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RASSEGNA STAMPA
martedì 2 febbraio 2016
L’ARCI SUI MEDIA
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Da Corriere.it – Corriere Sociale del 02/02/16
Le stragi che ostacolano i negoziati di pace
di Francesca Chiavacci *
ROMA - Il terrore globale continua a massacrare civili innocenti: quasi 200 vittime e oltre
un centinaio di feriti il bilancio di due stragi avvenute recentemente in Siria e Niger.
La matrice comune quella jihadista: a Damasco, nel quartiere sud della città e vicino al
santuario sciita di Sayyda Zeinab, l’attentato con un’autobomba e alcuni kamikaze è stato
rivendicato da Daesh; a Maiduguri le milizie terroristiche di Boko Haram hanno incendiato
il villaggio abitato da donne e bambini.
Entrambi sono atti di terrore contro la ricerca della pace, contro i già difficili negoziati Onu
di Ginevra – che mirano alla ricerca di una soluzione nella guerra civile che sta
infiammando il Paese, contrapponendo i fedeli al regime di Bashar al-Asad (appoggiato
dall’asse russo-iraniano) a diversi gruppi ribelli (alcuni dei quali sponsorizzati dal regime
saudita) – e a seguito della chiusura del summit tra gli Stati Africani ad Addis Abeba,
durante il quale il Ministro nigeriano aveva sostenuto l’indebolimento di Boko Haram.
Il prezzo di vite di donne, bambini e civili disarmati continua a salire in una barbarie senza
fine e senza confini: il mondo intero è attonito ma non riesce a trovare una linea comune
che possa fronteggiare il terrore dilagante.
Negli ultimi 5 anni in Siria il bilancio è di 250 mila morti e 11 milioni sono i fuggitivi che
cercano rifugio nella fortezza europea; in Nigeria i morti sono oltre 20 mila e 2,5 milioni gli
sfollati.
Le condanne e la compassione non servono più: si aprano le porte dell’Europa a chi fugge
dai massacri, si dia a tutti i contendenti sul campo la possibilità di prendere parte ai
negoziati di Ginevra, senza preclusioni o condizionamenti, la Pace si fa con i nemici.
* Presidente Arci nazionale
http://sociale.corriere.it/le-stragi-che-ostacolano-i-negoziati-di-pace/
Da il Tirreno del 01/02/16
Il circolo Arci a misura dei giovani
Dal Santomato Live alla candidatura per la festa regionale dell’Unità
PISTOIA. Una realtà di volontariato solida e appassionata che ha fatto sì, in oltre
sessant’anni di storia, che il circolo Arci di Santomato sia ancora uno dei più attivi della
provincia. Ultimo riconoscimento in ordine di tempo, la candidatura a sede della festa
regionale de l’Unità per il 2016. Una ventina i ragazzi, tutti volontari, che durante la
settimana si avvicendano dietro al bancone del bar, nella pizzeria e nell’organizzazione del
Santomato Live - manifestazione musicale, curata da Antonio Pagnini in arte Tony De
Angelis, che ogni settimana porta nel locale decine e decine di persone - ma sempre sotto
gli occhi vigili dei volontari più anziani, che in quel circolo hanno trascorso una vita intera.
Il segreto di tanto successo? «Aver saputo cogliere gli insegnamenti e l’attivismo di chi ci
ha preceduto - spiega Mila Bartoletti, presidente del circolo - e aver imparato a
reinventarsi, proponendo sempre iniziative diverse e coinvolgendo i giovani».
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Non a caso il vice presidente, Alessio Spampani, ha 24 anni e tante idee. La prima Casa
del popolo di Santomato, costruita nel dopoguerra, sorgeva in via vecchia Montalese.
Aperta solo la sera, rappresentava un punto di riferimento per tutti i lavoratori che in quel
locale si trovavano per discutere e confrontarsi. Fu sede di una delle più apprezzate festa
de L’Unità della provincia, dove si ballava il liscio e si eleggeva la “stellina” dell’anno, miss
Santomato. Tanti i volontari che rappresentarono lo zoccolo duro del circolo. «Giordano
Pagliai, Alvise Bartoletti, Vasco Bindini, Vittorio Cipriani, Giancarlo Maltiniti, Paolo,
Francesco e Ilo Fanciullacci – ricorda Stefano Bindini, volontario del circolo, che snocciola
uno a uno i nomi di chi non c’è più. E poi il mitico “Bista”, Giovanbattista Bracciali , grande
trascinatore del circolo di Santomato». Poi alla metà degli anni ’60 la scelta di costruire la
Casa del popolo sulla nuova Montalese, dove ancora oggi si trova, e la sua inaugurazione
nel 1973. Tante le attività promosse: dalla biblioteca al dopo-scuola per i bambini, dalle
squadre di calcio e pallavolo a quelle di ciclismo, e poi il cinema e la pista di pattinaggio.
Storico è anche il trofeo amatoriale di ciclismo “Francesco Fanciullacci” - da sempre
organizzato da Ulissano Pagnini - che quest’anno raggiunge la 42esima edizione.
Insomma, una storia fatta di persone, impegno e voglia di fare, per mantenere una realtà
come quella del circolo
di Santomato tra le più apprezzate e frequentate. Il prossimo appuntamento, mercoledì 17
febbraio alle 21.30, è una serata dedicata al mito della Ferrari con una grande esposizione
di auto, preceduta da un aperitivo a buffet. Per prenotazioni 0573 479957, 331 4238154.
http://iltirreno.gelocal.it/pistoia/cronaca/2016/02/01/news/il-circolo-arci-a-misura-deigiovani-1.12880354
Da Padova24ore del 01/02/16
Elena Gastaldello nuova presidente di Arci
Padova
È Elena Gastaldello la nuova presidente di Arci Padova. La 33enne padovana, eletta
pressoché all’unanimità (un solo voto contrario) nell’ultimo consiglio direttivo svoltosi il 28
gennaio, guiderà l’associazione provinciale per due anni fino al prossimo congresso. Per
l’associazione è stata anche l’occasione di approvare il bilancio di previsione 2016.
Nata a Este e laureata in Filologia e Letteratura Moderna, la Gastaldello è in Arci Padova
dal 2012: in questi anni si è occupata principalmente della gestione di iniziative speciali
come “Si(E)nergie”, “Ambientazioni” e del “Premio Impatto Zero”, progetti che l’hanno vista
impegnata nella costruzione di partnership con istituzioni locali, associazioni e
cooperative, aziende del territorio. Nel suo curriculum anche esperienze di volontariato e
di servizio civile in una cooperativa attiva nell’ambito dell’accoglienza per persone con
disabilità.
La neoeletta raccoglie il testimone da Marina Bastianello, dopo un percorso di
successione partito oltre un anno fa e costruito insieme al direttivo: «Auguro buon lavoro
ad Elena, della quale i circoli hanno già potuto apprezzare le competenze e le qualità, e
confido possa raccogliere le migliori soddisfazioni». In questi anni la Bastianello è stata
promotrice riconosciuta di iniziative e dibattiti importanti: come quelli nati intorno al
“Manifesto della cultura”, poi adottato a livello nazionale, e al binomio
“solidarietà/sicurezza”; e ancora il progetto “Porta Cortese” (rassegna di eventi lungo le
mura cittadine) e il “Premio Impatto Zero”, con cui tra i primi Arci Padova ha coniugato i
temi della cultura con quelli dell’ambiente. Aggiunge la Bastianello: «Consegno un bilancio
in attivo – che con i tempi che corrono non è da considerarsi cosa di poco valore -, una
sede di proprietà, contratti di lavoro a tempo indeterminato per le persone che oggi
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lavorano in comitato. Continuerò a volere molto bene all’associazione, che per Padova ha
saputo e sa essere sempre un luogo di confronto e dialogo, anche tra sensibilità diverse, e
un laboratorio di impresa sociale».
«So di ricevere un’eredità importante e accolgo con gioia la responsabilità di questo
impegno, che si declinerà anche nel sostegno alla crescita delle realtà associate e nella
migliore promozione del loro lavoro – dice la nuova presidenteElena Gastaldello -. In una
fase storica così delicata e strategica, che da tempo ci sollecita e ci sfida a occupare per e
con la cultura spazi di azione e di pensiero ormai sempre più difficili da conservare,
lavorerò ancora perché l’Arci tenga come proprio un obiettivo prioritario tra gli altri:
riconsegnare alla cultura e all’arte il ruolo che a loro spetta nella vita di una comunità e di
un territorio».
L’Arci di Padova oggi conta 38 associazioni affiliate e oltre 20mila soci iscritti: in Veneto è
il comitato con i maggiori numeri.
http://www.padova24ore.it/padova/9878-elena-gastaldello-nuova-presidente-di-arcipadova.html
Da SanteramoLive del 02/02/16
Politiche giovanili
Palazzo Marchesale affidato all’Arci “Stand
By”, le precisazione degli assessori Leo e
Cacciapaglia
I due assessori comunali precisano le motivazioni che li hanno portati
ad astenersi nell'approvazione del provvedimento che ha concesso
parte del Palazzo marchesale in comodato oneroso all'Associazione
Giungono in Redazione due distinte note di precisazione, a firma rispettivamente degli
assessori comunali Giuseppe Leo e Maria Nunzia Cacciapaglia, riguardo all’articolo “Parte
del Palazzo Marchesale affidato in comodato oneroso all’Arci “Stand By”” pubblicato, nella
giornata di ieri, dalla nostra Redazione.
Come si ricorderà, infatti, nell’articolo veniva data notizia del recente affidamento di parte
del Palazzo marchesale all’associazione Arci “Stand By”, aggiudicataria di un
finanziamento pubblico di € 200.000, 00 nell’ambito del progetto “Giovani per la
valorizzazione dei beni pubblici” promosso dalla Presidenza del Consiglio dei ministri –
dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale.
«In merito all'articolo sulle politiche giovanili pubblicato dalla vostra Redazione– afferma
l’assessore Giuseppe Leo - mi preme precisare, in qualità di assessore, di essermi
astenuto dal voto sulla proposta n°16 del 28 gennaio 2016 con la seguente motivazione:
"Pur condividendo la bontà del progetto in questione e approvandone tutti gli aspetti di
valorizzazione di un patrimonio comunale per il tramite di una gestione giovanile che
promuova forme di co-working, rinnovo le mie forti perplessità sulla competenza della
giunta, ad affidare in comodato a titolo oneroso e senza verifica di congruità, per una
durata di cinque anni i locali di proprietà comunale dell’immobile denominato “Palazzo
Marchesale"».
Del medesimo avviso l’assessore Maria Nunzia Cacciapaglia.
«La sottoscritta – afferma l’assessore Cacciapaglia - in qualità di assessore si è astenuta
dal voto sulla proposta n.16 del 28 gennaio 2016 per seguenti motivi: “pur approvando la
bontà del progetto perché teso ad inserire ed a favorire l'ingresso dei giovani nel mondo
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del lavoro. Ho manifestato i miei forti dubbi in merito alla redazione della convenzione che
non può essere delegata alla segretaria, poiché ha ad oggetto la concessione di
godimento di un bene pubblico (locali di proprietà comunali siti nel Palazzo Marchesale)
per una durata di cinque anni, Per tali motivi ho chiesto che venisse verbalizzata la mia
astensione dal voto».
http://www.santeramolive.it/news/Politica/410960/news.aspx
Da il Tirreno del 01/02/16
La casa dei partigiani è al circolo di S. Maria
ecco la sede dell’Anpi
Taglio del nastro col presidente Carboncini e William Lucchesi: «Uno
spazio per Memoria, antifascismo, difesa della Costituzione»
EMPOLI. E' stata inaugurata ieri mattina la nuova sede della sezione empolese dell'Anpi,
all'interno della casa del popolo di Santa Maria. L'associazione cittadina dei partigiani fino
a pochi anni fa era ospitata assieme ad altre realtà sociali in un immobile comunale in via
Ridolfi. Ma, a seguito di una revisione degli spazi, aveva perso la propria sede.
Adesso i giovani e i meno giovani dell'Anpi potranno tornare a riunirsi grazie alla
disponibilità offerta dal circolo Arci di Santa Maria. L'inaugurazione ha visto la
partecipazione di diverse decine di persone che hanno voluto salutare il nuovo spazio.
A tagliare il nastro il presidente dell'Anpi Empoli Gianfranco Carboncini, assieme al
partigiano William Lucchesi. «Un grazie sentito alla casa del popolo di Santa Maria per
l'opportunità che ci ha concesso – ha detto Carboncini – e un grande ringraziamento di noi
più anziani, che settant'anni fa partimmo volontari per combattere il fascismo, va ai giovani
che dal 2006 ad oggi si sono potuti iscrivere all'associazione, portando avanti gli stessi
nostri valori in questi anni. Memoria, antifascismo, difesa della Costituzione: sono i motori
che rendono ancora attuale e necessaria la lotta dell'Anpi».
La cerimonia è stata aperta dal vicepresidente Roberto Franchini, proprio uno di quei
giovani da anni impegnato nell'Anpi. «Per noi è un onore e un onere – ha affermato continuare l'attività dell'associazione nel solco tracciato dai partigiani. E' una responsabilità
che sentiamo dentro e che siamo felici di avere. Questo nuovo spazio è a disposizione di
tutta la cittadinanza che, insieme a noi, vorrà portare avanti le battaglie della nostra
associazione».
La concessione della sede è solo l'ultimo passo di una collaborazione, quella tra il circolo
Arci di Santa Maria e l'Anpi, che va avanti da anni. «Per noi alla fine è stata una scelta
facile destinare uno spazio all'associazione dei partigiani – ha spiegato Piero Bartalucci,
presidente della casa del popolo – Santa Maria, d'altronde, è la casa di Remo Scappini e
Rina Chiarini, due figure importantissime della Resistenza e non solo a livello locale.
Siamo orgogliosi che la nostra casa del popolo possa ospitare l'Anpi».
Un pensiero condiviso anche dall'assessore con delega alla memora di Empoli, Eleonora
Caponi, che ha ribadito l'importanza dell'attività svolta dall'Anpi cittadino e di tutte le case
del popolo. Nel pomeriggio di ieri, inoltre, si è tenuto il 16° congresso dell'associazione.
Marco Pagli
http://iltirreno.gelocal.it/empoli/cronaca/2016/02/01/news/la-casa-dei-partigiani-e-al-circolodi-s-maria-ecco-la-sede-dell-anpi-1.12880406
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Da Gazzetta di Reggio del 01/02/16
Capannone 15 in alto mare slitta il concerto di
Vinicio
Capossela annunciato a primavera, ma la riqualificazione richiede più
tempo In Comune un incontro con gli operatori culturali per cercare il
futuro gestore
REGGIO EMILIA. Vinicio c’è. Ma il progetto di riqualificazione del capannone 15 alle ex
Reggiane, dove dovrebbe sorgere un luogo dedicato alla musica, per il momento è in alto
mare. E, senza un cambio di passo, il concerto dell’artista reggiano previsto entro la
prossima primavera, annunciato nel dicembre scorso come evento inaugurale, rischia di
slittare. Proprio il progetto di riqualificazione del capannone 15 è stato al centro di un
incontro tra l’assessore alla Rigenerazione urbana, Alex Pratissoli, e numerosi operatori
culturali reggiani. Una riunione per sondare la possibilità di creare un’associazione
temporanea di impresa tutta “made in Reggio”, in grado dopo una gara pubblica di gestire
l’area attraverso una pianificazione di eventi: uno spazio in grado di ospitare fino a
quattromila persone, su cui nei mesi scorsi aveva effettuato un sopralluogo anche lo staff
di Luciano Ligabue.
Tutti concordi nel considerare il progetto come un’occasione di rilancio dell’intera città. Ma
le tappe per completare la riqualificazione sembrano ancora tante. E, soprattutto, resta
ancora aperto il nodo delle risorse economiche, per un progetto che si trova ancora in fase
embrionale, fermo all’analisi di uno studio di fattibilità.
«Abbiamo illustrato gli interventi necessari, che vanno dalla sistemazione dell’area esterna
alle verifiche strutturali – afferma l’assessore Pratissoli – La Stu Reggiane anticiperà le
spese per i lavori, per poi rientrare dei costi attraverso un canone che sarà indicato nella
gara per l’affidamento. Bisogna però considerare che gran parte dei lavori sono coperti
nelle opere appaltare nei capannoni 18, 19 e in quelli di piazzale Europa». Secondo
l’assessore, «il problema non è aspettare un mese in più o in meno. L’importante è
operare in sicurezza. Capossela ha dato la sua disponibilità con il cuore. E noi vorremo
che tutto venga fatto nel migliore dei modi». Interesse da parte degli operatori c’è. A
cominciare da Franco Bassi, il papà del Fuori Orario e intimo amico di Capossela, con il
quale l’anno scorso è stato ad un passo dall’organizzare sempre alle Reggiane il concerto
di Natale 2015, poi sfumato per un soffio. «Vinicio ha dato disponibilità e ha ribadito il suo
interesse ad essere uno dei protagonisti di quell’area quando i tempi lo renderanno
possibile. Forse chi ha indicato la primavera ha avuto un eccesso di ottimismo. Se il
Comune e la Stu partissero in modo deciso, magari ce la si può anche fare. Io vedo in
quell’area un luogo di sviluppo intelligente della città attraverso la cultura e le attività
ricreative. Credo sia importante mettere insieme le forze e le risorse degli operatori
culturali».
Un progetto sul quale l’Arci ha messo decisamente gli occhi. Come afferma Daniele
Catellani, presidente provinciale: «Considero positivo il fatto che il Comune stia
ragionando sul capannone 15 nell’ottica di uno spazio per eventi culturali. Le
considerazioni economiche saranno fatte in seguito. Anche per questo abbiamo chiesto un
secondo incontro». Per Marco Vicini del Tunnel, «siamo in una fase molto preliminare.
Stiamo parlando di un progetto che, a voler essere ottimisti, non potrà essere fruibile prima
dell’autunno. È sano che si ragioni di questa possibilità, ma è chiaro che riattivare uno
spazio di quelle dimensione è un’operazione complessa».
Realista anche Roberto Meglioli, il manager che ha organizzato a Reggio alcuni dei più
grandi concerti degli ultimi decenni. Compresi artisti internazionali: «In sé il luogo è
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un’opportunità eccellente. Ma al momento mi sembra che siamo fermi ad una suggestione.
Ed
è impossibile che a maggio sia tutto pronto. Bisogna fare lavori di prima necessità. E non è
che una volta ripulito il capannone diventa subito agibile per il pubblico. Da parte nostra
c’è tutto l’entusiasmo. Ma credo che serva prima di tutta una visione che al momento
manca». (e.spa.)
http://gazzettadireggio.gelocal.it/reggio/cronaca/2016/02/01/news/capannone-15-in-altomare-slitta-il-concerto-di-vinicio-1.12883577
Da Rovigo Oggi del 01/02/16
ARCHIVIO DI STATO Il 3 febbraio si inaugura il corso di storia con una
lezione del professor Gilberto Muraro.
Una conferenza per ricordarci di quando della
crisi si rideva
Per l’inaugurazione del corso di storia organizzato dall’Archivio di Stato di Rovigo e
dall’Arci, mercoledì 3 febbraio nella sede di via Sichirollo ci sarà una conferenza del
docente di scienza delle finanze Gilberto Muraro. L’accademico padovano spiegherà come
è nata l’imprenditoria in Italia e il boom economico. L’ingresso è gratuito e la lezione inizia
alle ore 16.15
Rovigo - Mercoledì 03 febbraio alle 16.15 all’Archivio di Stato di Rovigo in via Sichirollo si
terrà l’inaugurazione del corso di storia organizzato dall’Archivio di Stato e dall’Arci
(Associazione ricreativa e culturale italiana) di Rovigo. Il tema di quest’anno si focalizza
sull'Italia del boom economico. All’inaugurazione saranno presenti il presidente della
Provincia di Rovigo Marco Trombini, il direttore dell’Archivio di Stato di Rovigo Luigi
Contegiacomo e il presidente del comitato provinciale di Rovigo dell’Arci Lino Pietro
Callegarin.
Per l’occasione è stato invitato a tenere una lezione Gilberto Muraro, professore ordinario
di Scienza delle finanze all’Università di Padova e presidente della Cassa di Risparmio del
Veneto. Muraro terrà un discorso sull’imprenditoria in Italia e il boom economico del
secondo dopoguerra. E’ grande esperto e studioso di economia pubblica e, in particolar
modo, di imposizione fiscale e spesa statale. Vivo è il suo interesse anche per i temi legati
all'intervento pubblico per la difesa dell'ambiente, alla regolazione dello sviluppo urbano e
alla gestione del sistema sanitario Su questi temi ha scritto più di 130 saggi. L’evento di
mercoledì è ad ingresso libero.
Francesca Maccatrozzo
http://www.rovigooggi.it/articolo/2016-02-01/una-conferenza-per-ricordarci-di-quandodella-crisi-si-rideva/#.VrCAClKFGag
Da GoNews del 01/02/16
Rapporto immigrati 2015, raddoppiano le
cittadinanze e cala la percentuale di stranieri
in città
I cittadini stranieri a Scandicci all’ultima rilevazione del 2015 sono il 9,8% della
popolazione, mentre nel 2014 erano il 9,9%. In numero assoluto le persone con
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nazionalità estera residenti nel territorio comunale aumentano di 17 unità, dai 4981 di due
anni fa ai 4998 dello scorso anno (3529 non comunitari e 1469 comunitari), ma nel 2015
Scandicci ha registrato un importante aumento della popolazione con un incremento dei
cittadini italiani relativamente maggiore. Il dato della diminuzione seppur minima della
percentuale è dovuto anche al numero di riconoscimenti della Cittadinanza italiana, con le
naturalizzazioni che sono più che raddoppiate negli ultimi 12 mesi: nel 2015 sono state
155, nel 2014 furono 74 (104 nel 2013 e 53 nel 2012). I dati sono contenuti nel Rapporto
annuale per il 2015 dell’Ufficio Immigrati del Comune di Scandicci – gestito dall’Arci –
redatto dal Responsabile Roberto Menichetti. Tra le nazionalità presenti (102 in tutto a
Scandicci) solo quella cinese mantiene un incremento costante (564 nel 2015, 519 nel
2014), mentre tutte le altre sono stabili o in leggera diminuzione, soprattutto a causa del
già citato aumento delle Cittadinanze italiane. “Scandicci è una città aperta e accogliente”
dice il Sindaco Sandro Fallani, “nel momento in cui si registra un assestamento dei flussi
migratori, con i cittadini italiani che aumentano più di quelli stranieri, i dati più interessanti
sono quelli che riguardano l’integrazione, soprattutto per le seconde generazioni, con il
conseguente aumento di studenti nelle scuole cittadine: i giovani stranieri iscritti nelle
nostre scuole superiori nel 2015 sono stati 235, 49 in più rispetto all’anno prima, con un
aumento parallelo in tutti gli ordini di istruzione; lo scorso anno alunni e studenti stranieri
nelle scuole di Scandicci sono stati complessivamente 801, due anni fa furono 743. Chi
viene qui da altre parti del mondo quasi sempre ha come riferimento i nostri modi di vivere,
così come i nostri diritti e i nostri doveri: si spiega così il continuo aumento di richieste di
cittadinanza – 204 lo scorso anno – e di concessioni. Per ogni naturalizzazione in Comune
organizziamo una cerimonia, perché è un momento importantissimo per la persona che
diventa cittadina italiana, ma anche per tutta la nostra comunità che accoglie e che
cresce”. “Il rapporto annuale dell’Ufficio Immigrati è uno strumento fondamentale per
comprendere e gestire le dinamiche, i flussi migratori e tutto quello che riguarda
l’integrazione a Scandicci – dice l’assessore alle Politiche sociali Elena Capitani – è un
patrimonio di conoscenza che viene condiviso con la città, per questo motivo anche
quest’anno organizziamo un incontro pubblico aperto ai rappresentanti delle istituzioni e al
mondo associativo cittadino”. La nazionalità straniera con più presenza a Scandicci resta
quella romena con 1181 cittadini, seguita da quelle albanese (728), cinese (564),
peruviana (346), marocchina (258), kosovara (201), ucraina (142), dello Sri lanka (120),
filippina (114), polacca (95) ed indiana (72). Nel totale dei residenti stranieri maggiorenni
prevale come sempre la componente femminile, il 56% (2245 cittadine contro 1733
cittadini stranieri maschi). Per quanto riguarda le fasce d’età, tra i cittadini non comunitari il
22% hanno meno di 18 anni (il 17% tra i comunitari), il 46% tra i 18 e i 40 (il 53% tra i
cittadini Ue), il 26% tra i 41 e i 60 (34% i comunitari), il 6% oltre i 60 (così come tra i
cittadini Ue). La popolazione non europea è più giovane di quella europea, anche se pian
piano, in conseguenza ad una maggiore stabilità, c’è una tendenza all’innalzamento
dell’età; i minorenni rappresentano comunque una percentuale alta, soprattutto tra i
cittadini non europei. Viene confermato anche l’alto numero di minorenni stranieri nati in
Italia da genitori stranieri (su 1020 minorenni stranieri, 720 sono nati in Italia). Prevale
come sempre una distribuzione generalmente eterogenea dei cittadini stranieri nei
quartieri, anche se si comincia ad evidenziare una concentrazione maggiore nelle zone di
Casellina e della Piana di Settimo: a Casellina i cittadini stranieri sono 1335, 538 a San
Giusto Le Bagnese, 946 nella Piana di Settimo, 1198 a Scandicci Centro e Ponte a Greve,
720 a Vingone e Giogoli e 261 in zona collinare. Studenti e alunni stranieri nelle scuole
Nell’anno scolastico 2015/2016 gli alunni e gli studenti stranieri sono il 12,6%, ovvero 801
su 6357 iscritti totali (57 nazionalità presenti, due in più dell’anno passato), con un
aumento rispetto all’anno precedente quando si registrava l’11,45% degli alunni stranieri.
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Nello specifico la presenza nei nidi di bambini stranieri è dell’11,5%, ovvero 36 bambini su
un totale di 313 iscritti, mentre nelle scuole d’infanzia del 13,4%, con 154 iscritti stranieri
su un totale di 1145. Alle scuole primarie gli alunni stranieri sono leggermente diminuiti, da
229 a 220, con un aumento al 71% dei bambini stranieri nati in Italia. elle scuole
secondarie di primo grado, 156 studenti stranieri su 1400 iscritti, pari all’11,10%. “Unica
categoria nella quale si registra un aumento sensibile è la scuola secondaria di secondo
grado”, si legge nel Rapporto, con 235 studenti stranieri su 1634 iscritti, pari al 14%. Nelle
scuole d’infanzia la percentuale di iscritti stranieri nati in Italia è del 93%, nelle primarie del
71%, nelle secondarie di primo grado del 48% e all’istituto Russell Newton del 30%.
Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2016/02/01/rapporto-immigrati-2015raddoppiano-le-cittadinanze-e-cala-la-percentuale-di-stranieri-in-citta/
Da GoNews del 01/02/16
Lingua araba per bambini: il Comune
organizza un corso gratuito negli spazi di via
della Volta
A San Casciano la lingua araba, nella sua forma scritta e orale, è ritenuta parte di un
patrimonio culturale, coltivato da centinaia di famiglie nordafricane residenti nel Chianti,
che è necessario mantenere vivo e trasmettere alle nuove generazioni. Nasce
dall’esigenza di dare continuità ad una tradizione che rischia di disperdersi l’idea del
Comune di attivare un corso di lingua araba, rivolto a tutti, bambini stranieri nati in Italia,
studenti italiani e adulti residenti nel territorio. Tra gli aspiranti linguisti molti i bambini che
si sono già fatti avanti, anche l’insegnante, madrelingua di origine marocchina, è pronta ad
avviare il ciclo di lezioni nei locali messi a disposizione dal Comune (via della Volta, 4). “E’
un’iniziativa – dichiara l’assessore alle Politiche per l’integrazione Consuelo Cavallini - che
prende spunto da una richiesta specifica, quella avanzata dalle famiglie di madrelingua
araba di valorizzare in Italia, nel luogo in cui risiedono, il significato delle proprie radici e
tramandarlo ai figli, un’opportunità che proponiamo ed estendiamo a tutti coloro che
fossero interessati ad acquisire conoscenze basiche della lingua e della tradizione del
mondo islamico”. Le lezioni si svolgeranno ogni sabato mattina a partire da sabato 6
febbraio dalle ore 10 alle ore 12. Il corso, soprattutto per la parte relativa all’apprendimento
della lingua e della scrittura araba, è aperto anche agli adulti italiani e stranieri. La scuola
sarà condotta da un’insegnante che risiede a San Casciano da diversi anni, Meryem Arich.
“Il corso è incentrato sulla conoscenza della lingua e non prevede l’insegnamento della
religione – commenta Arich – si rivolge a bambini di età compresa tra i 6 e i 14 anni e, nel
caso in cui si presentasse la richiesta, mi rendo disponibile ad attivare un secondo gruppo
per bambini di età inferiore ai 6 anni”. Sono oltre cento i cittadini che risiedono nel Comune
di San Casciano legati al mondo arabo e a proposito di dati e bilanci è l’operatore dello
sportello immigrati Roberto Menichetti ad evidenziare un elemento di novità. “Da ormai
due anni – aggiunge – si sono moltiplicati coloro che hanno superato i dieci anni di
residenza in Italia e che si sono immediatamente attivati per richiedere la naturalizzazione.
Segno di stabilità ma anche di attaccamento al territorio”. L’ufficio Immigrati di San
Casciano rappresenta uno dei sei sportelli gestiti da Arci Firenze della zona sud est
assieme a quelli di Pontassieve, Greve, Tavarnelle, Impruneta e Figline Valdarno. Nel
2015 è stato frequentato da circa 400 utenti, il numero più alto dalla sua apertura, con 39
diverse nazionalità tra cui Sri Lanka, Albania, Italia, Santo Domingo, Egitto, Marocco,
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Ucraina e Senegal. Il servizio è attivo nel palazzo comunale il lunedì dalle 15 alle 18. Il
corso è gratuito. Informazioni e iscrizioni corso: 055 8256380.
Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2016/02/01/lingua-araba-per-bambini-ilcomune-organizza-un-corso-gratuito-negli-spazi-di-via-della-volta/
Da la Provincia di Cremona del 02/02/16
Venerdì 5 febbraio
Michela Marzano, autrice del libro 'Papà,
mamma e gender', alla Biblioteca Statale di
Cremona
Biblioteca Statale
Via Ugolani Dati
Cremona
Negli ultimi mesi abbiamo assistito al dilagare di una cosiddetta “teoria gender” che
punterebbe a scardinare i valori fondamentali del vivere umano. La scena pubblica è stata
invasa da libri, articoli, manifestazioni e convegni che lanciavano un vero e proprio allarme
“gender”, mettendo in guardia i genitori su possibili minacce legate a nuovi programmi
scolastici. Ma esiste sul serio un pericolo “gender”? Si vogliono davvero cancellare le
differenze tra maschi e femmine? E ancora, ci sono connessioni con l’approdo in
parlamento del disegno di legge che disciplina le unioni civili tra coppie omosessuali? Per
rispondere a queste e molte altre domande Arcigay Cremona “La Rocca” organizza
venerdì 5 febbraio alle ore 17:00 presso la sala Virginia Carini Dainotti della Biblioteca
Statale di Cremona un incontro pubblico con un’ospite d’eccezione: Michela Marzano. Nel
suo ultimo libro Papà, mamma e gender (Utet, 2015), l’autrice – professoressa di Filosofia
morale all’Université Paris Descartes, nonché scrittrice e parlamentare – affronta in
maniera chiara e documentata i principali elementi del dibattito che si è sviluppato intorno
al “gender”. Altrettanto chiaramente, cerca di fare luce sulla questione, decostruendo le
diverse mistificazioni che si sono accumulate e riflettendo sugli obiettivi culturali sottesi.
All’incontro – patrocinato dal Comune di Cremona, ARCI Cremona, Amnesty International
Cremona, A.I.D.A., Rete Donne Se non ora quando?-Cremona e dalla Libreria del
Convegno – interverranno insieme a Marzano anche Gabriele Piazzoni, segretario
nazionale di Arcigay, ed Emanuela Ghinaglia, presidente di ARCI Cremona.
Ingresso libero.
http://www.laprovinciacr.it/scheda/cultura/134554/Michela-Marzano--autrice-del-libro.html
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ESTERI
del 02/02/16, pag. 1/9
Ai piedi del gigante nero
Gian Paolo Calchi Novati
Verosimilmente Buhari aveva sopravvalutato i successi delle operazioni di sicurezza.
Forse non ha ben considerato che i movimenti insurrezionali praticano una guerra
asimmetrica non solo per i mezzi impiegati ma anche per la cadenza delle imprese.
Non è necessario scendere sempre in campo: più dei singoli attentati contano gli effetti
psicologici di medio o lungo periodo. A Maiduguri, la “capitale” di Boko Haram fin dalla sua
fondazione, è stato riaperto l’aeroporto ma molti profughi si tengono ancora lontani dalla
città perché la paura non è finita. È questa la differenza fra i due livelli. Ed è stato proprio
in un villaggio nei pressi di Maiduguri che Boko Haram ha compiuto il 1° febbraio un’altra
strage.
È difficile pensare che la tempistica sia stata adattata alla visita imminente del premier
italiano ma di sicuro questa coincidenza non è piaciuta né a Buhari né a Renzi.
Muhammadu Buhari è stato eletto alla presidenza della Nigeria poco meno di un anno fa.
Con la sua elezione, si è compiuta la prevista alternanza alla massima carica del più
popoloso Stato africano fra un cristiano e un musulmano.
Era praticamente dal ritorno a un sistema costituzionale con un parlamento e libere
elezioni, nel 1999, che mancava un vero presidente musulmano. Il solo che sia stato eletto
prima di Buhari è rimasto in carica per circa metà mandato, malato, curato all’estero e
morto prima di aver concluso i suoi quattro anni di presidenza. Con Buhari si è ristabilita la
normalità e soprattutto è stato eletto per la prima volta il candidato dell’opposizione.
C’erano tutte le premesse di una svolta e Buhari si è impegnato a fondo.
Il suo programma si basava su due obiettivi solo formalmente distinti: lotta contro
l’insorgenza islamista e lotta contro la corruzione degli apparati pubblici. Non è solo la
povertà del Nord ad alimentare quel poco o tanto di consenso che permette a Boko Haram
di mantenersi attivo e reclutare combattenti. Conta molto di più la sensazione di
un’ingiustizia sociale diffusa e tollerata che specula anche sulla violenza altrui. Polizia ed
esercito sono i primi imputati. La riapertura del fronte del terrore ha ricordato a tutti che il
secondo impegno di Buhari è ben lungi dall’essere stato adempiuto.
Per Boko Haram l’ascesa al vertice di un musulmano poteva rappresentare uno
svantaggio. Non può più prendere di mira la classe dirigente sudista, cristiana, inserita
nella cultura e nel discorso istituzionale che risale al colonialismo, ritenuta responsabile
delle condizioni di abbandono in cui sono lasciate le province settentrionali, appunto a
maggioranza islamica. Buhari appartiene all’aristocrazia musulmana del Nord che allunga
le sue ascendenze fino ai promotori del jihad che all’inizio dell’Ottocento ha creato lo stato
nigeriano su cui si estenderà circa un secolo dopo il potere dell’Inghilterra vittoriana.
Nella Nigeria del Nord ha operato Lord Lugard, il teorico dell’amministrazione indiretta, che
prevedeva di utilizzare in funzione gregaria le élites che saranno poi dette per
approssimazione tribali ma che almeno in Nigeria sono il prodotto di una storia che era sul
punto di dar vita a un’entità politica con i crismi di uno stato nazionale. Secondo J. F. Ade
Ajayi, uno dei più eminenti storici dell’Africa contemporanea, senza l’interferenza
dell’Europa la Nigeria e la regione saheliana in generale avrebbero potuto portare a
termine un’esperienza di modernizzazione in proprio ispirata ai valori e ai principi
istituzionali dell’islam.
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Da musulmano con musulmani, Buhari non poteva transigere sulle infrazioni alla legge e
alla convivenza, e in ultima analisi sui crimini di massa commessi da Boko Haram, ormai
formalmente infeudato nello Stato islamico di al-Baghdadi. Poteva identificarsi in certe
frustrazioni che si sono accumulate nelle vicende tormentate della Nigeria indipendente.
Ma sarebbe stato tremendo se il suo mandato avesse lasciato trapelare una qualche
forma di complicità. E così è stato, se non fosse che in Nigeria, come altrove in Africa, il
richiamo all’islam di battaglia, tanto più se accoppiato a una condizione di reale inferiorità
di intere popolazioni, non si esaurisce tanto presto.
Matteo Renzi è al suo terzo viaggio in Africa. Dopo la Nigeria visiterà il Ghana e il
Senegal. Sia pure attraverso un escamotage contabile, di recente l’economia della Nigeria
ha superato quella del Sud Africa assicurando al “gigante nero” anche questo primato.
L’Italia è presente in Nigeria soprattutto con l’Eni. E l’Eni è sicuramente un atout su cui
Renzi conta, sapendo tuttavia che l’Eni non ha un grande effetto aggregante per il
cosiddetto «sistema Italia». Comunque la Nigeria è meno importante oggi per l’Eni rispetto
al passato per i problemi di sicurezza che rendono accidentata e costosa l’attività di
estrazione e trasporto.
L’Eni, come molte altre compagnie petrolifere internazionali, sta concentrando la sua
attività nell’off-shore abbandonando i pozzi e la ricerca sul continente. La Cina è andata
contro corrente investendo in un grande giacimento sulla terraferma.
Petrolio a parte, le posizioni italiane non sono all’altezza dell’importanza della Nigeria, che
pure è il nostro primo partner africano. La Nigeria ha risorse, potenzialità e numeri che
promettono ben di più. L’insicurezza ha pesato e pesa. Influisce anche sulle richieste che
la Nigeria avanza in cambio dei suoi prodotti e dei suoi spazi, fin troppo condizionate dalle
incombenze della repressione del terrorismo.
del 02/02/16, pag. 3
I tanti fronti aperti con Bruxelles Ma la partita
è politica, non tecnica
di Francesca Basso
Gli interventi della Commissione, i dubbi sulle richieste di Roma e la
posizione di Calenda
Se la crisi greca era sembrata uno dei momenti più tragici della storia dell’Unione europea,
con il rischio di un’uscita di Atene dall’euro, ora a Bruxelles c’è chi pensa che le nuove
sfide politiche potrebbero essere non meno difficili da gestire e con esiti altrettanto
complessi. La Commissione europea si trova a dover trattare con Londra per la
permanenza della Gran Bretagna nella Ue. Ma sullo stesso tavolo c’è anche l’emergenza
immigrazione, che sta mettendo in discussione uno dei principi fondamentali della Ue: la
libera circolazione di persone e cose per la decisione di alcuni Paesi di sospendere
temporaneamente Schengen ai loro confini. E poi c’è il caso Italia, che quasi
quotidianamente polemizza con Bruxelles, alzando i toni dello scontro anche quando
dichiara di non volerlo fare.
E l’Italia non è un Paese qualsiasi dei Ventotto, è uno degli Stati fondatori e una della
maggiori economie della Ue. Ultimo episodio ieri, con Renzi che va all’attacco: «Non
cadiamo nelle provocazioni», dice, «per noi Europa significa valori e ideali, non polemiche
da professionisti dello zero virgola». Solo due giorni prima il governatore di Bankitalia
Ignazio Visco aveva chiesto la revisione della direttiva sulla risoluzione bancaria (Brrd),
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che ha introdotto la regola del bail-in (il salvataggio a carico di azionisti e depositanti sopra
i 100 mila euro) entrato in vigore da appena un mese.
Difficile capire per Bruxelles l’atteggiamento di Roma e in più di una situazione il termine
ricorrente è «stupore». Con Londra è più semplice: ha posto temi concreti e su quelli sta
discutendo, come sullo stop alle coperture sociali per quattro anni ai lavoratori Ue residenti
nel Regno Unito e i rapporti tra Stati euro e non euro. Ma con l’Italia è diverso. I fronti
aperti sono numerosi e l’approccio scelto dal premier Matteo Renzi è quello di trasformare
tutto in scontro politico. Anche quando il confronto, per non dire lo scontro, è su regole
europee che l’Italia ha approvato e sottoscritto. Dossier che potrebbero essere risolti sul
piano tecnico come fanno gli altri 27 Paesi della Ue. Il presidente della Commissione Ue,
Jean-Claude Juncker ha scritto al «caro Matteo» per confermare che i 3 miliardi per
aiutare la Turchia a gestire l’emergenza dei rifugiati siriani non saranno contati nel deficit.
E il portavoce della Commissione, il greco Margaritis Schinas, ha precisato che questa
posizione «è nota dallo scorso dicembre», come spiegato in una «nota a piè di pagina»
del testo degli accordi fatti circolare dopo l’intesa raggiunta a dicembre. Sempre ieri
un’altra portavoce, Vanessa Mock, ha precisato che «non ci sono piani» per cambiare le
regole sul salvataggio, voluto dagli Stati membri per salvaguardare i contribuenti e che è
già prevista una verifica nel 2018. Un’altra portavoce, Annika Breidthardt, ha chiarito che
sulla flessibilità legata agli sforzi sostenuti per i migranti la Commissione valuterà «caso
per caso» e sarà comunicato in primavera «sulla base di spese aggiuntive fatte» rispetto
all’anno precedente. Se anche a Bruxelles è chiaro che la strategia del premier è in parte
legata a necessità politiche interne, tuttavia comincia a sorgere il dubbio che sia una
tattica per coprire una situazione di difficoltà. Il ruolo di Calenda, al di là delle proteste del
corpo diplomatico, sarà dunque decisivo nei prossimi mesi.
del 02/02/16, pag. 4
Renzi-Europa, scontro totale
Isolati. Prima un portavoce, poi direttamente Juncker: la Commissione
dà del bugiardo al premier italiano sulla vicenda dei contributi alla
Turchia. E lui lancia la guerra ai «burocrati dello zero virgola». l capo del
governo: ok, pagheremo le nostre quote. Ma il ministero dell’economia
frena: vadano a carico dell’Ue
Andrea Colombo
ROMA
«Caro Matteo», e giù botte. L’Europa non porge l’altra guancia e il presidente della
Commissione Jean Claude Juncker non resiste alla tentazione di far notare al premier
italiano che quanto lui va dicendo di voler strappare all’arcigna Ue era in realtà stato
deciso quasi due mesi fa. La vicenda è quella dei contributi dei vari paesi europei alla
Turchia per l’emergenza rifugiati «Fin dall’inizio», scrive Juncker a Renzi, «la
Commissione ha indicato che i contributi avrebbero potuto essere dedotti dal patto di
stabilità». Non solo: questa decisione è stata ufficializzata il 18 dicembre «come
concordato con il tuo sherpa». Ecco a cosa si riferiva Juncker quando criticava la
doppiezza degli interlocutori italiani. La conclusione della lettera è al veleno: «Sono felice
di confermare che la commissione rispetta le tue dichiarazioni», e ben due punti
esclamativi aggiunti a penna.
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Era prevedibile dopo l’esito ambiguo dell’incontro Renzi-Merkel: lo scontro tra governo
italiano e Commissione europea si è riacceso immediatamente. Tutto lascia pensare che
diventerà sempre più duro. Proprio la Commissione aveva aperto ieri mattina le ostilità. In
un briefing, il portavoce Margritis Schinas, parlando dei 3 miliardi destinati alla Turchia,
chiarisce che «i contributi nazionali al fondo non saranno considerati nel computo dei
deficit». Non è la richiesta italiana, ma ne rappresenta una versione light ritenuta sino a ieri
certamente accettabile.
Forse lo sarebbe stata, infatti, se la pietanza non fosse stata accompagnata da una
quantità di bocconi venefici. Schinas specifica infatti che la decisione era già stata presa in
dicembre, offrendo così appositamente il destro all’opposizione italiana per accusare il
premier di battere i pugni per ottenere quel che era già stato concesso a tutti, facendo così
una figura bella ma ingiustificata. Aggiunge che però la valutazione sull’accordare o no ai
singoli Paesi la flessibilità per le spese dovute all’emergenza immigrazione «verrà fatta in
primavera, caso per caso ed ex post, sulla base di spese fatte». Come dire che la vicenda
dei miliardi alla Turchia non costituisce un precedente al quale appigliarsi per reclamare la
flessibilità su tutte le spese per l’immigrazione: proprio quel che per Renzi è più
importante.
Come se non bastasse, la Commissione lancia una serie di segnali che più negativi non si
può in materia di banche. «Non ci sono piani per modificare il bail-in», comunica laconica
e definitiva, sbattendo così la porta in faccia al governatore di Bankitalia Visco, che proprio
quella modifica aveva chiesto «entro il 2018», e con lui schiaffeggiando anche l’ormai
detestato governo italiano. E stavolta ci si mette anche Mario Draghi che auspica
«un’attuazione coerente della normativa sul bail-in».
La replica di Renzi non si è fatta attendere, e come sempre in questi casi è ancora più
dura e sprezzante dell’attacco. «Il nostro mestiere è guidare l’Europa, non prendere
ordini», scrive nella sua e-news. È solo l’antipasto. Dalla Nigeria l’enfant terrible va giù a
valanga: «Noi pensiamo che i migranti siano tutti uguali. Solo una perversione burocratica
può fare distinzioni tra vite da salvare». Significa, spiega senza perfirasi l’inquilino di
palazzo Chigi, che se è un fatto positivo escludere dal Patto di stabilità le spese per
salvare i bambini nel mar Egeo (cioè i miliardi per la Turchia) è in compenso «assurdo e
illogico considerare in modo diverso le spese per salvare i bambini eritrei che arrivano in
Sicilia», cioè il resto delle spese per l’immigrazione.
Poi l’affondo più violento: «Noi abbiamo salvato migliaia di vite, e continueremo a farlo,
mentre l’Europa si girava dall’altra parte. Se vogliono aprire una procedura d’infrazione
facciano pure. Per noi Europa significa valori, non polemiche da professionisti dello zero
virgola». È un modo certamente abile di mettere le cose, al quale Bruxelles risponde con
un imbarazzato «no comment», accompagnato però dalla specifica per cui la procedura
contro l’Italia riguarda la registrazione dei migranti, non il loro salvataggio in mare.
Nello stesso momento, il governo italiano rilancia ulteriormente. Se le cose stanno così, il
ministero dell’economia fa sapere, sia pur in forma anonima, che lo scomputo dei fondi per
la Turchia dal Patto di stabilità non basta. Tutti e tre i miliardi devono essere presi dal
bilancio dell’Unione, non uno solo addossando agli Stati i rimanenti due, e deve essere
accertato come Erdogan intende usare quei soldi.
Come a Berlino, è di nuovo una partita a tre, ma stavolta la convitata di pietra è Angela
Merkel. È per lei che l’immediato sblocco di quei fondi è questione vitale, ed è a lei, ancor
più che a Jean-Claude Juncker, che Renzi lancia un messaggio preciso, come aveva già
fatto da Berlino: nello scontro durissimo che si sta preparando tra governo italiano e
Commissione europea, la Germania deve scegliere da che parte stare. E se qualcuno
trova strano che a lanciare una simile sfida sia il premier di uno dei Paesi deboli, è segno
che non ha capito come è fatto Renzi.
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Del 2/02/2016, pag. 1-3
Il retroscena
In gioco il giudizio sulla manovra 2016. E giovedì Bruxelles segnalerà
già uno slittamento del deficit italiano al 2,5% del Pil
Una partita che vale più di tre miliardi Il
premier: “Vediamo con chi sta Merkel”
ALBERTO D’ARGENIO
PER me i soldi alla Turchia sono un precedente, ora devono sfilare dal calcolo del deficit
anche i miliardi che spendiamo per salvare le vite nel Mediterraneo». All’arrivo in Nigeria
Matteo Renzi legge le dichiarazioni della Commissione europea sui fondi ai migranti. «Il
solito anonimo portavoce di Bruxelles», sbotta.
CON i collaboratori che lo accompagnano nella trasferta africana li chiama indispettito «i
professionisti dello zero virgola». Eppure la partita si gioca proprio sui decimali, che
valgono miliardi di euro. Renzi scatta per il metodo usato da Bruxelles, per «l’idea che su
un tema cruciale e carico di destini, quello delle vite umane nei flutti e dell’Europa stessa,
tutto quello che la Commissione abbia da dire sono soltanto cifre e clausole ». Ma
nonostante l’irritazione decide di sbloccare i 231 milioni italiani per la Turchia. Soldi che
Palazzo Chigi e il Tesoro tenevano fermi da dicembre aspettando quei chiarimenti da
Bruxelles che anche ieri non sono stati ritenuti convincenti.
Ieri la Commissione ha ribadito che i 231 milioni non saranno conteggiati nel deficit di
Roma, ma non si è sbilanciata se la stessa sorte toccherà ai soldi che l’Italia spende per
gestire i flussi nel Mediterraneo, ribadendo che la decisione verrà presa solo a primavera.
Si tratta di 3,3 miliardi che il governo chiede di scomputare dal disavanzo pubblico. Eppure
anche se non ha avuto garanzie su questo punto, Renzi ha deciso di sbloccare i soldi alla
Turchia visto che per Angela Merkel l’assegno di Roma è di importanza vitale, tanto che lo
stesso premier venerdì a Berlino l’aveva rassicurata che a breve avrebbe tolto la sua
riserva. Ora l’Unione potrà versare 3 miliardi ad Ankara (circa 2 dai governi, il resto dal
bilancio comunitario) in cambio dello stop alle partenze dei migranti verso la Grecia. Un
modo per decongestionare la rotta balcanica e diminuire il numero di richiedenti asilo che
arrivano in Germania e nel resto dell’Europa centrale. Partita sulla quale la Merkel si gioca
il futuro politico. Ma anche Renzi si gioca molto. La Commissione ha congelato il giudizio
sulla manovra 2016 fino ad aprile-maggio e quei 3,3 miliardi ancora sub iudice sono
esattamente i soldi che mancano all’appello per il via libera. L’Italia dovrebbe ottenere
circa 13 miliardi di flessibilità per riforme e investimenti, ma ne chiede 16. In altri termini,
abbassare il deficit dal 2,6% del 2015 fino al 2,4% e non al 2,2% sul quale da novembre
c’è un accordo informale (senza flessibilità Roma avrebbe dovuto risanare fino all’1,4%).
La partita è incandescente, senza il via libera alla manovra la Commissione potrebbe
mettere Roma sotto procedura per deficit, di fatto un commissariamento che impedirebbe
a Renzi di tagliare le tasse (Ires e Irpef) nel 2017-2018, biennio elettorale.
Giovedì la Commissione pubblicherà le previsioni economiche nelle quali, filtra da
Bruxelles, segnalerà uno slittamento del deficit italiano al 2,5% del Pil. Se la Commissione
non riconoscerà anche la clausola per i migranti, quello che in gergo si chiama
«scostamento» in primavera potrebbe essere giudicato «significativo ». Il che porterebbe
appunto alla temuta procedura. Seppure con i toni e il linguaggio sfumato della diplomazia,
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anche di questo Renzi e la Merkel hanno parlato alla fine del pranzo di venerdì scorso a
Berlino. E dalla Cancelliera era arrivata l’apertura. Prima, nel faccia a faccia, un silenzio
incoraggiante (formalmente non può schierarsi su una decisione di Bruxelles). Poi in
conferenza stampa la frase più importante: «Deciderà la Commissione e noi ci
adegueremo ». Un cambio di posizione netto, visto che finora la Germania in seno
all’Eurogruppo ha pressato la Commissione sul rigore.
Nel fine settimana, dopo il viaggio a Berlino, Renzi ha avuto nuovi contatti con Juncker e la
Merkel e ieri, pur non essendo soddisfatto dalle dichiarazioni di Bruxelles, ha comunque
sbloccato i fondi alla Turchia. «Ora si vedrà se la Merkel terrà fede a quanto ci siamo
detti», il commento. Che non ritiene possibile che la Ue faccia sconti quando è solo la
Germania ad avere bisogno. D’altra parte il premier non accetta che esista «una classifica
tra migranti e migranti, come se quelli che passano dalla Turchia valessero di più di quelli
che attraversano il Mediterraneo, una triste graduatoria della disperazione, con tanto di
tariffario». Con una chiosa: «Noi non saremo mai come loro, non lasceremo immiserire
l’ideale europeo in una ragioneria della sciagura, nell’anestetico delle procedure di
infrazione e delle scartoffie».
Del 2/02/2016, pag. 4
“Meno welfare per trattenere Londra”
Il Consiglio europeo presenta stamani una bozza d’intesa che ridisegna
i rapporti con la Gran Bretagna Per schierarsi contro il Brexit nel
referendum Cameron chiede un “freno” all’assistenza ai cittadini della
Ue
ENRICO FRANCESCHINI
La grande scommessa di David Cameron si decide sul filo del traguardo. «No deal»,
niente accordo, afferma domenica sera il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk
dopo una cena a Downing street. «Svolta significativa», rivelano tuttavia lunedì mattina
fonti del governo britannico. «Nelle ultime ore sono stati realizzati buoni progressi, ma
restano ancora in piedi alcune questioni», ammette ieri sera il presidente Tusk. Protratto di
un giorno, il negoziato per ridisegnare i rapporti tra Regno Unito e Ue, in vista del
referendum che Londra vorrebbe tenere già quest’anno, il prossimo 23 giugno secondo le
indiscrezioni, rimanda tutto a stamane, quando Bruxelles potrebbe pubblicare il testo di
una possibile intesa. Se così sarà, il patto verrebbe approvato al summit dell’Unione il 1819 febbraio prossimo; e il premier Cameron organizzerebbe il referendum sulla Ue a
giugno, poiché servono almeno quattro mesi per organizzarlo. Altrimenti, verrà tutto
rimandato perlomeno a settembre.
La “svolta” cui alludono i portavoce di Downing street sarebbe il riconoscimento, da parte
di Tusk e dunque degli altri 27 membri della Ue, dello stress a cui sono sottoposte le
strutture statali britanniche (sanità, welfare, scuola) dall’immigrazione di massa: 300 mila
nuovi arrivi l’anno (invece dei 100 mila previsti). Avanti così e nel 2050 il Regno Unito
diventerebbe il paese più popoloso d’Europa con 85 milioni di abitanti (ora ne ha poco più
di 60 milioni), superando la Germania. Perciò Bruxelles concederebbe a Londra un “freno
d’emergenza” a certi benefici assistenziali (integrazione dei salari più bassi, assegni
familiari, diritto ad alloggi popolari), permettendo che siano bloccati per i primi 4 anni di
residenza degli immigrati comunitari. Quanto servirebbe a limitare l’immigrazione, non è
chiaro, ma politicamente o almeno simbolicamente Cameron potrebbe presentare il “freno”
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ai benefici come un freno a quella che alcuni percepiscono come un’invasione straniera.
Sarebbe un compromesso tra la richiesta iniziale britannica di mettere limiti al numero di
immigrati (che avrebbe violato il principio di libero movimento nell’Unione) e l’iniziale
posizione della Ue di non concedere nulla su questo punto.
La trattativa riguarda anche altre tre questioni: l’integrazione europea (Londra vuole
garanzie di poterne restare fuori), la sovranità (Londra vuole che i parlamenti nazionali
possano bloccare leggi europee) e la tutela dei paesi fuori dall’eurozona. Su quest’ultimo
punto sono emerse resistenze particolari della Francia, che teme una sorta di veto
britannico a iniziative dei paesi dell’euro. L’intesa su tutta la linea resta complicata, ma
possibile, per la comune volontà di evitare un fallimento: Cameron non vuole uscire
dall’Europa (anche perché rischierebbe subito l’uscita della Scozia, più europeista, dal
Regno Unito), la Ue non vuole perdere la Gran Bretagna, perché stabilirebbe un
pericoloso precedente. Ma è una partita aperta, esposta a imprevisti di ogni genere, dai
trabocchetti della politica, al terrorismo, alla crisi dei migranti. Al di là dei bluff delle due
parti, la grande scommessa di Cameron rischia di rimanere incerta fino all’ultimo.
Del 2/02/2016, pag. 7
Bombardamenti di chiacchiere
A Roma il segretario Usa Kerry farà il punto anche sulla Libia. A Ginevra
i negoziati sulla Siria sono in stallo e i curdi, che combattono sul
terreno, restano fuori dalla porta
Il nome stesso è una testimonianza d’impotenza: si chiama small group, cioè ‘piccolo
gruppo’, ma è composto di ben 23 Paesi, che sarebbero i maggiormente impegnati della
“ben più ampia coalizione globale” – recita un comunicato della Farnesina – contro il
sedicente Stato islamico. Ci sono dentro gli Usa e l’Arabia saudita e altre monarchie
sunnite del Golfo sospettate di foraggiare i jihadisti; gli occidentali ‘volenterosi’ e pure la
Turchia, che con il Califfo fa traffici à gogo; ma non ci sono i russi, gli iraniani, i curdi che
non hanno uno Stato, cioè gli unici che alle milizie fanno vedere i sorci verdi, dal cielo o sul
terreno.
La riunione ministeriale si tiene oggi alla Farnesina, co-presieduta dal ministro degli Esteri
italiano Paolo Gentiloni e dal segretario di Stato Usa John Kerry. Ci sarà pure l’Alto
rappresentante Ue Federica Mogherini. Quello di Roma è il terzo vertice ministeriale dello
Small Group, dopo quelli di Londra (gennaio 2015) e Parigi (giugno 2015), e cade a un
anno dalla creazione di questo formato, cui sulla carta spetta un ruolo di guida politica e
strategica dello sforzo anti-Califfo.
Peccato che l’incontro coincida con lo stallo dei negoziati di Ginevra per la transizione
verso il dopo-Assad in Siria, al cui sblocco non basterà di sicuro il pieno sostegno che sarà
liturgicamente espresso dai ministri. E siamo pure in una fase di forti tensioni fra i ‘nemici’
del Califfo, che siano o meno parte di questa coalizione: Russia contro Turchia, Arabia
saudita contro Iran. Lo Small Group reitererà, inoltre, il proprio sostegno al premier
iracheno al-Abadi, nonostante il suo governo deve ancora dare prova di efficienza e
integrità.La riunione farà un bilancio dell’azione condotta nell’ultimo anno e vorrebbe
servire a rafforzare e accelerare lo sforzo collettivo, anche se nessuno ha l’intenzione
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d’impegnarsi in azioni sul terreno. E certo, a margine della riunione, si parlerà pure di
Libia, dove il Califfo non c’era e ora è una minaccia.
L’Italia, che non partecipa ai raid né in Iraq né in Siria, ma compie voli di ricognizione
sull’Iraq, si auto-presenta come “uno dei Paesi più impegnati della coalizione”: contribuisce
a formare le forze di polizia irachene, contrasta il finanziamento degli integralisti, prova a
intercettarne i foreign fighters e la propaganda. A Ginevra, intanto, la delegazione
dell’opposizione ha messo in tavola le sue richieste umanitarie, accettando di mettere
piede nel palazzo dell’Onu per la prima volta: la fine dei bombardamenti e degli assedi, il
rilascio dei detenuti.
E l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani ammonisce che comunque vadano i
negoziati non dovrà esserci amnistia per i responsabili di crimini di guerra. Nel weekend,
una delegazione americana ha visitato la regione di al-Jazira, una delle principali enclave
curde della Siria, dove ha avuto contatti a Kobane con membri dell’alleanza curdo-araba
che combattono contro i jihadisti: hanno studiato piani militari. Eppure, i turchi non
vogliono i curdi a Ginevra perché sono terroristi.
Del 2/02/2016, pag. 11
Libia, pensate un attimo prima di attaccare
Il presupposto fondamentale di ogni intervento armato è che sia chiaro l’obiettivo politico.
La questione non è mantenere la leadership su un’eventuale azione in Libia, come
sostenuto recentemente da Vittorio Emanuele Parsi su Panorama, ma – per citare Spike
Lee – “fare la cosa giusta”. L’intervento del 2011 e la gestione della fase post-conflict non
lo sono stati. L’Italia si caratterizzò allora per una rincorsa duplice, politicamente debole,
all’evoluzione incontrollabile degli eventi in Libia da una parte, e alle mosse dei propri
principali partner dall’altra. Data la prossimità della Libia e i nostri interessi, l’Italia non può
permettersi nuovi errori.
Finora era stato considerato requisito necessario, per una azione militare straniera in
Libia, l’accordo tra fazioni libiche. Ma le recenti indiscrezioni sembrano fare pensare che
l’Occidente stia già cambiando strategia e possa avviare i bombardamenti contro l’Isis
anche senza una formale richiesta da parte di un legittimo governo libico. La nascita di un
governo unitario è una possibilità che ancora non si può escludere ma, considerato
l’andamento delle trattative fino ad oggi, certamente non si può essere ottimisti. I nodi che
hanno impedito il successo del negoziato finora sono tuttora irrisolti, in particolare il ruolo
che avrà il generale Haftar nel futuro della Libia e l’ostilità all’accordo di buona parte delle
milizie e delle forze politiche della Tripolitania che fanno riferimento al presidente islamista
del Parlamento di Tripoli, Nuri Abu Sahmein. Un intervento armato in un Paese che
faticosamente cerca di ricomporre il quadro politico possa definitivamente compromettere
le residue speranze di pacificazione. Un intervento esterno faciliterebbe il compattamento
dei gruppi islamisti attorno allo Stato Islamico.
Lo Stato Islamico in Libia è certamente una minaccia rilevante ma sinora contenuta. Il
numero di combattenti di Isis è spesso esagerato dai media e dai libici che combattono
contro gli islamisti. Fonti affidabili reputano che ci siano tra 2.700 e 3.500 miliziani in Libia.
Circa 1.500-2.000 intorno a Sirte.
Anche le indiscrezioni sui rinforzi da Boko Haram sono da considerare con cautela. Il
contesto dell’ascesa di Isis a Sirte è simile a quello che ha favorito l’Is in Iraq, l’esclusione
di parte della popolazione da un processo di partecipazione politica. Non appare un caso
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che Sirte sia la città natale di Muammar Gheddafi e territorio di presenza della tribù
Qaddafa. Dalla sua deposizione, la tribù, emarginata dal governo di Tripoli, è stata anche
accusata da altre milizie di connivenza con il passato regime e, talvolta, duramente colpita
per questo motivo. Parte dei giovani della tribù e di seconde linee del regime, hanno quindi
sposato la causa Isis più per motivazioni politiche che ideologiche. Per questo il ritorno a
un processo politico inclusivo (e non vendicativo) appare fondamentale.
La palese mancanza di chiarezza sugli obiettivi dell’eventuale mission (contenimento
dell’Isis, state-building, protezione della capitale, delle infrastrutture o che altro?), senza
avere chiaro verso quale fine politico si tende, è un grave errore e conduce a missioni a
tempo indeterminato la cui efficacia politica viene progressivamente erosa. E se anche in
Libia l’obiettivo fosse estirpare lo Stato Islamico non è con i soli bombardamenti mirati che
si potrà ottenere il risultato, come le recenti incursioni in Siria/Iraq dimostrano. Dovranno
essere i libici a fare fronte comune.
Non serve colpire l’Isis unicamente in campo militare. Non serve rivendicare sterili
leadership su nuovi interventi. Serve far cessare lo stato di anarchia in cui prospera l’Isis.
Serve fare la cosa giusta.
del 02/02/16, pag. 8
Il sangue di Damasco sul tavolo
Siria. L'Isis attacca Damasco, la Turchia apre una base militare in Qatar,
la Russia colpisce Jaysh al-Islam (considerata opposizione legittima) e
gli Usa fanno visita ai kurdi di Kobane. Per questo il negoziato stenta a
partire: non ci sono basi comuni
Chiara Cruciati
Stragi dello Stato Islamico, la visita Usa alla Kobane esclusa dal negoziato, raid russi
contro i salafiti che volano a Ginevra, una nuova base turca in Qatar: le notizie dalla Siria
sono tasselli di un puzzle ogni giorno più chiaro, nell’apparente caos mediorientale. Un
puzzle che spiega le ragioni dello stallo del negoziato sponsorizzato dall’Onu, non
ufficialmente partito: ieri l’inviato de Mistura ha incontrato le opposizioni, rimandando il
meeting con il governo.
Il primo tassello è il sangue di 71 siriani, versato domenica a sud di Damasco, a pochi
passi dal sito religioso sciita Sayyida Zeinab, mausoleo che contiene le spoglie della
nipote di Maometto e figlia di Ali, capostipite dello sciismo. Luogo di pellegrinaggio per
milioni di sciiti e per questo protetto da milizie paramilitari e combattenti di Hezbollah, è il
target simbolico ideale per lo Stato Islamico, nel momento in cui in Svizzera si dovrebbe
discutere di pacificazione.
Il triplice attacco, rivendicato dagli uomini di al-Baghdadi, è reso più odioso dalle modalità
con cui è stato perpetrato: prima un’autobomba, poi due kamikaze saltati in aria mentre
venivano soccorsi i feriti. Le immagini che giungevano dalla capitale raccontavano
l’inferno: un enorme cratere aperto sulla strada, auto in fiamme, palazzi danneggiati e
anneriti dal fumo, 100 feriti che si trascinavano a terra.
Il messaggio inviato dal gruppo che controlla un terzo del paese è lapalissiano: il dialogo è
fine a se stesso se non affronterà la minaccia “califfato”, sul terreno vera opposizione al
governo di Damasco. Non servirà fino a quando non si impronterà il futuro governo di
transizione anche sulla lotta al nemico comune, l’estremismo dell’Isis.
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Il secondo tassello è il raid dell’aviazione russa che ieri ha distrutto le scorte di petrolio di
Jaysh al-Islam, gruppo salafita da dicembre entrato a far parte della federazione delle
opposizioni Hnc. L’Alto Comitato per i Negoziati, voluto dall’Arabia saudita (stretto alleato
di Jaysh al-Islam) e fondato dai moderati della Coalizione Nazionale, ha nella propria
delegazione il leader della milizia, Mohammed Alloush. Ieri Jaysh al-Islam ha fatto sapere
di aver inviato un proprio team a Ginevra, pronto a sedersi al tavolo.
Considerato gruppo terrorista da Damasco e Mosca, non è stato mai accettato come
partner per il dialogo. E il raid di ieri è un chiaro segnale del fronte guidato dalla Russia:
non ci sarà negoziato con il gruppo né con Ahrar al-Sham, milizia islamista alleata dei
qaedisti di al-Nusra. L’ennesima rottura in un dialogo già privo di basi comuni.
Il terzo tassello è la visita a Kobane di Brett McGurk, inviato speciale del presidente Usa
Obama per la coalizione anti-Isis. McGurk è arrivato domenica nella città simbolo della
resistenza kurda contro lo Stato Islamico e lì ha incontrato le Ypg, le Unità di difesa
popolare del Partito dell’Unione Democratica (Pyd). Un meeting volto a stemperare le
tensioni per l’esclusione dal negoziato di Ginevra del partito kurdo, dietro preciso diktat
della Turchia: «La visita serve agli sforzi dell’inviato speciale nel cercare modi per fare
pressioni sull’Isis», ha detto un funzionario Usa anonimo.
La vecchia strategia di un colpo al cerchio e una alla botte: i kurdi sono considerati validi
alleati nella lotta all’Isis, ma non abbastanza quando si tratta di dialogo con governo e
opposizioni, dove la Turchia ha ancora voce in merito. Se la simbolica visita a Kobane
riconosce la centralità militare dei kurdi, la loro esclusione dal dialogo ricorda che la lotta
all’Isis resta ai margini dell’interesse delle opposizioni e di chi delle opposizioni muove le
fila, Golfo e Turchia.
A reagire è l’intero spettro kurdo-arabo: ieri il Consiglio Democratico Siriano, nato a
dicembre dalla nuova compagine Forze Democratiche Siriane (alleate di Usa e Russia),
ha sospeso la propria partecipazione al negoziato, a cui era stato invitato dall’Onu, fino a
quando i delegati del Pyd non saranno fatti entrare.
Infine, l’ultimo tassello: la Turchia ha avviato la costruzione di una base militare per
l’aviazione e la marina in Qatar. La cooperazione militare tra i due paesi non è una novità
ed era stata cementata da una serie di accordi già la scorsa primavera. Ora diventa realtà
tangibile, in un momento in cui le tensioni da guerra fredda tra Nato e Russia sono
all’apice. La base servirà ai turchi – e di conseguenza al Patto Atlantico, che ha dato il
beneplacito alla costruzione insieme agli Usa – a partecipare a operazioni nel Mar Rosso
e nel Golfo, sfida aperta all’Iran e alla stessa Russia.
Che ieri ha indirettamente reagito pubblicando un video che mostra l’artiglieria pesante
turca bombardare il territorio siriano. Secondo la tv libanese al-Mayadeen, vicina ad
Hezbollah, è stato ucciso un soldato siriano in un’area in cui l’esercito governativo sta
compiendo operazioni in chiave anti-al Nusra. Il generale Konashenkov, portavoce del
Ministero della Difesa, ha chiesto alla Nato e al Pentagono «spiegazioni immediate».
Mosca ha poi confermato il dispiegamento di quattro Su-35 nel distretto nord di Latakia, a
fini di sorveglianza e distruzione delle postazioni terroriste. Una risposta alle notizie
pubblicate da media israeliani, secondo i quali il satellite di Tel Aviv Eros-B avrebbe
individuato nei mesi passati 30 aerei e alcune batterie di missili terra-aria in una base
militare di Latakia.
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Del 2/02/2016, pag. 13
Decine di missili e jet così la Russia combatte
in Siria
Latakia, le forze aeree “potenziate” nelle foto satellitari Via ai negoziati
di Ginevra. Aiuti umanitari a Madaya
VINCENZO NIGRO
I negoziati di pace sulla Siria «sono cominciati ufficialmente »: alle sette di sera, due ore
dopo l’inizio della prima riunione con l’opposizione siriana, quando l’inviato Onu ufficializza
l’inizio di questa maratona negoziale a tavoli separati, un processo diplomatico che
sembra ancora tutto da inventare.
Il mediatore Onu Staffan De Mistura dovrà faticare per trovare una strada. Perché la
notizia più minacciosa di ieri è che la Russia in Siria ha aumentato in maniera
impressionate il numero di cacciabombardieri, aerei intercettori, radar e missili antiaerei
schierati a difesa del regime di Bashar el Assad.
Un satellite israeliano ha fotografato la base militare di Latakia, città siriana affacciata sul
Mediterraneo non lontano dal confine con la Turchia. Secondo il dossier del
Fisher institute for air and space strategic studies di Herzliya, Israele, sulla pista di Latakia
ci sono almeno sei aerei Sukhoi-34, sette SU-24, nove SU-25 e quattro SU-30. Altri aerei
sono parcheggiati nell’area di “manutenzione”, un SU-34, un SU-25 e quattro SU-24.
D’altronde dopo il grave incidente dell’Su 24 abbattuto dai caccia turchi in novembre, Putin
non poteva non autorizzare un rafforzamento delle capacità di attacco ma anche di difesa
dello stormo: gli israeliani hanno fotografato anche batterie di missili S-400, ordigni che
sarebbero capaci di andare ad abbattere un jet turco ben dentro i confini della Turchia se
solo Erdogan si permettesse di ingaggiare di nuovo le forze russe. In serata da Mosca il
portavoce del ministero della Difesa Igor Konashenkov ha confermato una per una le
anticipazioni degli analisti israeliani, precisando che in un mese i piloti di Mosca hanno
volato in un mese 6.000 volte, e che adesso tutti i caccia sono scortati da intercettori pronti
ad abbattere aerei turchi che li minacciassero.
La capacità aerea messa in campo dalla Russia sta dando i suoi risultati, permettendo
all’esercito siriano e alle milizie sciite di Hezbollah di avanzare verso nord. Attorno ad
Aleppo i soldati di Assad ora controllano una collina strategica da cui possono colpire
l’unico accesso tra i ribelli che controllano la città e la frontiera turca.
L’evoluzione della battaglia sul terreno ha quindi effetto diretto sul negoziato di Ginevra
pace che non è neppure un “negoziato”, nel senso che le parti non si parlano direttamente
e fino a ieri avevano anche difficoltà perfino a parlare con De Mistura. Ieri comunque alle
17 la delegazione dell’opposizione è entrata per la prima volta al Palais des Nations, la
sede Onu, per vedere il rappresentante di Ban Ki Moon. È arrivato anche il
caponegoziatore, quel Mohammed Alloush che fa parte dell’integralista “Esercito
dell’Islam” che il governo di Damasco identifica come «gruppo terrorista».
A De Mistura l’opposizione ha consegnato una lista di 3.800 nomi di donne e bambini
detenuti nelle carceri di Damasco che vorrebbero fossero liberati. Hanno ripetuto le loro
richieste di interrompere gli assedi alle città, e forse su questa ultima richiesta potrebbe
esserci qualche novità. L’Onu ha infatti annunciato che il governo di Assad ha autorizzato
l’accesso dei convogli con gli aiuti umanitari alla città assediata di Madaya: lo ha
annunciato il portavoce dell’agenzia Onu per gli aiuti umanitari, Jens Laerke: «A Madaya e
simultaneamente a Kefraya e al-Foua», dove i ribelli farebbero entrare gli aiuti.
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Oggi invece è a Roma che si parlerà molto di Siria: John Kerry e Paolo Gentiloni guidano
una riunione del gruppo di paesi che combatte l’Is in Iraq e Siria e si prepara a farlo in
Libia. Il segretario di Stato americano e il ministro degli Esteri italiano hanno anche avuto
una colazione col ministro degli Esteri qatarino e con l’inviato Onu per la Libia, il
diplomatico tedesco Martin Kobler.
Del 2/02/2016, pag. 13
L’esercito israeliano circonda e blocca gli
accessi a Ramallah
ANP: “PUNIZIONE COLLETTIVA E ARBITRARIA”
GERUSALEMME.
L’esercito israeliano ha bloccato ieri a sorpresa gli accessi di Ramallah, la città palestinese
capitale politica dell’Anp. I militari hanno consentito l’ingresso solo ai residenti e
autorizzato l’uscita solo a funzionari di governo, pendolari in possesso di permessi di
lavoro in Israele e “casi umanitari”. Migliaia di persone sono rimaste così “prigioniere”.
Secondo i militari il provvedimento è dettato da motivi di sicurezza ed è a tempo. Poche
ore prima un uomo aveva sparato su alcuni militari ferendone tre e l’intelligence israeliana
indica un pericolo attentato originato a Ramallah. I palestinesi protestano: «Una punizione
collettiva e arbitraria».
del 02/02/16, pag. 9
Quelli che “no”, lo Stato di Palestina non si
può
Israele/Territori occupati. Ministri, deputati e rappresentanti dei coloni a
Eilat hanno tenuto finte primarie e, più di tutto, ribadito l'opposizione a
uno Stato palestinese. Intanto l'Esercito "chiude" Ramallah, la capitale
dell'Anp di Abu Mazen. Ucciso un altro palestinese. Avrebbe tentato di
entrare in una colonia armato di un coltello
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Mentre l’altro giorno il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, sulle pagine del New
York Times, ribadiva che i palestinesi hanno diritto a vedere realizzate le loro aspirazioni e
respingeva ancora una volta l’accusa rivoltagli da Benyamin Netanyahu di giustificare la
violenza, nel clima già primaverile di Eilat sul Mar Rosso era in corso la “Likudiada”.
Decine di membri del Likud — il partito israeliano di maggioranza relativa guidato dal
primo ministro — tra i quali ministri, deputati, attivisti, iscritti e, naturalmente,
rappresentanti dei coloni, si sono riuniti per tenere delle finte primarie e, più di tutto, per
ribadire il “no” alla nascita dello Stato di Palestina. La “Likudiada” non è stata una vacanza
fuori stagione nella principale località turistica di Israele mascherata con un evento politico
senza importanza. Tutt’altro. A Eilat si è riunita, in un clima da lavoro, quella parte del
Likud, stretta alleata dei nazionalisti religiosi di Casa Ebraica e del movimento dei coloni,
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che ai palestinesi non vuole restituire un bel nulla. Una parte sempre più forte che
respinge persino l’idea dello staterello palestinese (senza sovranità reale) alla quale si
aggrappano Unione europea e Stati Uniti, e che pensa sia giunta l’ora di annettere a
Israele la Cisgiordania o gran parte di essa. Tra i presenti alla “Likudiada” i ministri
dell’immigrazione Zeev Elkin, del turismo Yariv Levin, della cultura Miri Regev, dei trasporti
Haim Katz e anche lo speaker della Knesset Yuli Edelstein.
Il rifiuto di qualsiasi idea di restituzione territoriale ai palestinesi ormai trova consensi
sempre più vasti nel Likud e non solo tra la destra religiosa. Lo confermano peraltro le
promesse fatte da Netanyahu lo scorso marzo in campagna elettorale quando si proclamò
apertamente contro lo Stato di Palestina. E la parte più militante dei coloni israeliani, già
forte del sostegno aperto degli ultranazionalisti di Casa Ebraica, ora cerca di persuadere il
Likud a passare il Rubicone. Ad Eilat perciò non poteva mancare Nadia Matar, leader delle
“Donne in Verde”, una storica formazione di colone israeliane che dalla firma degli Accordi
di Oslo (1993) si batte contro qualsiasi ipotesi di restituzione ai palestinesi anche soltanto
di piccole porzioni di «Eretz Israel», la biblica Terra di Israele, e attacca con forza le
posizioni europee, americane e delle Nazioni Unite a favore dei “Due Stati”. Nadia Matar
alla “Likudiada” è andata a chiedere di fare di più e subito. «Non basta proclamarsi contro
uno Stato palestinese, occorre andare verso la proclamazione della piena sovranità
israeliana su Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr), perché tutta Eretz Yisrael ci
appartiene», ha detto Matar raccogliendo applausi e consensi. La leader delle “Donne in
Verde” e promotrice di “Iniziativa Sovranità”, come è chiamata la campagna per annettere
subito la Cisgiordania a Israele, sa che ci saranno «resistenze». Tuttavia, ha spiegato, «è
preferibile fare i conti con grandi difficoltà e problemi che suicidarsi accettando la nascita
di uno Stato palestinese».
Ban Ki-moon sul New York Times si è affannato a spiegare che la perdita di ogni speranza
da parte dei palestinesi di fronte alle politiche di Israele non può che generare una
reazione contro l’occupazione. Da parte loro le autorità israeliane ieri hanno dato una
dimostrazione della soluzione alla quale, evidentemente, pensano per la questione
palestinese. Grazie proprio agli Accordi di Oslo che hanno suddiviso la Cisgiordania in tre
aree distinte – A, B e C — l’esercito israeliano ha chiuso ogni accesso a Ramallah,
“capitale” dell’Anp di Abu Mazen, e ristretto i movimenti dei civili palestinesi in tutto quel
distretto. È la prima volta che avviene da diversi anni a questa parte e il provvedimento
ricorda l’imposizione, frequente durante la prima Intifada (1987–93), di “aree militari
chiuse” per isolare i centri abitati palestinesi in rivolta. La mossa, secondo il portavoce
militare, si basa su «ragioni operative». In realtà è una ritorsione per l’attacco compiuto
domenica da un agente della polizia palestinese, Amjad Sukkari, contro soldati israeliani al
posto di blocco nei pressi della colonia di Bet El. Ai funerali di Sukkari ieri a Nablus hanno
partecipato migliaia di persone, tra le quali centinaia di poliziotti. Ieri un giovane di 17 anni,
Ahmad Tuba, è stato ucciso vicino la colonia israeliana di Salit (Tulkarem). Secondo la
versione israeliana avrebbe tentato di entrare nell’insediamento con un coltello per
compiervi un attacco. Per i palestinesi invece non era armato e stava scavalcando la rete
per cercare un lavoro a giornata. Dallo scorso ottobre almeno 165 palestinesi sono stati
ammazzati per tentati attacchi e durante manifestazioni. Gli israeliani uccisi nello stesso
periodo sono almeno 25.
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Del 2/02/2016, pag. 12
Birmania. Il nuovo parlamento riunito nella capitale fantasma, tra militari
ed ex prigionieri politici
Aung San Suu Kyi e la “prima volta” della
democrazia
RAIMONDO BULTRINI
Una seduta storica del Parlamento come quella di ieri mattina poteva celebrarsi tra folle
giubilanti, nella vecchia Rangoon. Invece non c‘è anima viva attorno ai magnificenti palazzi
della nuova capitale birmana Naypydaw con i tetti a guglie costruita dai generali appena
10 anni fa. Né una piazza o un marciapiede sul quale incontrarsi. La Città dei Re non è
stata modellata sulle esigenze di un popolo che ha atteso questo giorno per decenni:
l’insediamento ufficiale dei 255 deputati della Lega nazionale per la democrazia che
saranno chiamati a formare per la prima volta un nuovo governo .
Anonimi pulmini li hanno prelevati al mattino dalle loro casette numerate dell’ostello
municipale dove alloggiano tutti i 330 parlamentari della Camera bassa giunti da 7 Stati, 7
Divisioni e 14 province del Paese. Tra questi pionieri del nuovo processo democratico 115
ex prigionieri politici. Uno di loro è il futuro portavoce del nuovo Parlamento, U Win Myint:
la sua nomina è avvenuta in un’aula silenziosa e composta, nell’enorme emiciclo dove
nessuno cammina se non per dovere di cerimoniale, accolta da un applauso di pochissimi
secondi scrosciato da tutti i banchi, compresi quelli dove siedono con le loro uniformi verdi
gli oltre 100 deputati-militari imposti d’ufficio dalla costituzione.
La sezione dell’Nld è la più vasta, colorata dell’arancione di abiti etnici e bandana scelti dal
partito per i suoi rappresentanti. In mezzo la sparuta compagine di 40 uomini in bianco del
partito pro-giunta, l’U-SDP, residuo del vecchio regime . Non a caso la vicepresidenza
della Camera bassa è andata proprio a un membro di questa formazione oggi minoritaria,
nel timore che l’esercito possa interrompere di nuovo — come nel 1990 — il sogno di
democrazia di 50 milioni di cittadini della Repubblica dell’Unione del Myanmar.
Aung San Suu Kyi,premio Nobel per la pace, ha assistito all’intera sessione con volto
attento e impassibile: seduta sul banco di prima fila di fronte al nuovo portavoce
personalmente scelto e fatto votare. Sarà ancora lei, entro un paio di settimane, a
sciogliere la riserva sul nome del prossimo presidente formale dell’Unione, da eleggere
alla fine del mandato di Thein Sein che scade il 31 marzo. Scelta delicata perché chiunque
accetterà l’incarico dovrà agire letteralmente come mero esecutore dei suoi ordini: uno
degli aspetti più surreali di questa nuova fase politica che prende forma, come previsto dai
generali nei loro piani di molti anni fa, nella città costruita da capo a piedi per imporre la
soggezione di un potere assoluto.
Aung San Suu Kyi è stata squalificata d’ufficio nella corsa alla presidenza da una norma
costituzionale appositamente promulgata per vietare, tra le altre cose, incarichi istituzionali
a chi sposa uno straniero come fece lei. In quanto leader del partito di una maggioranza
emersa l’8 novembre con l’80 per cento dei voti, la Nobel ha già pubblicamente rivendicato
il diritto di governare ben «aldisopra al presidente». Ma gli ex generali e i loro
rappresentanti le hanno ricordato anche in queste ore che i cambiamenti alla Costituzione
richiedono una maggioranza più vasta di quella dei suoi 255 deputati su 330.
Lo spauracchio usato dai nemici di Suu Kyi è lo stato interno dell’ordine pubblico, qualora
il popolo dovesse ribellarsi in caso di prolungata stagnazione economica come l’attuale e
nuove ingiustizie palesi verso le fasce più deboli. Senza contare i conflitti armati già in atto
negli Stati Kachin e Shan, o le pulizie etniche nell’Arakan contro gli islamici Rohingya (non
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c’è un musulmano tra i deputati). Norme costituzionali capestro scritte prima della svolta
democratica impongono infatti che i dicasteri degli Interni, della Difesa e delle Frontiere
restino a un militare, oltre alla gestione della potentissima GAD, l’Amministrazione centrale
dello Stato. Nonostante tutto Suu Kyi, con altrettanta pazienza dei suoi anni agli arresti, si
appresta a governare per procura col sogno di portare dalla sua parte perfino l’ala militare
del nuovo Parlamento, verso la quale ha dispensato anche nei giorni scorsi parole di stima
e collaborazione. Fuori dall’immenso complesso di edifici istituzionali isolato dal resto della
città da cancelli, recinzioni e viali cementati a perdita d’occhio, la vita scorre intanto con i
ritmi di una città ordinata dalla burocrazia. Senza il tempo e il modo per festeggiare il
giorno di nascita della democrazia.
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INTERNI
del 02/02/16, pag. 6
La polizia: Casa Pound «tutela i deboli»
Giustizia. Violenti solo se provocati dalla «sinistra radicale»,
secondo l’informativa del Ministero dell’Interno al Tribunale
civile di Roma. «Organizza manifestazioni nel rispetto delle
leggi e senza turbative dell’ordine pubblico»
Eleonora Martini
Leggere un rapporto della Polizia di Stato sull’organizzazione di estrema destra Casa
Pound Italia, è davvero istruttivo. Anche se, comprensibilmente, ha destato molte reazioni
di sconcerto l’informativa con la quale la Direzione centrale della Polizia di prevenzione (ex
Ucigos) descrive vita e attività dell’organizzazione, capeggiata da Gianluca Iannone, ai
magistrati del tribunale civile di Roma che ne hanno fatto richiesta per dirimere una causa
intentata dalla figlia di Ezra Pound sull’uso del nome del padre.
Secondo il documento trasmesso l’11 aprile 2015 dal ministero dell’Interno, che porta in
calce la firma del direttore centrale dell’ufficio, il prefetto Mario Papa, il «sodalizio» che
dichiaratamente sostiene «una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione
sociale del ventennio» «organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative
propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo a
illegalità e turbative dell’ordine pubblico».
La Polizia non nega l’uso («spesso») della violenza da parte di alcuni militanti
dell’associazione, soprattutto quando infiltrati «nel mondo delle tifoserie ultras calcistiche»,
ma solo «nei confronti di esponenti di opposta ideologia, anche fuori degli stadi».
D’altronde vengono provocati, sembra affermare il report quando spiega in ultima analisi
che «la sinistra radicale, in special modo gli ambienti autonomi e quelli anarcoinsurrezionalisti, sotto la spinta del cosiddetto “antifascismo militante”, non riconoscono a
Casa Pound e alle altre organizzazioni politiche di estrema destra il diritto “all’agibilità
politica” sull’assunto che debba impedirsi ai “fascisti” la fruibilità di ogni spazio cittadino,
con il conseguente frequente ripetersi di episodi di contrapposizione caratterizzati da
contenuti di violenza».
Dimentica però, la Polizia di Stato, che nel 2013 anche l’allora capo dello Stato Giorgio
Napolitano, commentando l’inchiesta «lame» della procura di Napoli aperta dopo diverse
aggressioni, che coinvolse alcuni esponenti di Casa Pound, si interrogava «con sgomento
sia sul circolare, tra giovani e giovanissimi, di una miserabile paccottiglia ideologica
apertamente neonazista, sia sul fondersi di violenze di diversa matrice, da quella del
fanatismo calcistico a quella del razzismo ancora una volta innanzitutto antiebraico».
Se lo ricorda invece Fabio Lavagno, deputato del Partito democratico, che ha depositato
ieri un’interrogazione al governo e sta «raccogliendo le firme necessarie per
un’interpellanza parlamentare in modo che il ministro dell’Interno possa riferire in aula a
Montecitorio su questa inquietante vicenda». «Va bene che il movimento di estrema destra
cerchi forme di legittimazione e visibilità continuamente, non da ultime l’adesione al Family
day e le manifestazioni comuni con la Lega di Salvini — scrive il deputato in una nota —
vedere però che questa descrizione stia nero su bianco in una nota della Polizia al
ministero dell’Interno risulta piuttosto inquietante». Soprattutto quando, aggiunge Lavagno,
«si descrive CasaPound come un’organizzazione di bravi ragazzi molto disciplinati, con
un’abile strategia linguistica che tende ad eufemizzare i passaggi più scomodi e la natura
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violenta di cui, come si è visto, è costellata la storia di CasaPound, quasi esclusivamente
all’ambito sportivo, luogo tra gli altri di proselitismo all’interno delle tifoserie ultras».
Per la Polizia di Stato, infatti, Casa Pound ha come «impegno primario» la «tutela delle
fasce deboli» ma rivolge la propria attenzione anche «alla lotta del precariato ed alla
difesa dell’occupazione attraverso l’appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze
occupazionali e le proteste contro la privatizzazione delle aziende pubbliche». E oltre alle
«numerose iniziative» intraprese «sotto l’aspetto meramente aggregativo e ludico», Casa
Pound ha trovato anche il modo di dedicarsi a «tematiche in passato predominio esclusivo
della contrapposta area politica» come «il «sovraffollamento delle carceri o la promozione
di campagne animaliste».
Ecco, il tribunale di Roma ora potrà serenamente giudicare se l’immagine e il nome di
Ezra Pound siano stati lesi dall’uso che ne ha fatto l’organizzazione, come sostiene la
figlia del poeta.
Del 2/02/2016, pag. 5
Milano, scontro a sinistra e voti da destra per
Sala
Balzani e Majorino si cancellano tra loro. Per l’uomo Expo ecco Verdini,
Cl e Opus
di Gianni Barbacetto
Ultima settimana prima delle “primarie più belle del mondo” (la definizione è del sindaco
uscente Giuliano Pisapia). Finalmente è caduto il velo d’ipocrisia che impacchettava i
quattro candidati e si comincia a capire le differenze reali tra loro. Non i programmi per la
città: saranno fatti dalla coalizione, che è la stessa per tutti (o almeno così dicono). Non le
idee da X Factor che ognuno tira fuori per stupire i telespettatori e che poi non saranno
realizzate (scoperchiare i Navigli, reddito garantito per i milanesi, tram gratis per tutti…).
C’è la politica, quella pesante, dietro i sorrisi, le belle frasi, le proposte immaginifiche, i
pugni chiusi dei magnifici quattro. E un tasso di personalismi, narcisismi e risentimenti che
renderebbe utile, per spiegare che cosa succede, più l’intervento di uno psicoanalista che
di un politologo. Nulla è come appare, nelle “primarie più belle del mondo”.
La scena è determinata dalla presenza in campo di Giuseppe Sala: il commissario di Expo
(lo è ancora) è stato voluto da Matteo Renzi, adottato dal Pd locale, sostenuto da ministri
venuti in pellegrinaggio a Milano (Maurizio Martina, Maria Elena Boschi, Graziano Delrio) e
spalleggiato da “esterni” come Denis Verdini (che ha detto chiaro: “A Milano voterei Sala”).
“È il Partito della Nazione in arrivo”, denuncia la candidata Francesca Balzani.
Una svolta radicale rispetto al Modello Milano incarnato da Pisapia: centrosinistra largo,
Pd unito con la sinistra e aperto ai contributi dei movimenti “civici” e dei senza-partito. Sala
nega: “Macché Partito della Nazione, non trascinate Milano nel teatrino caro solo a una
brutta politica”.
Intanto però pezzi di Comunione e liberazione si stanno organizzando per correre a votare
Sala alle primarie. E l’uomo Expo è sostenuto anche da esponenti dell’Opus Dei come
Pippo Garofano (ex Montedison) ed Ettore Gotti Tedeschi (ex Ior). Insomma, il perimetro
delle primarie – quelle che nel 2011 videro confrontarsi l’avvocato Giuliano Pisapia,
l’architetto Stefano Boeri e il costituzionalista Valerio Onida – è già saltato.
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Le cose diventano perfino più complicate quando si passa a decifrare le candidature di
Pierfrancesco Majorino e di Francesca Balzani (il quarto contendente, l’ottimo presidente
Uisp Antonio Iannetta, sa di essere marginale). Se in campo ci fosse uno solo dei due, la
partita contro Sala sarebbe quasi certamente vinta. Invece Majorino – che pure aveva
promesso che si sarebbe fatto da parte per favorire una candidatura unitaria “arancione” –
resta in lizza, animando una lotta fratricida.
Si è posizionato su un profilo molto sociale e molto di sinistra, con tanto di pugno chiuso a
favor di telecamera. Un profilo che galvanizza i fan, ma sarebbe perdente a Milano,
ribattono i sostenitori di Balzani, “che invece sa parlare a tutta la città e non solo ai
militanti”. Le due opposte tifoserie si scambiano cazzotti via Facebook. “Balzani non è di
Milano. Non conosce la città. È espressione dei salotti. È antipatica. Sembra una
maestrina. Non sa fare i conti. Sa fare solo i conti. È troppo remissiva. È troppo
aggressiva”. E così via.
E Majorino? C’è chi spiega il suo restare in campo con motivazioni tutte psicologiche,
desiderio di affermazione, sindrome del brutto anatroccolo: Pisapia non ha scelto me, ma
vi faccio vedere io chi sono. Altri giurano su motivazioni più politiche: il giovane assessore
aspira a diventare un punto di riferimento nazionale per le correnti di sinistra del Pd (è
sostenuto dai cuperliani, qualsiasi cosa voglia dire questa parola). Qualcuno arriva a
ipotizzare un lucido, cinico progetto: strappare voti a Balzani con il risultato di far vincere
Sala e così guadagnare crediti dai vertici del suo partito. “Ci sono due modi per far vincere
Sala: votare Sala, oppure votare Majorino”, dice sconsolato un sostenitore di Balzani.
“Infatti a sostenerlo ci sono esponenti del Pd che stanno con lui, ma come triangolazione
per far trionfare Sala”.
Nomi? Piddini di destra folgorati dalla sinistra di Majorino come l’europarlamentare Antonio
Panzeri, o l’ex segretario Cgil Onorio Rosati. “Ma no”, dice un politico milanese di lungo
corso, “Majorino dà per scontato che Sala vincerà e la sua partita è per arrivare secondo”.
Resta inossidabile, invece, Paolo Limonta, ombra di Pisapia nella campagna del 2011 e
oggi con Balzani: “Il popolo delle primarie vi stupirà. Scrivilo, questo sarà il risultato del 7
febbraio: prima Balzani, secondo Sala, terzo Majorino”.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Da Avvenire.it del 01/02/16
La mappa dei Comuni sciolti per mafia
Vincenzo R. Spagnolo
Le cosiddette "mafie in Comune" restano un'inquietante e minacciosa presenza nelle
amministrazioni locali del nostro Paese, soprattutto al Sud. Ma l'infiltrazione delle cosche
nei pubblici uffici, a caccia di favoritismi e appalti, si conferma un fenomeno pervasivo, non
solo nelle regioni d'origine di 'ndrangheta, cosa nostra, camorra e sacra corona unita.
Secondo una mappa della Penisola elaborata dall'associazione Avviso pubblico (che
unisce Comuni, Province e Regioni italiane nell'impegno antimafia e per la legalità) negli
ultimi 25 anni sono stati 267 (dal 1991 al 30 gennaio 2016) i decreti di scioglimento
emanati (22 dei quali sono stati successivamente annullati dai tribunali amministrativi).
I 267 decreti riguardano 209 amministrazioni locali (tra queste una Provincia e 5 ASL)
poiché alcuni Comuni hanno subito più di uno scioglimento. Questa ‘classifica’ è guidata
da 9 Comuni che hanno subito tre scioglimenti a testa: sono Casal di Principe (CE),
Casapesenna (CE), Grazzanise (CE), Melito di Porto Salvo (RC), Misilmeri (PA),
Roccaforte del Greco (RC), San Cipriano D’Aversa (CE), San Ferdinando (RC),
Taurianova (RC). Sono invece 40 i Comuni che hanno subito 2 scioglimenti.
A livello regionale, la poco confortante classifica è guidata dalla Campania (98), seguita da
Calabria (85) e Sicilia (66). In totale le 3 Regioni d'origine delle principali mafie raccolgono
il 93% degli scioglimenti. Completano l'elenco la Puglia (9), il Piemonte (3), la Liguria e il
Lazio (2), uno a testa per Basilicata e Lombardia. Sono in tutto 9 le Regioni interessate.
Spicca l’assenza di amministrazioni locali riguardanti il Nord-Est, mentre sono otto gli
scioglimenti che riguardano il Centro-Nord (meno del 3%).
Del 2/02/2016, pag. 18
“Appalti e riciclaggio l’economia d’Italia
condizionata dalle mafie”
L’allarme della Dia: record di infiltrazioni negli enti locali Le regioni del
centro-nord come terra di conquista
DARIO DEL PORTO
CONCHITA SANNINO
IL SANGUE non macchia i soldi. Dimenticate morti ammazzati e regolamenti di conti, le
mafie 2.0 seminano più tossine nell’economia che cadaveri nelle strade. Si alleano con «le
devianze» dell’apparato dello Stato. Inquinano il tessuto imprenditoriale e i ceti
professionali di intere aree del territorio, in Italia e sempre più all’estero, dove la
‘ndrangheta calabrese assurge al ruolo di «holding mondiale del crimine ». È capillare e
severa, l’ultima relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia. In 275 pagine,
si disegna lo scenario di organizzazioni criminali che assumono «la morfologia
caratteristica dei gruppi societari internazionali». Come se fossero multinazionali della
Silicon Valley. Attraverso una «capogruppo », che conserva quasi sempre il suo «centro
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decisionale» nelle regioni d’origine Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, le organizzazioni
mafiose «controllano e dirigono, secondo un disegno unitario, molteplici business criminali
sempre più interdipendenti ». Le mafie, racconta l’analisi coordinata dal direttore della Dia,
il generale Nunzio Ferla, sono sempre più in grado «di intessere profonde relazioni con la
zona grigia».
IL CANCRO NELL’ECONOMIA
La criminalità organizzata ha messo in piedi «un ciclo economico- criminale in grado di
alterare il corretto processo di sviluppo dell’economia nazionale ed estera». Ecco perché
sarebbe «miope limitare la percezione» di questo assedio «alle sole evidenze giudiziarie»:
il fenomeno è ben più «complesso» e «affonda le radici spesso anche nei gangli più
nascosti della pubblica amministrazione e dell’imprenditoria, con un intreccio profondo tra
mafia e corruzione che impone, a tutti i livelli istituzionali e della società civile, un impegno
sempre maggiore». Ogni mafia ha ormai esteso le proprie ramificazioni in altre regioni
d’Italia. Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, sono diventate terra di conquista, mentre si
affacciano altre figure criminali, diverse e autonome da quelle storiche. La Dia cita
l’inchiesta della Procura di Roma su Mafia capitale: una realtà che presenta «caratteri
originali, con genesi propriamente romana, non assimilabili a quelli delle consorterie
tradizionali ».
LA PISTA DEL DENARO
La Dia e il Nucleo di polizia valutaria della Finanza lavorano in stretto contatto con l’Unità
di informazione finanziaria della Banca d’Italia che segnala le operazioni sospette. Dallo
scorso maggio, sottolinea il generale Ferla a Repubblica, «con il nuovo protocollo d’intesa
siglato con la Procura nazionale guidata da Franco Roberti e grazie a un nuovo sistema
informatico, gli analisti della Dia possono verificare fino in fondo le segnalazioni». Nei primi
sei mesi del 2015, la Banca d’Italia ha inviato oltre 40 mila “comunicazioni”.
Dai controlli sono scaturite 132 mila operazioni sospette: bonifici, versamenti e prelievi in
contanti, prelievi allo sportello, bonifici esteri. Il maggior numero, 28 mila, in Lombardia.
Seguono Lazio (15 mila) e Campania (14 mila).
E poi ci sono gli appalti: nel primo semestre del 2015 la Dia ha effettuato 89 accessi a
cantieri in tutta Italia, 22 dei quali a opere collegate all’Expo di Milano. All’esito del
monitoraggio sono state emanate 78 informative interdittive, 8 delle quali per appalti
dell’Expo. Ma dal giugno 2009, quando sono iniziati i lavori per l’esposizione, i controlli
hanno portato complessivamente a 108 interdittive. La maggior parte di questi
provvedimenti ha riguardato imprese infiltrate dalla ‘ndrangheta e per il 60 per cento
aziende specializzate nel movimento terra.
L’IMPERO DELLE ‘NDRINE
Il traffico internazionale di cocaina è il core business della ‘ndrangheta. Ma già da un
pezzo le ‘ndrine hanno messo gli occhi e le mani sui grandi appalti. Non solo in Calabria. Il
9 gennaio 2015 il Tar del Lazio ha confermato lo scioglimento del Comune di Sedriano, in
provincia di Milano: il primo caso in Lombardia. I clan calabresi sono «in grado di intessere
profonde relazioni con la cosiddetta zona grigia, ossia con quell’area istituzionale
fortemente articolata dove operano, a vario titolo e responsabilità, accanto a soggetti
economici, siano essi vessati o collusi, anche devianze dell’apparato amministrativo e o
burocratico, statale e locale».
LA MORSA DI COSA NOSTRA
La mafia siciliana, ancora oggi, si fa forte di un «processo di infiltrazione negli apparati
dello Stato». Oltre alle attività illecite tradizionali, le cosche ricercano «l’acquisizione dei
consensi sia nel mondo dell’imprenditoria che delle pubbliche amministrazioni ». La Dia
sottolinea la «connaturata capacità» di Cosa nostra di creare «situazioni di opacità,
promuovendo un’opera di delegittimazione di quanti tentino di ostacolarla e attirando, allo
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stesso tempo, esponenti del sistema politico, economico e amministrativo». Una strategia
alla quale si aggiunge la corruzione, «anche di matrice non mafiosa ». Anche Cosa
Nostra, come già la camorra, ha messo le mani sull’affare dei rifiuti. Tra i settori da
monitorare, la Dia indica anche «i progetti legati allo sviluppo di fonti energetiche
alternative, l’emergenza ambientale e le attività ad alto contenuto tecnologico».
I BROKER DELLA CAMORRA
Pur frammentata in 110 clan, la camorra dispone di una «capacità di condizionamento
culturale delle fasce più deboli della popolazione», riuscendo spesso a «porsi come punto
di riferimento unitario e alternativo allo Stato». I clan hanno manifestato una «spiccata
vocazione ad infiltrarsi, anche fuori regione e all’estero, negli apparati economici e
finanziari », così da «atteggiarsi a soggetto economico in grado di operare sul mercato
legale per acquisire una posizione dominante, se non monopolistica, di attività
economiche». In alcuni settori, come i traffici di rifiuti, stupefacenti, armi, nella
contraffazione di documenti e banconote, i clan della camorra hanno dimostrato di saper
utilizzare «tecnologie all’avanguardia». Malavitosi, ma al passo con i tempi. La mafia 2.0
uccide e inquina, non solo d’estate.
Del 2/02/2016, pag. 13
L’avvocatone e il ministro: balletto sulla
prescrizione
Orlando promette ai magistrati che frenerà l’estinzione dei processi,
Ncd si impunta sulla corruzione. La legge in mano a D’Ascola, ex socio
di Ghedini
di Antonella Mascali
Dal primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio ai presidenti di Corti d’appello e
procuratori generali, all’inaugurazione dell’anno giudiziario è stato un coro unanime: la
riforma della prescrizione è imprescindibile, decine di migliaia di processi vanno al macero
ogni anno e l’ingiustizia è compiuta. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando si è
affrettato a dirsi d’accordo e con lui altri del Pd. Ma la nuova legge, approvata alla Camera
oltre 10 mesi fa, agonizza in commissione Giustizia al Senato e non si vede la luce.
Le barricate dell’Ncd di Angelino Alfano non si sono abbassate. Sono finite su un binario
morto le trattative del responsabile Giustizia del Pd David Ermini con gli uomini del
ministro dell’Interno: l’ormai ex viceministro della Giustizia Enrico Costa e Nico D’Ascola,
già avvocato di Claudio Scajola, già socio di studio , a Roma, di Niccolò Ghedini, diventato
pochi giorni fa il presidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama per i giochini
renziani che mirano a garantirsi i sì alle sue riforme.
L’ultimo tentativo di Ermini di convincere D’Ascola risale a un paio di settimane fa.
L’ennesimo buco nell’acqua. Alfano ha rassicurato Orlando: “La cosa si sistemerà”. Forse
adesso che i centristi si sono accaparrati un po’ di poltrone, tra cui quella di D’Ascola,
qualcosa si muoverà. Nei prossimi giorni, il Guardasigilli ha convocato D’Ascola e la sua
omologa alla Camera Donatella Ferranti, del Pd.
Per capire lo stato dell’arte bisogna tornare a fine marzo scorso quando alla Camera, con
l’astensione, tra gli altri, di Ncd, viene approvata la legge sulla prescrizione: blocco dopo la
condanna di primo grado, a patto che l’appello si compia entro due anni. Dopo il secondo
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grado, altro blocco per un anno entro il quale si deve concludere il processo in
Cassazione. Tempi di estinzione più lunghi per i reati di corruzione.
A maggio viene approvata la legge che innalza le pene per quei reati. Ma, sempre per la
corruzione, il combinato delle due norme fa arrivare la prescrizione per i reati di corruzione
a 21 anni e 9 mesi compresi i tre di pause giudiziarie (oggi sono 12 anni e mezzo). Alfano,
preoccupato di non irritare i colletti bianchi, assicura: al Senato siamo determinanti e la
legge verrà cambiata. Ma il Pd non può permettersi una marcia indietro a 360 gradi: la
maggioranza degli italiani e la quasi totalità del suo elettorato vuole certezza della pena
per i corrotti. Così fa una controproposta: scendere dai 21 anni e 9 mesi ai 18 anni e
mezzo di prescrizione.
Il Pd, inoltre, sempre per andare incontro all’Ncd fa una concessione che non è una
quisquilia: resta impossibile perseguire la corruzione se sono passati oltre 10 anni da
quando è stata commessa. Mentre i magistrati avrebbero preferito un semplice raddoppio
dei tempi di prescrizione ma un periodo più lungo per scoprirla.
Il falco D’Ascola, sentito al telefono, si trincera dietro il suo nuovo ruolo istituzionale: “La
prescrizione è all’ordine del giorno (mercoledì, ndr) ma come presidente non posso
esternare le mie opinioni. E poi ci mancherebbe che il mio partito debba giustificare le
proprie posizioni”. Poi ci liquida con un saluto, impossibile chiedergli se il suo studio
legale, per il quale si dice abbia rinunciato a un incarico di governo, annoveri clienti
interessati al tema corruzione. Quando ha difeso Scajola, accusato di aver favorito la
latitanza dell’ex parlamentare Amedeo Matacena, era anche il relatore in commissione del
ddl anticorruzione. Reati diversi, ha detto, dunque “nessun conflitto d’interesse”. E’ stato
anche l’avvocato di Gianpiero Tarantini, accusato a Bari di aver procurato escort a Silvio
Berlusconi.
del 02/02/16, pag. 13
La ’ndrangheta brucia gli scuolabus
Locri, quattordici mezzi distrutti dalle fiamme nel deposito di una ditta
di trasporti. Trovata una tanica. L’azienda aveva subito altri attentati a
scopo intimidatorio
Gaetano Mazzuca
locri (reggio calabria)
L’anziano titolare delle autolinee Federico piange guardando le carcasse fumanti dei 14
autobus della sua azienda. Un solo mezzo si è salvato dall’inferno in cui si è trasformato il
deposito della ditta a Locri. Il calore ha piegato le lamiere, squagliato vetri e pneumatici.
Praticamente metà della flotta è andata in fumo, l’azienda è in ginocchio e il futuro delle
famiglie dei 150 dipendenti è a rischio. Non è la prima volta che finisce nel mirino, ma il
colpo di domenica notte potrebbe mettere la parola fine agli oltre 80 anni di storia delle
autolinee Federico.
Pochi dubbi sull’origine dolosa del rogo, i carabinieri hanno rinvenuto una tanica con
tracce di benzina. L’allarme è scattato intorno all’una di notte. Ci sono volute tre squadre di
vigili del fuoco e oltre quattro di lavoro per poter domare l’incendio. Secondo quanto
ricostruito le fiamme sarebbero partite da un autobus e poi a catena si sarebbero
propagate agli altri parcheggiati vicino. Un domino terrificante. Il deposito è controllato da
alcune telecamere di sicurezza le cui immagini sono state già acquisite dai carabinieri. Ieri
mattina i titolari della ditta sono stati ascoltati dagli investigatori dell’Arma per capire se,
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prima dell’attentato, ci siano state richieste estorsive o minacce. Al momento nessuna
pista viene esclusa, ma l’episodio, date le devastanti modalità, sembra portare la firma dei
clan locali.
I PRECEDENTI
Quello della note scorsa non è il primo incendio subito dalla Federico. Nel febbraio 2013
sei autobus sono stati incendiati a Satriano, nel Catanzarese. Tre mesi più tardi, a Santa
Caterina dello Ionio un altro pullman è stato dato alle fiamme nel piazzale antistante la
stazione. Nel gennaio 2014 sempre a Santa Caterina altri due mezzi.
Gli autobus bruciati ieri notte erano quelli utilizzati per collegare la Locride con Catanzaro
e Cosenza. Ogni mattina viaggiavano carichi di studenti e pendolari. Da ieri il servizio è
sospeso e non si fanno previsioni su quando potrà essere riattivato. «Non so chi ci sia
dietro l’attentato, lo stabilirà la magistratura, ma quello che mi pare evidente - dice il
sindaco di Locri Giovanni Calabrese - è che ci stanno isolando. Hanno cancellato in una
notte l’unico collegamento tra la Locride, le altre città calabresi e il resto d’Italia».
In serata il prefetto di Reggio Calabria, Claudio Sammartino, ha avuto un primo colloquio
con l’amministratore della Federico spa. L’imprenditore parteciperà alla prossima riunione
del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica che avrà come tema
l’escalation di atti intimidatori in quel territorio. Per il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe
Falcomatà, «è in atto una strategia della tensione da parte della criminalità organizzata per
destabilizzare le istituzioni e infondere paura e insicurezza tra i cittadini. Di fronte a tutto
ciò è necessaria una reazione collettiva che deve investire tutti i settori della società».
Intanto, i membri calabresi della commissione parlamentare antimafia hanno annunciato
che a breve si terrà «una visita ispettiva per fare il punto su quanto sta accadendo nella
Locride e assumere le iniziative necessarie insieme ai rappresentanti delle forze
dell’ordine e della magistratura, alla Regione Calabria e agli amministratori locali».
del 02/02/16, pag. 4 (Roma)
«Gli appalti per le coop di Buzzi? Erano il tre
per cento di tutto»
Mafia Capitale: la difesa cerca di smontare l’accusa, sminuendo il giro
d’affari per le tangenti
É il giorno delle dichiarazioni spontanee nell’aula bunker. Dichiara Luca Gramazio.
Dichiara Franco Panzironi. E dichiara Salvatore Buzzi, per ripetere, in realtà, cose già
dette dal suo difensore, Alessandro Diddi.
Intanto è stata resa nota la sua busta paga: l’imprenditore delle cooperative sociali
guadagnava 9mila euro al mese. Netti. «La fonte è l’agenzia delle entrate», precisa il
capitano del Ros, Federica Carletti.
É il turno della difesa di Buzzi e nel controesame la Carletti si rivela inesperta di statuto e
fatturato delle coop. Dal numero dei soci della 29 giugno alla «democrazia interna» (il voto
in assemblea sulle decisioni) delle imprese, fino al metodo utilizzato per ripartire i
compensi ai soci e collaboratori. E quanto avrebbero fruttato gli appalti incriminati a Buzzi
e socio, Massimo Carminati, domanda la difesa di Buzzi? «Fatte le proporzioni - calcola lo
stesso Diddi - furono il 3 per cento di tutto». Il gioco è dimostrare che Mafia Capitale è un
castello di intercettazioni senza riscontri sul campo.
La Carletti precisa che il suo lavoro era «ricostruire la contabilità in nero destinata alle
tangenti non quella in chiaro».Intanto gli avvocati Luca Petrucci (difensore di Luca
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Odevaine) e Giulio Vasaturo (parte civile) prendono le distanze dal collega, Giosuè Naso,
che in altra udienza ha sbeffeggiato il giornalista Lirio Abbate («Lo chiamerei Delirio
Abbate») e dicono: «Solidarietà a un giornalista che vive sotto scorta».
Come annunciato Luca Gramazio prende la parola. L’ex capogruppo Pdl imputato di
associazione mafiosa si difende dall’accusa di aver veicolato stanziamenti durante il voto
sul bilancio della giunta Alemanno: «Quando un’amministrazione vota un bilancio che ha
l’ambizione di prevedere le spese, non solo tiene conto delle esigenze di tutti - ripeto, tutti
gli imprenditori - ma il suo ruolo è quello di camera di compensazione fra le loro esigenze
e quelle amministrative». La mano a Buzzi per i lavori nel campo rom di Castel
Romano?«Mai intervenuto per i rom in favore di Buzzi. Semmai io intervengo per farli
chiudere i campi...», taglia corto l’ex capogruppo Pdl. Le assunzioni caldeggiate? «Sono
molte di più le persone che ho segnalato di quelle effettivamente assunte.. Alcune sono
pure state licenziate». Soldi da Buzzi? «Mai ricevuto un euro, ho fatto solo il mio lavoro».
Nel corso dell’udienza parla anche la difesa di Franco Panzironi, ex tesoriere della Nuova
Italia di Gianni Alemanno, per dire che il suo rapporto con Buzzi era solo quello di un
tesoriere che accetta finanziamenti per il suo sindaco. Rapporti cordiali quelli fra il
fondatore delle cooperative sociali (area centrosinistra) e Gianni Alemanno: «I due si
davano del tu», conferma il capitano del Ros.
Il. Sa.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Da Avvenire del 02/02/16, pag. 9
Minori spariti, l’ombra del racket
Daniela Fassini
Diecimila bambini migranti scomparsi in Europa. È l’Europol a lanciare l’allarme: molti
minori non accompagnati, secondo l’agenzia di intellingence europea, sarebbero vittime di
un’intera "infrastruttura criminale" nata per sfruttare i flussi degli arrivi nel Vecchio
Continente di chi scappa dalla guerra e dalla fame.
Ma dietro a questi numeri, c’è anche il sospetto che possa nascondersi il terribile traffico di
organi. «Sono tanti e forti i sospetti che i bambini che arrivano in Italia e che scompaiono
siano vittime di un possibile traffico di organi» sostiene Foad Aoodi, presidente di Amsi,
l’Associazione dei medici stranieri in Italia. «Siamo molto preoccupati – aggiunge il medico
musulmano – perché in passato sono emersi gli stessi segnali in altri Paesi come Yemen,
Siria, Libia e Iraq. E oggi abbiamo i racconti delle persone che arrivano in Italia, quelle che
non hanno documenti e vengono da noi a curarsi. Noi come medici ascoltiamo le storie dei
nostri pazienti. Storie di violenza, di donne che vengono violentate per i trafficanti di
essere umani». «C’è un limite alla nostra dignità – conclude Foad Aoodi – non possiamo
continuare a ricevere segnalazioni di richieste di aiuto e non fare nulla. Le istituzioni
internazionali devono intervenire».
Sui terribili sospetti, però, monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della
Fondazione Migrantes, getta acqua sul fuoco. «La mancanza di corridoi umanitari ha
creato un traffico d’esseri umani dove i minori sono i soggetti più vulnerabili – ha detto
Perego – Da qui però dire che i minori sono tutti vittime di tratta è un allarme esagerato,
questo non significa che non bisogna prestare attenzione nella tutela dei soggetti più
deboli». Allo sbarco dei giovani migranti, secondo il prelato, bisognerebbe affidare loro un
tutore che li accompagni lungo il viaggio verso altri percorsi. «L’80% dei minori non
accompagnati – ha concluso mons. Perego – ha tra i 16 e i 17 anni. Le famiglie investono
su di loro perché essendo minori hanno possibilità e tutele maggiori nell’ essere accolti da
altri paesi». L’auspicio dei genitori è che possano così riuscire ad ottenere un permesso di
soggiorno per lavoro e mantenere la famiglia che vive in condizione di povertà nel paese
d’origine.
I dati Europol sui 10 mila minori migranti scomparsi, sono invece «fin troppo ottimistici»
per Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia. Sarebbero infatti 6mila (e non 5mila come
indicato dall’agenzia europea) i giovani in Italia dei quali «si sarebbero perse le tracce a
fronte di 12mila ingressi totali». Di questi 6mila, si ritiene che «circa 2mila» si siano
spostati in Nord Europa: sono soprattutto giovani eritrei, somali e siriani. Per gli altri non ci
sono notizie. È però risaputo, soprattutto in Italia e in Grecia, continua Iacomini, che
«avventurandosi fuori dai centri di accoglienza rischiano di finire nelle mani di sfruttatori».
Casi di caporalato, ad esempio o di sfruttamento sessuale.
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del 02/02/16, pag. 14
L’Italia di Falak e Hussein
Lui ha 6 anni, la sorellina 7 ed è malata di tumore: la loro famiglia è la
prima ad arrivare da noi con un corridoio umanitario
DALLA NOSTRA INVIATA
TRIPOLI (Libano) I n un mese di lezioni online, seguite dallo schermo di un cellulare,
Yasmine, la giovane mamma, ha imparato una gran quantità di parole italiane, che
pronuncia con sorprendente precisione. «Facile», sostiene. Il piccolo Hussein, 6 anni, sa
contare, incespica un po’ a partire dal quindici, ma apprende rapido anche lui. E alla
domanda: che cosa farai una volta a Roma? Risponde diligente: «Studierò la lingua».
La famiglia Al Hourani si sta impegnando, come può, a un viaggio che è anche l’unica
speranza: saranno i primi richiedenti asilo siriani — madre, padre e due figli — ad arrivare
in Italia attraverso un corridoio umanitario. Prima degli altri perché non hanno tempo: la
bambina, Falak, 7 anni, è molto malata. È stata già operata a un occhio, deve sottoporsi
urgentemente alla chemioterapia.
È tutto pronto. La Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche e la
Tavola Valdese hanno sottoscritto a dicembre il protocollo con Viminale e Farnesina. Un
progetto pilota che, se s’innesca adesso con gli Al Hourani, può funzionare
immediatamente per altre famiglie qui a Tripoli, nel Nord del Libano, e per 65 persone già
individuate (grazie all’associazione Papa Giovanni XXIII) nel campo profughi «spontaneo»
di Tel Abbaas, quasi al confine con la Siria. Maria Quinto, che da trent’anni si occupa di
migrazioni per Sant’Egidio, e Simone Scotta, inviato dai valdesi, sono sul territorio da un
mese per studiare i casi di «fragilità» (il criterio è questo) da mettere in lista: bambini,
anziani, donne sole, malati, disabili. Non soltanto siriani, e non solo dal Libano. Sunniti,
come gli Al Hourani, ma anche di altre religioni e nazionalità. La prima tranche calcola un
totale di mille visti umanitari in due anni, con una quota di partenze anche dal Marocco.
Spostamenti, alloggi e cure completamente finanziati dalle comunità religiose che
promuovono il piano, in particolare dall’8 per mille.
Se comincia ad aprirsi, il corridoio può poi spalancarsi al resto d’Europa. Con il
commissario Ue all’Immigrazione, Dimitri Avramopulos, è già fissato un incontro a marzo.
È l’unica alternativa agli scafisti, spiegano gli organizzatori, ai giubbotti salvagente riempiti
di segatura, ai gommoni che si ribaltano in un braccio di Egeo o a poche miglia dalla costa
della Sicilia. «È con la strage di Lampedusa (3 ottobre 2013, ndr) che abbiamo avuto
chiarissima l’assurdità insopportabile di queste morti in mare — racconta Maria Quinto,
responsabile del progetto —. Dei corridoi umanitari si parla molto, ma non avevamo
ancora trovato la chiave. Finché non abbiamo ristudiato la normativa e scovato la
possibilità per gli Stati di concedere visti umanitari a validità territoriale». Il vantaggio per il
Paese d’accoglienza è duplice: «Non spende un euro e può scegliere chi far entrare»,
perché il timbro finale non si ottiene senza controlli di sicurezza. A questa via, si potrebbe
poi affiancare il meccanismo della «sponsorship», continua Quinto, che funziona già col
Canada: uno sponsor — privato cittadino, associazione, chiesa, eccetera — si fa garante
dell’arrivo e del sostentamento del richiedente asilo.
Il punto adesso è che l’esperimento parta, assieme a Falak: la famiglia ha già lasciato le
impronte digitali in ambasciata a Beirut, compilando tutti i moduli, manca solo
l’autorizzazione finale da Roma. Appello al governo italiano perché acceleri: la piccola non
è in condizioni di aspettare, lo dicono anche i medici del Bambin Gesù che hanno
esaminato le sue cartelle cliniche e sono attrezzati per curarla.
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Per di più, il locale che papà Suliman ha recuperato in affitto dopo la fuga da Homs non è
una casa adatta a una bimba malata. Duecento euro al mese per pochi metri quadrati
aperti da una porta a vetri su una strada di rifiuti e carcasse d’auto. «Qui era economico»,
spiega Yasmine. Due poltrone, tre divani, un letto nascosto da un lenzuolo tirato come una
tenda. Un fornellino a gas. Una ragnatela di cavi elettrici pericolosamente in bilico, su cui
vigila Suliman che di lavoro aggiustava televisori e continua a farlo quando riesce.
Gli Al Hourani sono andati via da Homs due anni fa coi vestiti che avevano addosso, una
busta di documenti e nient’altro, sotto le bombe. Hanno varcato il confine a bordo di un
taxi e si sono fatti guidare dal passaparola per approdare ai piedi di quest’edificio dai muri
forati come un gruviera, lasciati in ricordo dalla guerra civile.
È una storia comune a un milione di profughi siriani che affollano il Libano, tra
accampamenti improvvisati, palazzi fatiscenti occupati e baracche in affitto. Simile a quella
della famiglia di Deia, 10 anni, che per i colpi di mortaio a Homs ha perso una gamba,
amputata malamente in un ambulatorio di fortuna. Subito dopo Falak, toccherà a lui
passare dal corridoio umanitario, e potrà mettere una protesi. In quattro anni di esperienza
per le strade sbilenche di Tripoli, con le sue stampelle quasi corre, ma anche lui attende
con ansia la partenza. Alla domanda «come immagini l’Italia, che cosa ti aspetti?» sorride
timido e risponde: «La gamba» .
Alessandra Coppola
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WELFARE E SOCIETA’
Del 2/02/2016, pag. 24
Sale a 1,3 miliardi il fondo per i poveri
Reddito minimo permanente di 320 euro a 280 mila famiglie (un milione
di persone) che cresce a 400 euro per chi ha più di 2 figli. Renzi: primo
intervento organico in 70 anni. Poletti: indagine sul boom dei voucher
ROBERTO MANIA
Andrà inizialmente a 280 mila famiglie il sostegno al reddito di 320 euro in media previsto
dal piano del governo per la lotta alla povertà. La nuova misura («avrà carattere
permanente», ha precisato ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che ha anche
annunciato una verifica a tappeto sul boom dei voucher) punta a sostenere le famiglie,
soprattutto quelle con minori, e non i singoli soggetti. In sostanza si ipotizza un
trasferimento di 80 euro a persona che diventano, appunto, 320 per un nucleo familiare di
quattro componenti. Il sussidio, per la prima volta a carattere nazionale, potrà crescere
fino a 400 euro per le famiglie con tre o più figli. Considerando una media di circa due figli
a famiglia il sussidio interesserà più o meno un milione di individui poveri. Prima che
possano essere coinvolti i quattro milioni di poveri assoluti ci vorrà quasi un decennio, a
meno di accelerazioni nel reperimento delle risorse. Si stima che l’introduzione di un
reddito minimo richiederebbe un finanziamento non inferiore a 7 miliardi. Per ora il
governo ha a disposizione 600 milioni stanziati con l’ultima legge di stabilità, ai quali vanno
aggiunti altri 750 milioni del fondo per il sostegno per l’inclusione attiva (Sia). In tutto 1,3
miliardi. Secondo i tecnici del governo le prime erogazioni potranno arrivare nella seconda
parte di quest’anno. Nel 2017 i 600 milioni previsti nella Stabilità saliranno a un miliardo. «I
soldi che mettiamo — ha detto Poletti — arrivano dalle tasse e noi li redistribuiamo; i
cittadini pagano per sostenere altri cittadini in difficoltà». Questo per dire che il riordino
delle prestazioni per i poveri (previsto dal disegno di legge) non servirà — come temono i
sindacati — per fare cassa.
Le famiglie — in attesa che l’intervento possa estendersi a tutta la platea dei 4 milioni di
poveri assoluti — verranno selezionate in base a diversi criteri: un Isee (l’indicatore del
proprio reddito) inferiore a tremila euro l’anno, i figli a carico, la presenza di un disabile,
madre single, presenza di disoccupati. Nella prima fase saranno scelte le famiglie con
minori a carico. Nelle 280 mila famiglie ci sono circa 550 mila minori. L’obiettivo finale è di
coinvolgere tutte le 500 mila famiglie con oltre un milione di minori per un costo che
dovrebbe raggiungere i due miliardi di euro l’anno.
L’azione del governo («è la prima volta in 70 anni che l’Italia si dota di un provvedimento
organico di contrasto alla povertà», ha scritto il premier Matteo Renzi nella e-news inviata
ai sostenitori) si muove lungo due direzioni: da una parte l’erogazione del sussidio, molto
simile al reddito minimo che già esiste in tutti i Paesi europei con le sole eccezioni
dell’Italia e della Grecia; dall’altra il “patto” con la famiglia. Quest’ultima, infatti, dovrà
impegnarsi a rispettare il piano per l’inclusione sociale dei suoi membri, che si tradurrà,
per esempio, nell’accettare una proposta di lavoro congrua alle proprie caratteristiche
professionali, nel seguire corsi di formazione, nel mandare regolarmente a scuola i propri
figli, nell’effettuare le vaccinazioni considerate obbligatorie. In sostanza si riceve l’assegno
a condizione che si rispetti il progetto per l’inclusione. Il piano riguarderà anche gli stranieri
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“da lungo soggiornanti”, come si chiamano in burocratese coloro che hanno un permesso
di soggiorno da più di 5 anni.
Critiche al piano sono arrivate dalle opposizioni parlamentari (Sel e M5S che hanno
presentato le loro proposte per il reddito minimo). I sindacati, insieme all’Alleanza contro la
povertà, chiedono l’apertura di un confronto. Caritas e altre associazioni del terzo settore
ricordano che ancora troppe persone resteranno fuori dal sussidio.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
Del 2/02/2016, pag. 6
Il Pd tira dritto “Sulle unioni civili il voto finale
non sarà segreto”
Oggi test sulle pregiudiziali di costituzionalità Tra una settimana gli
emendamenti decisivi
GOFFREDO DE MARCHIS
A Palazzo Chigi sono sicuri che il voto finale sul disegno di legge Cirinnà avverrà in
maniera palese. Significa che anche il numero degli scrutini segreti sui singoli articoli sarà
limitato, chirurgico e non senza limiti come sperano gli avversari delle unioni civili per fare
uno scherzo al provvedimento e al governo. La sicurezza del premier spiega anche che
Matteo Renzi resta convinto dell’impianto della legge, che non ha fatto passi indietro
neanche dopo il Family day.
Certo, per chiedere il voto segreto sono sufficienti 20 senatori e il presidente del Senato
Piero Grasso valuta caso per caso quando è ammissibile. Grasso non ha ancora deciso
come regolarsi. Aspetta che il patto Pd-centrodestra vada oggi a buon fine. I dem
ritireranno il supercanguro (lo strumento che cancella tutti gli emendamenti) e la Lega i
suoi 5000 “cavilli” ostruzionistici. A quel punto diventerà chiaro quali sono le vere
modifiche che arriveranno in aula e quali toccano materie oggetto di possibili scrutini
segreti. Il Pd non rinuncia all’accordo traversale con i 5stelle. Il premier-segretario non
crede alle “provocazioni” del Nuovo centrodestra. Non ci sarà alcuna conseguenza sul
governo, un governo, fanno notare i renziani, in cui gli alfaniani hanno posti da ministro, da
vice ministro e da sottosegretari in numero ben superiore alla forza elettorale che
esprimono. Davvero metterebbero in crisi un esecutivo in cui sono così ben rappresentati?
Il rimpasto dunque si conferma in una delle sue interpretazioni: è stato fatto alla vigilia
della discussione delle unioni civili come una garanzia per evitare effetti sulla
maggioranza, anche in caso di un patto con i grillini.
La reazione della Chiesa al Family day autorizza a immaginare un percorso meno duro del
previsto a Palazzo Madama. Nelle stanze di Palazzo Chigi si rileggono due interventi di
monsignor Galantino sulla materia. Che ricalcano naturalmente la posizione della Chiesa
sui figli ma senza toni interventisti. E si sottolinea il passaggio di un discorso del segretario
della Cei al festival della Dottrina sociale dello scorso novembre nel quale diceva:
«Occorre fare una netta differenza tra i cattolici validissimi impegnati in politica e quelli che
si dichiarano tali ma lavorano solo per spolverare lo scranno a Palazzo Madama: non sono
al servizio delle persone ma se ne servono». Un messaggio rivolto proprio al ramo del
Parlamento che esamina il ddl Cirinnà.
Oggi comincia la partita, ma si entra nel vivo martedì della prossima settimana. Dal
pomeriggio si votano le pregiudiziali di costituzionalità a scrutinio palese e avremo
un’indicazione dei numeri in campo, almeno sulla carta. Maurizio Gasparri e Gaetano
Quagliariello chiedono il ritorno del provvedimento in commissione: «Va riesaminato,
soprattutto alla luce delle richieste del Family day. È un testo frettoloso che dobbiamo
riscrivere ». Verrano votate oggi anche questo tipo di eccezioni e saranno respinte. I primi
giorni dopo questi passaggi serviranno per la discussione generale del ddl e degli
emendamenti, ma solo martedì cominceranno i voti caldi. Eliminando tutti i riferimenti al
matrimonio e all’articolo 29 della Costituzione, il Pd pensa di poter evitare il grosso dei voti
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segreti. Ma sicuramente l’articolo 3 (diritti e doveri della coppia) e l’articolo 5 sull’adozione
del figliastro dovranno superare gli eventuali agguati nel segreto dell’urna. E solo quanto la
legge avrà una cornice chiara, Grasso deciderà se non tocca anche gli articoli 30 e 31
della Carta (quelli sui figli) e se il voto finale può essere a scrutinio palese.
Solo quando la legge avrà una cornice chiara, Grasso dirà se il pronunciamento finale
potrà essere palese.
Del 2/02/2016, pag. 4
I cattolici sempre meno decisivi. Ma ora
rischia M5S
Salvatore Borghese e Andrea Piazza*
Nelle ultime settimane la politica si è divisa sul ddl Cirinnà che disciplina le unioni civili: i
maggiori partiti sono divisi al proprio interno, i vescovi hanno fatto sentire la propria voce e
sabato c’è stato il Family Day. Il rapporto tra cattolici e politica in Italia è da sempre un
argomento sensibile. Durante la Prima Repubblica il voto cattolico era molto rilevante e i
credenti potevano identificarsi facilmente nelle posizioni espresse dalla Democrazia
cristiana.
Come ci mostra il grafico, fino a Tangentopoli i partiti di centrodestra raccoglievano più del
70% dei voti dei praticanti assidui, mentre assai inferiore era il loro consenso fra i
praticanti saltuari e i non praticanti (dati a cura di Marco Maraffi, in Votare in Italia: 19682008, a cura di Bellucci e Segatti). Con la Seconda Repubblica cambia radicalmente il
sistema politico, ma gli elettori cattolici rimangono in maggioranza fedeli ai partiti di
centrodestra. Dal ’94 in poi il consenso del centrodestra fra i praticanti assidui (ma anche
saltuari) è anzi in aumento.
Nel grafico abbiamo introdotto anche due stime sul voto dei fedeli per le Politiche 2013
(dati ITANES) e per le Europee 2014 (sondaggio post voto di Ipsos). Muta lo scenario: per
la prima volta i partiti di centrodestra non riescono più a raccogliere la maggioranza dei
suffragi fra i praticanti più assidui. Qualche avvisaglia si era avuta già a fine 2012, quando
secondo Demos solo il 17% dei cattolici praticanti indicava un governo di centrodestra
come esito preferito: più graditi erano il governo tecnico in carica (35%) o una grande
coalizione (23%). Nella disaffezione dei credenti verso il centrodestra si inseriscono le
performance elettorali del Movimento 5 Stelle: nel 2013 lo votano il 24,3% dei cattolici
praticanti e nel 2014 il 12,9%. Parallelamente, anche il Pd riceve il consenso di un maggior
numero di cattolici: dal 25,4% del 2013 fino al notevole 43,3% del 2014. Possiamo
affermare quindi che ad oggi l’elettorato praticante sia presente in tutti i partiti. A conferma
di ciò abbiamo un altro sondaggio Demos dello scorso settembre, secondo cui hanno
fiducia nella Chiesa il 63% degli elettori di Forza Italia, il 49% degli elettori Pd, il 44% degli
elettori M5S e il 43% degli elettori della Lega Nord.
La pratica religiosa però non esaurisce il tema del rapporto tra religione e politica.
Parlando di diritti civili entra in gioco il fenomeno della secolarizzazione, cioè il progressivo
allontanamento da usi e costumi tradizionali, che Roberto Cartocci (Università di Bologna)
ha misurato attraverso un indicatore costituito da vari fattori, tra cui percentuale di
matrimoni religiosi, destinazione dell’8×1000 e frequenza scolastica all’ora di religione. Ne
esce una mappa delle 110 province italiane, con le regioni dell’Italia centrale che si
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rivelano le più secolarizzate e con il Centro-Sud con un più basso livello di
secolarizzazione. Incrociando questa mappa con quella delle zone di forza dei partiti,
scopriamo cose interessanti. Prendendo in considerazione le 27 province dove ciascun
partito ottiene i suoi migliori risultati, scopriamo che nel 2014 il Pd nel 2014 ha ottenuto più
del 45% in 22 province ad alta secolarizzazione, ma risultati equivalenti solo in 5 a media
secolarizzazione. Forza Italia al contrario ottiene i suoi migliori piazzamenti in 26 province
“tradizionaliste”, mentre solo una è a media secolarizzazione. L’M5S presenta una
distribuzione simile: 20 delle sue roccaforti provinciali sono in zone a bassa
secolarizzazione, 6 a livello medio e solo una (Rimini) in aree dove la fede orienta di meno
i comportamenti sociali. Come leggere questi dati? Il M5S ha un elettorato che si è
progressivamente meridionalizzato, ed infatti le regioni del Sud sono quelle meno
secolarizzate. Bisognerà capire se la posizione laica adottata dal partito di Grillo in
Parlamento rispecchierà in modo soddisfacente i suoi territori di forza, che sono fra quelli
dove la fede incide in modo più significativo. Di converso, il Pd ha un sostegno diffuso e
radicato in zone a bassa tensione religiosa, le “regioni rosse” appunto. È proprio il partito
di Renzi il primo promotore del ddl sulle unioni civili, ma un’eventuale bocciatura in Senato
potrebbe avere conseguenze negative sul consenso al partito al governo.
*You Trend
del 02/02/16, pag. 3
I libri dello scandalo nella scuola: educano
alle differenze contro il bullismo e la violenza
di genere
Un altro genere di paese. Interviste a Monica Pasquino e Camilla
Seibezzi, protagoniste dei movimenti che contrastano la violenza di
genere e il bullismo omofobico nelle scuole. Contro il loro lavoro per
un'istruzione laica e pubblica e una nuova cultura dei diritti, l'offensiva
reazionaria della Cei, del Vaticano e delle destre sulla fantomatica
"ideologia del gender"
Roberto Ciccarelli
L’ educazione alle differenze e la lotta al bullismo omofobico nelle scuole posticipata in
seconda serata su Raitre fa discutere. A cominciare da una delle protagoniste
dell’inchiesta di Presa Diretta, la trasmissione di Riccardo Iacona. Per Monica Pasquino,
presidente di Scosse,«il programma, per i suoi temi, poteva essere mandato in onda in
prima serata. Sarebbe stata un’utilissima introduzione per le famiglie su temi di
fondamentale importanza per la vita dei figli – afferma – Invece è stato considerato
pericoloso non si sa bene per quale pubblico. Siamo contente che Iacona abbia preso le
distanze da quanto avvenuto. Credo sia importante fare informazione meno ideologica su
questi temi. È un passo avanti per aprire un dialogo con tutte le famiglie anche con quelle
del “Family day”, vittime di una campagna di disinformazione».
Scosse, una delle 250 associazioni promotrici della rete «Educare alle differenze», ha
prodotto anche libri e albi illustrati – «leggere contro gli stereotipi» — per le maestre che
lavorano con i bambini. Attaccata dalle gerarchie Vaticane e dalla Cei, in quanto
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sostenitrice di una fantomatica «ideologia del gender», è diventata uno dei soggetti
all’avanguardia nella lotta per una scuola pubblica e laica.
«Questi strumenti servono a far crescere la consapevolezza della sessualità nelle
maestre, nei genitori e soprattutto tra i minori e gli adolescenti – continua Pasquino – In
Italia un ragazzo su tre tra gli 11 e i 19 anni è vittima di bullismo; diffusa è la prassi della
“baby doccia”, ragazze che offrono sesso orale nei bagni della scuola in cambio di beni
materiali o per acquisire potere nel gruppo; aumenta la contraccezione di emergenza
perché i primi rapporti sessuali avvengono senza preservativo. Davanti a questi problemi
non ci si può rifugiare evocando assurde teorie. La scuola deve fornire strumenti per
invitare gli studenti all’autonomia». Per sostenere questa prospettiva, Scosse ha
presentato due ordini del giorno sull’educazione alle differenze e al pluralismo democratico
nella scuola, fatti propri da decine di amministrazioni e consigli comunali.
Camilla Seibezzi, attivista dei diritti civili ed ex delegata anti-discriminazioni del comune di
Venezia, ricorda la censura subìta dall’attuale sindaco Brugnano che ha bandito dalle
biblioteche comunali 49 titoli contro il razzismo e la discriminazione sessuale da lei
promossi nell’ambito dell’iniziativa «Leggere senza stereotipi». Il bilancio di quella battaglia
è «positivo». Analoghe iniziative sono state prese in centinaia di città; l’associazione dei
bibliotecari ha preso posizione, come i sindacati della scuola, mentre 300 scrittori hanno
chiesto la rimozione dei loro libri dalle biblioteche veneziane, in solidarietà.
«Lavoro dal 1997 sul bullismo nelle scuole – afferma Seibezzi – Considerate le dimensioni
del fenomeno, già allora ci si aspettava un intervento. Siamo nel 2016, oggi si sono
affermate nuove declinazioni come il cyber-bullismo, e ancora arranchiamo. Nessuno fa
niente, nonostante continuino i suicidi com’è successo qualche giorno fa in una scuola di
Pordenone».
Come si spiega questo tragico ritardo? «La causa è la straordinaria incapacità di
coniugare diritti civili e sociali – risponde Seibezzi – Si fa molta retorica sui fondi da
destinare alla ricerca o alla sicurezza nelle scuole. Ma la sicurezza viene intesa solo come
fondi per le strutture, non per proteggere o rendere consapevoli le persone». La partita, al
fondo, si gioca sul senso della scuola. «Dovrebbe essere il luogo della conoscenza e della
formazione, per eccellenza – continua Seibezzi – Se, per esempio, c’è un adolescente
omosessuale che cresce in una famiglia omofobica, la scuola dovrebbe aiutarlo come
roccaforte della laicità e luogo delle opportunità. Questo non significa mettersi contro le
famiglie, ma aiutarle a colmare le proprie lacune».
Questo dibattito è riemerso con prepotenza in coincidenza con l’inizio dell’iter
parlamentare del Ddl Cirinnà sulle unioni civili. «Io sono pienamente a favore del
matrimonio ugualitario e il Ddl Cirinnà non lo prevede – sostiene Seibezzi – Lasciare,
come ha fatto Renzi, libertà di coscienza ai deputati Pd sull’adozione co-parentale
[Stepchild adoption] è inaccettabile. Questo governo è politico, e non tecnico. Sulle
questioni etiche deve scegliere. Altrimenti si incorrerà nel paradosso di volere tutelare le
persone omosessuali e discriminare i bambini. È un concetto inaccettabile. Si vuole
formalizzare la discriminazione invece di eliminarla. Il parlamento non può restare
indifferente rispetto al bullismo, alla violenza. Devono prendersi le loro responsabilità,
invece di nascondersi dietro le diverse “sensibilità etiche”».
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del 02/02/16, pag. 4
Quelle sentenze che senza una legge hanno
già introdotto l’adozione per i gay
Soltanto a Roma si contano già una quindicina di verdetti del tribunale
facendo leva sulla legge 184, i giudici hanno esteso la portata della
norma
Ugo Magri
roma
Sulle unioni gay sono quasi tutti d’accordo, a destra e a sinistra, tanto che perfino un
tradizionalista come Buttiglione sarebbe pronto a sottoscrivere questa legge se in ballo
non fossero le adozioni. Ecco, appunto: lo scontro in Senato ormai riguarda solo ed
esclusivamente la «stepchild adoption»: cioè l’art. 5 della proposta Cirinnà che estende
alle coppie civilmente unite la possibilità di adottare il figlio del coniuge. Qui si andrà al
muro contro muro, e l’urlo delle piazze ha reso ancora più distanti le posizioni.
L’aspetto davvero paradossale è che le adozioni gay in Italia esistono già. A regolarle non
c’è ancora una legge della Repubblica, però i magistrati da tempo si regolano come se ci
fosse. A Roma, per esempio, si contano una quindicina di sentenze del tribunale dove al
partner (o alla partner) gay è stato consentito di adottare il figlio naturale dell’altro (o
dell’altra). Queste sentenze non sono spuntate dal nulla. Hanno fatto leva sulla cosiddetta
legge 184, che alla lettera b) dell’art. 44 permette di adottare il figlio del coniuge. I giudici
hanno esteso la portata di questa norma alle coppie di fatto, giocando d’anticipo (come al
solito) sul legislatore. Ma allora, a cosa servirebbe l’art. 5 della Cirinnà? A dare più
certezza, perché quello che a Roma viene deciso in chiave pro-gay potrebbe essere
contraddetto in un’altra parte d’Italia. Una volta introdotta la «stepchild adoption» si
userebbe ovunque lo stesso metro.
Non c’è stata finora, a quanto risulta, alcuna preclusione dei magistrati nemmeno per i
bimbi nati all’estero con la cosiddetta «gravidanza surrogata», altrimenti detta «utero in
affitto». Da noi questa pratica è vietata, ma la consentono negli Usa, in Canada e in
qualche altro Paese come l’India. L’Italia può condannare finché vuole, ma chi chiede di
aumentare le pene sa perfettamente che sarebbero «grida» manzoniane. E d’altra parte,
quando un genitore gay si presenta al confine con una creatura di cui risulta padre (con la
madre ignota), nessuno arriva a sostenere che gli andrebbe sottratto il bambino. Troppo
disumano e, soprattutto, troppo contrario all’interesse del minore. Gli avversari della
«stepchild adoption» ne prendono atto. E accusano che, proprio per questo motivo si
moltiplicheranno i casi di utero in affitto.
Va tuttavia sfatata una leggenda, secondo cui l’adozione sarebbe automatica e verrebbe
concessa a semplice richiesta della coppia gay. I fautori della legge lo escludono con
forza. L’ultima parola, spiegano, resterebbe al giudice. E se questo giudice non
riscontrasse le condizioni adatte, potrebbe dire di no alla coppia gay. Insomma, nella
versione finale del testo che verrà messa ai voti al Senato (corretta in base agli
emendamenti del senatore Lumia) c’è lo stesso metro di giudizio che oggi viene adottato
per le coppie etero. Il che induce qualche costituzionalista a storcere il naso, perché in
questo modo l’istituto del matrimonio e quello delle unioni civili verrebbero a rassomigliarsi
perfino troppo. Mentre la Consulta ha stabilito, nel 2010, che debbono restare ben distinti.
Altrimenti tanto varrebbe fare le nozze gay, e buonanotte.
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del 02/02/16, pag. 5
I dubbi dei costituzionalisti sulle adozioni
Pareri contrastanti: per tre ex presidenti della Consulta l’introduzione
della “stepchild adoption” rischia di equiparare le unioni al matrimonio.
Ma un appello firmato da centinaia di giuristi avverte: «I bambini non
possono essere ignorati»
Francesco Grignetti
Sarà una prima seduta infuocata, quella di oggi al Senato, dedicata alle unioni civili. La
discussione comincia con la cosiddette «pregiudiziali di costituzionalità». Con il che, come
sempre accade in questi casi, la Costituzione verrà tirata di qua e di là a seconda delle
convenienze politiche.
I partiti si tireranno contro le rispettive certezze come fossero sassi. Il primo a porsi dei
problemi è invece l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, che
ricorre a un gioco di parole: «Per una volta - dice - l’avere dovrebbe prevalere sull’essere.
Mi spiego: nel caso della “stepchild adoption” dev’essere prevalente il diritto del minore ad
avere dei genitori, piuttosto che il diritto di due adulti ad essere genitori. Il problema da
porsi è se la tutela di questo diritto primario può superare la regola generale che affida la
genitorialità esclusivamente a una coppia eterosessuale».
Il professor Flick, giurista della sinistra cattolica, già ministro della Giustizia con Romano
Prodi, non si nasconde che ci sono casi delicati in cui l’interesse del minore è di avere due
genitori anche dello stesso sesso, ma ritiene che sia sufficiente l’attuale legge sulle
adozioni. Non è forse già successo che un tribunale abbia valutato il caso e abbia
concesso l’adozione a un partner omosessuale? «Per l’appunto, però, ci si pone sul piano
dell’interesse del minore e non dell’uguaglianza con l’istituto del matrimonio. Perché voglio
essere chiaro: la Costituzione e la Corte costituzionale con la sua sentenza del 2010
stabiliscono che questa uguaglianza non c’è. E se qualcuno vuole usare la “stepchild”
come scorciatoia per affermare l’uguaglianza, ebbene vedo seri problemi di
costituzionalità».
La pensa allo stesso modo un altro ex presidente della Corte costituzionale quale Ugo De
Siervo. «Diciamocelo chiaramente: con la “stepchild adoption” si concede il diritto a un
padre naturale di estendere la genitorialità a chi desidera lui. Non vedo proprio la tutela di
un diritto del bambino. Ci potrà poi essere qualche caso limite. Ma non si legifera mai per i
casi limite, quanto per i casi ordinari. E qui, di ordinario, vedo piuttosto l’aspirazione di
qualcuno a utilizzare la maternità surrogata nascondendosi dietro il presunto interesse del
bambino».
Il presidente emerito De Siervo era parte del collegio della Corte costituzionale che nel
2010 emise la importantissima sentenza 138 sulla necessità di tutelare le coppie gay. «Ma
quella sentenza era tutt’altra cosa rispetto a quello che sta venendo fuori. Credo che si stia
facendo una forzatura notevole».
Anche Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte costituzionale, di area cattolica, non per
caso consigliere generale presso lo Stato della Città del Vaticano, è assolutamente
contrario al ddl Cirinnà. Pure nella versione emendata dal senatore Beppe Lumia. «Penso
che il legislatore dovrebbe fare un’operazione più fantasiosa. Non può limitarsi alla
fotocopia del matrimonio, altrimenti rischia l’incostituzionalità. La Corte costituzionale ha
sancito che il matrimonio è quello stabilito dalla Costituzione tra un uomo e una donna.
Una unione civile tra due gay, qualora sia una realtà affettiva e solidaristica che merita una
disciplina specifica, dovrebbe avere norme specifiche, per l’appunto».
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Sull’adozione del figlio del partner, Mirabelli pensa anch’egli che l’attuale legge sulle
adozioni sia più che sufficiente. «Se il problema è la preoccupazione di un padre naturale
per il figlio, c’è sempre la delega al partner oppure la via dell’adozione speciale. Non
questa legge che, così com’è prefigurata, consente a una persona di “procurarsi” un figlio
all’estero e poi estendere la genitorialità al partner, diventando un’autostrada per
l’illegalità».
Sì, ma se questo bambino è venuto al mondo, sia pure per via illegale, a quel punto che si
fa? «Ci vorrebbe, anche qui, fantasia e appropriatezza», risponde Mirabelli. «Si tratta di
valutare l’interesse del minore e io credo che al fondo la sede delle unioni civili sia
sbagliata, in quanto tradisce piuttosto l’interesse degli adulti».
Chi invece si pone il problema dei bimbi ormai nati è un appello di giuristi - ormai 667 tra
magistrati, avvocati e professori di diritto - che vede tra i firmatari Magistratura
democratica e alcune personalità illustri quali Livio Pepino, Vladimiro Zagrebelsky, Elena
Paciotti, Stefano Rodotà, Edmondo Bruti Liberati. «Queste bambine e questi bambini scrivono - esistono. Il Legislatore non può cancellarli, non può voltarsi dall’altra parte,
ignorandone le esigenze di protezione. La giurisprudenza italiana ed europea segnala
come la scelta più ragionevole e giuridicamente corretta consista nel consentire ai giudici
di valutare caso per caso se l’adozione da parte del partner assicuri la migliore protezione
dell’interesse superiore dei figli di genitori omosessuali».
Il professor Stefano Ceccanti, costituzionalista e ex parlamentare Pd, è convintissimo che
il ddl, com’è stato riscritto, a questo punto non corre rischi d’incostituzionalità.
«Francamente non riesco a vedere problemi. È caduto ogni riferimento indiretto al
matrimonio. Capisco poi la discussione sull’opportunità della “stepchild adoption”e nel
merito ciascuno può pensarla come si vuole. Ma non si dica che è un’equiparazione di
diritti con il matrimonio. Fosse stata prevista la possibilità di un’adozione tout court a una
coppia gay... Invece questo è un regime differenziato che attiene a un caso specifico».
Del 2/02/2016, pag. 1-26
LONDRA DICE SÌ, GLI SCIENZIATI SI DIVIDONO
“Embrioni umani modificati” L’ultima
frontiera della genetica
ELENA CATTANEO*
CRISPR-CAS9, queste poche lettere hanno aperto un mondo nella storia della ricerca
biomedica. Nove lettere e un numero che rappresentano una rivoluzione. Un metodo che
consente di riscrivere, correggendole, alcune lettere del nostro genoma. Una tecnologia
semplice ed economica che apre oggi possibilità di ricerca enormi e chissà, un domani, se
e quali prospettive di intervento medico.
ERA solo questione di tempo, quando si è scienziati e si viene in possesso della chiave in
grado di aprire una porta che si riteneva chiusa è doveroso farlo. Se si tratta di embrioni
umani lo si deve fare con tutte le avvertenze e cautele del caso, secondo procedure e
ipotesi scientifiche controllate e validate.
In Inghilterra non si scherza su questi argomenti (e con la loro coerenza) e queste
questioni vengono affrontate da un’autorità specializzata su aspetti di fertilizzazione e
embriologia (l’Hfea) che è anche competente a valutare i presupposti e le condizioni dei
singoli progetti di ricerca sul tema. In Inghilterra c’è anche una legge razionale che
consente le ricerche sugli embrioni sovrannumerari, altrimenti buttati, che vengono invece
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donati per studiare e capire. Da oggi in Inghilterra c’è anche un’autorizzazione a
modificare il Dna di quegli embrioni sovrannumerari, a patto che questi non vengano
impiantati per dare il via a una gravidanza.
In Italia, con la lungimiranza dello struzzo, ci confrontiamo con norme che prevedono il
carcere per il ricercatore che si azzardi a derivare cellule staminali embrionali da embrioni
in vitro e sovrannumerari (le stesse cellule staminali embrionali che la legge ci permette
però di importare, per studiare con beneficio per tutti). Oltremanica si regolano le ipotesi
per favorire l’incremento della conoscenza di base, che è premessa di ogni nuovo
trattamento. In Italia rispondiamo con divieti e tintinnio di manette.
Nel merito, i colleghi inglesi del Francis Crick Institute, svolgeranno un esperimento che
dovrebbe coinvolgere, nella fase iniziale, 20-30 embrioni, per capire quali siano le ragioni
per cui ogni 100 ovuli fecondati, meno di 50 raggiungono lo stadio di blastocisti (strutture
di circa 200-300 cellule), mentre solo 13 arrivano al terzo mese. Cioè i colleghi vogliono
capire il perché di questo numero enorme di blastocisti-embrioni che la natura stessa
scarta e distrugge. Ebbene, per capire cosa determina ciò i ricercatori useranno proprio la
tecnica Crispr con cui si “disattiverà” un gene alla volta per capire quali sono quelli
fondamentali per lo sviluppo embrionale.
Le finalità sono quelle di capire cosa può portare a miglioramenti nella fecondazione
assistita, oltre a farci capire di più dei primissimi stadi dello sviluppo. Ovviamente un
miglioramento della probabilità di successo delle tecniche di fecondazione, potrebbe voler
dire meno cicli di stimolazione ormonale per le donne che vi si sottopongono, meno
sofferenze, meno speranze frustrate e, magari, nuovi nati. Chi ha a cuore la nascita di
bambini, il formarsi di nuove famiglie — qualsiasi esse siano — dovrebbe felicitarsi di
queste ricerche.È giunta l’ora di non dare alcun credito a coloro, anche sedicenti
scienziati, che ad ogni piè sospinto gridano allo scandalo della “scienza irresponsabile”
che mirerebbe alla creazione del “bambino perfetto” (ben sapendo che non è questo
l’obiettivo, nemmeno nel caso dello studio inglese), baloccandosi della distruzione degli
embrioni. Farlo significa mentire o manipolare le informazioni veicolate ai cittadini italiani.
Come al solito alcuni lavorano per agitare spauracchi invece di accompagnare la scienza
e la società in un mutuo terreno di comprensione. Una ragione in più per regolare e non
vietare qui la buona scienza, perseguendo invece i ciarlatani non-scienziati che
promettono cure miracolose approfittando della necessità di speranze dei malati ai quattro
angoli del globo.
*Docente all’Università Statale di Milano e senatore a vita
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 02/02/16, pag. 6
Leoncavallo, appello per una primavera in
movimento
Movimenti. Assemblea per il diritto alla città. L’agenda: costruire
laboratori municipali, le lotte dei migranti, i diritti dei freelance
Creare «una coalizione per i beni comuni e il diritto alla città» da Milano a Bologna e
Roma, da Napoli a Reggio Emilia. Istituire o consolidare «laboratori municipali che stanno
ri-connettendo pezzi di società in nuove coalizioni». Partecipare a una giornata di iniziativa
e lotta, prevista martedì primo marzo, e rivolta «all’organizzazione del conflitto del lavoro
migrante». Alimentare i nuovi processi di sindacalizzazione del lavoro, appoggiando le
sperimentazioni del sindacalismo sociale e quelli dei lavoratori precari, autonomi e
indipendenti (appartenenti agli ordini professionali e non) impegnati nella scrittura di un
vero statuto universale dei lavori «che implichi anche misure finalizzate all’equità fiscale e
previdenziale».
Sono questi gli obiettivi dell’assemblea su «reddito, ecologia e democrazia» tenutasi al
centro sociale Leoncavallo nel fine settimana scorso. In un documento, intitolato «Per una
primavera in movimento» i movimenti e le associazioni che hanno risposto all’appello dello
storico centro milanese hanno declinato un’analisi sulla cittadinanza. «Il patrimonio
pubblico, i beni e i servizi dei nostri territori sono oggetto di un processo di svendita»
sostengono gli attivisti. In questa cornice, riflettori puntati sul ruolo della Cassa Depositi e
Prestiti.
L’alternativa sta nel valorizzare «una cooperazione sociale lavorativa e non» da
organizzare nei comuni, la base di un’idea di democrazia radicale e municipale,
sull’esempio di quanto sta accadendo in Spagna, ad esempio. L’esempio italiano più
ricorrente è stato il regolamento sugli usi civici approvato dalla giunta napoletana di De
Magistris a partire dall’esperienza di lotta condotta dall’ex Asilo Filangieri: un modello di
auto-organizzazione, giudicato come l’antidoto alla gestione commissariale della politica.
L’auspicio dell’assemblea è «connettere» e «federare» i «laboratori municipali» «per agire
insieme e proiettarsi in Europa». Si formula, inoltre, un «diritto del comune» «che conquisti
la moratoria di ogni atto di forza, siano gli sfratti di chi rivendica il diritto all’abitare, siano gli
sgomberi di chi ha aperto spazio sociali e culturali».
Un nuovo appuntamento, per approfondire i nodi tematici, è previsto per metà di aprile.
del 02/02/16, pag. 7
Nei movimenti tutte le strade portano a Bernie
Sanders
Primarie Usa. Occupy e Black Lives Matter, la sinistra Usa scende in
piazza e ha scelto il proprio candidato per la Casa bianca. La lotta
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all’«1%» non è più uno slogan per pochi «radical» ma è il vero punto
della campagna democratica
Marina Catucci
NEW YORK
Un matrimonio scritto in cielo, questo è l’incontro tra Bernie Sanders, il «socialista» in
corsa per la Casa Bianca e Occupy Wall Street, il movimento nato nel 2011 sui temi della
diseguaglianza sociale ed economica; OWS, che nel 2012 non aveva pubblicamente
sostenuto Obama (anche se di certo non ha remato contro), ora sta attivamente
collaborando all’ascesa di Sanders, che da parte sua ha abbracciato gli slogan del
movimento e non manca di citare «l’1%» in ogni comizio.
Sabato scorso a New York, città natale di Sanders, c’è stato un corteo di qualche migliaio
di persone dal percorso a dir poco simbolico: partenza da Union Square (la piazza del
sindacato) e arrivo a Zuccotti Park, da dove Occupy aveva cominciato. Nella piazza, che
non era così piena da tanto tempo, gli slogan di Occupy e a quelli sostegno di Sanders si
mischiano, anche perché sono stati creati dalle stesse persone.
OWS ha mostrato dal primo giorno la propria capacità di comunicazione, tratto distintivo di
un movimento che in pochissimo tempo ha acquisito un’identità immediatamente
riconoscibile e che ha marcato un prima e un dopo nelle modalità di protesta.
L’hashtag #FeelTheBern, che è diventato lo slogan della campagna di Sanders è opera
degli Occupier, e a Des Moines, in Iowa, l’ex quartier generale di Occupy è ora quello di
Sanders.
Ma com’è successo che un movimento che è sempre stato slegato dalla politica
istituzionale appoggi ora un candidato per la presidenza?
«Occupy resta un movimento leaderless, senza un capo, ma come ogni movimento è per
sua stessa natura in costante evoluzione – spiega Marcus, che nel 2011 era parte del
primo nucleo di Occupy Wall Street – con Sanders condividiamo l’idea che la disparità
economica causata da Wall Street porti un indotto di disparità sociali non più ignorabile, e
Sanders non potrebbe essere dove si trova oggi, staccato da Hillary Clinton di soli pochi
punti nei sondaggi, se Occupy cinque anni fa non avesse aiutato a focalizzare l’attenzione
degli americani sulle idee che sono ora al centro della sua campagna».
Un terreno preparato dal movimento, quindi, quello sul quale sta fiorendo Sanders.
In effetti fino all’occupazione di Zuccotti Park argomenti ora popolari e quasi luoghi comuni
erano narrativa per cellule di ultra radicali e non trovavano spazio altrove, mentre ora il
concetto che una piccolissima percentuale della popolazione fiorisca a scapito della
maggior parte della popolazione è una nozione comune e in pochi credono al modello
americano per cui se sei ricco è merito tuo e se sei povero è solo colpa tua, perché tutti
hanno pari possibilità.
Gli Stati Uniti sono cambiati.
Il termine «socialista», che solo dieci anni fa era un’offesa pari a fascista, è
completamente sdoganato. New York, ad esempio ha un sindaco fieramente socialista,
unico altro politico ad aver ricevuto l’appoggio di Occupy durante la sua candidatura.
«Io ho 70 anni – dice Maggie – negli anni ’60 per la prima volta ho pensato che il mondo
potesse cambiare radicalmente e ne sono ancora convinta, per questo sono in piazza con
Occupy Wall Street ad appoggiare Sanders. Quello che ho capito è che il mondo non si
può cambiare in un giorno, in un unico movimento. Cambiare il mondo è un percorso, ora
una parte di questa strada la può fare la Casa Bianca. Io ho sempre votato democratico
ma nessun presidente può fare la rivoluzione, quella la deve fare il popolo, un presidente,
però, può non sopprimerla. Obama non ha mai represso Occupy, sarebbe stato uguale
con Romney? Non credo proprio».
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Tra le facce note c’è anche quella di uno dei simboli di OWS, Ray Lewis, capitano della
polizia di Philadelphia in pensione che indossando la sua vecchia divisa ha sempre sfilato
con i movimenti, incluso quello di Black Lives Matter a Ferguson.
Sì, perché le strade si intrecciano, e come molti militanti di OWS sono andati in Missouri
per dare lezioni di comunicazione a BLM, così Sanders ha chiesto a Black Lives Matter di
istruirlo sulle specifiche istanze della comunità afro-americana.
«Se il movimento è forte – dice il reverendo Osagyefo Sekou, figura nota di BLM – la
politica istituzionale non può ignorarlo. Occuparsi di chi è al potere e ci rappresenta è un
nostro compito».
«Sanders si occupa di ambiente, ha definito l’attuale minimo sindacale di $ 7,25 un
“salario da fame” e ha chiesto che venga raddoppiato a $15 l’ora – dice Ben, 24 anni, neo
laureato in agraria — Mentre Clinton stava portando la campagna presidenziale a livello
mainstream, Bernie l’ha interrotta per tornare a Washington e fare ostruzionismo a un
disegno di legge che senza dirlo ai cittadini accelerava il controverso Trans-Pacific
Partnership attraverso il Congresso. Ecco, queste sono alcune ragioni per cui i movimenti
sperano che il prossimo presidente sia Bernie Sanders».
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INFORMAZIONE
del 02/02/16, pag. 3
La Rai formato family day
Televisione. Il servizio «Il tabù del sesso» fa paura. «Presadiretta» slitta
oltre la fascia protetta, dopo le 22. Interrogazione di Sel. Iacona:
Riccardo Iacona: «Non ho condiviso la decisione rispetto a un
reportage pedagogico, da vedere insieme ai ragazzi. Ma sono
orgoglioso del risultato»
Micaela Bongi
No, la farfallina no. Persino a questo avevano pensato alla Rai: a segnalare con la
farfallina rossa che il programma non era adatto ai minori. E invece si è optato per un
rinvio di «soli» sei minuti della messa in onda della puntata, posticipando però il servizio
«proibito», che avrebbe dovuto aprirla, la puntata, alla seconda parte. Così da
oltrepassare nettamente il confine della fascia protetta.
Si parla di Presadiretta, il programma d’inchiesta in onda la domenica sera sulla terza rete
della tv pubblica, condotto da Riccardo Iacona.
Ma cosa mai era venuto in mente, agli autori? Di proporre scene hard o violente,
linguaggio eccessivamente scurrile? Niente di tutto questo, ma un reportage di Giulia
Bosetti sull’educazione sessuale e sentimentale dei ragazzi nelle scuole europee e su
quanto è ancora indietro il nostro paese (e questo caso lo conferma), sul cyberbullismo a
sfondo sessuale e omofobico. Si parlava di adolescenti suicidi, anche.
Temi affrontati con grande attenzione, con interviste (tra le altre anche alla scrittrice
Michela Murgia), «un servizio confezionato proprio perché potesse andare in prima serata,
senza immagini ammiccanti. E’ stata una puntata di parole — commenta Riccardo Iacona
il giorno dopo — perché questa è una questione di parole, una battaglia culturale.
Presadiretta non è un programma da farfallina rossa. Si è trattato di un eccesso di
prudenza che come è detto non ho condiviso, ma non ci sono stati tagli né censure.
L’importante è che la Rai abbia mandata in onda la puntata, i bigotti sono quelli che non
fanno vedere le cose. E magari ora si apre la possibilità anche per altri di parlare di questi
temi, e la prossima volta anche in prima serata».
Però evidentemente solo a sentire il titolo del servizio, Il tabù del sesso, a Raitre sono
andati in tilt. E, trovando conforto nei vertici aziendali, la rete ha deciso appunto di
mandare in onda il programma in orario ritenuto più consono a temi che invece
dovrebbero essere affrontati proprio con i ragazzi.
Effetto Family day? Terrore del «gender»? Alla Rai provano a giustificarsi dicendo che è
stata la legge a suggerire la decisione e in fondo — si aggiunge senza imbarazzi — meglio
così, il servizio è andato in onda alla fine del derby, il che ha giovato agli ascolti (1.578.000
telespettatori, share 6,63%).
Comunque «orgoglioso» del risultato, già nel collegamento con Fabio Fazio, Iacona
domenica sera aveva anticipato al pubblico l’inversione dei temi in scaletta, premettendo:
«Non vorrei che tu pensassi che siamo impazziti qui a Presadiretta e facciamo contenuti
pornografici».
Poi, aprendo la trasmissione con il servizio sull’acqua pubblica che inizialmente era
previsto nella seconda parte, aveva appunto chiarito: «La Rai, per rispettare la fascia
protetta, mi ha chiesto di posticipare un po’ più avanti il bellissimo racconto di Giulia
Bosetti. Una decisione che non condivido perché a mio modestissimo parere questo è un
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reportage che andrebbe visto da tutti, genitori e figli insieme, talmente è pedagogico.
Giudicherete voi quando manderemo in onda il servizio. Ma è una decisione che devo
rispettare e so che avrete l’amore e la pazienza di aspettare una manciata di minuti prima
di vedere il bellissimo reportage».
Il dibattito — anche sullo slittamento della messa in onda — domenica sera è proseguito
sui social.
E ieri sono intervenuti anche parlamentari: «E’ davvero incomprensibile la scelta della Rai
di posticipare la messa in onda del programma di Iacona. Una decisione che ha il sapore
dell’oscurantismo e dell’ipocrisia — ha commentato il senatore del Pd Francesco Verducci
— i temi del cyber-bullismo e dell’educazione sessuale sono fondamentali da trattare per
la crescita civile e culturale di una società». E Verducci apprezza «che l’approfondimento
giornalistico del servizio pubblico se ne occupi».
Interviene anche Nicola Fratoianni, deputato di Sinistra italiana: «Il campionario
dell’ipocrisia di certa classe dirigente italiana si arricchisce di un nuovo episodio. Quando
finirà il Medioevo?». Sul caso Sinistra italiana ha anche presentato un’interrogazione nella
commissione di vigilanza Rai.
del 02/02/16, pag. 5
Editoria: giornalisti de l’Unità senza soldi né
asta
Marina Della Croce
Non c’è pace per i giornalisti de l’Unità, né per quelli riassunti dalla nuova società
editoriale che ha rieditato a luglio scorso la testata storica sotto l’egida dell’attuale
segretario del Pd Renzi, né per quelli che sono rimasti fuori, in cassaintegrazione (circa
metà della vecchia redazione).
A due anni dalla chiusura del vecchio giornale, nessuno dei due gruppi ha ancora visto un
euro dei crediti accumulati, incluse mensilità non pagate, ferie non godute, liquidazioni.
Eccezion fatta per alcuni ex direttori e redattori che si sono dimessi, in gran parte per
andare in pensione.
E ieri a Montecitorio il comitato di redazione ha convocato una conferenza stampa insieme
alla Federazione nazionale della Stampa per denunciare la situazione, ulteriormente
peggiorata dallo slittamento ancora a data da destinarsi dell’asta per l’aggiudicamento
della testata alla nuova società, attualmente in affitto.
Il nuovo commissario liquidatore Giovanni Cabras ha fissato un cronoprogramma su cui
sia il Cdr sia l’Fnsi hanno molto da obiettare. Ha infatti disposto — «con rammarico»- di
procedere a licenziamenti collettivi dei dipendenti della vecchia azienda in liquidazione —
la Nie — non rientrati nel nuovo giornale, una trentina di persone, che ora, oltre a aver
perso il lavoro, molti in età avanzata ma lontani dalla pensione, e ad aver già accettato
una misera quota del mancato preavviso per facilitare l’accordo per la riapertura del
giornale renziano, ora rischiano di vedersi togliere anche la cigs. Il tutto per risparmiare,
nelle intenzioni del liquidatore Cabras, un’altra piccola quota del dovuto mancato
preavviso.
I denari dell’acquisto della testata arriveranno infatti con l’asta, che sarebbe dovuta essere
a metà febbraio ma ora rischia di slittare di quattro o cinque mesi e in cassa, la Nie in
liquidazione non ha più molti soldi. Colpa delle parcelle d’oro che devono essere pagate
per uno stuolo di legali, periti, liquidatori e valutatori. Il commissario Cabras ha stanziato
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per il pagamento di queste parcelle 2 dei 3 milioni disponibili. La parte restante però
consentirebbe di liquidare solo una cifra irrisoria dei crediti privilegiati verso i lavoratori.
Ieri alla conferenza stampa sono intervenuti i parlamentari Stefano Fassina, di Sinistra
italiana, e Cesare Damiano, Pd, presidente della Commissione lavoro della Camera, i
quali hanno detto di voler presentare insieme una interrogazione o interpellanza
parlamentare per chiedere a Palazzo Chigi di sbloccare i fondi per l’editoria destinati alla
testata l’Unità relativi agli anni 2012,2013 e per i sette mesi di pubblicazioni del quotidiano
nel 2014. «Si tratta di somme già stanziate e dovute», ha detto Damiano. Mentre Fassina
ha parlato di «situazione kafkiana» per i dipendenti Nie.
Il segretario generale dell’Fnsi Raffaele Lorusso ha intanto chiesto e ottenuto un incontro
con il commissiario liquidatore Cabras per il prossimo 5 febbraio.
Il Cdr chiede che i licenziamenti dei cassaintegrati vengano ritirati e che si vada all’asta
della testata «quanto prima», inoltre chiede alla nuova società — l’Unità editrice — di
presentare piano industriale ed editoriale del nuovo giornale e di «rivedere le somme in
pre-deduzione» destinate ai professionisti.
Del 2/02/2016, pag. VII RM
Si spegne RomaUno
Fallita l’emittente fondata da Cerroni
La sentenza del tribunale per la rete nata nel 2003
Era stata venduta a un euro con 4 milioni di debiti
GABRIELE ISMAN
ERA nata con grandi ambizioni, doveva essere la NY1 in salsa capitolina, la rete Tv locale
di alto livello per raccontare la Città Eterna come New York e invece venerdì è
ufficialmente fallita. RomaUno non esiste più: l’emittente nata nel 2003 con la proprietà del
ras di Malagrotta Manlio Cerroni ha chiuso i battenti, e il segnale è spento da una
settimana. Eppure l’inizio prometteva bene: la lenta agonia di quella che qualche maligno
commentatore aveva battezzato alla nascita “la Tv di Veltroni” era iniziata quattro anni fa
«con la riduzione degli investimenti» come racconta Ileana Linari, conduttrice storica con
Andrea Bozzi dei programmi “Ditelo a RomaUno” e “Foro romano”, in azienda fino a
Natale scorso: «Due anni fa era arrivata la solidarietà al 40%, un sacrificio pesante
accettato da tutti per poter continuare a lavorare, ma evidentemente non è bastato». I
telegiornali che inizialmente andavano in onda in diretta ogni ora si erano diradati fino a
ridursi a due edizioni quotidiane. La situazione è precipitata dopo la vendita dell’azienda:
nel settembre scorso dalla Colari di Cerroni (che era già stato arrestato nel gennaio 2014)
le quote dell’emittente era passate di mano al prezzo di un euro con debiti per 4 milioni.
L’1 per cento era andato all’imprenditore Fabrizio Coscione - “che non abbiamo mai
incontrato di persona” dice Linari - il restante 99 alla società Ristora che fa capo allo
stesso Coscione. «Fino a settembre gli stipendi, magari in ritardo, li avevamo avuti. Dopo
non abbiamo visto retribuzioni, Tfr e nemmeno contributi previdenziali», dice ancora la
giornalista. Pochi giorni dopo le infrastrutture - attrezzature e soprattutto canali televisivi erano state affittate alla Roma Communication Srl con sede ad Aprilia il cui amministratore
era Coscione. «Il ministero aveva mosso contestazioni all’accordo e il 21 ottobre così è
spuntata la vendita per 15 mila euro di quel ramo d’azienda. I giornalisti restavano in
Roma Uno», dice l’avvocato Raffaele Nardoianni, dell’associazione Stampa Romana.
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Iniziava la fase nera per giornalisti e tecnici: a settembre in via Groenlandia, nella villa
dell’Eur che ospitava gli studi di Roma Uno dove una volta aveva vissuto il tenore Mario
Del Monaco, erano anche arrivati i ladri in più occasioni a rubare attrezzature e computer.
Da ottobre persino la fine dell’appalto per le pulizie negli studi. Il 4 novembre si era spento
per la prima volta il segnale, e i 29 dipendenti senza stipendi avevano manifestato in
Campidoglio. «Il 3 dicembre - dice ancora Nardoianni - era partita la procedura per i
licenziamenti collettivi, il 16 l’udienza prefallimentare con l’annuncio della proprietà di aver
presentato istanza di concordato preventivo a cui poi, evidentemente, non è stato dato
seguito». Venerdì il fallimento: «Per noi conclude Linari - è anche meglio: così forse
recupereremo qualcosa da Tfr e stipendi arretrati. Certo, l’inizio era proprio diverso».
Del 2/02/2016, pag. 13
Usa-Europa: non c’è accordo sulla protezione
dei dati
FRANCESCA DE BENEDETTI
IL CASO /SCADE OGGI IL TERMINE PER TROVARE UN’ALTERNATIVA A “SAFE
HARBOR”, IL SISTEMA CHE REGOLA I FLUSSI DI INFORMAZIONI ONLINE
LA STANCHEZZA di Vera Jourova, commissaria europea alla Giustizia, si percepisce
anche nella voce, mentre riferisce lo stato dei colloqui con gli Stati Uniti. Il dialogo con la
segretaria al commercio Penny Pritker è sempre più intenso: sul tavolo c’è l’alternativa a
Safe Harbor, il sistema che ha consentito fino a pochi mesi fa ai colossi come Facebook
ma anche alle piccole e medie imprese di trasferire i dati personali degli europei oltre
oceano. Il 6 ottobre la Corte di giustizia europea lo ha dichiarato invalido: alla luce delle
rivelazioni di Snowden sulla sorveglianza, manca la garanzia che la privacy venga
rispettata nel paese di destinazione. Dopo la sentenza, i garanti europei della privacy
hanno concesso un periodo di tolleranza: speravano che le due sponde trovassero un
accordo. Ma la tolleranza scade oggi, e Jourova ammette che la soluzione non è pronta.
«La decisione è in mano a noi, dobbiamo prendere una soluzione unilaterale», ha
precisato. Ma sa bene che questo le lega anche le mani: una soluzione inefficace può
essere di nuovo invalidata dalla Corte. Perciò è la mossa Usa che conta: deve garantire la
privacy. Jourova spiega: «Abbiamo chiesto che non vi sia sorveglianza indiscriminata sui
dati, abbiamo convenuto una verifica annuale e chiesto che una figura indipendente si
accerti di come sono trattati i dati in Usa». Tra i parlamentari che la ascoltano, le
perplessità non mancano: ci si può fidare di Washington? Il Congresso promette di
estendere agli europei le tutele riservate ai suoi cittadini, ma vincola il provvedimento a un
nuovo Safe Harbor.
Max Schrems, il giovane attivista austriaco che avviò il ricorso alla Corte, commenta con
Repubblica: «A sentire la Jourova, ci si basa sulla “fiducia” verso gli Usa, sulle loro
dichiarazioni di impegno. Ma sarà facile che la Corte dichiari non valida anche questa
soluzione». L’incertezza preoccupa il garante per la privacy italiano Antonello Soro:
«Senza un vero piano B, si scarica la responsabilità a livello nazionale», spiega in attesa
di incontrare stamattina i suoi omologhi Ue per decidere il da farsi.
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del 02/02/16, pag. 1/14
Astrit Dakli
Il nostro corrispondente a Mosca
Tommaso Di Francesco
Posso sbagliare i giorni, i mesi o forse gli anni, ma tutto è chiaro, adesso che Astrit Dakli
se n’è andato alla mia stessa età. Il vuoto si allarga e non si riempie.
Dopo Luigi Pintor, dopo Aldo Natoli, Lucio Magri e K. S. Karol. E ancora Carla Casalini,
Stefano Chiarini, Rina Gagliardi e solo pochi mesi fa Giuseppina Ciuffreda. Uno dopo
l’altro vedo davanti a me i fotogrammi di una generazione di donne e uomini che ha
vissuto nella straordinaria trincea de il manifesto.
Tra me e Astrit c’era una sorta di conflittualità complice. Non eravamo quasi mai
d’accordo, ma la sua precisione e la mia testardaggine avevano la meglio perché
emergesse un punto di vista comunque critico. Era quasi un gioco agli opposti tra noi.
Taciturno e flemmatico lui, spesso esagitato e ansioso io. Una cosa ci accomunava, il
rifiuto del presenzialismo ad ogni costo, la diffusa malattia della vecchia e nuova sinistra.
Ho voluto molto bene ad Astrit. L’ho conosciuto meglio quando Rossana Rossanda, per
far uscire il giornale dalle secche mortifere della fine degli anni Settanta e dalla crisi che ci
attanagliava, avviò l’esperienza della «Cooperativa il Manifesto anni 80».
La sortita di una «società politica», per tessere nuovi rapporti, per sostenere il giornale e
allargare le sue aree d’ascolto e anche la sua base proprietaria, con una cooperativa che
proponeva quote associative. Astrit fu il primo responsabile di questo lavoro e chiese
spontaneamente di farlo rinunciando per molto tempo all’attività di giornalista. Lì siamo
diventati amici. Lui era arrivato al manifesto dal Quotidiano dei lavoratori (il giornale del
gruppo di Avanguardia operaia), dopo una stagione di rotture e ricomposizioni a sinistra
che caratterizzarono gli anni Settanta.
C’era un elemento che subito accese il mio interesse per Astrit: era albanese.
Io, da sempre a vocazione e legami familiari balcanici, conoscevo bene l’Albania. Ed era
sorprendente vedere un albanese della mia generazione, con un padre che era fuggito da
Enver Hoxha, essere in un giornale e prima ancora essere stato in una organizzazione
che si riconoscevano nel comunismo, anche se opposto e contrario al socialismo
realizzato.
È stata l’altra costante della nostra amicizia. Ricordo che nel 1997 andai ad Elbasan — la
mitica città albanese delle acciaierie costruite dai cinesi — di dove erano originari i Dakli, a
consegnare una lettera del padre per la famiglia e riconobbi per strada un suo cugino dalla
stessa camminata flemmatica di Astrit.
I Balcani intanto cominciavano ad essere l’altro precipizio, nazionalistico, che si
spalancava alla fine degli anni Ottanta.
«Silenzio/assenzio»
Ad Astrit ho dedicato molti epigrammi, l’ultimo dice: «Silenzio/ assenzio». Giacché una
delle sue caratteristiche era la ponderatezza, un certo distacco, la persistente riflessione
silenziosa. Se parlava però era deciso, i suoi interventi erano attesi e memorabili, mai
ideologici ma serenamente indolenti.
Avrei imparato ben presto ad apprezzare questa sua straordinaria qualità nel lavoro di
corrispondenza da Mosca.
Astrit fu infatti il primo, vero corrispondente che il manifesto avesse deciso di avere,
mentre ne avevamo avuti altri sul nostro cammino, come Alexandr Biloux da Parigi già alla
nascita del giornale nell’aprile del 1971.
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Il corrispondente a Mosca fu proprio una decisione politica, un investimento. Da quando
nel 1985 Michail Gorbaciov era diventato il nuovo segretario del Pcus e perestrojka e
glasnost erano diventate parole d’uso corrente, tirava un vento nuovo, fortissimo,
inarrestabile nell’Est Europa e soprattutto in Unione sovietica. Che era allo sfinimento, anzi
al fallimento, all’implosione dopo 70 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre. E il crollo sembrò
drammaticamente annunciato ad Est anche dalla tragedia nucleare di Cernobyl del 1986.
Noi stavamo con Gorbaciov perché salvasse quell’esperienza dalla morte indecorosa; il
mondo al contrario stava con Michail Gorbaciov perché mettesse una pietra tombale sulla
rottura storica del ’17.
Quando proposero ad Astrit di partire non se lo fece ripetere due volte, nonostante che
Miriam, moglie e compagna anche lei al manifesto, gli avesse regalato un’altra bambina,
Bianca, che alla partenza nel 1990 aveva 18 mesi mentre Giulia, l’altra figlia, aveva 5 anni.
Partirono in quattro, verso una Mosca fredda e inospitale, con un carico di interrogativi da
far paura. Eppure il «silenzioso» Astrit — che aveva sempre davanti a sé come esempio la
vita e la scrittura di K. S. Karol — affrontò con convinzione quelle difficoltà: dal trovare
casa, al metter in piedi una redazione, ai rapporti con le autorità, all’imparare il russo.
Ad Astrit sarebbe toccato un compito, politicamente e giornalisticamente, gravoso:
avrebbe dovuto raccontare nient’altro che la fine dell’Unione sovietica. Mentre iniziavano
le tante e diverse svolte che sarebbero esplose nel 1989, dall’Est Europa, alla Cina ai
Balcani.
La redazione esteri al quinto piano di Via Tomacelli era un grande salone dove
campeggiava una telescrivente, non c’erano modem allora, anche se avevamo già da
quattro anni i computer Olivetti (eravamo stati la prima redazione in Italia a usarli come
sistema integrato di scrittura); comunicavamo con il mondo e soprattutto con Mosca via
telefono e con la telescrivente che vomitava lenzuolate di fogli di carta e si attivava con un
nastro giallo pieno di fori.
Telescrivente e lenzuolate
Le ore passate alla telescrivente, quando funzionava, con e da Mosca, sono
indimenticabili. «A che punto è il voto sul Congresso del popolo?» (l’organismo cuore della
riforma politica gorbacioviana), chiedevamo. E lui rispondeva proponendo una sintesi
dell’articolo, segnalando le prime insorgenze nazionaliste nelle repubbliche dell’Urss, le
prove di forza che cominciavano: «Si muovono i carri armati a Vilnius», i conflitti etnici
come nel Nagorno Karabak.
Ogni lenzuolata lunga metri e metri trascinata per i corridoi era letta da Rossana
Rossanda che s’informava e correggeva, apprezzava o s’infuriava.
Non per Astrit ma per la debolezza di Gorbaciov. Che poi cadde per le sue incapacità, per
le promesse reaganiane contro l’«impero del male»; e soprattutto per un tentato golpe dei
duri del Pcus.
E allora ci fu l’avvento vittorioso di Boris Eltsin che salito, su un carro armato dei golpisti,
parlò da rivoluzionario; ma era lo stesso Eltsin — raccontava Astrit — che solo due anni
dopo avrebbe preso a cannonate «democraticamente» nel 1993 il nuovo parlamento
russo; lo stesso che avviò la cancellazione dell’Urss, a partire dalla sua svendita —
spiegava Astrit — con l’attivazione dei potentati di partito che controllavano i settori
economici promossi a nuova classe proprietaria del patrimonio collettivo; provocando una
nuova frammentazione economica fin dentro la Federazione russa ormai alle prese con la
lunga guerra in Cecenia (v. nella pagina accanto un reportage da Grozny dell’ottobre
1999; e un commento profetico sul ruolo della Nato nella crisi georgiana dell’agosto 2008).
manifesto astrit dakli pascucci paterno
Astrit Dakli, a destra, con Francesco Paternò e Angela Pascucci in via Tomacelli
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Di questa devastazione Astrit Dakli è stato testimone. Scrivendo per il suo giornale
reportage di prima mano.
Consapevole com’era di una disfatta epocale, che il manifesto all’origine aveva avvertito
ed evocato non certo come implosione suicida ma perché intervenisse una nuova, radicale
rivoluzione dal basso, un inveramento dei contenuti comunisti, una «rifondazione» (e non
era un partito ancora).
Così cadeva il Muro di Berlino, esultavano i giornali borghesi e di destra perché: «È la fine
di una Europa divisa dai muri»… Mentre Pintor sentiva solo «una gran puzza di guerra».
Cadevano le statue di Lenin, tante da farci un film. «Tommaso, fai attenzione. In Russia di
statue di Lenin non ne è stata abbattuta nemmeno una», mi disse Astrit rientrato dalla
Russia con Miriam e le due figlie dopo la chiusura della redazione di Mosca che non
potevamo più permetterci come giornale.
I «Rifugi di Lenin»
Tornò in redazione ad occuparsi sempre di Russia. Fino alla decisione di rispondere di sì
alla richiesta del dolcissimo Mario Dondero, per un viaggio insieme tra le rovine dell’ex
Unione sovietica.
Un viaggio che Astrit immaginò stavolta in modo «estremista» su quel che rimaneva di
Lenin, anzi sui suoi storici rifugi quando era esule, ricercato, bandito. Ne uscì fuori I rifugi
di Lenin, (il manifesto editore), un libro reportage unico, di alta scrittura letteraria, che
Rossana Rossanda nella sua lunga introduzione non esitò a definire bellissimo.
Per l’originalità delle foto di Mario Dondero capaci di restituire vitalità ad ogni impianto
ufficiale o museale su Lenin, ma anche per la scrittura rivelatrice di Astrit, piena d’amore
per un passato rimasto bene prezioso quanto inconsapevole nella stessa memoria della
Russia attuale.
È probabilmente il lascito giornalistico e politico più importante di Astrit Dakli, che ci
appartiene (e andrebbe ripubblicato): ci spiega quanto quella realtà fosse diventata per lui
carne e e sangue, difficilmente dimenticabile, quasi un tutt’uno con la sua vita; e di come il
passato, ancorché sepolto, sia ancora dentro la materia del tempo presente.
Poi nuovi viaggi e racconti giornalistici, uno tra tutti da New York nel settembre 2001 tra le
macerie delle Twin Towers ancora fumanti.
Con nuove scelte di vita e, subito, la malattia.Una malattia lunga e troppo inesorabile.
Addio e grazie Astrit che, per dirla con Varlam Salamov, hai fatto quasi vedere e sentire
«la barra della storia che si sposta».
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CULTURA E SPETTACOLO
del 02/02/16, pag. 13
La nuova «sala» per i film fuori circuito e da
scoprire
Intervista. La piattaforma festivaliera raddoppia: una sezione s riservata
ai professionisti dell'industria cinematografica, e un altra aperta al
pubblico che proporrà nel mondo, per qualche giorno e per un numero
di spettatori limitato, una selezione di film in contemporanea alla loro
presentazione ai festival. Debutto con Iffr Live dal festival di Rotterdam.
Ne parliamo con Alessandro Raja, ideatore del progetto insieme a
Mathilde Hebrot
Cristina Piccino
Nel giro di pochissimo tempo è diventato uno strumento indispensabile per gli addetti ai
lavori dell’industria cinematografica, programmatori di festival, critici, giornalisti, distributori,
produttori, registi. Stiamo parlando di Festival Scope, la piattaforma on line che permette
di visionare i film da quasi tutti i festival del mondo offrendo così ai professionisti (ai quali è
riservata) la possibilità di essere sempre aggiornati e ai film di circolare con grande
vantaggio specie per le produzioni indipendenti. Tutto questo con il massimo
dell’attenzione a cominciare da un esame molto attento delle domande di iscrizione, fino al
fatto che un film una volta visionato non si può rivedere — salvo un permesso speciale del
produttore o del distributore.
Gli ideatori sono Alessandro Raja e Mathilde Henrot, italiano lui, francese lei, — vivono a
Parigi — che hanno trasformato la loro passione di infaticabili frequentatori di festival in
una vera innovazione per il settore. Da qualche giorno alla piattaforma «tradizionale»,
divenuta Festival Scope Pro (pro.festivalscope.com) si è aggiunta una nuova scommessa:
Festival Scope che in accordo coi festival e i distributori propone al pubblico mondiale —
per qualche giorno e per un numero limitato di spettatori — una selezione di film in
contemporanea alla loro presentazione a un festival. Non una piattaforma Vod
tradizionale, dunque, ma una nuova scommessa che porta il pubblico virtualmente nelle
rassegne internazionali (www.festivalscope.com — un biglietto 4 euro, Festival pass 9
euro per tre film) permettendo di partecipare anche alle discussioni in sala con i registi. Il
debutto è stato al festival di Rotterdam con Iffr Live che ha presentato in Italia quattro titoli
tra quelli del pacchetto: Prejudice, La Novia, The Garbage Helicopter, The Model (il quinto
è A peine j’ouvre les yeux di Leyla Bouzid che però qui non è stato mostrato perché ha
una distribuzione). A seguire una selezione di film messicani dal Distritel Festival (ognuno
disponibile per 7 giorni), dal Ficunam in Messico e dal festival colombiano di Cartagena.
Ne parliamo con Alessandro Raja al telefono e come sempre in viaggio da un festival
all’altro.
Festival Scope, divenuto ora Festival Scope Pro, è nato cinque anni fa e ha avuto un
grande successo. Come avete scelto finora i titoli? Quali sono i criteri a cui deve
rispondere un film o un festival per entrare nella vostra selezione?
Molto dipende dalla relazione con i responsabili dei singoli festival, il direttore o i
programmatori. Per ogni festival il discorso è diverso: ad esempio in un festival come il
Torino Film Festival puntiamo su due sezioni, il concorso internazionale e Tff Doc Italia. In
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altri seguiamo una logica più trasversale, in altri ancora prediligiamo le produzioni
nazionali. Al Festival di Locarno selezioniamo i Cineasti del Presente ma anche qualcosa
dal concorso principale e i cortometraggi premiati nei Pardi di domani. A Cannes ci sono la
Quinzaine, la Semaine de la Critique e Acid. Ciò che conta è stabilire un criterio, dopo le
scelte si fanno insieme. Naturalmente i primi a decidere sull’accesso alla piattaforma per
ogni film sono i produttori e i distributori. La nostra selezione riguarda più i festival:
cerchiamo di privilegiare manifestazioni di alto profilo.
Da quale esigenza nasce invece il nuovo Festival Scope?
L’obiettivo principale è sempre dare visibilità ai film che ne hanno bisogno. Volevamo
provare a rivolgerci a un pubblico non solo di professionisti offrendogli l’opportunità di
vedere dei film dai festival internazionali. Lo abbiamo già sperimentato alla Mostra del
cinema di Venezia con la Sala Web. La formula qui è stata un po’ modificata.
Ci puoi spiegare meglio?
Un film viene proposto nella Sala Web dalle 21 della sua prima proiezione per qualche
giorno e solo per 400 spettatori in tutto il mondo così da non comprometterne la possibile
distribuzione. Possiamo definirla una sorta di proiezione aggiuntiva on line con la quale
400 persone di sentono a Venezia. Dalla prima edizione, tre anni fa, i numeri sono
cresciuti, abbiamo lavorato sulla promozione, oltreché sulle relazioni coi distributori,
creando un network con le riviste di cinema on line.
Non avete avuto problemi, film che devono andare a altri festival e si «bruciano»?
No. Un film di Biennale College, H (di Rania Attieh e Daniel Garcia, ndr) dopo la diffusione
nella Sala Web è stato invitato al Forum di Berlino.
Torniamo al vostro progetto.
Abbiamo lavorato un anno per stabilire delle collaborazioni con i festival, e il primo risultato
è stato al festival di Rotterdam il Iffr Live: cinque film europei proiettati al festival e diffusi
contemporaneamente in 40 sale europee compresa la discussione con il regista insieme al
quale il pubblico «virtuale« può dialogare a distanza via twitter. Gli spettatori sono 400 in
tutto il mondo, ma i film staranno su più tempo, in questo caso fino al 14 febbraio.
Ti faccio la stessa domanda: non potrebbe creare problemi con una ipotetica
distribuzione o con dei passaggi ai festival?
Si tratta di film la cui strategia festivaliera è stata decisa e senza distribuzione — lo
dimostra in Italia il caso di A peine j’ouvre les yeux. È chiaro che ogni scelta dipende dalle
esigenze dei distributori.
Come è organizzato Festival Scope?
Siamo una piccola equipe di otto persone, cerchiamo di rimanere indipendenti. L’iscrizione
di un film su Festival Scope è gratuita, mentre alcuni festival pagano per la promozione
che facciamo. I nostri finanziamenti arrivano dai fondi europei e dagli istituti di promozione
cinematografica nazionali come Filmitalia o Unifrance. Poi abbiamo degli accordi con gli
istituti di cultura per organizzare rassegne tematiche o monografiche. Abbiamo anche una
sezione «vintage« per i film restaurati, e curiamo dei focus su un regista di cui inseriamo il
nuovo film.
Del 2/02/2016, pag. 27
L’ITALIA, LE STATUE COPERTE E LE VERITÀ
ELASTICHE
ROGER COHEN
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LA DECISIONE italiana di coprire i nudi dei Musei Capitolini per non urtare la sensibilità
del presidente iraniano, laureato a Glasgow, in visita di Stato, è stata interpretata come
prova definitiva della capitolazione della civiltà occidentale di fronte all’Islam teocratico.
Per dirla con Hishan Melhem, editorialista della versione inglese di Al Arabya, si è trattato
di «un atto spudorato di autoevirazione e ossequio».
Se l’Italia, erede delle glorie dell’Impero romano, impacchetta alcune delle sue opere
d’arte più raffinate per scongiurare l’eventualità che l’occhio del presidente Hassan
Rouhani cada sul seno acerbo di una divinità marmorea non c’è da sorprendersi che i
fanatici islamici (sunniti, non sciiti, ma comunque islamici) scelgano di distruggere il
glorioso patrimonio greco-romano di Palmira. O quanto meno questa è la logica.
Il boxgate ha messo l’Italia in ridicolo. Non c’è nulla di peggio e in questo caso la berlina è
meritata. Non tanto per il goffo atto di cortesia, in sé valore importante e ormai
sottovalutato. Vedere il crollo dell’Occidente in un nudo nascosto è un’esagerazione.
Capita di sbagliare. No, la berlina è meritata perché sembra che la decisione di coprire le
statue non l’abbia presa nessuno. A Roma lo scaricabarile non ha mai fine.
La venere capitolina si è impacchettata da sola una notte perché si annoiava e un paio di
altre divinità l’hanno imitata.
Il primo ministro Matteo Renzi non ne era al corrente. Il ministro dei Beni culturali ha
definito la decisione “incomprensibile”. Entrambi ribadiscono (forse anche con troppa
enfasi) di essere rimasti sorpresi come tutti di fronte a quei cubi bianchi – nessuno, tra
l’altro , fornito dalla prestigiosa galleria londinese White Cube.
Secondo una versione la decisione è stata presa da una dipendente di Palazzo Chigi, Ilva
Sapora, dopo una visita ai Musei Capitolini compiuta assieme ai funzionari dell’ambasciata
iraniana. «Stupidaggini», mi ha detto Jas Gawronski, ex parlamentare europeo. L’ipotesi
che un funzionario di Palazzo Chigi di grado intermedio, responsabile del cerimoniale,
possa aver preso una decisione del genere appare del tutto inverosimile. Gawronski
reputa più probabile che la responsabilità sia da attribuire a funzionari della Farnesina.
Una cosa si può dire con certezza: nessuno saprà mai chi è stato. Negli anni Ottanta per
un periodo sono stato corrispondente da Roma. Ogni tanto si registravano sviluppi nelle
indagini sugli attentati, come quello di Piazza Fontana nel 1969, o di Brescia nel 1974.
Tutto un succedersi di processi, sentenze, ricorsi in appello. Le acque si intorbidivano
invece che chiarirsi. Ci volevano decenni per arrivare a condanne che lasciavano i dubbi
irrisolti. L’Italia non ha mai avuto tempo di capire che la giustizia tardiva è giustizia negata.
Renzi ha voluto rompere con quest’Italia di segreti torbidi, l’ha voluta modernizzare, darle
un governo stabile che risponde delle sue azioni. Ha realizzato importanti riforme della
legge elettorale e del lavoro. Ma ha un problema. In pieno scandalo delle statue coperte,
intervistato dal mio collega Jim Yardley Renzi ha detto : «Sono il leader di un grande
paese». In una grande paese le statue non si impacchettano da sole.
La verità in Italia è elastica. Terra di conquista, il paese ha imparato l’arte saggia di
esprimersi con ambiguità, come del resto la Persia, a sua volta terra di conquista. In fin dei
conti questa vicenda è un labirinto degli specchi italo- iraniano con una pentola piena di
monete d’oro al centro, per un valore stimato di 18 miliardi di dollari di accordi
commerciali. Gli iraniani ribadiscono di non aver chiesto che i capolavori dell’umanesimo
classico venissero coperti: anche in questo caso non ha deciso nessuno.
L’Iran diffida a sua volta della chiarezza. Fa parte delle sue tradizioni l’affascinante rituale
del taroof , fondato sull’ipocrisia, e del tagieh, che equivale a sacrificare la verità in nome
del superiore dovere religioso.
Restando in tema di negazione della verità, l’Ayatollah Khamenei, il supremo leader
iraniano, ha nuovamente messo in dubbio l’Olocausto. Ha scelto di farlo in un video
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pubblicato sul suo sito web proprio in occasione del giorno della memoria. Ci sarà un
nuovo “Concorso di vignette e caricature sull’Olocausto” a giugno.
Inutile dire che questa negazione dell’Olocausto è infame, il regime dà il peggio di sé. È
anche sintomo della disperazione dei falchi, decisi a bloccare l’apertura al resto del mondo
voluta da Rouhani. Pensano che la negazione dell’Olocausto farà fallire ogni proposito di
distensione. La parola in voga tra i sostenitori della linea dura è nufuz, o infiltrazione da
parte dell’Occidente, da cui gli iraniani vengono messi in guardia in vista delle elezioni
parlamentari di questo mese. Si possono coprire un paio di statue nei Musei Capitolini, ma
non si può nascondere la spaccatura tra la società iraniana, nella stragrande maggioranza
dei casi favorevole all’apertura nei confronti dell’Occidente, e il regime teocratico
determinato a far si che l’accordo sul nucleare non conduca a una più ampia cooperazione
con gli Usa e l’Europa. Lungi dall’essere prossimo a capitolare, l’Occidente esercita un
forte magnetismo culturale, evidente nella rabbiosa disperazione dei suoi avversari.
Del 2/02/2016, pag. 42
La foto del performer cinese che cita la tragedia del piccolo Aylan è la
“Guernica” di oggi? Di certo finisce per essere l’ultima vera forma di
denuncia
Da Ai Weiwei a Banksy solo l’arte resta
“politica”
MAURIZIO FERRARIS
La denuncia degli orrori della guerra non finisce con Goya e con “Guernica”. Ai Weiwei ha
diffuso uno scatto per ricordare Aylan Kurdi, e usando il suo corpo e il suo nome famoso
per ricordare morti di cui non si sa niente e che si dimenticano in fretta. «Non sa più nulla,
è alto sulle ali / il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna», scriveva Vittorio Sereni
nel 1944 ricordando il primo morto anonimo dell’operazione Ovelord, ed è difficile non
pensare che questi versi si possono applicare anche a Aylan Kurdi, morto pure lui su una
spiaggia nella nuova forma che ha preso la guerra. Ma è significativo che questa volta a
ricordarlo non siano dei versi ma una immagine. Per un complesso di motivi che gettano
luce sulle peculiarità dell’immagine e insieme delle arti visive e del loro sistema.
In primo luogo, gli shock sono visivi, ci vengono da istantanee prese con il cellulare, e
sono essenzialmente dei frammenti. L’arte visiva è la più adatta a raccogliere questo
shock, anche perché la storia circostante ci è ignota, o è controversa: come si è arrivati a
quella spiaggia? Perché quella spiaggia è stata l’ultima? Cercare di chiarire quel contesto
porterebbe a estenuanti analisi economiche, sociologiche, geopolitiche, in cui il fatto
sparirebbe dietro alle interpretazioni. Le immagini, invece, parlano agli occhi (e per il loro
tramite ai sentimenti e all’empatia), e non richiedono commenti, spingendo a una
immediata identificazione con le vittime. Per esempio, Fucking Hell di Jake e Dinos
Chapman, gli immensi plastici esposti qualche anno fa a Venezia, a Punta della Dogana,
quasi corredi da treni elettrici, raffiguravano una grande epopea di disastri della guerra
erano una specie di versione visiva delle Benevole di Jonathan Littell. Tranne che, rispetto
al romanzo, la presa era molto più diretta. Banalmente, ma in modo essenziale,
all’immagine spetta una apoditticità che manca alla parola. Accade con i graffiti di Banksy
– l’ultimo dedicato ai “miserabili” di Calais – o alle donne velate dell’iraniana Shirin Neshat.
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È così già nell’arte tradizionale. Le crocifissioni, le stragi degli innocenti, i martiri, che sono
così frequenti nell’arte cristiana, sono il racconto, giustificato dalla devozione, di immagini
scioccanti. Ai nostri occhi culturalmente assuefatti possono non apparire tali, in un museo
o in una chiesa, ma lo sono. Gli artisti contemporanei, rispetto ai loro antenati, non hanno
poche icone di storia sacra, ma un flusso continuo di immagini che vengono dalla cronaca.
E, diversamente dalle immagini della storia sacra, in cui un Cristo deposto troppo realistico
appariva blasfemo, qui lo scandalo è permesso e cercato, addirittura profetizzato in modo
visionario. I bambini impiccati di Cattelan erano non meno scioccanti del piccolo migrante
sulla spiaggia, ma non rappresentavano un evento realmente accaduto, proprio come i
corpi di Francis Bacon anticipano quelli di Abu Ghraib, ma senza lo sguardo compiaciuto
dei torturatori. Ovviamente, e questa volta guardando non all’arte ma al suo mondo, c’è un
dato che non va dimenticato. Molto più che la narrativa l’arte visiva serve a pacificare la
coscienza di una élite ricchissima, non necessariamente responsabile delle tragedie
testimoniate dall’arte, ma probabilmente non attiva quanto potrebbe sul fronte umanitario.
E, guardando all’artista e non all’acquirente, è facile vedere in queste operazioni una
speculazione sul dolore. Che cosa è più facile del commuovere con l’immagine di un
bambino morto? E che cosa è più scioccante, memorabile, mediatico?
Visto però che si tratta di arte, il punto cruciale non è l’intenzione (non si fa arte con le
buone intenzioni, ma nemmeno con le cattive) bensì la qualità della trasfigurazione, ossia
dell’opera. Una qualità che può superare il tempo e dunque preservare la memoria dei
fatti. È difficile accusare Goya di avere speculato sulla resistenza spagnola contro i
francesi, e, nel tempo, quello che rimane nella memoria collettiva di quei fatti lontani è
legato ai suoi dipinti. E tutto ciò che ci resta di una guerra lontana è l’Iliade, che trasmette
a migliaia di anni di distanza atrocità, come il nemico morto trascinato sotto le mura della
città, che ritroviamo nelle cronache di guerra contemporanee, con il cavallo sostituito dal
pick-up Toyota.
Del 2/02/2016, pag. XIII RM
Mille archeologi sul piede di guerra “Lavoro
addio”
Gli studiosi contro la riforma del ministero “A Roma il popolo dei free
lance senza tutela”
Sit-in al Collegio Romano degli studiosi che mandano avanti la
gigantesca macchina degli scavi preventivi
LUCA MONACO
«NOI, liberi professionisti siamo stati dimenticati dall’amministrazione e con questa riforma
rischiamo essere tagliati fuori dal mondo del lavoro». Mille giovani, altamente qualificati,
scavano per lo Stato alla ricerca dei tesori di Roma. Ma con l’avvio della seconda fase di
riforma del ministero dei Beni culturali, gli archeologi free lance hanno davanti lo spettro
della disoccupazione. Attendono con ansia di capire cosa produrrà, sul piano concreto, il
piano di cancellazione delle 17 soprintendenze archeologiche in tutta Italia, che saranno
accorpate a quelle che tutelano il paesaggio e le belle arti. Diventeranno 39 in tutto, più le
due speciali di Roma e di Pompei. Nella Capitale, in particolare, il piano disegnato dal
ministro Franceschini comporterà la spezzettamento della soprintendenza archeologica di
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Roma, in parco dell’Appia Antica, parco di Ostia Antica, Museo nazionale romano e
soprintendenza per il Colosseo.
«Gli introiti derivanti dalla vendita dei biglietti al Colosseo fino a oggi avevano garantito la
cura e la tutela di tanti altri siti minori — osserva il segretario generale della Fp-Cigl di
Roma e del Lazio, Fiorella Puglia — Se resteranno al Colosseo sarà la fine». Annuiscono i
liberi professionisti che ieri hanno protestato nuovamente davanti Mibact, in via del
Collegio Romano. «Nel decreto non sono menzionati i collaboratori esterni — dice
Riccardo Frontoni — è come se non sapessero che esistiamo, eppure da decine di anni
collaboriamo con i funzionari della soprintendenza ». Partecipano ai progetti e svolgono il
ruolo di sentinella sul territorio per la tutela dei beni archeologici. Sono proprio loro, in molti
casi, a occuparsi degli scavi e della tutela anche all’interno delle aree private. «Non
sappiamo ancora come avverrà la riorganizzazione — aggiunge Frontoni — ma rischiamo
davvero di ritrovarci senza i giusti contatti di lavoro. Il dramma è che non siamo stati
considerati minimamente perché noi free lance figuriamo negli elenchi del ministero e della
soprintendenza, ma non abbiamo un albo professionale. Il risultato è che siamo senza
tutele». Le politiche messe in campo, a quanto dicono, non vanno nella loro direzione.
Salvo Barrano ha 40 anni, è specializzato in archeologia classica ed è il presidente
dell’Associazione nazionale archeologi. Lavora con successo da free lance sia con la
soprintendenza che con i privati. E contesta la riforma «perché sembrando staff affiatati
per ricomporli sotto altre forme allungherà i tempi della burocrazia a danno dei cittadini».
Nel mirino della critica i bandi per i volontari. «A dicembre — spiega — hanno indetto un
bando per 1265 unità di servizio civile volontario nei luoghi della cultura con mansioni
tecniche, a poco più di 400 euro al mese. Vi sembra rispettoso della nostra
professionalità?». Chiedono ora una revisione del testo che per il Mibact, invece, resta
intoccabile.
Del 2/02/2016, pag. 17
POLEMICA
La risposta a Scanzi sulla scomparsa del genere dalla tivù
HANNO UCCISO LA SATIRA, MA NON ME
DANIELE LUTTAZZI
Conosco Andrea Scanzi da quando era un giovane giornalista di belle speranze che
scriveva di musica sul Mucchio Selvaggio e seguiva tutte le date toscane dei miei tour. Lo
ricordo, con la dolce Linda, ospite squisito nella loro bella villa di Rigutino (AR). Un giorno
mi chiese se potevo scrivere la prefazione al suo primo libro di racconti. In tono affettuoso,
la mia introduzione parodistica sgamava un difetto di Andrea che, purtroppo, col tempo è
peggiorato: il kitsch sentimentale. Luogo classico della retorica bassa, il kitsch
sentimentale si compiace del patetismo, ed è l’errore artistico che vizia la cultura popolare,
cui reca successo: ne originano quegli aspetti ridicoli che sono eufemizzati dal gusto camp
( Luchino Visconti che guarda Sanremo per sghignazzare con gli amici).
Tollerabile nella cultura di massa, il kitsch sentimentale diventa, quando contagia un
giornalista, una vera disgrazia: non per lui, che ne lucra consensi facili, ma per i suoi
lettori. Forma e sostanza dei suoi pezzi, infatti, ne vengono così influenzati che la realtà
raccontata non corrisponde più al vero.
FORMA E SOSTANZA del contenuto. Ogni pezzo di Andrea Scanzi ha la forma e la
sostanza di un necrologio. Non solo quando si occupa di grandi artisti defunti che non
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hanno alcun bisogno della sua commemorazione commossa (Gaber e De André, da lui
usati come vetrina personale come Koons ha fatto con Piazza della Signoria), ma
soprattutto quando prende di mira fenomeni ancora vivissimi, di cui descrive una
decomposizione che solo lui vede, e che non c’è. Il modello, che una volta notato diventa
stucchevole (la stucchevolezza è il principale indizio di kitsch sentimentale), è sempre lo
stesso: X, che una volta era un grande, ora non lo è più. Variante: anche se ora non lo è
più, X era un grande. Il modello gli serve per denigrare, la variante per esaltare; ma
l’effetto ricercato è sempre lo stesso: il kitsch se timentale.
ANDREA SCANZI, il Mogol dei coccodrilli. Gli ultimi due pezzi di Andrea sono un esempio
flagrante del suo modus operandi. Il titolo del primo è tutto un programma: “Benigni, quel
che resta di lui”. Siamo già all’ossario. Andrea comincia accusando Benigni di incoerenza:
“Voterà sì al referendum che vuole sancire lo sfascio della Costituzione, lui che faceva
sermoni sulla sacralità della Costituzione”. È un errore di ragionamento piuttosto comune:
la petizione di principio. Che il referendum sfasci la Costituzione, infatti, lo sostiene Scanzi.
Benigni la pensa diversamente. Non c’è incoerenza. Posati i binari della premessa fallace,
Andrea può farvi procedere il suo solito trenino a due vagoni. Nel primo, fa sedere l’artista
che una volta gli piaceva; nel secondo, l’artista di oggi, che non gli piace più. Al suo
fermodellismo manca il treno in cui l’artista evolve secondo criteri
propri, non quelli scanziani, e quindi il lettore non può giungere ad altre destinazioni. Come
se non bastasse, il tono del capostazione Andrea è spesso paternalistico (“voglio essere
buono”): ma considerarsi superiori agli artisti è un pregiudizio giornalistico piuttosto diffuso,
e non si possono addossare a uno le colpe di tutta una categoria. Sostenere però che un
artista, siccome non la pensa più come te, non è più un grande artista, è un salto logico da
purismo grillino.
SATIRA R.I.P.
Nell’altro pezzo, in un’esagerazione di pompe funebri, Andrea fa addirittura il necrologio a
tutta la satira televisiva italiana. Infatti il titolista, che ha capito il trucchetto, compone un
fenomenale “Pace alla satira sua”; ma la materia è troppo vasta per l’articolista, e la sua
corona di fiori non basta per tutte le bare. Come da modello, sul primo vagoncino di
Andrea troviamo la satira tv di una volta, sul secondo quella di oggi. Il viaggio comincia
con la domanda: “Che fine ha fatto la satira in tv?”, e procede bene nel ridente panorama
storico ricostruito, ma a un certo punto il trenino scambia le cause con gli effetti, e
deraglia. Per riportarlo sui binari, allora, occorre precisare che la nostra assenza dalla Rai,
prima, e da altre emittenti, poi, non fu un fenomeno accidentale, di quelli atmosferici, ma
un atto di censura, deciso ed eseguito da dirigenti scelti alla bisogna; e quindi sottolineare
quali, fra le cause elencate da Andrea, sono invece conseguenze: alcune strategiche (le tv
invase da programmi e intrattenitori comici dissimulano l’a v v en u t a censura alla satira),
altre inevitabili, ma che non c’entrano con la sparizione della satira dalla tv italiana
(all’estero, il ruolo meno dominante della tv e i gusti delle nuove generazioni non hanno
intaccato la quantità e la qualità della satira tv), altre comprensibili, ma non determinanti
(l’auto - censura dei comici, poiché la censura funziona e stronca carriere; o
l’impreparazione satirica dei nuovi). Se nella tv italiana non c’è più satira, ma solo
divertimento e caricature irrilevanti, la colpa è esclusivamente della censura di questi anni
di inciucio. Dirigere l’attenzione altrove è una mistificazione che sminuisce la portata
dell’azione censoria.
MA ANDREA mi ha già messo nel secondo vagone, quello patetico: “Il satirico si è
sostituito al politico (…) situazione anomala e scivolosissima che ha visto negli anni
smarrirsi lo stesso Luttazzi, tornato in tv con il monologo strepitoso a Rai per una notte
(2010) e poi inciampato nella querelle plagio e in un ostinato mutismo rancoroso che fa
male tanto a lui quanto a noi.” Non mi sono mai smarrito in vita mia, caro Andrea, e sono
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alquanto prodigo di ciarle, per un muto ostinato e rancoroso. Ho continuato a fare satira,
politicamente: come ho spiegato in tutte le interviste possibili, ho deciso di non fare teatro
finché non potrò tornare in tv. La censura, eseguita nell’ombra, va portata alla luce: è il
senso politico della mia assenza dalle scene, che nessun giornalista ha ancora raccontato.
(…) Non commettere anche tu l’errore di confondere la realtà vera con la realtà creata dai
media. È il caso della querelle plagio. Dopo quel monologo che denunciava l’inciucio
bipartisan, alla minimizzazione seguì una campagna stampa diffamatoria che
strumentalizzava falsità diffuse in Rete da anonimi incompetenti. Non c’era alcun plagio,
né i comici stranieri gentilmente informati dai diffamatori mi hanno fatto causa. (…) Parlare
ancora, dopo sei anni, di generica querelle plagi, è un modo per continuare la gogna a
mezzo stampa, parandosi il culo. Continua pure. Se però vuoi approfondire davvero la
materia, nelle mie interviste sul Fatto trovi tutti i riferimenti utili. Scoprirai, fra l’altro, che
uno dei responsabili di quel killeraggio ha confessato la mascalzonata (nascosero la parte
rilevante della vicenda per darmi del disonesto) e mi ha chiesto perdono. Che bella storia,
eh? Puro kitsch sentimentale. Buon appetito
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 2/02/2016, pag. 9
Scuola, già pronti migliaia di ricorsi contro il
concorso
Da assumere 63 mila prof: il testo ancora non c’è, ma tra abilitati,
precari storici ecc. monta la protesta
di Virginia Della Sala
Il miraggio del posto fisso: a breve sarà bandito il concorso per l’immissione in ruolo di
63mila insegnanti. Un bel numero, anche se a fronte dei 300mila pensionamenti previsti
dai sindacati nei prossimi tre anni. Eppure in molti si stanno mobilitando: riforma dopo
riforma, l’iter per insegnare ha subìto troppi cambiamenti. E agli aspiranti docenti spesso
non resta che il ricorso. Eccone un sunto.
Gli abilitati del Tfa. Hanno frequentato il Tirocinio formativo attivo: un esame d’accesso, 3
mila euro e un anno di studio per abilitarsi nella loro materia. Ma nel 2012, mentre iniziava
il primo ciclo, era stato istituito anche un concorso per l’immissione in ruolo a cui, secondo
il bando, non poteva partecipare chi non fosse abilitato. In molti hanno partecipato lo
stesso e poi hanno vinto il ricorso (lo Stato aveva fatto passare troppo tempo dall’ultima
abilitazione). Ha frequentato poi il Tfa anche chi, anni prima, era stato ammesso alla Siss
(scuola sia per l’abilitazione sia per l’immissione in ruolo) e l’aveva congelata. Oggi, questi
congelati stanno vincendo i ricorsi per l’inserimento in ruolo. Così alcuni si chiedono
perché a parità di percorso formativo non debbano avere la stessa opportunità. Inoltre,
secondo le bozze del decreto sul concorso – su cui ha espresso parere negativo il
Consiglio superiore della pubblica istruzione (Cspi) – tutti dovranno essere giudicati sui
contenuti e le nozioni già valutati durante laurea, corso abilitante e tirocinio a scuola.
I Pas. Sono coloro che, con almeno tre anni di insegnamento alle spalle, sono entrati nel
2013 nei cosiddetti Percorsi abilitanti speciali. Ora devono fare il concorso nonostante nel
2014 la Corte di giustizia Ue abbia bocciato “il sistema di contratti a tempo determinato per
soddisfare esigenze permanenti delle scuole statali”, ritenendolo contrario al diritto
dell’Unione: chi ha raggiunto i 36 mesi di lavoro dovrebbe essere assunto a tempo
indeterminato. Anche per evitare una procedura di infrazione, nel 2015 il governo ha solo
deciso di esaurire e chiudere le Gae, le graduatorie a esaurimento in cui andavano a finire
tutti gli abilitati fino al 2008, lasciando fuori i Pas. Chi è nelle Gae, o è stato assunto o deve
esserlo nei prossimi mesi: molti dei Pas hanno invece fatto ricorso per accedervi e non
dover fare il concorso.
Scuola dell’infanzia. Sono circa 2mila gli insegnanti e le loro graduatorie di merito (Gm)
non si sono ancora esaurite e quindi non sono stati stabilizzati. La “Buona scuola” aveva
congelato le assunzioni, in attesa di un nuovo progetto che, però, non è stato ancora
avviato. Per legge, le vecchie graduatorie decadono quando ci sono le nuove e così
rischiano di dover rifare il concorso.
Non abilitati e Itp. Il 27 gennaio, il Cspi ha evidenziato alcuni problemi nelle bozze. “La
scelta di bandire un nuovo concorso solo per abilitati potrebbe essere fonte di contenzioso
– si legge nel parere non vincolante – e si segnala il caso degli Insegnanti tecnico pratici
(Itp) per i quali non è mai stato istituito un percorso abilitante”.
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Nuove classi di concorso. Nel delineare le nuove classi di concorso (materie che si
insegneranno), le bozze presentano un problema: la nuova formulazione spesso non
corrisponde a quella dei corsi abilitanti. Un esempio? Chi si è abilitato in una classe di
elettronica ora potrebbe trovarsi a concorrere nella classe che accorpa elettrotecnica (in
cui non si è abilitato) ed elettronica. E a dover studiare un programma che non aveva
previsto nel suo piano.
Da Avvenire.it del 02/02/16,
«Baby rifugiati operai della moda»
Il colosso della moda a basso costo svedese H&M ha ammesso di aver identificato
bambini siriani tra i lavoratori impiegati nelle fabbriche di un fornitore in Turchia. Lo rivela il
sito web di l'Independent: la catena di abbigliamento internazionale e il brand Next sono
stati gli unici ad ammettere che minori rifugiati vengano impiegati negli stabilimenti in
Turchia, ma lo scandalo potrebbe riguardare molte altre compagnie del
settore.
In Turchia si trova uno dei principali poli di produzione di articoli di abbigliamento per le
grandi catene internazionali, insieme a quelli di Cina, Cambodia e Bangladesh. I fornitori
turchi producono anche per marchi di diverse fasce come Burberry, Adidas, Marks &
Spencer, Topshop e Asos. Il Paese è nello stesso tempo quello dove si trova il maggior
numero di rifugiati siriani, più di 2,5 milioni, in fuga dal conflitto iniziato nel 2011.
Un report della ong Human Rights Resource Centre (BHRRC), citato da Independent, ha
sottolineato che pochi brand stanno prendendo le misure adeguate per garantire che i
rifugiati "non stiamo scappando da un conflitto" per cadere "in condizioni di sfruttamento
lavorativo".
Centinaia di migliaia di siriani adulti lavorano in Turchia per paghe molto al di sotto del
salario minimo che ammonta a circa 95,7 euro al mese. Bhrrc ha chiesto il mese scorso a
28 grandi marchi informazioni circa i loro fornitori in Turchia e la loro strategia per
combattere lo sfruttamento minorile e del lavoro adulto. H&M e Next sono stati gli unici a
rivelare di aver identificato minori nelle loro fabbriche nel corso del 2015 e di aver preso le
dovute contromisure consentendo ai minori, di cui non è stata specificata l'età, di poter
tornare a studiare e di aver dato un sostegno alle loro famiglie.
Primark e C&A hanno ammesso di aver identificato siriani adulti tra i lavoratori dei loro
fornitori. Adidas, Burberry, Nike e Puma hanno dichiarato di non aver nessun siriano tra i
lavoratori delle proprie catene di produzione. Stessa risposta data da Arcadia Group, che
detiene i brand Topshop, Dorothy Perkins e Burton Menswear.
Mark & Spencer, Asos, Debenhams e Superdry non hanno risposto alla domanda. GAP,
New Look e River Island devono ancora rispondere all'intero questionario.
Del 2/02/2016, pag. 29
Sono giovanissimi ma scommettono sui “nonni” nella vita come alle
elezioni, perché incarnano ideali, etica e radicalità In Francia puntano su
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Juppè, negli Usa spingono Sanders, in Gran Bretagna Corbyn. Ecco il
mondo che vuole la generazione cresciuta a cavallo del 2000
La rivoluzione politica dei Millennials
ANAIS GINORI
METTI una sera in discoteca con il nuovo idolo politico dei giovani francesi.
L’appuntamento è in un locale di Montmartre, tra ragazzi che bevono birra e scattano
selfie. Finalmente arriva il loro candidato, quello che sperano di lanciare fino all’Eliseo
nelle presidenziali del 2017. Alain Juppé si toglie subito la giacca, resta in maniche di
camicia tra gli applausi. È salito a piedi fino al Sacro Cuore, centoventi scalini, e neppure
una goccia di sudore. «Molti lo prendono in giro per la sua età, ma è il più moderno di
tutti» esulta Matthieu Ellerbarch, 24 anni, presidente dei comitati giovanili per Juppé alle
primarie dei Républicains: oltre duecento gruppi in tutto il paese. L’ex premier ha compiuto
70 anni nell’agosto scorso: se venisse eletto finirebbe il suo mandato a 77 anni. Ma per
molti militanti non è un problema. Come non lo è per i ragazzi che sostengono Bernie
Sanders, 74 anni, rivale di Hillary Clinton alle primarie americane e che, se vincesse,
potrebbe sfiorare gli ottant’anni alla Casa Bianca. «Almeno con Juppé — continua il
sostenitore ventenne — sappiamo che ci sarà un solo mandato e si impegnerà davvero
nelle riforme senza pensare a come essere rieletto». L’età non ha impedito neppure
Jeremy Corbyn, 66 anni, di vincere l’anno scorso la guida del partito laburista, il candidato
sovversivo amato dalle nuove generazioni.
Il giovanilismo non fa per i giovani. Anzi, i Millennials, quella generazione nata tra il 1982 e
il 2004, sono la categoria sociologica che sembra più vicina, per valori e affinità, ai senior.
Non è solo la politica a dirlo. In Francia, libri di autori novantenni come Edgar Morin e Jean
d’Ormesson sono amati soprattutto da lettori sotto ai quarant’anni che vengono alle
presentazioni a chiedere autografi. E qualche anno fa il manifesto della rivolta giovanile è
stato “Indignez-vous!”, Indignatevi, firmato da Stéphane Hessel, classe 1917.
Tutti pazzi per i nonni, visti più dei genitori come punto fermo in un mondo in tempesta,
ponte tra vecchio e nuovo secolo. I punti in comune sono tanti. Come la generazione che
ha attraversato le guerre, i Millennials sanno che il futuro non è garantito. Devono
affrontare crisi sociali ed economiche, la precarietà, il terrorismo, la minaccia del
cambiamento climatico. «È una generazione complessa da decifrare perché è cresciuta in
un mondo complesso» spiega Alexandra Jubé, responsabile nell’agenzia di tendenze
Nelly Rodi. Per i sociologi i Millennials sono ancora un’enigma, spesso in bilico tra gli
estremi. Individualisti e tolleranti. Distratti ed esigenti. Lontani dalla politica e impegnati in
azioni sociali dal basso. Critici del sistema ma non disposti a fare la rivoluzione. Nel lavoro
come nella vita, spesso antepongono il privato al pubblico. Negli Stati Uniti sono già
dominanti sul mercato del lavoro: 53,5 milioni, più della generazione X e dei baby
boomers. «Cambieranno totalmente i codici di consumo e gli stili di vita» prevede
l’analista.
Nella visione politica i Millennials sono in cerca della radicali- tà interpretata meglio dai
senior che non da generazioni più vicine, più inclini ai compromessi, cresciute in epoche di
benessere e progresso sociale. I nonni sono percepiti come outsider del sistema. I veri
“punk”, ribelli e antagonisti, ha scritto qualche giorno fa il Parisien, hanno tante rughe e
capelli bianchi. «I Millennials sono favorevoli alla democrazia diretta, rifiutano
l’intermediazione » racconta Anne Muxel, studiosa del centro di ricerca Cevipof di
Sciences Po e autrice di un saggio appena uscito, “Temps et Politique”. Come sul lavoro,
in cui i ragazzi non riconoscono più l’autorità assoluta, chiedono un’organizzazione
orizzontale e non verticale. Se è vero che molti giovani sono attratti da forze populiste, dal
Front National al Movimento 5 Stelle, Muxel osserva una tendenza in aumento per
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candidati che mettono avanti l’etica, tornando a valori antichi: la tolleranza, l’eguaglianza
sociale. La generazione “Me, myself and I”, come cantava Beyoncé, accusata di egoismo,
è invece capace di accettare le differenze, senza cedere alla tentazione dell’esclusione. I
politologi Vincent Tiberj e Antoine Jardin parlano di una gioventù “pluralista” perché è
mobile nelle scelte, ha abbandonato lo scontro ideologico tra destra e sinistra, e non
esprime due sentimenti polarizzanti del dibattito: il rigetto dell’immigrazione e la paura
dell’Islam. I “pluralisti”, notano gli studiosi, sono maggioranza tra i giovani, oltre il 60%,
soprattutto nella fascia più istruita. I Millennials difendono un immaginario politico aperto e
cosmopolita simile a quello nonni che hanno saputo accogliere e integrare tante ondate di
immigrazione, dal dopoguerra in poi.
Del 2/02/2016, pag. 30
L’economia. L’indicatore più evidente è l’auto: solo il 15 per cento dei
Millennials pensa che sia una priorità possederla E meno della metà
vuole la patente Tutti i consumi stanno per essere stravolti dai figli dei
baby boomers. Ecco come
Niente cose ma esperienze la generazione
sharing che ha imparato a rinunciare al
possesso
MAURIZIO RICCI
l futuro è già loro, naturalmente: i Millennials, nati fra il 1980 e il 2000 sono 12,5 milioni in
Italia, 160 milioni in Europa, altrettanti negli Stati Uniti. Trovarli, anche uno per uno, è facile
ai limiti del ridicolo: negli Usa, ce ne sono 70 milioni solo su Facebook. I politici stanno,
però, scoprendo che prendere i loro voti non è altrettanto facile: per farlo, devono
reinventarsi. Ma i problemi veri li hanno quelli che vorrebbero prendere, piuttosto, i loro
soldi. Quattrini sfuggenti, capaci di sbucare dove non ti aspetti e di prendere direzioni dove
seguirli è difficile. Per i giganti dell’economia e della società che dominano da sempre i
mercati inseguirli, però, è cruciale: solo negli Usa, nei prossimi anni, i Millennials si
troveranno in tasca 50 miliardi di dollari in più da spendere. Ma per le aziende che hanno
plasmato la vita e il quotidiano delle generazioni precedenti, i figli dei baby boomers
rischiano di essere una scommessa a perdere. Perché hanno cambiato le regole del
gioco. A dicembre, alla fine della Conferenza di Parigi sul clima, ho chiesto alla giovane
collega di un piccolo giornale olandese che aveva condiviso con me per una settimana il
banco della sala stampa se sarebbe tornata ad Amsterdam in aereo o in treno. Mi ha
guardato stranita: «Sei matto, con quello che costano? » ha risposto. «Torno in
macchina». «Sei venuta con la tua macchina?» ho chiesto incredulo. «Ma neanche per
idea» ha detto. Ha preso il tablet, ha digitato furiosamente per un po’. Ha aggrottato la
fronte. E ha cliccato con un dito. «Mi devo sbrigare — ha concluso — ho trovato un
passaggio fra tre quarti d’ora da Place de la Bastille». Tutti sappiamo che la
sharing economy ci consente di condividere, per il tempo necessario, un’auto, un taxi, un
alloggio. Qualche volta ne approfittiamo. La differenza è che i Millennials ci vivono dentro,
lo considerano la scelta ovvia e normale, spesso esclusiva.
Chi sono? «Più istruiti, più colti, più digitali, ma anche più poveri dei genitori», dice una
ricerca della Coop sui Millennials italiani. Questo vuol dire consumatori più sofisticati,
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meno facili da impacchettare nelle tradizionali strategie di marketing. «Finita l’epoca dei
percorsi di vita lineari e progressivi», spiega Diego Martone nel suo
I nuovi dei dell’Olimpo del consumo. «Al contrario, tante opzioni, con orizzonti temporali
molto limitati e potenzialmente reversibili: si lascia la casa di mamma, ma ci si può anche
tornare». Svanita l’idea della famigliola che mette su casa e figli, comprando
elettrodomestici e camerette, su cui sono stati costruiti interi castelli di marketing. Infine,
una decisa indifferenza al possesso, rispetto all’uso. Solo il 15 per cento di loro pensa che
comprare un’auto o una tv sia una priorità. L’immagine più efficace dell’economia dei
Millennials sono Netflix e Spotify: piuttosto che seppellire soldi per tenere a casa un video
o un cd, meglio pagare pochi euro di abbonamento per averne a disposizione migliaia a
comando. Il primo totem a barcollare è l’auto. Se un’auto condivisa, dicono gli esperti,
sostituisce 9 auto in proprietà, il parco macchine americano rischia di ridursi del 60 per
cento in pochi anni. Del resto, meno della metà dei diciottenni americani si preoccupa di
prendere la patente. Quindici anni fa era il 65 per cento. Un passaggio in auto si può
sempre trovare e, poi, serve sempre meno: la roba si compra online, invece che nei centri
commerciali e con gli amici, dice il 54 per cento dei Millennials, ci si sente su Internet. O li
si va a trovare in autobus o in metropolitana: usano il trasporto pubblico 40 per cento più
spesso dei loro padri o fratelli maggiori. Forse perché in autobus si può twittare senza
problemi. O anche perché vivono più volentieri in città anziché nei sobborghi. Il boom di
Airbnb invece dell’albergo, quando si viaggia, ha attratto molta attenzione, ma il gravitare
dei Millennials verso i centri delle città sta per rivoluzionare il patrimonio urbano
americano: fra dieci anni, potrebbero esserci 22 milioni di villette vuote, nei sobborghi.
Abituati a viaggiare, globalizzati nei gusti, i Millennials stanno anche costringendo i giganti
dell’industria alimentare ad una rincorsa senza fine. Corn flakes senza glutine, nuove linee
di prodotto senza coloranti o conservanti, caccia a inglobare produttori indipendenti di birra
artigianale o caffè a denominazione di origine controllata. Nei giorni scorsi, un colosso dei
liquori come Pernod Ricard ha deciso di investire in Monkey 47, un esotico produttore di
gin distillato con acqua e bacche delle montagne tedesche e erbe asiatiche, nella
speranza di catturare i Millennials che, negli ultimi anni, hanno fatto schizzare del 300 per
cento le vendite di bevande organiche. È un nuovo trend che affianca quello, già ben
consolidato, dei cibi organici: il biologico ha più che raddoppiato il fatturato dal 2003 ad
oggi.
Del 2/02/2016, pag. 30
L’esperto.
Sanno che non si è più ingegneri, medici o italiani per sempre Anno
dopo anno, cambiano lavoro, città, amici, lingua. Sono confusi ma non
vogliono confessarlo perché sui social la tristezza è bandita.
L’analisi di Stefano Laffi
“Ragazzi cresciuti nella precarietà Ma si sono
adattati diventando fluidi”
SIMONETTA FIORI
Non dicono mai “noi”. E faticano a trovare perfino l’“io”, frantumato tra identità diverse e
mutevoli. Chi sono i nostri millennials? Stefano Laffi è uno dei pochi ricercatori sociali che
abbia dato voce ai ragazzi. Studioso della cultura giovanile, ha promosso diversi progetti
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con i più giovani, cantieri nati in piccole città o nei quartieri. E da Feltrinelli pubblicherà in
primavera una ricerca sul loro immaginario, novecento testimonianze su desideri e paure
raccolte tra i sedici e i ventuno anni ( Quel che dovete sapere di me). «L’unico modo per
mettere a fuoco una generazione è capire in che condizioni s’è formata. E il tratto
prevalente è la precarietà che grava sul lavoro e sulla famiglia».
La parola più ricorrente, negli scritti autobiografici, è “futuro”.
«Sì, ma è un futuro appesantito dalla retorica della crisi con cui questi ragazzi sono stati
allevati. Nel corso dell’adolescenza sei chiamato a scegliere: ma oggi è difficile prendere
decisioni quando tutto sembra suggerirti l’impossibilità di realizzare sogni e progetti.
Un’incertezza diffusa che ha finito per modellare l’identità di questa generazione ».
In che modo?
«Si adattano alla precarietà rendendo fluida la propria vita. Prendiamo la sharing
economy: l’hanno inventata loro, i giovani senza soldi che condividono tutto, casa e
passaggio in macchina, il consumo di movie series e di prodotti musicali. Al culto della
proprietà preferiscono l’utilizzo temporaneo: sideralmente lontani dalla generazione
precedente».
L’incertezza produce identità mobili, in continuo cambiamento.
«Quando gli chiedi di raccontarsi, fanno fatica a dire una cosa sola. E infatti scrivono
elenchi, una lista sterminata di aggettivi e condizioni mentali. L’identità diventa un quadro
cubista dai mille risvolti, dove non c’è mai un’appartenenza nitida o una radicamento forte.
Non leggerai mai “sono di destra o sono di sinistra” perché in un mondo che non ha
certezza non puoi permetterti caselle. Non contano più né famiglia né status. E più del
cognome amano dire il nome ».
Nascono in un mondo in cui non si è più qualcosa per sempre.
«Non si è più italiani per sempre, non si è più ingegneri per sempre. Non basta più la
righetta che ti lascia a disposizione la vecchia carta d’identità. Professione: medico,
insegnante, operaio. Nessuno dei millennials se lo può più permettere. Fanno più lavori
contemporaneamente, cambiano città e perfino lingua. Sperimentano qualcosa che non
appartiene al vissuto dei genitori. Sono molto più simili ai loro bisnonni, costretti a
emigrare da un’Italia che non garantiva prospettive. E questa distanza da mamma e papà
produce insofferenza».
Ma non è un tratto tipico di ogni passaggio generazionale?
«Questa volta siamo di fronte a uno straordinario allargamento di orizzonti: è consigliabile
non usare la propria esperienza per capire la loro».
Dalle sue ricerche emerge soprattutto il bisogno di autenticità: un’insofferenza alle
maschere sociali imposte dagli adulti.
«Sì, è un tema molto avvertito. Dentro i nostri millennials dobbiamo distinguere tra i
trentenni ormai stremati da test e prove di ogni genere — spesso non premiate da risultati
concreti — e i più giovani che guardano con disincanto ai loro fratelli maggiori. E a un iter
accademico tradizionale preferirebbero un’esperienza di viaggio o il lavoro nel
volontariato».
Con quali conseguenze?
«Questi ragazzi — per lo più figli unici, dunque più seguiti — patiscono le crescenti
aspettative da parte di genitori che hanno investito su di loro. Questo ingenera un
sentimento di inadeguatezza, la paura di non essere abbastanza, tenuti ben nascosti
dietro la maschera sociale imposta dagli adulti: loro non chiedono altro che potersene
liberare».
I social media non appaiono in questo senso una palestra di libertà.
«Tutt’altro. Li costringono a una quotidiana esibizione di se stessi secondo un codice che
richiede bellezza, simpatia, divertimento. Nessuno si racconta mai triste, annoiato o brutto.
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Risultato: tutte le tonalità emotive che fanno parte della lunga età adolescenziale
raramente escono allo scoperto ».
L’esercizio quotidiano dell’esibizione di sé costruisce una nuova soggettività.
«Il modo di raccontarsi è diverso da quello dei giovani di trent’anni fa. Prima ti si chiedeva
di schierarti rispetto alla politica e l’ideologia, oggi prevale la narrazione intimista degli stati
d’animo».
Ma c’è un tema pubblico che più ricorre nei loro discorsi: è quello dell’ambiente.
«Sì, è il loro modo di sentirsi impegnati. Sanno di doverci vivere ancora per un bel pezzo.
E lo avvertono come il luogo dove le decisioni producono fatti concreti. Distante invece
appare il mondo dei partiti, luoghi- simbolo della mediazione: i ragazzi non amano i
processi di mediazione. Con l’ambiente il legame è di natura biologica. Il 2050 a loro dice
moltissimo, a noi quasi nulla ».
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ECONOMIA E LAVORO
del 02/02/16, pag. 4
Altro che correggere il bail-in
Draghi stoppa Visco e Padoan
Riccardo Chiari
ROMA
Silenzio, parla Draghi. E Bankitalia non ne esce bene, almeno sul tema caldissimo del
bail-in. Il presidente della Bce, nel suo intervento al parlamento europeo a Strasburgo,
invia un messaggio chiaro ai naviganti dell’intero continente, ma con un occhio di riguardo
verso l’Italia: per rendere sicuro il sistema finanziario europeo “bisogna assicurare
l’adeguata applicazione delle disposizioni sul bail-in della direttiva”. Di più: “E’ necessario
che il paracadute pubblico per il fondo salva banche ne rafforzi la credibilità, e bisogna
assicurare che la fiducia nella sicurezza dei depositi sia ugualmente alta in tutti gli Stati
membri, dando vita allo schema europeo per l’assicurazione dei depositi”.
Le parole di Draghi non fanno certo piacere a Ignazio Visco, che nel fine settimana al
Forex ha suggerito al governo Renzi di chiedere la revisione, “da avviare entro giugno
2018”, della direttiva Ue che prevede il bail-in. In altre parole del rischio di perdite, a carico
degli azionisti e dei sub obbligazionisti, nel caso di un crack di un istituto di credito.
Secondo il governatore di Bankitalia l’ipotesi non sarebbe peregrina: “La stessa norma
contiene una clausola che prevede la revisione: una occasione che va sfruttata, facendo
tesoro dell’esperienza”. Sul punto, Visco ha ricordato inoltre che sia Bankitalia, sia il
ministero dell’economia avevano richiesto di non applicare retroattivamente il bail-in, e di
farlo a partire “con un passaggio graduale e meno traumatico”.
Se può essere di consolazione per Visco — e per la coppia Renzi-Padoan – l’Eurotower
bastona anche la Germania. Draghi segnala infatti che le misure decise dalla Bce, a
partire dal quantitative easing, sono state “molto efficaci”. Poi puntualizza: “Queste misure
hanno portato a un miglioramento dell’economia su ampia base, stimolato il credito e
sostenuto la ripresa. Senza queste misure la zona euro si sarebbe trovata in una
conclamata deflazione, e la crescita sarebbe stata più bassa”. Ancora più bassa di oggi.
Non può mancare uno sguardo al tempestoso scenario mondiale, che secondo Mario
Draghi è una concausa della complicata realtà dell’eurozona. Dove c’è “una ripresa
moderata, guidata prevalentemente dalla domanda interna. Ma i rischi al ribasso sono
aumentati, in mezzo a incertezze più elevate sulle prospettive di crescita delle economie
emergenti, sulla volatilità nei mercati finanziari e delle materie prime, e sui rischi
geopolitici”. Conclusioni: “La crescita è bassa. E sarà necessario riverificare, e forse
riconsiderare, la posizione di politica monetaria nella prossima riunione all’inizio di marzo”.
Le attenuanti segnalate dal presidente della Bce non bastano comunque a compensare le
critiche. Quelle verso l’Italia si legano alla posizione di Bankitalia e governo Renzi sul bailin. Peraltro Ignazio Visco al Forex ha difeso l’operato di Bankitalia su Cariferrara,
Carichieti, Banca Marche e Banca Etruria: “La sequenza degli interventi è stata posta in
atto come in tutti gli altri casi affrontati negli ultimi 15 anni. E il taglio al 18% circa del
valore nominale delle sofferenze è stato determinato non in modo discrezionale, ma in
base a precise norme europee. Non c’erano alternative concrete, tranne quella ben più
traumatica della messa in liquidazione”. Per giunta, ha aggiunto Visco, Etruria aveva
rifiutato l’offerta della Popolare di Vicenza.
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Nel mentre Piazza Affari sembra premiare la possibile aggregazione di Bpm (+1,2%) e
Banco Popolare (+6%). Cedono ancora invece Mps (-4%) e Carige (-0,3%). La
capitalizzazione del Monte resta sotto i due miliardi, ma i suoi vertici, insieme a quelli di
Ubi banca, smentiscono aggregazioni. Anche perché, al di là dei crediti deteriorati, negli
ultimi dieci anni le fusioni non hanno praticamente mai dato frutti.
del 02/02/16, pag. 31
Formarsi con il bollino blu
Dai seminari alle attività sportive, i sistemi che certificano le vostre
competenze
Un curriculum a cui aggiungere sempre più “stellette”. È quello a cui aspira il neolaureato
di oggi perché le competenze richieste sono di più e la concorrenza sul mercato del lavoro
aumenta. Tra le ultime novità in merito ci sono gli Open Badges, una nuova modalità di
riconoscimento digitale e certificato delle proprie competenze, introdotto dalla Mozilla
Foundation e già utilizzato in diverse città del mondo per valorizzare il patrimonio di
soggetti formativi di un’area urbana e delle «skill» acquisite dai cittadini da spendere in
ambito professionale. L’esempio più noto è quello di Chicago City of learning (
https://chicagocityoflearning.org/ ).
«Milano è la prima città italiana ad avviare la sperimentazione di questo sistema digitale
che permette di certificare online le competenze maturate dai cittadini iscritti e riconosciuta
a livello internazionale. Per l’anno scolastico 2015-2016 abbiamo avviato la
sperimentazione sui corsi di lingua del Comune di Milano, in partnership tecnica con
Consorzio Cineca che ha messo a disposizione la propria piattaforma Bestr», spiega
l’assessore alle Politiche per il Lavoro Cristina Tajani.
Anche l’Università Bicocca o il Centro Servizi per il Volontariato hanno fatto analoghe
sperimentazioni su alcune loro esperienze formative. L’Ateneo riconoscerà agli studenti
una serie di competenze trasversali e le certificherà attraverso gli Open Badges a partire
dagli esami alle attività sportive, dalle iniziative inserite nel progetto iBicocca ai JobsDay,
dai seminari alle proposte culturali.
Ma quali saranno i vantaggi effettivi? «Oltre al riconoscimento e alla certificazione delle
skill e delle conoscenze acquisite con attività extracurriculari, avvalendosi degli Open
Badges gli studenti potranno incrementare la loro visibilità e la loro web reputation; sui
social network importanti per l’ingresso nel mondo del lavoro, come Linkedin, Twitter o
Facebook, non dovranno più “autocertificare” tutto quello che han fatto e sanno fare grazie
alle loro attività extracurriculari: sarà l’Università Bicocca stessa a certificare questi
traguardi», precisa il prorettore Paolo Cherubini che aggiunge che l’Ateneo intende
concretizzare, in sinergia con le aziende e le istituzioni del territorio, un catalogo di attività
formative “a sportello”, che non siano per forza master o corsi di laurea.
Anche l’Università Bocconi pone molta attenzione alle certificazioni. Bruno Busacca, dean
della Sda cita per esempio il Bec, business excellence certificate rivolto a manager che
abbiano superato con successo programmi di formazione executive su misura per la loro
attività. La stessa Sda fa parte dell’1% delle business school accreditata dai maggiori
organismi di valutazione .
Irene Consigliere
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