’abilità e l’orgogliosa avventatezza dei piloti. Si parla di «acrobazie», «otto volante» (La complessa potenza dell’aviazione italiana nel giudizio di un esperto tedesco, 14 aprile 1936, p.1), di «festosa gara di evoluzioni, di picchiate, di virate strettissime» (Il volo ammonitore di 22 aeroplani
sulla capitale dell’Etiopia, 15 aprile 1936, p.1). I restanti articoli appartenenti a questo filone ruotano sugli elementi appena descritti in riferimento ai pezzi di Emanuelli. Un’ulteriore caratteristica a cui non abbiamo accennato in precedenza perché non particolarmente evidenziata dall’inviato speciale, campeggia invece in molte delle cronache con fonte l’Agenzia
Stefani. Si nota, infatti, come in questi articoli le avversità climatiche e logistiche ad ostacolare l’azione delle truppe italiane si moltiplichino. Si parla di «abissi di lave e sabbie e pianori di cenere e foschi anfiteatri di dirupi vulcanici e montagne squallide», «65 gradi al sole» (Altri particolari sulla leggendaria impresa attraverso l’infuocato deserto dancalo, 1 aprile 1936,
p. 1), «natura insidiosa del terreno montagnoso» (L’allargamento e lo schieramento del fronte di Socotà, 4 aprile, p. 1), «difficilissime condizioni del
terreno» (Come gli alpini e i fanti della «Sabauda» hanno assaltato e sfasciato l’armata del Negus, 5 aprile, p. 1), «piogge che cadono abbondanti e frequenti» (L’importanza strategica della presa di Gallabat, 14 aprile 1936, p.
1), «terreno particolarmente aspro e difficile» (Gli abitanti di Dessiè frater247
Stefania Vicari
nizzano con gli Ascari buoni e generosi, 17 aprile 1936, p. 1), «avverse condizioni atmosferiche» (Il Maresciallo Badoglio a Dessiè, 21 aprile, p. 2), «oltre 60 gradi al sole» (Lotte aspre e accanite in una temperatura infernale, 29
aprile, p. 1), «terreno selvatico, temperatura rovente, sopraggiunti uragani
e diluviar di fiumi» (La complessità grandiosa dei rifornimenti dall’Ascianghi
a Dessiè, 29 aprile, p. 6), «numerose frane e violenti acquazzoni» (Il Maresciallo Badoglio con l’avanguardia ta per entrare nella Capitale, 2 maggio, p.
1), «grossa interruzione stradale provocata dal maltempo» (La colonna motorizzata cattura a Temaber due cannoni, 3 maggio, p. 1), «il territorio somalo nella buona stagione è un mare sabbioso, nella cattiva una palude di
acqua e fango» (Le strenue fatiche e le ore drammatiche degli autocarristi nell’Ogaden, 3 maggio, p. 2), «le piogge torrenziali hanno ridotto tutto il settore delle operazioni in un enorme pantano» (Giggiga occupata dalle truppe
dl Gen. Graziani, 8 maggio, p. 1). Un certo scetticismo sulla totale attendibilità di queste affermazioni nasce proprio dal fatto che Emanuelli non descriva mai una situazione tanto catastrofica e, a maggior ragione, sollecita
qualche dubbio la rilevazione dei 65 gradi di temperatura in un territorio
che, nel mese di aprile, solitamente non supera i 35 gradi.
Le variazioni nei restanti settori informativi analizzati risultano invece
di minore entità. Per quanto riguarda il filone ‘esaltazione popolare’, l’80
per cento di questi pezzi compaiono nelle pagine del quotidiano a partire
dal 5 maggio. Non è quindi difficile intuire come in tutto il periodo finale del conflitto, prima della presa di Addis Abeba, l’attenzione si concentri ormai sul fronte. La celebrazione di singoli personaggi non è particolarmente diffusa sulle pagine del quotidiano e, dove presente, si concentra
sulla commemorazione di soldati sopravvissuti o caduti dopo «venerabili
imprese». E’ interessante notare come non si rilevino articoli rivolti principalmente alla celebrazione del Duce; gli appellativi più propriamente celebrativi sono in concomitanza con la pubblicazione dei discorsi per la presa
di Addis Abeba e la proclamazione dell’impero, rispettivamente il 6 e il 10
maggio. In tali occasioni Mussolini diventa «il Capo»53. I pezzi a smentita
della stampa estera sono presenti in percentuale molto bassa e diretti principalmente a screditare notizie di fonte britannica. Frasi come:
Questi tentativi di impressionare l’opinione pubblica con un fuoco accelerato di falsità e accuse contro l’Italia si sono sempre verificati alla vigilia delle riunioni ginevrine54.
248
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
Mirano ad attaccare il Governo britannico, ritenuto colpevole di voler
mettere a tutti i costi in cattiva luce l’impresa italiana e di voler legittimare il proprio sostegno delle sanzioni.
Conclusioni
In conclusione, la «posizione speciale» concessa al quotidiano da parte
del regime si mostra, a valle dell’analisi appena presentata, in tutte le sue limitazioni. Il vero atto di forza compiuto dal quotidiano è l’allontanamento
di Ansaldo nel novembre 1935, dopo la serie di articoli analizzati nella prima parte di questo studio. I toni più accesi nel periodo iniziale del conflitto
nel quotidiano ligure si devono ricondurre proprio alla figura di Giovanni Ansaldo. Analizzando i suoi «Epiloghi», soprattutto in invettive contro
il governo inglese, si può constatare il graduale allontanamento dall’identità della testata, fino all’abbandono decisivo. Paradossalmente, quanto avvenuto nella redazione del foglio ligure è in totale contrasto con gli avvenimenti della restante stampa italiana perché proprio il tesseramento al partito fascista da parte di Ansaldo segna la fine della sua attività di vice direttore de «Il Lavoro». Canepa e Calda non ne tollerano più la presenza, fino
a rifiutarsi di pubblicare un suo articolo.
Questa presa di posizione non mina ovviamente la carriera del giornalista, ormai proiettato verso la direzione del giornale di Ciano, ma rappresenta un atto di forza da parte della testata ligure: dimostra come esista ancora un’identità che si intende mantenere, nonostante tutte le restrizioni
che condizionano la pubblicazione del foglio. E se si pensa che questi avvenimenti risalgono al 1936, nel pieno della repressione degli organi d’informazione da parte del regime, non si può che sottolinearne il significato
ideologico. Il fatto che gli articoli di Ansaldo dell’ottobre del 1935, si distinguano dalle altre analisi per la capacità e lo stile del giornalista, emergendo dalla generale opacità, suggerisce un’ulteriore considerazione interessante: le imposizioni sulla forma e sul contenuto da parte degli organi
dello stato, si ripercuotono nelle pagine de «Il Lavoro» in articoli spesso
grigi e senza spunti di rilievo.
In disaccordo con il regime ma nell’impossibilità di mostrare questo
disaccordo, gli opinionisti del foglio genovese non si espongono in considerazioni rilevanti sugli avvenimenti di cronaca, stendendo pezzi spesso
sintetici e senza coinvolgimenti. D’altronde lo stesso Calda, chiedendo a
249
Stefania Vicari
Mussolini la revoca della sospensione delle pubblicazioni nel 1926, aveva
definito il giornale «quasi ridotto a un puro e semplice monitore di cronaca politica e di avvenimenti vari»55, non un potenziale pericolo per il regime di cui egli era a capo.
Al di là dei fatti riguardanti Ansaldo, uno dei principali elementi per
cui l’appoggio al regime da parte del quotidiano appare meno eclatante è
la mancata esaltazione del duce e delle personalità di spicco all’interno del
sistema politico. Anche in occasione dei discorsi di Mussolini, delle «adunate oceaniche», l’attenzione è rivolta alla partecipazione popolare piuttosto che al duce in sé. Sono poi rare le occasioni in cui Mussolini venga in
effetti chiamato «duce». In relazione a quanto abbiamo potuto constatare, le poche forme celebrative di singoli personaggi sono rivolte a eroi sul
fronte piuttosto che a «eroi in patria». Emanuelli, in quanto inviato speciale, dedicandosi più alle descrizioni della «terra conquistata» e a singoli episodi a cui partecipa direttamente, non eccede in forme celebrative sugli scontri militari o nella divulgazione di dati palesemente discutibili sulle
vittorie delle truppe. Sicuramente esalta il valore dei soldati e ne accentua
l’entusiasmo ma non è questo l’elemento a cui dedica principalmente l’attenzione. Nella netta impossibilità di affermare un’esplicita opposizione al
regime da parte del quotidiano, possiamo quindi riscontrare la presenza di
alcuni elementi di richiamo alla sua identità originaria.
Una considerazione che nasce spontaneamente a valle di questa analisi
si fonda nel riconoscere che per individuare tali elementi sia necessario un
studio analitico e approfondito visto il loro carattere comunque sottile e
velato, rafforzabile solo dopo un confronto con il resto della stampa esplicitamente di regime
Di particolare rilevanza risulta quindi il confronto con la restante stampa italiana di fronte ad un evento come la campagna d’Etiopia, definita da
Isnenghi «una delle fasi di più lampante interventismo della stampa secondo un piano di riformulazione dell’immagine dell’ italiano»56. Basti guardare l’esempio a seguire per notare come le differenze tra «Il Lavoro» e una
qualsiasi testata di regime siano prettamente qualitative.
250
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
Titolazioni tratte dai due giornali
«La Stampa»
«Il Lavoro»
Il sanzioniamo criminale di Ginevra, L’embargo sulle armi stabilito per l’Italia e tolto
per l’Etiopia barbara e schiavista, La pressione inglese sulla Francia è sempre più decisa, Il giuoco del denaro nel torbido maneggio diplomatico, Ginevra sotto la frusta di
Eden, L’elaborazione delle sanzioni economiche e finanziarie, «Riserve, deroghe, necessità vitali sgretolano il piano di sanzioni
economiche, Mentre Ginevra arma i negrieri voci oneste si levano contro la follia delle
sanzioni, Il macchinario delle sanzioni, Livore e incompetenza nelle discussioni dei comitati, Demenza ginevrina, I comitati societari sotto la pressione di Eden preparano lo scardinamento dell’economia europea.
Un’arma a doppio taglio, le sanzioni economiche, Ed ora?, Le sanzioni economiche
proposte a Ginevra e il meccanismo della
loro applicazione, Con la solita procedura
di eccezionale rapidità il comitato dei Cinquantacinque approva le cosiddette sanzioni finanziarie contro l’Italia, I problemi e le
difficoltà delle sanzioni a Ginevra, Atmosfera di diffidenza e di preoccupazioni nel
campo dei sanzionisti a Ginevra, Il processo
delle sanzioni economiche resta praticamente in sospeso per 10 giorni, Undici stati fanno riserve al piano di Eden sulle sanzioni.
Nelle pagine de «La Stampa», per esempio, la partecipazione allo sviluppo dello Stato fascista è dichiarata ed esplicita, in ogni filone informativo. A partire dalle titolazioni, la celebrazione dell’Italia mussoliniana è
l’elemento costante che lega tutti gli opinionisti e gli inviati dal fronte. Ne
«La Stampa», dalla scena nazionale al fronte internazionale, il riferimento
al fascismo fa uso di forme narrative proprie dell’«epica coloniale» di cui
parla Isnenghi57, per richiamare la forza dell’impero romano secondo lo
stile proprio del duce. I confronti con «la gloria di Roma» e la «forza civilizzatrice latina» campeggiano in molti dei pezzi analizzati. Il culto del personaggio Mussolini è presente in ogni forma di celebrazione e non esiste
vittoria italiana, diplomatica o militare, che non sia a lui dovuta. Le corrispondenze dal fronte, visti i numeri degli inviati speciali, sono ovviamente
squilibrate fra i due quotidiani. Emanuelli non si dilunga mai sugli scontri
bellici, riducendo i dati tecnici riportati nei suoi articoli su «Il Lavoro». Le
sue sono soprattutto descrizioni dell’Africa esotica da conquistare e narrazioni di brevi avvenimenti a cui partecipa direttamente. Gli inviati specia251
Stefania Vicari
li de «La Stampa» mandano invece corrispondenze quotidiane sui fatti del
fronte, spesso dilungandosi in cronache degli scontri e divulgando dati sui
numeri dei caduti (sempre nelle file nemiche) e sulle opere di costruzione
nei territori conquistati. Dove l’inviato non tratta di scontri o di vittorie
dell’esercito italiano, si dedica alla narrazione aneddotica che si rivela sempre portatrice di un significato propagandistico.
In conclusione, la situazione vissuta da «Il Lavoro» durante la campagna d’Etiopia si distingue rispetto al resto della stampa italiana. Per citare un esempio, «La Stampa» non solo appoggia ma partecipa direttamente
e con toni entusiastici alla creazione dell’identità italiana fascista: Mussolini diviene l’interprete unico e massimo. Tutti i valori esaltati e strumentalizzati nelle pagine del quotidiano derivano spesso dall’omogeneizzazione di tratti ideologici del passato e dall’omologazione ideologica. Nella pagine de «La Stampa» esiste infatti ancora una forma d’opinione ma ormai
totalmente epurata del suo valore critico e investita del ruolo di rieducazione del popolo italiano per la causa del regime. Diversa è la situazione de
«Il Lavoro», foglio ligure con un terzo della tiratura de «La Stampa», nato e
sviluppatosi per opera delle organizzazioni operaie del Genovesato. Classificato come quotidiano medio per tiratura, il suo primato di diffusione in
Liguria si mantiene stabile anche dopo la ripresa delle pubblicazioni in seguito alla sospensione del 1926. La sua sopravvivenza non è un caso o un
atto di clemenza da parte di Mussolini: le pubblicazioni continuano da un
lato perché si tratta di un foglio non abbastanza pericoloso da preoccupare gli organi di stato, dall’altro perché potenzialmente utile come esempio
di apertura e tolleranza da parte del regime. La sua personalità, ricercando una forma neutrale, risulta però ingrigita, i pezzi spesso essenziali e privi di commenti. Nell’analisi qualitativa degli articoli abbiamo riscontrato
la presenza di mimetizzati accenni dissonanti con la celebrazione mediatica del regime, ma immersi in una generale atmosfera opaca. La forza della
testata sta nella sua resistenza e nella dimostrata volontà di non cadere negli eccessi elogiativi delle testate normalizzate dal regime. La redazione riesce a resistere all’ondata fascistizzante: direzione e amministrazione rimangono rispettivamente in mano a Canepa e Calda mentre, paradossalmente, si allontana chi si mostra troppo vicino al regime. In questi, appena descritti, riconosciamo gli elementi forti della testata, unici strumenti rimasti
per non affondare nella demagogia celebrativa che accomuna tutta la stampa italiana non clandestina.
252
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
Note al testo
1
Cfr. M. Legnani, La stampa antifascista in La stampa italiana nell’età fascista, a cura di V. Castronovo, N. Tranfaglia, Laterza, Bari 1980, pp. 261-359.
2
Cfr. P. Murialdi, La stampa quotidiana del regime fascista in La stampa italiana nell’età fascista cit., pp. 37-42.
3
Citando Tranfaglia: «Durante l’Aventino, [...] la preoccupazione principale di Mussolini e del
gruppo dirigente fascista è quella di mettere a tacere il «Corriere» e «La Stampa», che continuano ad avere un’influenza notevole nella borghesia liberale e rischiano di rimettere in discussione
il sostegno che la classe dirigente prefascista ha ormai concesso al regime», N.Tranfaglia, La
stampa quotidiana e l’avvento del regime 1922-1925 in La stampa italiana nell’età fascista cit., p.
27. Vedi anche P. Murialdi, La stampa del regime fascista, Laterza, Bari 1986, pp. 2-3.
4
Per la descrizione dettagliata del processo di allontanamento di Albertini dalla direzione del
«Corriere della Sera» e Frassati de «La Stampa», si vedano tra gli altri: V. Castronovo, La stampa italiana dall’unità al fascismo, Laterza, Bari 1970; M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, Einaudi, Torino 1979, p.187; P. Murialdi, La stampa del regime fascista cit., p.2; P. Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Gutemberg, Torino 2000, pp. 142-3,
N.Tranfaglia, La stampa quotidiana cit. pp. 26-29.
5
Nel 1925 i giornalisti fascisti riescono ad ottenere il controllo del Consiglio Generale della Fnsi che mostrava resistenze all’ingerenza delle nuove leggi statali nel campo dell’informazione.
Da questo momento ha inizio lo smantellamento della libera Fsni, P. Murialdi, La stampa del
regime fascista cit., pp. 8-9.
6
«Ogni giorno, e più volte al giorno, i direttori dei giornali ricevevano dall’ufficio centrale della
Stampa, che fu poi il ministero della Cultura Popolare, le cosiddette Note di Servizio, ove erano impartite istruzioni petulanti, se non proprio precise, circa la collocazione e il rilievo delle
notizie, aggiuntivi l’obbligo o la facoltà del commento nei termini ortodossi che venivano indicati: finanche lo spazio e talora i caratteri per ogni notizia venivano più volte stabiliti, lasciando i casi minori alla discrezione obbedientissima dei vari giornali», F. Flora, La stampa dell’era
fascista. Le note di servizio, Mondatori, Roma 1945, p.115.
7
Pini, nove anni prima della sua candidatura a caporedattore de «Il Popolo d’Italia», scriveva nel
1925: «Non avevo altra scuola politica ma l’istanza di libertà propria di quanti possiedono un
minimo di personalità e di cultura si agitava in me più o meno consciamente», G. Pini, Filo diretto con Palazzo Venezia, FPE, Milano 1967, p. 36.
8
Scrive De Felice: «Mai come in questa occasione il fascismo riuscì a mobilitare e a utilizzare a
fondo le possibilità offertegli dal monopolio dell’informazione e delle moderne tecniche della
propaganda di massa. Tutti gli strumenti furono utilizzati al massimo: stampa, radio, cinema
organizzazioni di massa, scuola, ecc. Tutte le categorie di cittadini furono investite», R. De Felice, Mussolini il duce, I, Gli Anni del consenso, Einaudi, Torino 1981, p. 266).
9
Non è stato facile reperire informazioni dettagliate sulla nascita e i primi anni de «Il Lavoro».
Sono stata in grado di ricostruire questo percorso longitudinale anche e soprattutto grazie ad
un colloquio con il prof. Paolo Murialdi a Sestri Levante il 2 gennaio 2004.
10
Per maggiori dettagli sugli eventi qui riportati a proposito della nascita del quotidiano si vedano L.Balestreri, Stampa e opinione pubblica a Genova tra il 1939 e il 1943, Istituto storico della Resistenza in Liguria (distr. da La Nuova Italia), Firenze 1965; P. Murialdi, Il giornale con le mani sporche ne «Gli Album de La Repubblica», supplemento a «La Repubblica», 7
giugno 2003, p. 4; G. Benelli, Arturo Salucci e la nascita de «Il Lavoro» ne «La Casana», n.3,
2003, pp. 51-57.
253
Stefania Vicari
11
. Murialdi, Il giornale con le mani sporche cit., p. 4.
12
A proposito dell’ondata interventista sulla carta stampata, si veda V.Castronovo, La stampa
italiana dall’unità al fascismo cit., pp. 216-237.
13
«[…]lo schieramento neutralista non si presentava come una forza effettivamente organizzata
e compatta. La lotta contro la guerra dell’ «Avanti!» e dei giornali socialisti si era svolta già in
partenza in un clima di sconfitta, sotto il segno della caduta del mito del partito socialdemocratico tedesco, schieratosi contro l’“unione sacra” nazionale, e della crisi della II Internazionale in cui i socialisti italiani avevano riposto molte speranze», ivi, p. 224.
14
Cfr. M.Bompani, Così Mussolini entrò al «Lavoro» ne «Gli Album de La Repubblica», 7 giugno 2003.
15
Cit. in P. Murialdi, La stampa del regime fascista cit, p. 32.
16
L.Balestreri, Stampa e opinione pubblica cit., nota pp. 10-11.
17
Cfr. P. Murialdi, la stampa quotidiana del regime fascista cit., pp. 69, 70.
18
L.Balestreri, Stampa e opinione pubblica cit., p. 11
19
Cit. in G. Canepa, «Il Lavoro», in Annuario della Stampa Italiana 1931-1932 a cura del Sindacato Nazionale Fascista dei giornalisti , Zanichelli, Bologna, p. 158.
20
A. Signoretti, La stampa in camicia nera 1932-1943, Giovanni Volpe Editore, Roma 1968,
p. 65.
21
In realtà Ansaldo verrà arruolato in Libia anziché in Etiopia, altro motivo di critica da parte dei
suoi oppositori (P. Murialdi, La stampa del regime fascista cit., pp. 135-6).
22
M. Staglieno, Introduzione in G. Ansaldo, L’antifascista riluttante: memorie del carcere e del
confino 1926-1927, Il Mulino, Bologna 1992, p. 42.
23
Ho tratto questa e altre successive testimonianze da un colloquio con il prof. Paolo Murialdi a
Sestri Levante il 2 gennaio 2004.
24
Cfr. G. Ansaldo, Anni freddi, Diari 1946-1950, Il Mulino, Bologna 2003.
25
Per un’analisi strutturata della costruzione del consenso popolare da parte del regime fascista
attraverso gli organi culturali e d’informazione si veda P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso fascismo e mass media, Laterza. Roma-Bari 1975.
26
«Se nei confronti del nemico barbaro, Ciano e i suoi collaboratori non fanno altro che intensificare, in particolare dopo l’incidente di Ual Ual del dicembre, la campagna denigratoria contro l’Etiopia, sul fronte internazionale la tattica antiinglese è duttile, per poter seguire – attraverso l’impostazione dei giornali e il dosaggio dei commenti – gli alti e bassi delle relazioni con Londra e cercare d’influirvi» (P. Murialdi, La stampa quotidiana del regime fascista cit., p.166).
27
Ual Ual è una località di appartenenza incerta dove esistono pozzi di vitale importanza per le
popolazioni del confine somalo-etiopico. Un presidio italiano vigila su di essi dal 1925. Il 5
dicembre 1934 si verificano scontri armati tra il suddetto contingente italiano e bande armate capeggiate da ras etiopici. Cfr. I. Montanelli, L’Italia Littoria 1925-1936, Rizzoli, Milano 1980, pp. 215-17. Per un’analisi delle conseguenze portate dall’evento si veda G. Rochat,
Militari e politici nella preparazione della campagna d’Etiopia, Franco Angeli, Milano 1971, pp.
101-112 e P. Murialdi, La stampa del regime fascista cit., p. 132.
28
Telegramma riportato da A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell’impero, vol. II, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 455.
254
«Il Lavoro»: un giornale di fronda in tempo di regime
29
I. Montanelli, Dentro la Guerra in «Civiltà fascista», riportato in Eia, Eia, Eia, Alalà! La
stampa italiana sotto il fascismo 1919/1943, antologia a cura di O.Del Buono, Feltrinelli, Milano 1971, p. 294.
30
Per il racconto dell’evento si veda A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista
dell’impero cit., pp. 454-455.
31
A. Mignemi, Immagine coordinata per un impero.Etiopia, 1935-1936, Gruppo Editoriale Forma, Torino 1984, p. 35.
32
Poggiali scrive di questi avvenimenti su un taccuino che verrà pubblicato postumo col titolo
Diario AOI. Cfr. G. Licata, Storia e linguaggio dei corrispondenti di guerra, Guido Milano Editore, Milano 1972, p. 147.
33
P. Murialdi, La stampa del regime fascista cit., p.144.
34
Ibidem, p. 134
35
Cfr. P. Murialdi, La stampa quotidiana del regime fascista cit., pp.168-169.
36
Cfr. M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari cit., pp. 93-151.
37
I titoli sono rispettivamente: Francia e Inghilterra; «Cosa fatta…»; La «Home Fleet»; Il precedente giapponese; La coalizione.
38
G. Ansaldo, Francia e Inghilterra ne «Il Lavoro», 3 ottobre 1935, p. 2
39
A. Signoretti, La stampa in camicia nera cit., p. 166.
40
P. Murialdi, La stampa del regime fascista Murialdi, P. 1986: 135n.
41
G. Ansaldo, «Cosa fatta...» ne «Il Lavoro», 5 ottobre 1935, p.2
42
G. Ansaldo, La «Home Fleet» ne «Il Lavoro», 6 ottobre 1935, p.1
43
G. Ansaldo, La coalizione ne «Il Lavoro», 13 ottobre 1935, p.1
44
I titoli sono rispettivamente: Il volo di perlustrazione; I picconi dopo le mitragliatrici aprono il
cammino della civiltà nel cuore dell’Etiopia verde; Nella Capitale senza Negus si attendono gli italiani; Il festoso entusiastico incontro della colonna motorizzata e di quella degli ascari a pochi chilometri da Addis Abeba.
45
E. Emanuelli, I picconi dopo le mitragliatrici aprono il cammino alla civiltà nel cuore dell’Etiopia verde ne «Il Lavoro», 21 aprile, p. 2
46
E. Emanuelli, Arrivo a Dessiè, prima della grande avanzata ne «Il Lavoro», 5 maggio 1936,
p. 3
47
E. Emanuelli, Nella capitale senza Negus si attendono gli italiani ne «Il Lavoro», 30 aprile
1936, p. 1
48
E. Emanuelli, Il Governo Etiopico trasferirà la sua residenza centocinquanta miglia lontano dall’attuale capitale ne «Il Lavoro«, 18 aprile 1936, p. 1
49
E. Emanuelli, Breve tappa sulla via del «Nuovo Fiore» ne «Il Lavoro», 1 maggio 1936, p.1
50
E. Emanuelli, In volo su Gondar e sul Tana ne «Il Lavoro», 27 aprile 1936, p. 1
51
E. Emanuelli, Ultima sosta a Dessiè ne «Il Lavoro», 7 maggio 1936, p. 3
52
I titoli sono rispettivamente: Centocinquanta chilometri separano Quoram da Dessiè e la strada è
camionabile; Gli eroici «abitatori» dell’aria in A. O.; Le avanguardie alle soglie di Dessiè, La rapida marcia del Corpo Eritreo da Quoram a Dessiè; «L’Obiettivo raggiunto!»
255
53
Gli articoli sono rispettivamente: Parla il Capo, p.1; La parola del Capo, p.1.
54
Alterne vicende della politica inglese, aspre critiche della stampa conservatrice al Governo ne «Il Lavoro», 16 aprile 1936, p. 6
55
Cit. in L.Balestreri, Stampa e opinione pubblica cit., p. 36.
56
M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari cit., p. 197.
57
Ibidem, p. 102.
rassegna bibliografica
Le schede
Prestopino Francesco, Sebastiano Casalaina. Un siciliano nella Tripoli turca, con prefazione di
Massimo Romandini, Edizioni La
Vita Felice, Milano 2006, pp.135
(Collana Silphium 4)
Quello di Sebastiano Casalaina,
italiano in giro per il Mediterraneo, è un diario atipico, ma di sicuro interesse. Siamo, tra Malta e Tripoli, nella prima metà del XIX secolo: un’epoca di contatti e scambi
frequenti, ma anche di altrettanto
frequenti scontri tra le due sponde del Mediterraneo, «raccontata»
in volumi di notevole spessore, soprattutto negli ultimi anni, grazie
alle ricerche di studiosi italiani.
La storia di questa epoca è scritta,
in forme interessanti, anche in diari inediti, a volte miracolosamente recuperati, come quello che Prestopino ha dato alle stampe: tasselli importanti di un insieme storico
da approfondire.
Le «Memorie» di Casalaina (titolo
originale My private Memoranda),
scritte tra Malta e Tripoli turca,
nel periodo 1811-1857, hanno valore non solo perché in esse ricorrono nomi e avvenimenti di un certo
rilievo, ma anche per le piccole informazioni di vita quotidiana che il
loro estensore ci offre in uno stile
da ragioniere o da cronista smaliziato. Il diario è scritto in tre lingue
differenti, peraltro sufficientemente corrette: inglese, italiano e latino. Questo «vezzo» sembra imposto dalla diversità dei temi trattati
che sono, di volta in volta, quelli familiari e personali (ad esempio, notizie sull’ambiente locale e il tempo dell’autore) e quelli più locali di
minore o maggiore significato (ad
esempio, l’invasione delle cavallette a Tripoli o i timori nella comunità locale per l’assassinio di cittadini
maltesi, i cenni alla rivolta contro
il governo dei Caramanli, l’arrivo
di alcune squadre francesi nel porto di Tripoli, le varie rappresentanze diplomatiche che Casalaina frequentò con una certa assiduità).
Il diario è originale per la sua stessa strutturazione: due quaderni di
differente misura, volume, stato di
257
Le schede
conservazione, senza l’ordine cronologico delle informazioni riportate. Questo particolare ha spinto
Prestopino ad un complesso lavoro di riordino del testo. Lo dicono
le pagine attentamente ricostruite
nella loro cronologia con l’indicazione, citazione per citazione, delle
pagine originarie, cioè appartenenti ai due quaderni di Casalaina. Il
lavoro di «riscrittura» ha presentato
difficoltà nella decifrazione del testo, perché qualche parola risultava
incomprensibile. Come tali, queste
parole illeggibili sono segnalate di
volta in volta.
Il diario è interessante perché appartiene cronologicamente ad un’epoca
dalla quale non ci sono giunte produzioni «letterarie» di italiani residenti in Libia che invece sono rintracciabili per i decenni successivi.
Se il diario in questione non è un
vero e proprio «prodotto letterario», ha comunque svariate qualità di rilievo. Oltre tutto, esso è la
storia di un’esistenza consumata tra
l’Italia, il Mediterraneo e la Tripoli turca, ricca degli avvenimenti di
cui sono furono fatte le vite di molti connazionali trasferitisi all’estero
in quel tempo. Questo suddito del
Regno delle Due Sicilie, presente a
Malta già prima del 1811, assurge a
prototipo degli italiani che in quegli anni percorsero terre straniere
258
anche alla ricerca di una sistemazione decorosa.
Nella sua introduzione Prestopino
«racconta», anticipandola per sommi capi, la storia di Casalaina che
si ricuce nei suoi appunti non cronologici: ci sono periodi vuoti, non
tutto appare pienamente comprensibile, ma il risultato è la cronaca
di una vita scolpita nell’essenzialità spesso telegrafica del diario. Gli
anni per il suddito del Regno delle Due Sicilie passano tra attività
lavorative, vicende personali e familiari, alcuni fatti rilevanti: tutti
compongono la vicenda umana di
quest’uomo dalla famiglia numerosa che spese gran parte della sua vita lontano dall’Italia.
Una piccola storia personale, dunque, che s’innesta sulla più vasta
storia di luoghi nordafricani destinati ad essere frequentati col tempo,
ma già allora abbastanza frequentati, da un gran numero di italiani fino alla conquista del 1911-12. Peccato che l’autore dedichi poco spazio all’elemento locale la cui conoscenza ci avrebbe dato un aiuto
considerevole per alcuni fatti storicamente importanti che, comunque, trovano eco nelle sue pagine.
In due parole, un lavoro ben riuscito che dà merito a Prestopino per
la fatica portata a termine (Massimo Romandini).
Le schede
Isabella Bonati, Guido Boggiani
(Orme nell’ignoto), Il Tucano Edizioni, Torino 2006, pp.134 (Collana «Esploratori italiani dell’Ottocento» diretta da Manlio Bonati)
È questo il secondo volume della Collana «Esploratori italiani dell’Ottocento» che esce in pregevole
rilegatura con stampa su carta Fedrigoni Corolla Book Ivory e in soli
mille esemplari numerati. A curare il volume su questa originale figura di viaggiatore di fine Ottocento una giovane ricercatrice parmense, Isabella Bonati, appassionata di
viaggi e storie di esploratori italiani.
Guido Boggiani ricorre più volte
nei dizionari biografici di Silvio Zavatti, l’ultimo dei quali risalente al
1979 (Uomini verso l’ignoto, Bagaloni Editore, Ancona). Alle pp. 6162 di questo ottimo testo si ricorda per sommi capi la vita avventurosa di un uomo del XIX secolo che
«portò capitali ausili all’antropologia e all’etnografia del Paraguay».
Il volume della Bonati arricchisce
sensibilmente la storia finora nota
di Boggiani, uomo e viaggiatore,
oltre che artista e pittore di fama,
aggiungendo particolari nuovi a
precedenti ricostruzioni parziali,
a partire da quelle degli anni quaranta del secolo scorso fino ai nostri giorni, di Pietro Scotti, Alberto Viviani, Manlio Bonati e France-
sco Surdich, e al volume di Maurizio Leigheb, Lo sguardo del viaggiatore. Vita e opere di Guido Boggiani,
Interlinea Edizioni, Novara, 1997.
L’artista-esploratore ricorre anche
in alcune biografie letterarie, tra
cui quella di Piero Chiara su D’Annunzio (Mondadori 1978).
Ma chi fu veramente quest’uomo
che ebbe interessanti frequentazioni con artisti del suo tempo? Nato
nel 1861, Boggiani dimostrò subito
di possedere un animo inquieto e
ribelle che gli impedì di proseguire
i corsi avviati all’Accademia di Brera e lo portò nella Scapigliatura milanese e al successo dei primi quadri tra il 1881 e il 1883. In questi anni conosce e frequenta amici del calibro di D’Annunzio, Michetti, Scarfoglio. L’artista è sempre
più irrequieto e nel 1887 si reca per
la prima volta in America Meridionale, tra l’Argentina e il Gran Chaco nell’Alto Paraguay dove si trasforma in venditore di pelli ed oggetti di manifattura indigena, conosce gruppi di indios semisconosciuti (si pensi agli Indios Caduvei
ai confini del Mato Grosso), fonda due stazioni sul Rio Paraguay,
raccoglie materiali per una collezione etnografica che oggi si trova
ancora al Museo Pigorini di Roma
(ma Zavatti parla anche del Museo di Berlino a questo riguardo).
Il rientro in Italia, sei anni dopo la
259
Le schede
partenza, costituisce per Boggiani
il momento del riordino delle annotazioni raccolte in tanti avventurosi spostamenti in regioni poco
con osciute e della diffusione delle conoscenze faticosamente acquisite. La Società Geografica Italiana
lo accoglie per una conferenza sui
Chamacocos nel giugno 1894, ma
anche le riviste specializzate (tra cui
il «Bollettino della R. Società Geografica Italiana») ospitano suoi articoli, alcuni dei quali escono a stampa. Loescher gli pubblica nel 1895
I Caduvei (Mbayà o Guaicurù), la
Reale Accademia dei Lincei invece il Vocabolario dell’idioma Guanà
(che Zavatti ricorda, definendolo
«prezioso», nel citato Uomini verso
l’ignoto). Intanto, Boggiani conosce
anche Vittorio Bottego da lui diversissimo.
Dopo una crociera in Grecia con
D’Annunzio e Scarfoglio (oltre a
Herélle il suo traduttore francese),
l’irrequieto artista riparte per il Paraguay e da Asunciòn si dirige verso
l’interno, ritorna tra i Caduvei che
aveva già attentamente studiato, e
riprende a pubblicare i suoi studi
fino al 1900. Nell’agosto 1901 si
trova nuovamente in Paraguay per
quello che sarà il suo ultimo viaggio. Vuole raggiungere gli sconosciuti Tumanahà, dei quali parla
nell’ultimo scritto al fratello Oliviero nell’ottobre dello stesso anno. Le
260
sue tracce si perdono il 24 ottobre
(quindi, Boggiani non poté morire,
come suppone Zavatti, «nell’agosto
o nel settembre del 1901»), quando con sei guide chamacocos, che
poi abbandonerà, e il fedele accompagnatore Felice Gavilàn, si allontana dallo stabilimento di Los Medanos. Boggiani scompare nel nulla e solo la spedizione di soccorso
del giugno 1902, diretta da José
Fernandez Cancio, riuscirà a trovare alcune tracce del passaggio suo e
dei suoi uomini in zone inesplorate
e impervie. La spedizione ferma un
indio di nome Luciano che, dopo
molti interrogatori e contraddizioni, conduce i soccorritori nel luogo
dove erano stati assassinati il pittore e Gavilàn. Vengono ritrovati alcuni resti dei due uomini e la spedizione fa ritorno ad Asunciòn con
la tragica notizia.
Di tutto questo il generoso Cancio
scrisse, ad Asunciòn, per il «Bollettino della R. Società Geografica Italiana» (1903) in un interessante articolo dal titolo Alla ricerca di Guido Boggiani nel Chaco boreale paraguayano. Un volume sulle stesse penose vicende Cancio pubblicò presso Bontempelli nello stesso anno,
ma si trattava di un’edizione fuori
commercio a disposizione del «Comitato pro Boggiani» che aveva reso
possibile la spedizione di soccorso
alla ricerca dello sfortunato viaggia-
Le schede
tore. Il mistero sulla fine di Boggiani resta, almeno in parte: forse vi
fu di mezzo anche una questione di
donne. Nelle pagine conclusive del
volume, Isabella Bonati ripercorre
la ricostruzione della sua morte, ma
certezze non se ne possono scrivere
e lo stesso indio Luciano se la cavò
con un po’ di prigionia ad Asunciòn. In ogni caso, resta nel lettore
del volume la certezza di trovarsi al
cospetto di una figura particolare in
quel variegato panorama di viaggiatori-esploratori italiani di fine Ottocento. Preme soprattutto rilevare
che Boggiani, «fondamentalmente
una brava persona, sensibile, colto,
fine, pittore, scrittore, esploratore,
etnografo, linguista» (come ricor-
da Manlio Bonati nell’Introduzione), girava per territori sconosciuti armato del fucile solo per la caccia, in questo molto simile ai Livingstone e ai Piaggia che hanno segnato la storia delle esplorazioni in
Africa Orientale. Certo, una figura
molto diversa da quella dell’amico
Bottego che «aveva il fucile facile»
(sottolinea ancora Manlio Bonati,
suo noto biografo) nei movimenti in Africa. Li accomunò la stessa,
tragica fine: quella che fece scrivere
pagine commosse a Scarfoglio sull’«Illustrazione italiana» dell’agosto-settembre 1896 e sul «Giornale d’Italia» del 19 novembre 1902
(Massimo Romandini).
Chiara Bazzanella, Tullio Bazzanella in Etiopia. Una vita di lavoro,1936-1978, Prospettiva editrice,
Civitavecchia 2005, pp.269
Paola Pastacaldi, Khadija, peQuod, Ancona 2005, pp. 251
bri sono basati su di una eccellente
documentazione storica.
Il libro di Chiara Bazzanella ripercorre l’esistenza del nonno Tullio,
che in gran parte si è svolta in alcune regioni dell’Etiopia, tra il 1936
e il 1978. Volontario nella guerra
di conquista dell’Abissinia, partecipa con la «Legione Parini» alle ultime operazioni sul fronte sud, al comando del generale Graziani. Congedato nell’agosto del 1936, accetta
di dirigere una segheria sui monti
Conchè, ad una sessantina di chilometri dalla capitale. Vi resterà cinque anni, sino alla caduta dell’im-
Ancora due libri sul Corno d’Africa. Il primo ambientato nelle foreste del Botor e del Cercer, in Etiopia; il secondo ad Harar, la quarta città santa dell’Islam. Entrambi sono il frutto di una sconfinata
ammirazione per due parenti stretti, che hanno viaggiato ed operato
in Africa Orientale. Entrambi i li-
261
Le schede
pero e all’internamento suo e della famiglia in un campo di concentramento.
Ma Tullio Bazzanella ha la fortuna
di essere incluso nella lista dei 500
italiani che non verranno espulsi
dall’Etiopia, per la precisa volontà dell’imperatore Hailè Selassiè.
Nel 1947 ha perciò la possibilità di
tornare a svolgere la sua attività di
«tecnico del legno» alle dipendenze dell’Ethiopian Wood Works, che
opera ad Addis Abeba, sui monti Botor e nell’Harrarino. Per questa società Tullio Bazzanella lavorerà sino al 1978, data in cui la ditta
viene nazionalizzata dal regime comunista di Hailemariam Menghistu. Il brusco cambiamento politico nel paese segna anche la fine dell’avventura africana del Bazzanella,
che il 5 luglio 1978 rientra in patria
con la famiglia.
Scrive la nipote Chiara come conclusione: «Partito come deciso fascista, deluso nelle sue aspettative
e sempre più conscio dei valori che
ogni uomo degno deve possedere,
Tullio è riuscito a lasciare di sè, e
soprattutto del suo lavoro, tracce
che è stato per me commovente, e
per chi legge mi auguro di qualche
interesse, ripercorrere».
La storia del lungo soggiorno in
Etiopia del Balzanella, per l’esattezza 42 anni, è ricostruita non soltanto con devozione ed amore dalla
262
nipote, ma anche valendosi di una
documentazione fotografica davvero eccezionale e di un fitto carteggio epistolare. Gli avvenimenti politici e militari sono invece illustrati
con l’ausilio di una serie di testi storici che Chiara Bazzanella ha saputo utilizzare con competenza e assoluto rigore. Due viaggi in Etiopia,
compiuti dall’autrice nel 2000 e nel
2003, hanno contribuito ad arricchire la testimonianza fotografica e
a rendere più visibili le tracce dell’attività di Tullio Bazzanella.
Diverso il percorso seguito da Paola
Pastacaldi, nota giornalista e scrittrice, per riscrivere la storia dei suoi
nonni. «Ho iniziato questo viaggio
dentro l’Africa - scrive in una nota
conclusiva - sulla spinta di un esotismo familiare. Un uomo che si perdeva nell’Africa di fine secolo, la cui
storia si intrecciava con l’inizio della colonia e i primi viaggi di esplorazione in un paese antico, l’Etiopia, regno di Aksum e della regina
di Saba, e una nonna di una tribù
oromo, di nome Khadija Ahmed
Youssouf».
Per quanto Paola Pastacaldi usufruisca, per la sua ricostruzione, di
una ricca documentazione storica
e fotografica e abbia, come Chiara
Bazzanella, compiuto un viaggio in
Etiopia, in particolare ad Harar, per
inquadrare meglio le vicende dei
nonni, il tessuto del libro è preva-
Le schede
lentemente narrativo. Si tratta, infatti, di un vero e proprio romanzo, che ha per protagonista principale il nonno Francesco. Seguendo l’itinerario di altri esploratori,
da Zeila a Gildessa, ha come meta
la città santa di Harar, dove incontra ras Makonnen e soprattutto conosce Khadija, una creatura bellissima e straordinaria, che diventerà sua moglie. Ma, come avverte la
Pastacaldi, «Harar è una metafora
di altri viaggi, interiori. Nell’esotismo, innanzitutto, cioè nella conquista di sè attraverso l’altro, l’indi-
geno, e dentro le razze, essendo un
coagulo di etnie».
Il romanzo di Paola Pastacaldi si
apparenta, senza ovviamente essere uno strumento dell’imperialismo italiano, al romanzo coloniale
che ebbe un discreto successo negli anni venti e trenta del Novecento. Per la forte carica erotica ed esotica, ci ricorda infatti Piccolo amore
beduino di Mario dei Gaslini, La reclusa di Giarabub di Gino Mitrani
Sani, Sulle vie del sole di Carlo Comerio (Angelo Del Boca).
Massimiliano Griner, I ragazzi
del ’36. L’avventura dei fascisti italiani nella guerra civile spagnola,
Rizzoli, Milano 2006, pp. 320
tura dei fascisti italiani nella guerra
civile spagnola. Sempre in copertina appare questa scritta: Gli uomini di Mussolini in terra di Spagna: la
scomoda verità su un episodio rimosso della nostra storia.
Il titolo del libro e lo slogan esplicativo ci hanno subito incuriosito
poichè pensavamo che sulla guerra di Spagna fosse stato scritto tutto
in questi ultimi settant’anni e che
non esistessero «scomode verità» tenute celate così a lungo. Ci siamo
così accinti a leggere il libro con la
dovuta attenzione e presto abbiamo scoperto che la verità rimossa
riguardava i 70 mila militari italiani che hanno partecipato alla guerra di Spagna, considerati dalla vulgata antifascista «falsi volontari», in
Massimiliano Griner ha al suo attivo due eccellenti studi sugli apparati repressivi della Republica Sociale
Italiana: La «banda Koch» e La pupilla del Duce. La Legione autonoma mobile «Ettore Muti», pubblicati entrambi da Bollati Boringhieri, rispettivamente nel 2000 e nel
2004. Due opere decisamente utili, con documenti di prima mano,
tese a certificare le pagine più torbide e violente della guerra civile.
A due anni di distanza dall’ultimo
libro, Griner ne pubblica un terzo,
dal titolo: I ragazzi del ’36. L’avven-
263
Le schede
realtà mercenari o poveracci ingannati sulla destinazione finale. Ma
Griner ha scoperto che non è andata così. E che un sacco di storici di
chiara fama ha distorto la verità o
addirittura l’ha falsificata.
In realtà, sostiene Griner nell’introduzione al libro, «i volontari fascisti superarono nettamente i volontari antifascisti», e la loro è stata «l’epopea collettiva di una generazione cresciuta nel fascismo e plasmata nell’idea che l’Italia dovesse
rinnovare il progetto imperiale dell’antica Roma». Essi potevano dunque, al loro ritorno in patria, «essere orgogliosi delle medaglie al valore ricevute». Ristabilita così la verità, Griner non ci pensava due volte a concludere l’introduzione con
questa dedica toccante: «Agli oltre
70.000 uomini che si alternarono
in Spagna quasi tutti ignoti o dimenticati; a come vissero e morirono, a quali impressioni e sentimenti riportarono, fuori dalla retorica
del regime e dall’immagine distorta
dall’odio ideologico dei loro avversari; e, ancora, ai cambiamenti che
riportarono dall’esperienza vissuta,
è dedicato il libro».
Enunciata, con tanta enfasi, la tesi
che ribalta quella della migliore storiografia italiana e straniera, Griner incontra tuttavia molte difficoltà nel dimostrarla. Per cominciare ammette che «non si dispone
264
di cifre precise»; che gli stipendi degli ufficiali erano decisamente allettanti, ma anche i soldati usufruivano di un premio di ingaggio di 300
lire e di una paga giornaliera di 20
lire, a cui si assommava un’integrazione mensile dagli spagnoli di 150
pesetas. Griner ammette inoltre che
i primi tremila «volontari» non erano proprio dei campioni di virtù,
né per l’età, la preparazione militare, la fedina penale. Scrive testualmente: «Il dato più rilevante è che
un quarto del campione di volontari, cioè 605 individui, aveva precedenti penali: nella maggior parte dei casi si trattava di furti, aggressioni, ubriachezza molesta. Ma
c’era anche qualche assassino che
aveva agito con premeditazione».
Noi siamo persuasi che fra i 70 mila
soldati italiani che presero parte alla
guerra di Spagna ci furono sicuramente anche degli autentici volontari e che alcuni di essi fossero altrettanto motivati. Ma da qui
a promuoverli tutti nella categoria
degli spiriti eletti il passo è avventato e antistorico. Purtroppo, con
questo libro, ci troviamo di fronte
ad un’operazione con risvolti commerciali, come quelle che, da tempo, Giampaolo Pansa porta avanti
con strepitoso successo.
L’operazione di falsificazione comincia già dal titolo, quando si
vuole spacciare per «ragazzi» (sot-
Le schede
tointeso arditi e generosi) i soldati in gran parte anziani del corpo
di spedizione. Ma l’operazione non
sarebbe completa se non si enunciasse una «scomoda verità», tanto a
lungo rimossa: «La vulgata che per
tanti pretese che in Spagna si fossero affrontati da un lato il totalitarismo nazi-fascista e dall’altro le forze
della democrazia e della libertà oggi
è finalmente in gran parte screditata, anche se non del tutto abbandonata».
Da quando ha cominciato a soffiare il vento del revisionismo, con i
suoi colossali e immotivati capo-
volgimenti, siamo ormai abituati a
tutto. Alle «grandi bugie» di Pansa
come alle «verità scomode» di Griner. Non ci stupiremmo se domani,
ai «ragazzi del ’36» spagnolo, si affiancassero i «ragazzi dell’Albania»
o i «ragazzi dell’Armir» o quelli di
El-Alamein. C’è sempre una fetta di mercato che aspetta un prodotto del genere, e un volonteroso
scrittore disposto alle più incredibili contraffazioni. Spiace che in questa trappola sia caduto anche Massimiliano Griner, che ha avuto un
inizio così brillante e positivo (Angelo Del Boca ).
Mario Giovana, Giustizia e Libertà in Italia. Storia di una cospirazione antifascista. 1929-1937, Bollati
Boringhieri, Torino 2005, pp. 533
Ora questo volume di Mario Giovana interviene a colmare, almeno
in parte, questa lacuna, ricostruendo l’attività cospirativa giellista in
Italia. E lo fa in maniera definitiva, sulla scorta dell’analisi minuziosa e poderosa delle carte di polizia relative a GL, custodite presso
l’Archivio Centrale dello Stato, padroneggiate sempre sapientemente, con il necessario distacco critico, e altrettanto sapientemente intrecciate e puntualmente confrontate con i documenti prodotti dallo stesso movimento giellista così
come con le acquisizioni della storiografia successiva.
In questo modo, con una scrittura
accurata, densa ma sempre grade-
Nonostante in questi ultimi anni
sia cresciuto l’interesse per Giustizia e Libertà, e nonostante la notevole quantità di studi particolari su
singoli aspetti di essa o di memorie disponibili, è ancora assente nella storiografia italiana una ricostruzione complessiva delle vicende del
movimento giellista. Sotto questo
profilo, infatti, si può dire di avere
sostanzialmente ancora e solo a disposizione quella Vita di Carlo Rosselli scritta da Aldo Garosci durante il suo operoso esilio statunitense.
265
Le schede
vole, Giovana ci restituisce un quadro complessivo di vicende in alcuni casi note, in altri sempre trascurate dalla storiografia quando non
del tutto sconosciute, ricostruite a
partire dai molteplici «fili» che le legarono le une alle altre, nel tempo
e nello spazio, e tutte alla Centrale
parigina del movimento. Il tentativo di ntracciare una trama unitaria
nella cospirazione giellista, indagata spesso solo a partire dai contesti
locali, e quasi esclusivamente lungo il parallelo di Torino-Milano, ci
restituisce, non tanto sorprendentemente, un panorama assai frastagliato, dove l’elemento caratterizzante sembra essere costituito dall’estrema eterogeneità, dalla pluralità e difformità delle sensibilità politiche e culturali e delle opzioni
«strategiche», presente fin nei nodi
più piccoli e socialmente omogenei
dell’organizzazione giellista. Era soprattutto, come più volte sostenuto in sede storiografica, un comune
sentire etico, un rifiuto del fascismo
che si potrebbe dire «epidermico»,
l’elemento connotante la militanza
giellista, che, traducendosi in afflato unitario sul piano politico, permetteva a socialisti, repubblicani,
liberali di diversa ascendenza, sardisti, irredentisti della Venezia Giulia collegati con la minoranza slovena di partecipare allo stesso movimento, tenendo assieme le ma266
glie di una rete di relazioni caratterizzata da una struttura organizzativa assai precaria e vulnerabile. E in
funzione di raccordo si distingueranno, dando vita anche ai gruppi
meglio strutturati e maggiormente
combattivi, i giovani, appartenenti a una generazione di antifascisti
cui non si poteva rimproverare di
aver ceduto senza combattere alla
dittatura, i quali, spesso insofferenti verso i partiti tradizionali e privi
di quelle preoccupazioni identitarie che paralizzavano in alcuni casi
l’azione dei più anziani, daranno al
movimento giellista il suo volto più
conosciuto, avanzando una radicale istanza di rinnovamento dell’antifascismo democratico e socialista.
A caratterizzarne l’azione era una
particolare mentalità cospirativa,
«aperta», assai differente da quella comunista, fondata appunto sul
mutuo riconoscimento di una stessa tempra morale e della volontà
di riaffermare, vivendole, quelle libertà che il fascismo aveva conculcato, piuttosto che dall’adesione a
una medesima ideologia. Una cospirazione «alla luce del sole», certo da mettersi in relazione anche
con l’estrazione sociale dei militanti giellisti e con la tendenza a strutturare il reticolo cospirativo lungo linee definite da relazioni amicali pre-esistenti, che si rivelò essere al tempo stesso una risorsa (e un
Le schede
elemento del suo successivo fascino
storiografico) e una debolezza per
il movimento giellista. Esso infatti
esponeva il movimento a commettere numerose e clamorose ingenuità, rendendolo facilmente permeabile ai servizi di polizia. Una situazione di cui, come ben documentato da Giovana, furono innanzitutto responsabili i componenti della
centrale partigiana, e in primis Carlo Rosselli, presso la quale i fiduciari dell’Ovra, seguendo tecniche via
via sempre più perfezionate giunsero a ricoprire incarichi assai delicati, che li mettevano a conoscenza
dell’intero organigramma della GL
italiana.
Il caso più notevole è rappresentato
da quello di René Odin, cittadino
francese, filofascista, che fece della distruzione del movimento giellista, anche per un viscerale antisemitismo (oltre che per avidità), una
ragione di esistenza, e a cui Carlo
Rosselli, con un’ingenuità che retrospettivamente pare sbalorditiva,
assegnerà il compito di ricostruire
la rete giellista in Italia dopo gli arresti della primavera del 1935, nonché di coordinare la realizzazione di
un attentato alla vita di Mussolini. E quello del tirannicidio, insieme ad altre spettacolari azioni propagandistiche da effettuarsi in Italia, è un tema ricorrente nelle carte
della polizia fascista, vera e propria
coprotagonista delle vicende ricostruite in questo libro. Analizzate
cum granu salis permettono di ricostruire il dibattito interno a GL intorno all’opportunità e all’efficacia
di simili piani, su cui esistette una
evidente frattura fra la centrale di
Parigi e i gruppi italiani (soprattutto dopo l’arresto a Milano di Rossi
e Bauer), che a un certo punto condurrà Rosselli e Tarchiani ad affidare la realizzazione di simili progetti
ad individui provenienti dall’estero,
all’insaputa degli stessi compagni
in Italia. Una struttura a doppio livello che però, vista anche l’inaffidabilità degli esecutori scelti per la
realizzazione di attentati in Italia e
l’intensità dell’infiltrazione poliziesca, avrebbe fallito i suoi obiettivi,
compromettendo, probabilmente,
anche quel lavoro di più largo respiro cui attendevano i compagni
in Italia (Cesare Panizza).
Susan Jacobs, Combattendo con il
nemico, Mazzanti Editori, Venezia
2006, pp. 288
Combattendo contro il nemico, libro
della storica neozelandese Susan Jacobs tradotto per i tipi di Mazzanti Editori, costituisce un contribu267
Le schede
to interessante nel panorama della
saggistica italiana inerente i rapporti tra popolazione contadina, Resistenza e vicissitudini degli ex prigionieri di guerra neozelandesi nei
campi del Veneto Orientale e del
Friuli Occidentale, al tempo del secondo conflitto mondiale.
La storia del passaggio al combattimento con il nemico comincia
per questi ultimi all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943,
quando l’esercito italiano collassa
e i campi di prigionia vengono abbandonati dalle guardie.
Alcuni degli ex-prigionieri si unirono infatti alle brigate partigiane compiendo coi pochi mezzi a
disposizione operazioni pericolose contro i tedeschi. «Ricercati, impauriti, spesso affamati e disperatamente ansiosi di rimanere liberi,
questi uomini vissero di espedienti e determinazione, adattandosi
ad un territorio sconosciuto e alla
lingua e cultura di un popolo che,
fino a pochissimo tempo prima, era
stato il nemico. Senza l’aiuto di un
grandissimo numero di contadini italiani che li nutrirono, vestirono e diedero loro asilo rischiando
la propria vita, questi uomini non
sarebbero sopravvissuti». Assieme
alle truppe alleate che sbarcarono
nell’Italia meridionale negli ultimi
mesi del 1943 vi erano in Italia militari di più di trentacinque nazioni
268
diverse, tanto che Mussolini, alcuni
mesi dopo, nel tentare di ricompattare il consenso fascista nella neonata Repubblica di Salò, pronunciò un infuocato discorso nel quale, dando indirettamente l’ampiezza della presenza straniera in Italia, rilevava che «l’onta infame del
tradimento non si cancella se non
tornando a combattere contro l’invasore che contamina il suolo sacro della patria. Oltre il Garigliano
non bivacca soltanto il crudele e cinico britannico, ma l’americano, il
francese, il polacco, il sudafricano,
il canadese, l’australiano, il neozelandese, il marocchino, il senegalese, il negro e il bolscevico. Voi avrete quindi la gioia di far fuoco su
questo miscuglio di razze bastarde
e mercenarie che nell’Italia invasa
non rispettano niente e nessuno».
Pur nell’ottica del campo avverso,
le parole del capo del fascismo ci
fanno comprendere la portata degli avvenimenti del dopo armistizio
e del ruolo svolto dalle popolazioni
contadine in soccorso degli ex prigionieri di guerra. Ed infatti, come
rileva il sindaco di Portogruaro nella presentazione del libro e nello
spiegare le ragioni della traduzione
in italiano del volume di Susan Jacobs, la peculiarità del libro rispetto ad altre pubblicazioni sta nel fatto che le vicende narrate sono viste
con gli occhi dell’altro, di quei neo-
Le schede
zelandesi che la propaganda fascista dipingeva come uomini primitivi e saccheggiatori che mangiavano i
bambini e stupravano le donne, con
gli occhi del nemico che, dopo una
iniziale diffidenza, si trovò a vivere
nell’amicizia e nell’accoglienza delle famiglie italiane, trasformandosi
in amico, talvolta familiare, e spesso contribuendo attivamente alla
Resistenza.
Ed è proprio sul tema dei rapporti
tra i partigiani e gli ex prigionieri di
guerra neozelandesi che si incentrano le pagine più efficaci del libro sia
esaminate dal punto di vista storico sia da quello della ricostruzione
dei rapporti umani tra popolazioni
di origine diversa. Buona parte del
nucleo centrale del volume di Susan Jacobs descrive le relazioni quotidiane tra i soldati kiwi e gli esponenti della Resistenza.
A ragione lo storico Roger Absalon
rileva come la traduzione e la pubblicazione in Italia del libro della
storica neozelandese potranno costituire un monumento duraturo
alla storia di intraprendenza, sacrificio e sofferenza rappresentata dalla strana alleanza tra ex prigionieri
e contadini italiani. Anche se il libro si riferisce prevalentemente ad
una zona circoscritta dell’Italia, le
vicende narrate gettano ampia luce
su «il senso dell’essere umano e dell’essere umani sotto il cappio della
guerra» (Matteo Vecchia).
Mainardo Benardelli, La questione di Trieste. Storia di un conflitto
diplomatico (1945-1975), Del Bianco Editore, Udine 2006, pp. 231
ste. Storia di un conflitto diplomatico
(1945-1975) pubblicata per i tipi
di Del Bianco Editore, un’accurata
analisi dei controversi rapporti interstatuali della frontiera orientale
italiana.
Il volume, come rileva lo stesso Benardelli nell’introduzione al testo,
non vuole essere un «vero e proprio saggio di storia diplomatica»
in quanto in esso è volontariamente omessa «la consultazione degli
archivi. […] Si tratta piuttosto di
un sommario» che ha la volontà di
«risultare utile a studenti e ricercatori di politica estera e, in partico-
Poco più di trenta anni sono trascorsi dalla firma del Trattato di
Osimo, l’accordo internazionale
con il quale, dopo un trentennio
di conflitti diplomatici, sono stati
stabiliti i confini tra l’Italia e quella
che ai tempi era la Jugoslavia.
Mainardo Benardelli, diplomatico
di carriera ora in missione presso
l’Ambasciata d’Italia in Baghdad,
propone, con La questione di Trie-
269
Le schede
lare, a coloro che si occupano della
tematica triestina».
Uno dei principali pregi del saggio
è infatti quello di analizzare la questione di Trieste presentandola in
tutta la sua ampiezza, come evento
di prim’ordine della politica internazionale del XX secolo nel quale
hanno avuto un ruolo gli interessi
di potenze come Stati Uniti, Russia
e Gran Bretagna, guardandosi sempre bene dal cadere nella retorica
della pubblicistica «patria» o in quella meramente «giuliano-centrica».
Il volume segue, in maniera sostanzialmente cronologica ma con dovizia di spunti di lettura, l’evoluzione della questione giuliana: dal
Patto di Londra del 26 aprile 1915,
con il quale l’Italia si lega alla Triplice Intesa, ai problemi legati alla
soluzione pacifica degli attriti inerenti i confini delle nazioni nate
dallo smembramento dell’AustriaUngheria, dalla disamina degli avvenimenti del periodo interbellico
fino agli eventi della seconda guerra mondiale .
Ma è dall’occupazione di Trieste da
parte dei partigiani titini avvenuta il 1° maggio 1945 (i «Quaranta
giorni di Trieste») che comincia il
nucleo centrale del saggio di Benardelli: nei capitoli più pregnanti dell’opera non a caso sono narrate la
storia della divisione della città in
due aree e l’azione delle superpo270
tenze come calmieri tra Italia e Jugoslavia per evitare lo scontro politico-diplomatico sulla città stessa;
vengono poi analizzati il Memorandum di Londra del 1954 e l’accordo di Osimo del 1975, per giungere infine alla conclusione dell’opera che mette in rilievo quali possano essere le prospettive di sviluppo
culturale della città giuliana. In appendice al volume sono poi contenuti i testi dei tre trattati fondamentali che hanno regolato nelle varie fasi storiche la questione di
Trieste, ovvero i già citati Trattato
di pace del 1947, Memorandum di
Londra del 1957 e Trattato di Osimo del 1975.
Quanto allo stile saggistico, una
qualità indubbia del diplomatico
italiano è quella di miscelare con
sapienza un approccio prettamente storico con quello politologicoconcettuale, più ricorrente nei saggi
di relazioni internazionali. Il tutto,
con un taglio reso ancora più interessante dal fatto che, come lo stesso Benardelli scrive, «le motivazioni
che mi hanno portato ad effettuare questo saggio rivestono natura
strettamente personale: Trieste ha
due significati diversi per me, il primo legato alla mia origine giuliana
e ad un tentativo di ricostruzione
storica di una vicenda che, sebbene con minori echi, era ancora profondamente sentita dalle popola-
Le schede
zioni della Venezia Giulia fino a pochi anni addietro e che ha avuto un
attimo di “revival” durante i primi
anni ’90 […]. Il secondo […] legato invece alla mia condizione di operatore delle relazioni internazionali, ed in quest’ottica Trieste rappre-
senta un interessante enjeu di complessi eventi di politica internazionale, non limitato solo ad un contenzioso bilaterale, ma inglobato in
un più ampio campo di applicazione teorica e pratica delle relazioni
internazionali» (Matteo Vecchia).
AIRL (Associazione Italiana Rimpatriati dalla Libia), Italia-Libia
2006: quale 7 ottobre? (Atti del Convegno), con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri, Roma, s.e.,
2007, pp. 91
vendetta contro l’invasione coloniale italiana, puntualmente ogni anno,
con la sola eccezione del 2004: l’anno degli accordi, poi in gran parte disattesi, tra Berlusconi e il leader libico, quando la celebrazione
si tramutò, purtroppo per poco, in
«Giornata dell’amicizia».
Dalle relazioni, coordinate da Gerardo Pelosi de «Il Sole 24 Ore»,
traspare l’annosità dei problemi che
continuano a dividere i governi italiano e libico e la cui soluzione sembra spesso allontanarsi, dopo qualche parentesi positiva. Restano penosamente in ballo il problema dei
visti, il problema degli indennizzi,
il problema del cimitero italiano,
gli strascichi di situazioni al limite vissute di tanto in tanto: si pensi all’attacco al Consolato di Bengasi del febbraio 2005, che portò i
due paesi sull’orlo della crisi diplomatica. Quel che è certo è la fase
di stallo che i rapporti italo-libici
attraversano. Appare tuttora problematica una «pacificazione» dei
due governi che, al di là delle colpe
La pubblicazione riporta i testi integrali delle relazioni tenute da un
gran numero di partecipanti al
Convegno-Assemblea dell’AIRL
(Associazione Italiana Rimpatriati dalla Libia) presso l’Hotel Radisson, a Roma, il 7 ottobre 2006 alla
presenza di rappresentanti del governo italiano (tra cui Riccardo Sessa, Direttore Generale del Mediterraneo e Medio Oriente alla Farnesina), del Parlamento, della stampa
e del Presidente dell’AIRL, Giovanna Ortu.
L’occasione aveva un significato particolare: il 26 ottobre, infatti, era
l’ennesimo anniversario dell’espulsione, trentasei anni addietro, degli Italiani dalla Libia del colonnello Gheddafi. Una data, peraltro, ricordata a Tripoli per sottolineare la
271
Le schede
storiche italiane, porti alla normalizzazione auspicata dai ventimila
che lasciarono un paese comunque
amato, sentito come proprio. Manca sempre un tassello a questa interminabile storia: a volte si insinua
nell’osservatore la sensazione che
non sia solo questione di indenniz-
zi. C’è una sorta di «difficoltà storica» che allontana l’Italia dalla Libia
e viceversa.
Qualche tenue speranza pare aprirsi
per tutti con l’attuale governo italiano, ma illudersi sarebbe ancora troppo pericoloso (Massimo Romandini).
Rossana Rossanda, La ragazza del
secolo scorso, Einaudi, Torino 2005,
pp. 387
to, difesa ed educata nel forziere di
noi stessi. Rustung panoplia armatura di valori. Affetti dignità politica dei sentimenti abilitati al dolore,
al pathos civile nel rifiuto della rimozione. Per sé e per gli altri, perché ne restituiscano il senso e svelino il poco che della vita siamo riusciti a capire e possa essere di utilità a qualcuno. Specie se passato
demonizzato che non passa, mentre incombe un presente che raggela lede lega e relega opprime. Nuovo che si estingue nel vecchio.
Paradosso di un appuntamento
mancato, quello dell’A., che continua ostinatamente a essere reclamato. Di un io perseguitato dalla
storia del Novecento che non è più
nella storia ma è la storia ad essere nell’io (Bachmann) perché il ritmo del secolo scorso è quello degli
inseguiti (Anedda). Eretici utopisti
sognatori libertari resistenti rivoluzionari.
Infamia della Damnatio memoriae:
la storia upside-down rimossa ri-
Libro combattente, memoria militante. Rossanda e il coraggio dell’autobiografia. Coraggio dal quale Dostoevskij nell’Adolescente rifugge sdegnato. Nulla è più problematico del parlare di sé. Noi siamo ciò che ricordiamo, benché la
memoria come dice l’A. sia stravagante e imbrogliona e persino «reumatica», «le date si divincolino dal
tempo interiore», non ci sia «limite
a quel che ci nascondiamo; potente è la spinta a ritrarsi». Eppure chi
scrive di sé vuol trattenere il mondo
di cui è stato ospite, talvolta ostico
come lei. Formulare un giudizio retrospettivo d’insieme sui propri vissuti, rivissuti, da cui fluiscono rivelazioni. Ricostruzione di un passato
perduto, non rinnegato che proprio
perché passato è pietra lavica irremovibile, non si può superarlo.
Memoria da cui trarre insegnamen272
Le schede
scritta dal potere ad uso ideologico,
politico (salvifica lezione di Gallerano). Rinnegamento, abiura per
molti che gettano fango sugli spalti
da cui hanno pontificato. Novecento secolo «nato in posizione podalica» come dice Musil, depennato
dalla scuola, banalizzato mistificato dai media, ignorato dai più. Da
seppellire nella discarica di ciò che
è stato, al massimo da riciclare per
frammenti, insensatamente o per
opportunismo, quando fa comodo.
Da buttar via insieme al vizio desiderante della politica per paralizzarsi nella danza immobile dell’ammutolire o della nostalgia o del disprezzo di una politica irredenta e
irredimibile. «Millennio che non
ne sopporta il ricordo». Naufragio
di tutti i messianismi, distanza tra
battaglie e attese di nuove società,
delusioni in coloro che lo hanno attraversato, vuoto e prosciugamento
dei sopravvissuti che lo hanno biograficamente oltrepassato. Attuale il monito dell’A.: «tutto quel che
non è successo è perduto, ma tutto quel che è successo può tornare
a succedere».
Siamo storia, la nostra storia nella
storia che si invera nell’appropriazione politica del tempo, perché la
storia è possibilità non destino. La
vita è funzione della storia dell’individuo e quando gli accadimenti
che l’hanno composta sono even-
ti pubblici di rilevante esposizione
politica appartengono non solo alla
memoria personale ma collettiva.
Al pari di miti e leggende essa parla
in nome di tutti non solo del singolo, filo teso tra complessità del soggetto e percorso di una generazione. Forza, vigore testimoniale.
Autobiografia come autopsia: osservare coi propri occhi, dissezione anamnesi ipotesi esame descrizione per risalire a probabili cause. Quel che conta della storia, dice
l’A., è quello che «ti si srotola addosso non per dire ‘io c’ero’ ma mi
ci sono trovata… alle tempeste del
mondo non si sfugge». Non siamo
noi che andiamo verso il mondo ma
è il mondo a venirci incontro. «Lasciar venire i giorni» ma «Miranda» non lascia che i giorni le sbattano sulle guance mentre va all’avventura del silenzio: pagine e pagine con acutezza di visione, spietatezza di analisi, libertà e disincanto. Senza sprezzatura e visionarietà.
Così pure insoddisfazione, malinconia come nozione dell’inadeguatezza del proprio agire (rasentando l’autodenigrazione) raccontabili se tenute a distanza critica «con
la pazienza della parola disarmata,
andando a tentoni, cercando, provando e riprovando» tra sfingi misteriose intrattabili. Cosciente delle
occasioni perdute sfumate rifiutate.
«Impossibile distinguere una sfera
273
Le schede
del tutto interiore da quella del tutto civile». A tratti senti lo sconforto, la sensazione che debba un risarcimento verso se stessa che ha
consumato le fatidiche sette paia di
scarpe di ferro con impegno (mai
interessato e utilitaristico come ne
Le mani sporche di Sartre), impregiudicata fedeltà e coerenza, senza
gioia, senza gloria, quasi avesse un
debito da rimettere. «Ho camminato per molte strade che hanno cambiato nome e appartenenza».
L’A. rivendica il diritto di donna di
essere nello spazio civile, per quanto «esser donna non era essenziale, o se lo era, non restava che fare
come se non lo fosse, ridurre il danno. Ne scrivo, dice, perché allora,
ma per molte già all’inizio del secolo, l’emancipazione fu questo».
Eppure donna capace di squarciare il velo di rappresentazioni false e
mortificanti, altarini familistici che
in cambio domandavano annullamento di desideri aspirazioni capacità femminili. Si fa carico dell’imperativo di essere nella lotta per il
cambiamento, già nella resistenza:
«le scelte prima le facciamo poi ci
fanno». Lapidarie pessimistiche intuizioni: la guerriglia «sottrarsi più
che opporsi», «contavamo le perdite più che le speranze», «l’altra storia uscita vittoriosa ma non vincente dalla resistenza» con riferimento
alla restaurazione postbellica, come
274
dire si può essere ridotti in schiavitù non conquistati. Ma anche ottimistiche: «non è facile mettere al
muro il proprio paese», «in un paese senza speranza la guerriglia è imbattibile». E ancora: «la questione
della guerra civile sarebbe arsa dopo
la guerra».
L’A. sente addensarsi come volute
di nebbia via via più fitte il fantasma della guerra: «la guerra mi è venuta addosso». «Presa più dal fragore della mente che da quello della
guerra» ne è tuttavia violentemente investita e, pur consapevole della possibilità di decidere solo l’indecidibile, percepisce l’impossibilità di molti, mentre vi sono immersi, di avere una lettura chiara degli
eventi e compiere decisioni radicali. Guerra vulnus alla sacralità della
vita. L’A. inorridisce dinnanzi alla
sua spettralità al «volto sfigurato
deformato dell’impiccato» e mantiene, «alla parola guerra quell’elemento di terrore e corporeità che
viene dalla devastazione dei corpi,
della vita». Si vuol chiamarlo antifascismo esistenziale il suo? Antifascismo di guerra? Antifascismo
spontaneo – come bene ha scritto il troppo dimenticato Quazza –
nutrito di consapevolezza culturale
che determina ribellione come soprassalto della coscienza?
Discepola di Marangoni il critico
fiorentino che primo aveva intro-
Le schede
dotto in Italia alla scuola pisana una
grammatica e sintassi storica del saper vedere l’opera d’arte in relazione alla società. Allieva di Banfi, colui che svecchia la filosofia italiana
in una apertura antiaccademica alla
cultura europea e mondiale dopo
vent’anni di dittatura, l’A. si forma
nel gusto di interessi estetici, vocata ai misteri della cultura, affascinata dai risvolti dell’interiorità. Nel
contempo dal secondo dei maestri
accoglie il messaggio marxista per
dire con Camus: «Esiste la bellezza
ed esistono gli oppressi/Per quanto
difficile possa essere/Io vorrei essere
fedele a entrambi». Sa che non c’è
rivoluzione che non sia liberatrice,
che non poggi sul tripode della responsabilità individuale, della spinta dal basso, della volontà creatrice. Che pratichi il conflitto, lo civilizzi nella dialettica del rispetto, gli
dia ragioni, senso e determinazione. Ordine linearità contenimento. Donna in piedi Rossanda la cui
opera è una tenace difesa della memoria dei comunisti.
Il comunismo diventa esperienza
cardine, amore caparbio per la sua
irresistibile tragica grandezza. Pensato in modo che particolare e universale, individualità e totalità convivano, si armonizzino nell’intelligenza generale del partito, si possa
agire collettivamente per migliorare
il mondo, masse di donne e uomi-
ni possano muoversi in forma coerente ed efficace in vista della propria liberazione, la storia possa essere il luogo della loro prassi trasformatrice. Pretesa di fare la storia, osare alzare lo sguardo verso
l’alto, spezzare catene, conquistare
la società. Comunismo come soggetto di «un’immensa acculturazione» di massa, come fraternità e comunione, uguaglianza ascolto solidarietà, investimento in reciprocità
e coesione sociale, un annodare legami, politica ed etica inseparabili
che, unicum, si imprime nella coscienza del paese. «Mai ci si realizza come assieme agli altri… Mai si
è meno sacrificati che in un collettivo che hai scelto e cui ti credi necessaria». Ora che i partiti si sono
fatti leggeri da volar via con il refolo, l’A. osserva: che il suo «era il
partito pesante… una rete faticosa ma vivente che strutturò il popolo di sinistra». «Come far capire
che per noi il partito fu una marcia
in più? Ci dette la chiave di rapporti illimitati, quelli cui da soli non si
arriva mai, di mondi diversi, di legami fra gente che cercava di essere
uguale, mai seriale, mai mercificata,
mai utilitaria. Sarà stata un’illusione, un abbaglio, come ebbe a dire
qualche tempo fa una mia amica.
Ma una corposa illusione e un solido abbaglio, assai poco distinguibile da un’umana realtà».
275
Le schede
Comunismo processo materiale che
vuol rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali al punto di saper leggere nel
libro del nostro medesimo corpo
quello che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo
e interpretarvi le tracce del passaggio della specie umana sopra una
terra che non lascerà traccia (Fortini). «Siamo della materia dei sogni», nota l’A., comunismo «impresa deviata ma giusta, ma necessaria». «I comunisti erano i soli a negare l’inevitabilità dell’umano». Ma
anche fragilità umana e ancora coraggio: «il buio davanti a sé», «ma
io vado nelle tenebre».
«Io amo gli uomini che cadono,
dice Nietzsche, se non altro perché
attraversano».
Rossanda inizia l’esperienza di base
milanese nel lavoro di sezione interrogata e assorbita dalla «fatica
senza luce» degli operai negli anni
di strappo della grande migrazione interna, di Rocco e i suoi fratelli
di Visconti. Mentre la polvere della ricostruzione e dei cantieri sostituisce quella delle macerie ancora calde della guerra, nel rumore delle scavatrici Leonardo Borgese coglie il «pianto» di uno sviluppo senza progresso direzione e cultura. Milano, dalla polifonica cultura laica di sinistra anni 30/50 dalla severa grazia urbana, lascia il po276
sto alla «metropoli stecchita» di Ottieri, risonante nell’elegia grave di
Raboni, alla Milano «agra» di Bianciardi. Quello che fa dire a Pasolini:
«io sono per il progresso non per lo
sviluppo». Nel contempo lei dirige
la Casa di Cultura.
Giudizio acuto sui «comunisti convinti di essere sempre un po’ al di
sotto del loro proprio ideale e quindi moralisti, severi con gli altri e
quella parte di sé che rischiava di
essere l’altro», «noi comunisti eravamo la cattiva coscienza di tutti»,
i compagni «praticavano una triplice morale: puritanesimo ad uso
stampa, familismo ad uso cattolico, maschilismo ad uso privato», il
gruppo dirigente non era mai andato una volta a cena assieme... Nonostante il contesto di centralismo
democratico (leggi autoritario) togliattiano filosovietico all’indomani dello zdanovismo che aveva fatto fuori «Il Politecnico» di Vittorini, questa donna colta, carismatica,
charmante è chiamata – inaudito –
al Centro a dirigere la sezione culturale, ascoltata dal «migliore» senza appuntamento, frequenta i mostri sacri del Pci. Copiosi aneddoti
al proposito. Per citarne alcuni: gli
oceanici funerali di Banfi coi proletari in bicicletta e tabarro giunti
fin dalle campagne, la nuda disperata solitudine di Pajetta, l’improvviso incanutimento dell’A. davanti
Le schede
alla repressione ungherese del ’56,
il «carattere d’ombra di Aldo Moro
uomo dalle stupefacenti circonlocuzioni» che scoppia in lacrime all’avanzata del Pci nel ’63.
Tuttavia «avevamo perso il conto del mondo». Comunismo come
Anteo il gigante che dalla terra trae
e rigenera la sua forza, da Ercole
viene sconfitto solo quando viene
sollevato dal suolo (dall’humus della sua classe?) e perciò reso impotente. Impenitente fedeltà a se stessa, meditazione quasi mai in sintonia con la parola d’ordine, voce in
solitudine consapevole del «genocidio culturale» del dopoguerra denunciato da Pasolini. Eutanasia di
ideali. Comunismo nozione che
ancora rimane sospesa senza forma,
ragione sospesa, aspirazione ancora ricca di futuro pur nello sfacelo
dei sistemi realizzati. Sente il «venir meno di un conflitto civilizzato come è stata e vissuta nel ‘900
la lotta di classe e quella di emancipazione dei popoli. Anche da quelli che avrebbero dovuto ereditarne il disegno vedo l’abbandono di
ogni principio, la retrocessione dell’emancipazione all’identità di sangue e suolo», constata che «alla fine
di un messianesimo terrestre per ingenuo che fosse, dai primi illuministi all’ambizione di creare un soggetto sociale rivoluzionario internazionalista, è sopravvenuta non altro
che una regressione dell’una e dell’altra molto al di qua del punto da
cui si era partiti».
Cassandra inascoltata sente la rovina ma «non mi pento, non mi vanto», «non si è comunisti di passaggio». Come ebbe a dire in morte
di Fortini: «Bisognava essere ciechi per non vedere che nel volgere degli anni dai Cinquanta ai Sessanta stavano erompendo lotte e
soggetti senza, anzi contro i partiti, come geyser da una terra in ebollizione. Lotte non per avere ma per
essere, conflitti identificanti e non
addomesticabili. La società si spaccava per faglie interne, finalmente
per classi. Il paese parve percorso da
un’ondata senza precedenti. L’Occidente si apriva come una melagrana. Il 1968 stava seppellendo l’egemonia del Pci». «Il movimento del
’68 riuscì ad essere insieme ludico
e ascetico»; «allegra felicità eversiva», per la Morante. Rossanda è in
sintonia con quella generazione che
ha succhiato il latte nella catastrofe della guerra mondiale, si è dischiusa alle passioni dell’adolescenza mentre incombeva la catastrofe
atomica dai «cento soli» e ha reagito alla duplice sindrome depressiva
con la speranza dispiegata, il sogno
agito, l’utopia brandita. L’occupazione di Praga requiem del comunismo realizzato la condurrà all’esperienza del «Manifesto» e all’imme277
Le schede
ritata sofferta radiazione dal partito (che Berlinguer non avrebbe voluto). Ogni autobiografia è in parte opera dell’immaginario, creativa
nel momento in cui dà forma al racconto quasi per sentirsi ancora nel
mondo. La ragazza del secolo scorso non è soltanto Autobiographie ma
Geschichtsroman romanzo storico,
così come Bildungroman romanzo
di formazione per via di quella «ragazza grigia» (e non donna) che l’A.
porta dentro di sé e di cui dipana
la vicenda corpo a corpo con i fatti e le emozioni, e a mio avviso è insieme splendido Einweihungroman
ossia romanzo d’iniziazione e di genere alla vita e alla politica.
La sua scrittura è permeata di forza intima, ardore sorvegliato, stato
di veglia, marchio di moralità, rigore e disciplina. Scrittura indenne da
artifici, parole assolute mai sprezzo, contatto di pensiero emozione
e res durae. Non il minimo compiacimento, assenza di enfasi, incastro
narrativo senza punti deboli, pronuncia piena ed esaustiva, raffiche
278
ritmiche, movimenti di pensiero
bruschi secchi, di legno e ferro, che
scuotono incrinano spezzano. Stile
come originalità del gesto, stile che
definirei neobarocco, essenziale e
insieme elegante. Punture sottili di
commosso lirismo come nella pagina sulla morte della madre. Esattezza di parola non priva di ermetico ornamento, trattenuta, ellittica, mai una di troppo, un lussare di
giunture sintattiche, elisione di articoli congiunzioni avverbi, sostantivi collassati nel verbo, nell’aggettivo, aggettivo nell’aggettivo. Lingua preziosa asciutta tagliente sobria e soda nel lessico.
Rossana Rossanda è da sempre nel
mio modesto guiness personale la
penna di miglior talento nel panorama contemporaneo del paese
e questo libro merita, come è stato
ventilato, non soltanto per la nobiltà del contenuto politico ed eticocivile, il riconoscimento che si addice all’opera di una grande narratrice (Francesco Omodeo Zorini).
notizie sugli autori di questo numero
Riccardo Ajolfi - Medico specialista e direttore di servizio ospedaliero, si interessa di storia coloniale italiana, di epistolografia e scienze delle comunicazioni.
Conduce in tali ambiti ricerche storiografiche, pubblicate su riviste specializzate
nel settore. Recentemente ha partecipato al volume che raccoglie gli atti di un
convegno che si è tenuto a Domodossola edito dall’Anpi nel 2006 con un saggio
sul tema La stampa e i mezzi di comunicazione dei partigiani e della Repubblica
dell’Ossola.
Matteo Banzola - Giovane laureato presso la Facoltà di Storia dell’Università di
Bologna con una tesi sul «Giornale dell’Emilia».
Michele Beltrami - Figlio del capitano Filippo Maria Beltrami, architetto milanese, attorno al quale si raccolsero i primi gruppi di partigiani nella zona del
Cusio.
Massimiliano Capra Casadio – Altro giovane laureato con una tesi discussa
nel marzo del 2006 che ricostruisce le vicende della Decima Flottiglia MAS nel
periodo che va dall’8 settembre 1943 all’aprile 1945.
Angelo Del Boca - Da quarant’anni si occupa di storia del colonialismo e dei
problemi dell’Africa d’oggi. Fra i suoi libri recenti: Gheddafi. Una sfida dal deserto,
Laterza, 1998; Un testimone scomodo, Grossi, 2000; La disfatta di Gasr bu Hàdi,
Mondadori, 2004; Italiani, brava gente?, Neri Pozza, 2005. Da poco è uscito, per
i tipi della Baldini Castoldi Dalai A un passo dalla forca, con il quale ricostruisce
la vicenda di uno dei protagonisti della resistenza libica all’occupazione italiana,
Mohamed Fekini.
Francesco Germinario - Ricercatore della Fondazione Micheletti di Brescia,
diversi suoi saggi sul sindacalismo rivoluzionario, su Pareto, sulla storia dell’antisemitismo e sulla destra italiana e francese sono apparsi in varie riviste italiane e
straniere. Con la Bollati Boringhieri ha stampato i volumi Da Salò al governo. Immaginario e cultura politica della destra italiana; La destra degli dei. Alain de Benoist
e la cultura politica della nouvelle droite; Razza del sangue, razza dello spirito. Julius
Evola, l’antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-43).
Aram Mattioli - Ordinario all’Università di Lucerna, si è occupato di temi ine-
renti la costruzione di un’identità nazionale in Svizzera. In proposito insieme a
Guy P. Marchal ha scritto Erfundene Schweiz. Konstruktionen nationaler Identität,
Zürich 1992. Tra i principali suoi interessi di studio sono anche le ideologie totalitarie, l’antisemitismo e il colonialismo. Con Olaf Blaschke ha curato Katholischer
Antisemitismus im 19. Jahrhundert. Ursachen und Traditionen im internationalen
Vergleich, Zürich 2000. In più occasioni ha trattato aspetti del colonialismo italiano. Recenti sono i suoi saggi Terra promessa. Italien und Libyen 1911-1943, in
Sahara. Text- und Bildessays, a cura di Christian Reder e Elfie Semotan, Wien, New
York 2004 e E salva l’Italia nel Duce. Die katholische Kirche im faschistischen Italien 1922-1938, in Katholizismus in Geschichte und Gegenwart, a cura di Richard
Faber, Würzburg 2005.
Massimo Romandini - Dirigente scolastico, dal 1969 al 1975 ha insegnato in
Etiopia alle dipendenze del ministero degli Esteri. Si occupa di storia del colonialismo italiano in Africa Orientale.
Cesare Panizza - Studioso dell’antifascismo piemontese, collabora con l’Istituto
per la storia della resistenza e della società contemporanea di Alessandria ed è segretario di redazione della rivista pubblicata dal medesimo istituto.
Arturo Varvelli - Dottore di ricerca in Storia Internazionale all’Università statale di Milano, collabora attivamente con l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale.
Matteo Vecchia - Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso
l’Università di Trieste, è dottorando di ricerca in Storia Contemporanea presso
l’Istituto Italiano di Scienze Umane (Firenze-Napoli). Sta conducendo studi sul
terrorismo arabo e islamico, e scrive articoli di politica internazionale su quotidiani e riviste italiane.
Stefania Vicari - Dottoranda di ricerca, attualmente sta conducendo studi presso l’Università di Reading in Gran Bretagna.
Francesco Omodeo Zorini – Dirigente scolastico, dal 1998 presidente dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel
Verbano Cusio Ossola «P. Fornara». Ha pubblicato tra l’altro: Conoscere la Resistenza novarese. Bibliografia ragionata, prefazione di A. Jacometti, Novara 1978;
La formazione del partigiano. Politica, cultura, educazione nelle brigate Garibaldi,
prefazione di Guido Quazza, Borgosesia 1990; Una scrittura morale. Antologia di
giornali della Resistenza del Piemonte orientale, Borgosesia 1996; Piero Fornara il
pediatra delle libertà, Novara 2005.
Libreria
GROSSI
s.n.c.
28845 DOMODOSSOLA (VB) Piazza Mercato, 37
Tel. 0324 242743 - Fax 0324 482356 - e-mail: [email protected]
L’Ossola, terra di confine incuneata nella Svizzera, ebbe storicamente grande importanza strategica nello scacchiere politico alpino. Per questo motivo, nel Medioevo e in età moderna, il controllo dei valichi
alpini, cerniera tra la pianura padana e l’Europa centrale, richiese la costituzione di un sistema di torri di
segnalazione, sbarramenti e luoghi fortificati. Oggi, larga parte di queste esistono ancora, spesso ruderi che
movimentano il profilo delle valli dell’Ossola e il cui significato rimane sconosciuto agli stessi ossolani e ai
viaggiatori. Questo libro ricostruisce una “mappa della memoria” di questi luoghi fortificati e ne offre una
chiave di lettura che permette di conoscere momenti significativi della storia delle Alpi.
Associazione riconosciuta
CENTRO STUDI PIERO GINOCCHI
EDITORIA
Via Pellanda, 15 - 28862 CRODO (VB) - Tel. 0324.61655
C.F. 92003940035 - P. IVA 01793430032
e-mail: [email protected]
Le società laicali degli emigrati
dalla Valle Antigorio e Formazza
Finito di stampare nel mese di giugno 2007
presso la Tipolitografia Saccardo Carlo & Figli snc - Ornavasso (VB)
e-mail: [email protected]
ISSN 1826-7920
5
I SENTIERI DELLA RICERCA
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5
I
SENTIERI
DELLA RICERCA
rivista di storia contemporanea
Ajolfi
Beltrami
Capra Casadio
Germinario
Mattioli
Banzola
Del Boca
Varvelli
Vicari
Romandini
Panizza
Vecchia
Omodeo Zorini
giugno 2007
EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO