B - Federico Li Calzi

Transcript

B - Federico Li Calzi
tra@art poesia
poeti del terzo millennio
Dello stesso autore
nella collana poesia:
“Poetica Coazione”
federico li calzi
dittologie congelate
prefazione di nuccio mula
postfazione di enrico testa
tra@art 2012
Edizioni Cerrito
In copertina:
“INTERIOR”, di Mark Kostabi, 1986, olio su tela.
Per gentile concessione del Maestro.
Federico Li Calzi e Nuccio Mula ringraziano l’amico Mark Kostabi,
uno dei più grandi Maestri dell’Arte contemporanea, per la pronta
e cortese disponibilità con cui ha autorizzato la pubblicazione,
in copertina, di una sua straordinaria opera pittorica, da loro
specificamente scelta poiché perfetta sintesi visuale dei sentimenti
e dei temi trattati nel presente volume.
“Dittologie Congelate”
TRA@ART (2012) Edizioni Cerrito
Tutti i diritti riservati all’Autore
© Federico Li Calzi
Info & Contacts:
[email protected]
www.federicolicalzi.it
PREFAZIONE
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
Vincenzo Cardarelli
Più che ad un’incongrua benché provocatoria e mordace
forzatura di quell’esprimere per definizioni che, alla figura
retorica della “dittologia” (o “dissologia” che dir si voglia o
si scelga, nella palese giunzione d’etimo di “doppio discorso” e “doppia espressione”), riserva l’accostamento “in coppia” di vocaboli dal significato affine o dall’evidenza morfologica manifesta, onde volutamente amplificarne o più
icasticamente cesellarne l’offerta semantica e la potenzialità
ritmica d’impatto per intuizioni, propositi, termini e forme
fra i segni e nel segno dell’inequivocabilità ( “allegro e felice”,
“E vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto, / nel tempo de li
dèi falsi e bugiardi”, Dante, Inf.; celebre pure l’es. in Petrarca,
“Muovesi il vecchierel canuto et bianco”), questa insolita titolazione nella trinitaria cifra del sorprendere, dell’avvincere e
dell’affabulare (“Dittologie Congelate”) insindacabilmente
prescelta dall’Autore a contrassegno e “scanner” di questa
sua nuova raccolta poetica, m’appare piuttosto rimandabile,
in tutta evidenza di riscontri testuali, ad un “cogitare”, per
discorsi & dintorni, eloquentemente dichiarato, in una delle
più significative liriche del presente volume, a proposito di
“nastri che, paralleli, scorrono e noi ascoltiamo senza ritorno” poiché
“abbiamo il compito di farlo”.
Senza ritorno (“vestigia nulla retrorsum”, nessun passo indie-
Prefazione
tro nelle intenzioni, dichiarate o sottintese, di ognuno dei
due comprimari; e per l’Autore, nel reiterarsi del peregrinare
investigante avviato già con “Poetica Coazione”, soltanto
l’assillo di reperire, in qualche modo, chiarimenti giammai
sentiti od esternati al replicare d’ascolto dell’altro “nastro
parallelo” che continua, anche in questo libro, a riprodurre
silenzi); e senza sintonie neanche meccanicamente “fisiche”
d’un percepire propedeutico all’udire e al “sentire” in ogni
momento di questo “scorrere parallelo” che, in evidente
analogia con il famoso postulato di Euclide (e con tutte le
sue successive confutazioni e “querelles”) circa quelle “rette
parallele” destinate (o forse no) ad incontrarsi solo “all’infinito”, anche nella presente mutazione in “nastri paralleli”
dovrebbe trovare (o forse no) un ipotetico punto d’incontro
soltanto “all’infinito”, per quanto, in quest’ultimo caso, lo
scorrere dei due nastri paralleli non presupponga e consenta, diversamente dal caso delle “rette parallele”, dinamismi
di già intraprese percorrenze comuni (ovvero, esemplificando, anche parzialmente schematizzabili in geometrismi che
confermino, senza eccezioni e senza dubbio alcuno, grazie
all’immediatezza del riporto grafico, tensioni direzionali
comunque “fisicamente” condivise sullo stesso piano), dal
momento che i predetti nastri proseguono a scorrere “ad
libitum”, ma senza un inizio e senza una fine, senza una
qualsivoglia pulsione verso un qualsiasi “infinito” su cui poter individuare un qualunque materiale o ideale “punto d’incontro”: ed è proprio per tale inopinato “congiungimento
disgiunto” di potenziali dinamismi comuni ridotti a forzate,
comuni staticità, che le “dittologie” di cui sopra vanno a
spiegare il perché di questo loro essere “congelate”.
“Dittologie Congelate”, allora; e di certo in rapporto fisiologico, “naturaliter”, per analogia d’intenzioni ed ostensioni,
con il precedente florilegio del quale va a riproporre an-
VI
Nuccio Mula
che quell’olezzo dolciastro ed acre di fiori decomposti che
prosegue ad intriderne gli scenari e le quinte, quantunque,
nell’odierna proposta editoriale, l’architettura scenografica
/ scenotecnica chiamata ad interfacciarsi con questi nuovi
ma già noti parallelismi d’inconciliabilità sia tutt’altro che
una replica “tout court” del precedente macchinare per esiti
di ambienti; laddove, anzitutto, la predominanza oggettiva
d’un “esterno notte” in totale affinità con la preponderanza
del rievocare testuale (sintonia di atmosfere che, tra l’altro,
in “Poetica Coazione”, immediatamente mi convinse del
suo manifestarsi, ed in tutta evidenza, “hopperiana”, tant’è
che anche la copertina intese rinsaldarlo) cede il passo (e il
senso, il cogitare, l’umore, le cromie, i toni e quant’altro
ancora nella ripartenza del rievocare) ad una sorta d’immenso “interno giorno” aureolato, tuttavia, non da nitidezze
di fulgori ma da luminescenze di “aurora boreale” in cui
soltanto linee d’ombra conradiane ed ombre lunghe come
dilatazioni fisiche dell’ “excurrere” adesso divengono regolatore isotermico e “container” per il già “congelato” ed il
“congelabile”.
Ibernazioni di sopravvivenze, però, e non assiderazioni
“strictu sensu” a scongiurare ogni temporale iattura di deperibilità d’un “già estinto” non ancora scollegabile da residue
quanto inutili venerazioni di reliquiari, laddove, in Li Calzi,
la splendida, esoterica tesi di Federico von Hardenberg, più
noto come Novalis (“Ogni parola è parola di evocazione”) prosegue ad interagire con estremi ma infruttuosi tentativi del rianimare su questo “ibernato” tutt’oggi pregno di pulsioni e
di flussi ancorché in attenuazione d’ipotermia conservativa,
in una residuale ma caparbia consapevolezza dell’oggettivo
relativismo di qualsivoglia prematuro arrendersi all’evidenza
di un’incomunicabilità sperimentata, conclamata, testimoniata ma non ancora indomabile ed invincibile; e ciò so-
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Prefazione
prattutto se, in subordine ad ogni ormai effimera voluttà di
vittoria dell’Autore, a lui fosse concessa semplicemente una
“ultima chance”, un chiarirsi estremo, definitivo, irripetibile,
liberatorio, a permettergli, alfine, d’esorcizzare ed estinguere
un passato sul quale, anche poeticamente parlando (e con la
certezza d’una piena condivisione da parte dell’Autore) si
possa sentenziare, già ora, il “tertium non datur”.
Anche in questo suo riproporsi lirico, Federico Li Calzi continua ad impressionarci e a coinvolgerci nel suo detonante, impietoso, flagellato monitorare, anteponendo un secco
preliminare d’intesa che, al tempo, diviene inequivocabile
dichiarare d’intenti, e che ritengo qui riportabile “in toto”
non con le sue parole ma tramite l’impressionante analogia
d’un riscontro, datato qualche anno fa, ed a firma del geniale
scrittore surrealista Claude Courtot:
“Io porto soltanto messaggi di dislocazione e frammenti disparati
di comunicazione spezzettate. E tuttavia la situazione in cui mi
trovo, qui davanti a voi, mi sembra così poco reale che provo il
bisogno di prolungarla più di qualunque testo. E’ questa situazione stessa che regge ai miei occhi tutto il peso poetico di questo
incontro. (…). Chi ero quando pensavo di venirvi a incontrare?
Formulata al passato, la domanda non è più semplice, è illusoria
come la storia. Spesso vedo persone e cose dietro una nebbia,
provo una specie di vertigine che non è prodotta dalla paura del
vuoto, ma dalla tentazione del tempo. Io cammino sul margine
del tempo che mi attrae come uno specchio. E vi vedo, voi e una
persona che vi parla, che mi assomiglia al punto che crederei
volentieri che fossi io tutt’intero se, contemporaneamente, non provassi la sensazione che io esisto anche fuori dello specchio, in una
sorta di al di qua provvisorio”.
Lo specchio, appunto; lo stesso specchio più volte presente
in questo rinnovato e sofferto “cogitare lirico”. “Se cerchiamo
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Nuccio Mula
di osservare lo specchio in sé, alla fine non troviamo che le cose su di
esso; se vogliamo afferrare le cose, non troviamo altro che lo specchio”,
scrisse Friedrich Nietzsche; ed è proprio qui che va a depositarsi il “trameare”, il “transmeare”, il “passare al di là”
utilizzando un tramite, una via traversa per la quale si voglia
percorrere più presto e non veduti, o una scorciatoia, un
sentiero, un viottolo che scorra attraverso alla via maestra;
e anche lo stesso concetto di trama, identificata non quale
complesso dei fili dell’ordito rialzati dai licci per lasciar passare la spola, ma come filo stesso di cui si riempie l’ordito,
quello “specchio” che ha la stessa identità etimologica di
“spicio”, di “guardare”, verbo che, a sua volta, ci riporta
anche al tedesco “ward” ed all’antico sassone “waron”, cioé
a due termini che vogliono significare, simultaneamente, gli
atti dell’osservare e del vigilare (un solo esempio: “guardarsi” da qualcuno o da qualcosa; e “ward” contiene anche i
germogli di termini quali “guardiano” e “vallo”, cioè trincea
difensiva: il che ci aggancia, indirettamente, anche al significato configurativo di “occhio”, laddove, a specificarlo, si va
ad identificare non solo la sua potenzialità fisica di visione,
ma anche il suo detonante intellettuale di “ago” che penetra
nel reale e nell’immaginario con tutta la sua apparente onnipotenza e / o l’effettiva possanza di monitoraggio).
“Se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto su uno specchio:
appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era”
(Atti degli Apostoli, Giacomo, I, 23-24);
ed anche in queste nuove pagine di tormento, lo specchio,
nel riflettere l’esterno e l’esteriore, invita, “apertis verbis” od
in via indiretta, un volto, e solo “quel” volto, al “reflectere
animum”: ma di nuovo invano.
IX
Prefazione
Ed ancora, ugualmente richiamato a reiterare il suo fisico
denotarsi e le scaturigini delle sue connotazioni di patimento ad abbarbicarsi sulle infinite piattaforme fenomenologiche dell’incomunicare, ritorna il Silenzio, più volte ritrascinato sullo scenario poetico per l’intrecciarsi di trame a
replicare solo il primo atto, il più drammatico, il più sconcertante e irritante, della sua Tetralogia (silenzio letterale,
allegorico, morale, divino), nella misura in cui all’impetrante
“silenzio d’ascolto” costantemente scansionato dall’Autore
come ulteriore sollecitazione asemantica, “non verbale” ma,
in uno, eloquentissima, di risposte da sempre e sempre eluse
tramite strategie di respingimento (e forse pure d’anomala,
controproducente autodifesa in chiusura a riccio) va a contrapporsi, di fatto ed ai fatti, un “silenzio d’indifferenza”
che stoppa, respinge, ignora, isola, si isola, diventando, paradossalmente, anche a suo modo “loquace”, ergo abilitato
a lottare ad armi pari con la Parola, contrapponendo al “noi
siamo quel che diciamo” un “noi siamo quel che non diciamo” rivelatosi qui vincente (mi sovviene, per congruità
di riporto ed astenendomi da un parteggiare, il Montale di
“Ossi di seppia”: “Voi, parole, tradite invano il morso / secreto, il
vento che nel cuore soffia. / La più vera ragione è di chi tace”).
Ma è, piuttosto, nel grande Puskin (“La parola d’un poeta è
essenza del suo essere”) ed in Alfred de Vigny (“la poesia è una
malattia cerebrale”, intesa come incombenza epifanica della
“krisis”, del “dubito, ergo sum” kierkegaardiano, come ulteriore rimando allo specchio come “speculum memor” dell’Io,
del “non-Io” e delle loro “quiddità”, ovverosia non solo del
mondo e delle sue “coseità” evidenti o apparenti, cristalline
o mendaci) che va a nuovamente a dimensionarsi e perimetrarsi il macrocosmo / microcosmo espressivo di Federico
Li Calzi, il quale, memore della geniale considerazione di
Goethe (“Gli autori più originali non lo sono perché promuovono
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Nuccio Mula
ciò che è nuovo, ma perché mettono ciò che hanno da dire in un modo
tale che sembri non sia mai stato detto prima”) e dell’illuminante
presupposto di Claudio Magris (“Scrivere è trascrivere… Uno
scrittore trascrive storie e cose di cui la vita lo ha reso partecipe: senza
certi volti, certi eventi grandi o minimi, certi personaggi, certe luci, certe
ombre, certi paesaggi, certi momenti di felicità e disperazione, tante
pagine non sarebbero nate”), insiste, nella sua particolarissima
vigoria d’impatto creativo e stilistico (qui mi balena lo sciabolante cogitare di Gertrude Stein: “Uno scrittore deve avere
uno stile. Oggi è la cosa principale. Bisogna distruggere tutti i vecchi
modi di sentire le cose, di vederle, di dirle”), ad inanellare le sue
“parole / parabole” in questa loro multivalenza “gravida”
e non “sterile”, frutto di un uomo “parlante” e giammai
“parlato” (ergo imprigionato nella galleria del vento, senza
uscite, della “parola / non parola”, mentre è pur vero, e
l’immortale Rainer Maria Rilke aveva ragione da vendere,
che “si scrive perché la vita non basta”), parole di concretezza
e di solidissimo spessore propositivo (“La parola è l’ombra
dell’azione”, annotò Democrito, citato da Diogene Laerzio
nelle sue “Vite dei filosofi”: e non dovremmo mai e poi mai
dimenticare, in tal senso, che “Pòiesis” ed Arte condividono
“ab origine” l’etimologia di “azione”, e giammai di segno o
suono finalizzato ad estetica fine a se stessa o, peggio, ad
insulse, deleterie vuotaggini, dal momento che anche Victor
Hugo ebbe splendidamente a sentenziare: “La parola è un
essere vivente”).
A sfogliare attentamente le pagine di questa secondo ed altrettanto prezioso florilegio lirico, di queste parole pregne,
pulsanti, energiche, alte, mai ginocchiate a capitolazioni di
sorta, significanti e significative nell’appello e nell’autorichiamo ad un agire sempre, dovunque e comunque, ne
constateremo grande quantità, dall’inizio alla fine, senza soste di demotivazione o, peggio, incongrue pause di ripensa-
XI
Prefazione
mento; e tutte in grappoli concettuali ed emotivi saldi, cioè
giammai impalpabili, polverizzati da iperintimismi di lacrimevoli, penose trascolorazioni.
Vi troveremo, allora, ricordi come linfa e veleno; solitudini non come dannazioni divine ma scaturigini esistenziali;
camere di compensazioni a distillare e calibrare inesauste,
infinite, imprevedibili categorie di mendacio; teorie di atmosfere rarefatte per simbolismi di rimembranze in una
sorta di “surplace” dello scansionare rievocativo attraverso
sceneggiature ed inquadrature di spazio / tempo per affabulanti “piani-sequenza” solo in apparenza squassati da un
sussultare di estasi e angosce in simultanei dinamismi ma, in
realtà, pronti a sedimentare ed a stabilizzarsi in totemizzanti/totemizzate staticità dalle connotazioni formali eminentemente metafisiche; longitudini e latitudini d’un pervicace,
mai rassegnato monitorare / investigare su ormai residuali
reperti di labirinti tramutati dal vivere riciclante in cretti a
ricoprirne / occultarne dedali, vie di fuga e vicoli ciechi; incessanti ricerche nel segno e nel tormento dell’ “ex-cavare”
per inebriare di luce scenari nascosti da stratigrafie di detriti
e di polvere in fibrillazioni di moti sussultori, nella vana speranza d’un “resurrexit”.
E poi l’animo e l’anima (che sono cose ben diverse, intendiamoci: ed il critico lascia volentieri al lettore il compito di
approfondirne i due concetti); nonché le trame e il dedalo
lucente e oscuro, popolato da visioni del ricordare (“riandare col cuore”), del rimpiangere (facendo risuonare tra le
gallerie di specchi dell’Io / non Io il percuotere lacrimato di
ciò che, irrimediabilmente perso, riaffiora e s’abbraccia invano, come dileguantesi ombra nell’Ade), della Memoria (che
s’appalesa nell’etimo e nell’identità reale e terminologica di
“mater”; e che, al pari di madre, viene invocata quale archetipo antropologico, referente familiare, “Genius loci” tra i
XII
Nuccio Mula
luoghi arcani d’ogni labirinto, onnipresenza d’invocazione e
d’aiuto contro tutte le improvvise incursioni di minotaurismi persecutori), della malinconia (ovvero della costruzione
d’un microcosmo virtuale edificato al pari di Epifania del
Disilludere tra camminamenti di desideri insoddisfatti o traditi): tutte ectoplasmie entro cui audacemente autoguidarsi,
come accade, ribadisco, anche per questa rilevante opera, in
un lungo brivido d’inabissamento compensato, comunque
e soltanto, dalla (magra) consolazione del possesso di un
“filo d’Arianna” che diviene, al tempo, segnale e “fil rouge”
per l’Io / non Io e per chiunque, come accadrà ai lettori,
sia chiamato a condividere tragitti lastricati di chiodi e di
fiori, scalate d’ascensione e di “àskesis”, percorsi lustrali, altipiani su cui sostare in attesa di altri percorsi di sofferenza,
di espiazione, di catarsi; e poi, ancora, un peregrinare contestuale sui sentieri e le cartografie linguistiche di Martin
Heidegger, nella misura in cui, oltre a specifici accostamenti per fotogrammi dannunziani d’acqua mortifera e vitale
al tempo, e però in un comune fluidificare di rigenerazioni
vivificanti,“la parola incide realtà stagnanti e ne sprigiona metarealtà, componibili in un universo senza tempo, attraversato da iterazioni
centrifughe all’infinito”.
Ed incide, sì, la parola. Poiché una delle principali radici di
“scrivere” è proprio “incidere” – in attinenza alla storia della
parola che nasce dalla preistoria dei graffiti e da una prima
fase evolutiva dello scalfire alfabeticamente le tavole di pietra o, successivamente, le superfici incerate – e lo “scrivere
/ incidere” possiede, nel suo connaturarsi, anche l’etimo del
verbo “scavare” (a sua volta, ancora, genitore di un’azione
simultanea: il già citato “ex–cavare”, ergo l’estrarre, il portare alla luce lavorando sul buio dell’opera di scavo medesima: paradosso magnifico e inquietante che il linguaggio
– ivi compreso quello, multiforme e polivalente, alfabetico
XIII
Prefazione
/ sequenziale o configurativo di ogni espressione dell’arte
– opera su se stesso, essendo in grado autonomamente di
superare qualsiasi ostacolo, compreso il rischio della paradossalità).
Scrittura che incide, scava ed estrae, allora, per sua inalienabile natura; scrittura che, però, può incidere e scavare anche
senza dover necessariamente estrarre qualcosa da “mettere
in comune” (questo l’etimo di “comunicare”) ovvero cui
“dare o restituire forma” (quest’altro, invece, l’etimo di “informare”) al fine di consegnarlo ad una superficie che non
necessariamente potrebbe essere sinonimo di quietudine e
di solarità, vista e considerata l’inquietante serie di luminescenze fredde o accecanti che, come già detto, vi coabitano.
Ma non finisce qui, visto che a coabitare in queste pagine
vi sono anche le dimensioni fallaci e mendaci del sogno,
a travisare le coordinate delle notti e gli orizzonti dei giorni nell’incessante replicare di passi a ritroso, ad istoriare (in
“viae crucis” della Disillusione) sentimenti ed eventi che
l’Autore torna a cucire a carne viva su ogni stazione, con gli
aghi e i fili di rimpalli verbali, di vaticini erranti, di interrogatori a una sola voce che appare molto più corretto definire
“monodialoghi”, cioè testi che si presentano come “monologhi” ma possono anche essere letti in dialogo e “dialoghi”
che potrebbero facilmente essere ridotti a monologhi, visto
che, in ogni contesto, ciascuno monologa dialogando col
mondo e dialoga per concludere il suo monologo.
Questo, in sintesi opportuna, il rimando al grandissimo
Otto Zwerge, che ci permette d’entrare “in medias res”, decriptando, anzitutto, la volontarietà di scelta di un termine
(“monodialoghi”, appunto) del tutto diverso ed autonomo
da quello (più prevedibile ma, anche nella specifica circostanza editoriale, “in toto” inadatto, fuorviante ed alieno)
di “monologhi”: laddove, appunto, il “monologo” ha sino-
XIV
Nuccio Mula
nimia di “soliloquio”, cioé d’un parlare a sé medesimo ed
a sé soltanto, mentre l’evolversi continuo della scrittura e
degli strumenti di comunicazione ce ne ha rivelato l’oggettiva inadeguatezza in termini d’espressione e di trasmissione, a partire da quel genio indimenticabile ed inarrivabile di
Giorgio Manganelli (che coniò ed usò diversissime volte il
neologismo) sino alle sperimentazioni letterarie e sceniche
d’avanguardia (specie nell’area geo-cogitante dell’America
latina, per non parlare dello specifico “theatrum psychotechnicum” come “arte della mente”, “espressione poetica
della persona”, atto primitivo e magico che danza tra le ombre del mondo seconditivo, viaggio appassionante nell’espressione e nella performance in termini di psicotecnica,
ovvero della psicologia applicata al teatro e come teatro, per
diventare ciò che si è attraverso l’azione) ed alle più recenti
trasmutazioni in chiave di “webscrittura” e di “hypertrame”
nell’etere infinito della Rete che hanno conferito definitiva
ufficialità a tale identificazione, veicolandola nel linguaggio
comune.
E sono “monodialoghi”, appunto, quelli in cui le precise
parole di Li Calzi appaiono, via via, iconografie di “ex voto”
deprivati d’ogni potenza conclamata od arcana, esplicitata o
sottesa; voci nascoste, illusori duetti dissociati e dissonanti,
così nel reale dell’ieri come nel rievocare dell’oggi, segni di
suoni, di alfabeti, di corpi, di odori, di colori, di calori, di
freddezze, di orme, di armi, di duelli, di sfide incompiute
da reiterare; cerchi magici che non proteggono ma sorreggono infingimenti; “parole taciute di tristi pensieri”; persiane
socchiuse per sortilegi d’ombre maligne come le porte dal
semiaprirsi angosciante nelle notti di “Poetica Coazione”;
temporalità che scandiscono e scannerizzano amarezze su
corde straziate e strazianti al tempo; mutazioni esistenziali
nella chiave di un Dubbio che s’appalesa strumento di una
XV
Prefazione
truce “non-casualità”; reiterazioni di “flash-back” sulla ragazza che vive cerimoniali d’allontanamento fra la spiaggia
e gli scogli; sadismi della sorte in riproposizione lacerante;
ancora notti liquide che svaniscono tra le mani e sugli occhi
con le loro risultanze di paure, attraverso sequenze impazzite, prima lentissime, poi non più percettibili, né dagli occhi
della mente né da quelli del cuore o dall’illuminato “terzo
occhio” della visione deuteroscopica; gorghi di frasi, di moti
corporei, di suoni senza suono, tra sguardi senza sguardo;
ambigue compresenze di cose con la loro anima muta, sugli
stessi palcoscenici e dietro le stesse quinte, a condividere
silenti ambiguità; sinergie frantumate da “languidi misfatti”;
solitudini di cori a bocca chiusa ad attendere partiture di
“perché”; attese sul “nostro luogo” ad aspettare ed aspettarsi
tutto e niente; ricordi come catene roventi d’estate; spettri di evocazioni millantatrici; piogge che univano; viali per
comuni percorsi, anche se, ormai, “E’ tutto reso e domandato
/ sulla scia della memoria. / E’ tutto visto e condannato / sulla
via della parola”, quindi “tutto è compiuto”, ancorché vanamente richiamato a risorgere fra giorni di miele e di fiele,
notti di sogni e di incubi, allucinanti “albe di abusi”; schegge del contemplare tra cormorani e fabbriche, per spezzare
o riunire abilmente il filo del riproporre; ed infine, ancora
fortunali di parole “gravide”, aureolate d’epitaffio, ultime,
ultimative, ineludibili, fatalmente destinate soprattutto “a noi
che non abbiamo / altra felicità che di parole” (Camillo Sbarbaro):
“Le parole scritte / come la notte che viene / sono le più vere / che
ho stretto stavolta / nell’arsura dei fatti. / Le parole dette / come gli
occhi che lasci / sono lenti misfatti”.
E concludiamo con lo stile, che, in questa seconda opera,
superate le necessità d’esporre analiticamente, per descrizioni, complesse e complete, di fatti, misfatti & antefatti,
diviene più carico d’immediatezze e di sintesi oltremodo
XVI
Nuccio Mula
congrue all’apparato strutturale dei testi, nella maggior
parte dei casi secchi, duri, rapidi, per fulminanti / fulminee
rese dei conti nell’ “ultimatum” di chiarimenti definitivi e
giammai più replicabili a beneficio d’una “partner” riottosa cui l’Autore non intende dare nessun’altra possibilità, ed
anche a vantaggio dei lettori i quali, in questa mutazione del
riferire creativo, riescono ad ottenere altra ed alta comprova
d’una duttilità linguistica che riesce a distillare fluidità anche
da questo suo rinnovato proporsi per conduzione da vero
“rallysta” del versificare, cioè da “driver” perfettamente in
grado d’adeguare stile e condotta di guida sia nell’affrontare
i tornanti scoscesi ed impervi del suo primo perlustrare “a
ritroso”, sia nel percorrere i sentieri sterrati ed altrettanto
imprevedibili di questa sua nuova, finale, ricognizione interiore su luoghi, eventi e sentimenti che, in quest’ultimo
approfondire per esplicazioni, ci riporta alla straordinaria,
geniale acutezza di Umberto Galimberti, fra i più rinomati
filosofi dell’oggi, che splendidamente afferma:
“Nella corsa all’indietro, il linguaggio non ‘dice’, ma ‘ritorna’
dal detto a ciò che non è detto, eppure dal detto è richiamato.
Il ritorno allude a un fondo inesplorato. Luogo e non-luogo del
discorso, esso inaugura quel nuovo modo di ‘pensare’ che è un
‘passare’ da un evento all’evento che lo precede, fino a giungere a
quell’origine dove è custodito il segreto che, svelato, ci dice che quegli eventi e non altri ci dovevano ospitare. E allora ci sarà dato di
scoprire che la nostra vita non era una casualità, ma uno stile che
imponeva a ogni evento il suo sigillo. Il passato infatti non è mai
veramente passato. Ed è questa la ragione per cui, se vogliamo
capire davvero qualcosa del futuro che ci attende, è al passato che
dobbiamo guardare, dove è scritto il nostro modo di offrirci alla
vita, di accostarci agli amori, di fiancheggiare i dolori. Il ritorno
non è un’interpretazione della propria vita come è nella pretesa
XVII
Prefazione
psicoanalitica, ma la scoperta della propria radice interiore, dove
è dato di conoscere la propria immagine, a partire dalla quale è
possibile rendersi conto che, ogni volta che lo interpretiamo, non
facciamo che raccontare la nostra storia. Camminare all’indietro
verso quel luogo in cui è custodita la nostra radice interiore non
significa arrivare a una meta, ma tenersi in cammino, perché il
luogo è nascosto e la sua dimora é abissale. Come la quiete non
distrugge se stessa nel clamore delle parole, come il silenzio non
si concede all’esplicitazione totale, così la nostra radice non si
svela mai totalmente perché si sottrae a ogni interpretazione che
pretenda di esaurirla. Proprio per questo concedersi sottraendosi,
noi abbiamo futuro (…). Si tratta, pertanto, di tornare dalla
parola espressa dalla ragione, che è il cadavere della parola psichica, a quel fondo che la parola razionale occulta e muove per
il terrore che essa possiede per tutto ciò che non rientra nel suo
ordinamento”.
Federico Li Calzi, in tempi ragionevolmente brevi, ritornerà
in ambito editoriale, ma stavolta per misurarsi con tutt’altro
linguaggio letterario, quello della narrativa, che da lui esigerà nuovi e considerevoli raccolti, sicuramente già da adesso
“testati” con quella sua caparbia meticolosità che, già dal
nostro primo incontro, gli conosciamo e gli riconosciamo.
Al futuro gli esiti e le comprove: per adesso, e non solo per
gioco, facciamo finta che, oltre chi scrive ora, sia proprio
Federico a salutarvi, e con un dire di Italo Calvino subito da
noi sentito anche suo:
“Questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e
pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di
macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari,
a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi,
ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi
XVIII
Nuccio Mula
con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa e poi ripiglia
ad attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo
grappolo insensato di parole idee e sogni ed è finito”.
Nuccio Mula
docente universitario, scrittore, poeta, giornalista
componente dell’International “P.E.N.” Club
e dell’Associazione Internazionale Critici Letterari
XIX
dittologie congelate
2009-2011
I
Il tuo sguardo mi cattura,
la fortuna degli eventi
è già natura sulla pelle tua.
La sostanza si fa dura
nella stanza della luna.
Il tuo sguardo è calura,
il tuo passo già progresso,
verso me,
cattura il mio sospetto.
Ancora adesso
che è tutto perso, ti penso.
Adesso, che è finito tutto,
ricordo della notte insieme,
di quei giorni quando
mi regalavi quelle ore,
e tutto questo già bastava,
adesso.
Adesso, che non ha più senso
ripetere quant’è successo,
il gesto che ci portò a questo.
Coglierlo, adesso, dalla tua stanza
il melo, guardare di notte la luna
dalla tua finestra.
Ricordare la sostanza
che imprimevi nei discorsi
che lenti bastavano a se stessi.
Adesso, che è finito tutto,
mi pare chiaro
aver capito il tuo sguardo:
un progresso verso me
sentire già il tuo passo.
Dittologie Congelate
II
Io vivo senza te,
senza stupore,
senza rancore.
Nasco e riesco a starci
dal punto dove t’ho persa.
Nasco e muoio
ogni giorno senza te.
Esco e poi resto,
nascosto, solo,
come chi attende
e non vede.
Ci riesco a questo punto
a dimostrare il resto,
lo stesso che nasce
dal tuo orgoglio.
Mangio, solo, e scanso
il tuo pensiero: il vero
scarto del tuo pretesto.
Io basto a ricordare
il resto, l’inverosimile
tuo gesto, che ogni giorno
rifiorisce dal tuo sguardo.
Io vivo senza te, senza
stupore, senza rancore.
Il malumore è la sola
tua ragione, davanti al resto.
Io cresco, nasco e mi basto
senza te: presto
come il giorno perso
dei nostri anni.
Io sto solo ora
4
Federico Li Calzi
e tu mi manchi.
Sto solo e mi condanni.
Ogni giorno parto
dal punto dove t’ho persa.
5
Dittologie Congelate
III
La mente ritorna
alle cose d’un tempo.
Il tempo prepara, sospetto,
un collasso fra noi,
di gesso riemerso
non solo a parole.
La bocca non mente
le parole di un tempo,
solo per questo ti ho detto
che il mondo poi esiste.
Il mondo che ascolta
le cose che dici.
Le parole disciolte
sulla bocca gelata,
di frasi nascoste
sulla storia persuasa:
“per intenderci ancora
parliamo d’allora”.
La mente ritorna
alle cose di un tempo;
anche il gesso riemerso
sulla bocca del mondo
prepara, sospetto,
un collasso fra noi.
Il mondo per noi perso
a ritroso, sulla storia dei fatti,
quel mondo fatto
di semplici cose,
che ora non torna
sulla nostra parola.
Non torna nient’altro
di quello che ho detto.
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Federico Li Calzi
IV
La notte ha chiuso il tuo volto:
libero, stagliato, che a me
si produceva innato. La notte
ha chiuso lo scenario, piccolo,
umano, dove un tempo
viveva il nostro mondo.
La notte tu dormi, ed è questo
il pensiero che squassa,
la matassa che tiene chiuso
il firmamento dalla finestra:
un sipario dove un tempo viveva
la nostra speranza.
La notte è questa,
ed è quanto basta
a vivere le cose,
la notte è questo scopo,
che ci divide talvolta.
Tu, sola, avvolta nelle coperte
di notte nella tua stanza.
Tu, sola, dormi e non pensi
alla distanza dei corpi.
Tu, umana creatura,
nella notte vivi quella paura,
celata ad una duplice stretta.
Tu vivi libera e incerta
delle mie cose.
Nella notte manca il tuo volto,
la notte dissolve il ricordo.
Tu, libera e lontana:
mentre dormi, a me,
il tuo volto si produce innato.
La notte ha chiuso
lo scenario, con il sipario
dei tuoi capelli.
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Dittologie Congelate
V
La terra mi sta innanzi,
come una lunga scossa
di frutti mai concessi.
Lo sguardo tuo sospeso
sta appeso a un’alba
che tiene chiuso
il giorno.
Era questa la fine
dei discorsi che dicevi,
la ragione degli imbrogli
che sporgevi
al tuo sembiante capo.
Ti sembrava una mossa
e invece rimase appesa
la lunga scossa, tesa
alla nostra storia.
La bava dei giorni estivi
si fa calura, che addensa
lenta sulla terra tua,
che sospesa innanzi sta
come una lunga scossa.
La fortuna dei giorni lontani,
si fa matura su queste valli.
Sospesa tra l’alba
e il tuo sguardo resta l’estate
nella pienezza dei frutti,
nella certezza di tutti
che questa era la fine
dei giorni che dicevi.
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Federico Li Calzi
VI
Nella luce del giorno, la finestra aperta
respira di vento. Un rumore di cose vissute
dalla strada si muove, con lento fragore,
nell’aria deserta.
Nella stanza la donna è distratta dal sonno,
assopita col corpo, nell’estate di affanni,
il respiro è profondo tra l’uno e l’altro volto.
La tenda muove al lento ritmo del vento.
La luce è soffusa ora, magnetica fra le mura.
La stanza deserta respira di vento, la donna
distesa sul letto nel ciclico avvertimento,
ha gli occhi pesanti dal sonno.
La finestra respira di luce, un odore
di cose vissute sale dalla strada, una luce
ne arresta il respiro, nella stanza deserta.
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Dittologie Congelate
VII
Non c’è più aria intorno,
anche il vuoto è sparito:
insabbiato quel passato
vile, rotolato fra noi.
Su una scorza di limoni
si parlava su in terrazza.
Non c’è più vita se ti guardo,
spazio, ora, intorno
dove un tempo s’agitava
l’emozione, al tuo solo passo.
Ho ricoperto tutto,
dimenticato il passato
vile, rotolato fra noi.
Non c’è possibilità
fra noi adesso: spazio tempo,
ora intorno, poco esempio,
vuoti d’esistenza.
Ho dato invano la mia vita
a quel passato insabbiato,
vile, rotolato fra noi.
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Federico Li Calzi
VIII
Non so più dove
trovarti ormai.
Come cascarci ancora
in quello che tu fai?
Potrai domani ripetere
i tuoi gesti, potrai
oggi stesso rimuovere
gli incesti, cause
di malsane inchieste
fra noi.
All’abbaglio dei tuoi
occhiali si rifletteva
l’immagine primordiale.
Ma dove sei più non so,
mia carezza, mia amarezza
che il vento marezza,
costruendo immagini
che il tempo scolora.
Ripeto senza fase
il senso della tua frase,
rimane ancora presa
la resa fra noi.
Ma tu proponi fasci di luce
e abbandoni, distribuisci
lenta calura dei tuoi modi.
Perché pensare ancora
a quello che fai?
Perché ricostruire
quel passato lasciato
sospeso tra noi?
Non so dove trovarti ormai.
Non so come cascarci
ancora in quello che farai.
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Dittologie Congelate
IX
Oltre il breve, oltre il piglio che attacca,
c’è lo squarcio della tua faccia.
C’è la voce che schiaccia il fantasma
dei giorni più inquieti.
C’è un dovere che pare breve al mattino,
che pare non finire mai il giorno
che segue: è un groviglio breve che separa
il tuo mondo, un magnetico sapere
che confina i tuoi modi.
Una chiara distinzione di nomi:
l’insieme di emozioni che rimandi.
Lo stupore rimane il languore
di quegli anni, il rumore delle cose
pari all’urto della vita sulla faccia.
C’è uno squarcio nella storia di noi,
che pare infinita così com’è scritta:
la vita costruita per noi ai giorni d’oggi.
È solo l’insuccesso delle prove
che lascia contorto l’immenso
orrore del vero.
Oltre l’emozioni, oltre il giro di parole,
di frasi stanche e rinnegate al tuo languore,
c’è il fantasma dei giorni, la voce tua
che schiaccia i ricordi più inquieti.
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Federico Li Calzi
X
Passano le auto,
non c’è nessuno intorno,
in questo
pomeriggio di caldo.
Un cormorano
si è perso, forse,
dalla rotta migratoria
e intorno
ripete il suo verso:
improponibile adesso,
in questo caldo.
Chi sa la storia
di come finirà
la crisi economica?
Certo non qualche
addottorato economista.
Le loro previsioni
sono sempre proiezioni,
rotte migratorie, dove
qualcuno si è già perso,
come il cormorano
in questo pomeriggio,
che improponibile
ripete il suo verso.
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Dittologie Congelate
XI
Piove sulle tue scarpe,
sulle dolci fratte
del tuo giardino,
che il tempo consuma
e usa le nostre istanze.
Come lassi di materia,
strascichi di catena,
piove sulla tua altalena:
sulle dolci ore
nel tuo portone.
Piove senza colore,
senza colare
dalle tue grondaie,
dalle tue finestre,
dietro le tende mosse
all’urto delle tue promesse.
Piove, semplice ragazza,
ché misera e acerba
resta la tua giovinezza,
consumata e persa
tra le pagine dei libri.
Piove in questa notte
di bufera, dietro le tende
mosse all’urto
della tua preghiera,
delle promesse
infrante come i sogni
nella tua stanza.
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Federico Li Calzi
XII
Scriverò per te domani qualcosa che, non si sa mai,
rimanga scritta come un atto della tua bellezza.
Qualcosa stretta nei fogli come la piena ricchezza
della tua adolescenza, viva come la movenza triste
della tua imprudenza. Parlerò per te domani,
risponderò, magari, a quella tua parola stretta,
che finora ti lascia persa in uno spettro di magia.
Scriverò a più battute la tua bellezza, chiusa come
l’esistenza che non muta. Scriverò perché, non si sa
mai, un foglio scritto sia strappato dai nostri tempi,
dai ricordi che non pensi. Riderò domani ancora,
affinché rimanga inerte la nostra storia: stretta
tra i fogli restò poi la parola. Riderò domani, alla fine
di quella tua risposta, lascerò il peso della colpa alla tua
mossa, all’allegria chiusa come l’esistenza che non muta.
Riderò affinché la nostra storia faccia ridere, però,
e le nostre scelte rimangano perse: ferme sulla stretta
di quei fatti. Piangerò agli atti domani, alla battuta
tua bellezza che il tempo già consuma: perché, non si sa mai,
uno di questi giorni ripenserai alla nostra storia.
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Dittologie Congelate
XIII
So che il tuo sguardo è qualcosa che rimando,
qualcosa che non penso, che prendo come
esempio dal ricordo. Tu non sai cosa immagino
adesso, non pensi cosa mi susciti addosso.
So che il tempo amaramente conclude
le vicende, anche le più chiare, le limpide,
le sole che nacquero una volta, di rimando
da uno sguardo. So che se ti penso è un errore
immenso, un orrore inutile, disperso nelle ore
di quei giorni.
So che il tempo raramente conclude, ma esclude
le forme. So che se il tuo sguardo già comprendo,
non è che un rimando del pensiero: il nostro,
l’unico che è rimasto in vita da quei giorni,
che ancora vive nelle menti, prima che tutto
quanto sia dismesso.
Tu non sai come t’immagino adesso, come
ricordo il tuo peso addosso. So che anche
nei giorni più chiari vedrai le fontane, il mare,
dai tuoi davanzali, i vicoli e le strade.
Il tempo amaramente conclude le vicende,
raramente le richiude in altre forme e poi
si mostrano cambiate agli occhi delle gente.
Ma il nostro era un errore rimasto libero
nel tempo, che nessuno può comprendere.
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Federico Li Calzi
XIV
Sperandoti, una volta, può darsi t’abbia vista.
Lasciandoti, stavolta, può darsi sia imprevisto
il caso della vita. Guardandoti, stasera, mi ricordi
la sera dei tuoi vent’anni: la chioma al vento, persa
in quella sera d’inverno.
Pensandoti, non so se sei materia, se hai
la schiena; un sangue che scorre dentro le tue vene,
se sono bandiere gli ideali che tu agiti,
o impensabili abiti quelli che tu indossi. Ti penso
e mi rimordi dentro, ti scanso e non mi lascio solo
al tuo pensiero.
Sperandoti, stasera, può darsi ti veda
lungo i viali e nelle strade. Salvandomi da te
perdo l’altro senso della vita: l’oscurità delle cose.
Il caso è che sia grande la tua onestà. Stasera
ti guardo come la sera di anni fa, quando tutto
era al suo posto, in un contesto libero e perfetto.
Ora è tutto perso, un rimorso che dentro arde
come la mano che, lenta, ti stringevo. Era già
un mistero credere, allora, al fato che ci ha voluti
insieme quella notte. Ti penso: e lo sguardo
che rimandi è un pretesto di quei giorni.
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Dittologie Congelate
XV
Ti ricordo adesso, come un modesto tuo imbroglio.
Mi manca il tuo accento, lo sguardo libero e immenso
che lieve regalavi, breve, era un mare denso,
un abisso da esplorare, adesso.
Ricordo il tuo discorso, lo penso chiaro, verso la fine
di quel giorno, con la pioggia lungo i viali. Ti ricordo
allo scuotere di rami, adesso, mio modesto imbroglio.
Mi è rimasto dentro il tuo sguardo, il passo nella sera,
il fare limpido e bugiardo, l’accento nel parlare.
Ti penso adesso, che rimangi dentro il mio ricordo,
immenso, lieve, che lento regalavi, era breve,
un mare denso come un abisso da esplorare.
Adesso il discorso è perso, verso la fine di quei giorni.
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Federico Li Calzi
XVI
Troppe le cose lontane,
poche le cose che ho detto,
triste la notte agli eventi:
mandi paura
dal tuo sguardo distante.
Come tornare a quei tempi?
Come scavare gli esempi,
di noi miseri e modesti,
lasciando un segno più duro?
Come trovare la strada,
ricostruire la fama,
tornare a giocare col passo
la sera con te sottobraccio?
Troppe le cose che ho perso,
tante le cose che ho detto,
molte rimangono ferme,
perse nella stretta dei fatti.
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Dittologie Congelate
XVII
Una notte ho detto parole
sulla soglia del letto,
una notte di freddo
compresa tra luci e colori.
Una notte tesa
sulla camicia di seta:
ti ho persa
sulle lunghe parole
e non resta l’onore
di quello che dici.
Una notte ti ho stretta:
sulla soglia del letto,
una notte soffusa
di luce e calore.
Una notte c’è stata,
una notte più vera,
che era freddo
e nessuno sapeva:
sulla soglia del letto
le parole che ho detto.
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Federico Li Calzi
XVIII
Vorrei piano, vicino a te, parlare da lontano.
Mancare al quel tuo sguardo, voce diventare
da sentire e ingannare. Forte nella notte
respirare quel tuo volto, da vicino, con la voce
quanto basta, per sentire, piano, giungere
il tuo passo, te, e poi come un verso ripetere,
con lo sguardo, quelle parole logorate.
La forza che ci unisce è la distanza che ci separa.
Per giungere al tuo volto ora basterebbe un passo.
Un passo a quel tuo volto sigillato dal torpore
della notte. Parole semplici, come dicevo, deboli
come la voce che ti parla di notte.
Vorrei che questo ti bastasse, che anche la voce
tu sentissi, una voce che, piano, ti parli da lontano,
con poco suono e poco fiato giungere al tuo volto.
Fioca quella voce nella notte, labile il respiro
sul tuo volto, a ricordare il tuo passato. Una voce
parla di noi nella notte, una voce che respira
sul tuo volto.
21
Dittologie Congelate
XIX
C’era una sera magnetica fra noi,
quando ancora tutto
era possibile a quei tempi.
Un dirigibile cadavere, al mattino,
sulla spiaggia. C’era una sera
fra noi, Adelina, quand’eri
bambina, l’altra quand’era dolce
la tua faccia.
Un proponibile sguardo ci portava
l’altro senso del tuo gesto.
Ma era una sera magnetica,
una di quelle quando tutto ancora
era possibile. Quando è proponibile
dormire anche sulla spiaggia:
Adelina, mia bambina, persa tra
gli imbrogli della vita, fra le lente
cose che scorrono più leste
del volere.
Non volermene mai dispetto,
bambina, ti aspetto mentre il tempo
mi tiene fermo. Non ricordare
l’impossibile progetto: Adelina,
eri una bambina, ti penso sempre
adesso che il tempo prende il senso
da quegli anni.
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Federico Li Calzi
XX
B
Potrebbe essere un segno del tuo sguardo,
l’icona del ventaglio, il logo contrapposto
al falso tuo riguardo. Potrebbe essere un tre:
la macchia di caffè sul vestito della festa.
Potrebbe essere la stessa stilizzata a cuore
o un segno di stupore davanti al vero.
Potrebbe sembrare il fermaglio che legava
a te i capelli in quel pomeriggio al doposcuola.
Potrebbe finora restare insegna dell’amore,
logo dell’unione, marchio di fronte al fascino
delle promesse infrante nei discorsi che facevi.
Potrebbe essere una “B”, un segno giunto
fino a qui. Potrebbe essere la cosa
che non m’hai detto, l’effetto dell’inverso
tuo ricordo, il vero contrapposto al falso:
il ventaglio in quel pomeriggio di caldo.
Potrebbe essere una ... Non so cosa significhi
il tuo segno lasciato su quel libro, nel lungo
pomeriggio. Potrebbe, non so, restare come
l’ammicco del tuo sguardo, il segno del tuo corpo.
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Dittologie Congelate
XXI
Certo, a pensarti
non è che mi manchi.
Al limite rimandi
lo sguardo dallo specchio.
Certo è che cerco
il cerchio dov’è nata
la nostra storia.
Falso è che rimango
troppo in fondo
nei discorsi.
Non ricordo ora
la nostra storia.
Non mi sovviene
certo la parola
della prima volta.
Non mi rispondi
neanche quando
chiamo di persona.
È un pensiero
che solo lascio
al tuo valevole ritardo.
Era una di quelle sere
in cui tornavi
da lontano, quando
io restavo fermo
sulla porta, inerte
al tuo passo.
Era un tuo spasso
quella primavera.
Non mi rimane
certo la parola,
24
Federico Li Calzi
che si chiama ora
anche pensiero.
È un tuo furbo
desiderio di esprimere
le cose, un più lungo
intervento di dire
le parole. Certo,
a pensarti, non mi sei
indifferente.
È vero, mi manchi.
Il limite è quello
che tu hai dato
alla storia,
il fine è quello
che hai cercato
alla memoria, nata
e resa dalla parola
che non ricordo ora.
Ti guardo
nello specchio,
e il rimando
dello sguardo
è il tuo aspetto
più dubbio.
25
Dittologie Congelate
XXII
Certo che può sembrare vera
la tua gradevole materia,
la tua schiena nuda
come la pelle che al sole
matura: il giovane corpo
che la pienezza mantiene.
Tu sei la speranza che viene,
la melodia astratta,
nel chiuso cerchio
della tua stanza,
la fragranza tenue
che irrompe al mattino
come un sole vicino,
un percorso continuo,
un breve sorriso
sulla faccia straccia
dei giorni che vivi.
Sei un costante tormento,
un lungo intervento
che la tua voce conduce.
Sei la notte che viene,
lo scialbo dovere,
la palizzata infranta
all’urto del vento.
Sei, in un momento,
la cosa che torna preziosa,
la triste evenienza
che la sorte conforta,
la parola taciuta
d’un triste pensiero,
la fanciulla astratta
che guarda dal ritratto,
lo strappo solerte
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Federico Li Calzi
che allunga la vita,
le promesse infrante
sulla coscienza scolpita.
Sei il dispetto più forte
che irrompe nel petto,
la tenue speranza
d’un triste pensiero
che torna al mattino.
27
Dittologie Congelate
XXIII
Dalle persiane, un tenue lucore soffuso abbrividisce
la stanza nell’alba. Il respiro dell’uomo è profondo,
disteso sul letto: a guardarlo si direbbe che attenda
un risveglio, che attenda, magari, quel fremito lieve
che scuote le mani a quell’ora puntuale. Basterebbero
ora due languide occhiaie e quel corpo indurito
per capire che l’uomo ha vissuto di duro lavoro.
Distesa sul fianco, la donna, nel sonno gli grava il costato;
assopita, col capo, non pensa alle notti lontane
con l’uomo nel letto, quando insieme han fatto
dei figli. L’uomo e la donna, ora supini nel letto,
han creato altre vite, da rendere al mondo ogni giorno
col duro lavoro. Non sapevano, allora, i giovani corpi,
il frutto dei loro contatti, il senso dei corpi distesi
al mattino nel letto.
I figli hanno tutti lo sguardo del padre e la voce dell’uomo
che una volta parlava, sommessa, alla giovane donna.
L’alba è tenue nella stanza assonnata, un lieve profumo
abbrividisce le narici dell’uomo palpitanti al respiro
profondo che, insieme, congiunge l’addome, disteso,
della dolce compagna. L’uomo è ora bocconi sul letto,
attende un risveglio.
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Federico Li Calzi
XXIV
Datemi del tempo che sia concorde con le mani,
con le promesse fatte, affinché fugga alle richieste
dei tuoi mali. Ad orecchio ricordo la tua voce,
gli incroci di sguardi, quando, attraverso il vetro,
ti guardavo dalla strada.
Riflessa allo specchio, ti vedo già perplessa.
Anche questo stupirsi fa parte di quel limite
che ci unisce. Riflessa ti vedo, affinché tu possa
redimere il pensiero; affinché ogni istante
lo fecondi il tempo, per moltiplicarlo e poi rivivere.
Datemi del tempo che sia concorde alle richieste
dei tuoi mali, che affondano radici nel domani
di noi, che avvelenano i pensieri. Ad orecchio
ricordo il ritmo della tua voce, gli sguardi gli incroci
dei tuoi momenti.
Datemi del tempo, affinché il tempo sia stremato
dall’evento, che lento si contorca sotto i nostri
occhi, per stringerlo fra le mani, per dire
che è il domani ciò che conta e non il presente,
avvelenato dalle tue promesse, vuote e lente,
come radici che avvelenano la mente.
Il tempo ancora sarà lento, immenso aprirà
il suo abisso sconfinato. Il tempo basterà a se stesso,
non includerà altro, fuori dal suo abile processo.
29
Dittologie Congelate
XXV
Due parole
giunte al tuo volto
dicono che è lontana
con te la notte.
Due frasi
restano sole al responso
limpide, recluse,
per distogliere
lo sguardo, tolto
a quel giorno lontano.
Due parole
bastano a te,
per esprimere il concetto,
a chiudere il senso
del tuo volto.
L’area estranea del corpo,
la movenza timida
come essenza,
la distanza netta
dello sguardo,
è persa nello stacco
del tuo passo.
È distratto per te
questo pensiero,
questo mio vivere terreno,
questo inquieto credere
davvero alle cose.
Perché questo momento
convinca qualcuno
non basta.
Non porta nulla
30
Federico Li Calzi
questo esprimere di fatti,
è un condividere
quegli attimi, i tuoi sguardi.
Due parole per te
esprimono l’effetto
di quanto perso.
Due parole dicono il resto,
la fine di quei discorsi.
Esprimono il senso
di quel gesto:
l’esempio che non torna.
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Dittologie Congelate
XXVI
Dura lo stato di vaghezza,
da me compromessa
resta la tua bellezza.
Tuo corpo chiuso,
già concluso
a ripercorrere un abuso.
È tua questa dura fioritura,
questa inerte primavera
che cambia la ventura.
Ci sarà un compromesso
in tuo possesso già domani,
un corposo, paradossale peso,
perso, sulle corde tue precise,
rese, poi recise alle memorie.
È tua questa fortuna,
questa creatura
duttile e fantastica,
questa natura
mistica e funesta, contorta
e compromessa primavera.
Lascia che sia così
la tua vaghezza,
un’orma lasciata
sul piano dei ricordi,
un paradossale
già lontano gesto mai concluso.
È più di quanto sembra
questo sublime composto,
è più di quanto basta
questa lunga primavera, dura,
inerte fioritura
che cambia la ventura.
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Federico Li Calzi
XXVII
È solo l’ombra che sostiene
il più certo tuo potere,
l’ombra che riguarda
lo strappo netto della faccia
tua, contorta davanti al vero.
È solo un tuo pensiero,
che vale la pena
di ricordare adesso,
al di là di ogni tua continuità.
Lo sguardo è certo giunto,
l’incerto è posto già,
aperto ad una forma di al di là.
È solo l’ombra del potere
che sostiene, più certo,
il tuo piacere,
la più certa tua arroganza
davanti al vero,
la mescolanza di pensieri,
che dentro porti
a dissonanza del tormento,
del tuo più vero portamento
innanzi al falso.
Non è per te che rimango
teso fino all’alba,
non è per te che manca
la resa dei conti,
che tu rispondi
agli inganni di quei ritorni.
Ci stai tu e mi manca
il tuo pensiero,
ci stai tu e il desiderio
è al di là del vero,
di ogni tua continuità,
aperta già
ad una forma di al di là.
33
Dittologie Congelate
XXVIII
È un considerevole scambio di parole
l’ingresso misto di discorsi al tuo congresso.
È un progresso pensarlo ora il tuo parlare:
un successo perso sui discorsi già lontani.
È un problema raccoglierlo adesso
il tuo pretesto, disco di cera che agitasti
nella sfera dei tuoi anni.
È un ricordo che lasci nei giorni senza vita.
È una prima tua richiesta l’onore della festa.
Un considerevole scambio di emozioni
il tuo sguardo, un immenso lampo perso
nella sfera dei tuoi occhi, l’accento dei discorsi.
34
Federico Li Calzi
XXIX
È un mondo che scolora
e cambia forma.
La rinascita totale
sarà un’orma,
un segno lasciato
sul piano delle emozioni.
Vedrai la vita in vitreo,
farai lo spaccato del vissuto,
ma un muto ricordo
muterà le ambizioni.
È un mondo che cambia volto,
che lascia il ricordo
impresso negli altri.
Il mondo è qualcosa che muta,
che trasfigura la forma,
come la voglia che fa partire
ogni uomo.
La vita è qualcosa che varia,
che, strana, stratifica
le sue forme in vitreo,
poste nello spaccato di noi.
Abituerai la mente al mondo,
cambierai le tue abitudini,
vedrai il tuo volto trasfigurato
allo specchio ogni giorno.
Ricorderai qualcuno
che ha parlato, negherai
a te stesso ciò che è stato.
Eviterai il ricordo,
sarà un tracollo il mondo,
il vissuto, lo spaccato
delle ambizioni: mute
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Dittologie Congelate
come le parole di chi muore.
Lascia il ricordo impresso
nel mondo, muta la strada,
trasfigura la forma,
lascia l’orma
sul piano del mondo,
affinché qualcuno sappia
del tuo orgoglio.
È un chiuso foglio la vita,
che nessuno può aprire
prima che sia finita.
36
Federico Li Calzi
XXX
L’estate, piena, mi ricorda
il tuo corpo chiuso. Ride
la freschezza della luce,
la pienezza che produci:
tutta immensa, vera,
dedicata a te.
Infinita lettera che scrivesti,
un giorno dell’estate.
Ricordare quella frase
ora equivale a rinnegare
anche la storia.
L’estate pura, è luce
che dura, brivido che
conduce fragranza
nella calura. La terra tua,
brulla, parla sull’aperta
campagna, ride
nella freschezza della luce.
L’odore acre delle cose
annega ora quella storia,
te, conduce la fragranza dura
della campagna brulla.
Nella freschezza della luce
ci sei tu, il tuo corpo chiuso,
la pienezza che produci.
37
Dittologie Congelate
XXXI
Forse non è possibile pensare a noi, come impensabile
proporre una memoria. Una monotonia, registrata
e persa, sulla scia della parola. Forse non è probabile
fantasticare per noi, è un dispendio di energie, questo
lavoro che ci incombe sulla testa.
Forse è possibile sperarci per noi che siamo in vita, ora;
impossibile immaginarlo, ancora, il tuo futuro. Basterebbe
restare soli, togliere gli errori di quanto fatto: gli effetti
dei tuoi difetti, eliminare i giorni, quel passato, imprimerlo
per sempre, cercare di cambiarlo.
Basterebbe ipotecare il tempo, gestirlo bene, ma per bene
cosa intendo? Cosa immagino sia il futuro? Un duro colpo
alla coscienza? O qualcosa che diventa lenta come una
rinuncia? Non è possibile per noi ritrovare più la strada.
Basterebbe avere l’accortezza di costruirne un’altra.
Basterebbe la menzogna dei falsi a rendere tutto più
costante. Ma a noi è il nostro tempo che manca.
È la storia che è passata come un’immagine allo schermo.
È il futuro che è lento, perché tu sei il passato
e il futuro è ormai andato, logorato dagli eventi e dalle
prove per riaverti. Forse non è possibile pensare a noi,
come non pensare a quel passato. Forse è tutto registrato
su nastri che, paralleli, scorrono e noi ascoltiamo senza
ritorno: abbiamo il compito di farlo.
Forse è più probabile fantasticare che pensare di riaverti.
È un dispendio di energie sprecarci per quel che amiamo.
Forse basterebbe ipotecare il tempo, renderlo più lungo,
conservarne il senso di quei giorni: imprimerlo per sempre.
Ma questo è un duro colpo alla coscienza, qualcosa che diventa
lento come una rinuncia, che rimane a terra come la presenza
38
Federico Li Calzi
di quei giorni. Non è possibile contribuire a quel futuro, al ritorno
di noi, costruire intorno le menzogne e crederle per vere.
39
Dittologie Congelate
XXXII
La ragazza nell’alba ripensa da sola alla notte lontana,
quando con l’uomo parlava sommessa sulla spiaggia
deserta. La ragazza ripensa al silenzio notturno
del mare, disteso, nella spiaggia distante: alle parole
portate all’orecchio dal vento, in un solo momento.
Insieme ne sente il respiro e lo beve più intenta.
La ragazza che balla da sola, più attenta al ricordo,
si scuote costante a quel vento e ripensa ai momenti
con l’uomo trascorsi in silenzio; ai lunghi impedimenti
smossi, fra i corpi dispersi (come l’onda del mare
che torna irrequieta) in quei fatti di lunghe maniere.
Al tramonto non c’è più sole sulla spiaggia e il mare è
una limpida scheggia di luce che irrompe ogni sera.
La ragazza non pensa agli istanti trascorsi
sulla spiaggia, con l’uomo di un tempo. Sta come il vento
e ascolta più intenta. Ora è la notte remota di lunghe
maniere, di grandi parole sussurrate all’orecchio
in una notte lontana, come il respiro del vento.
La ragazza da sola ora ripensa alle parole di un uomo
sussurrate all’orecchio nella notte in un solo momento.
40
Federico Li Calzi
XXXIII
Se contemplando te mi vien da piangere,
è facile che tu rimanga, inerte, a fingere,
anacronistico, un passato da regista:
annegato, rimasto artista, legato al tuo armadio.
È facile che tu rimpianga la tua abitudine,
la moltitudine d’esempi, rimasta schiuma
sulla scia degli interventi, più lesti poi a chiudere
i momenti, i lenti groppi smossi fra gli sguardi.
Mite la tua finestra a primavera, brine
dalla tua memoria quando è sera: una
tormenta smossa alla bufera, alla continua
e inesperta primavera.
È facile che tu riponga il tuo pensiero
in uno scheletro d’indifferenza,
è probabile che tu rimanga ora preda,
a ricordare una tua prova di quando resta.
Se contemplando te mi vien da piangere,
che devo fare? Non resta che fingere,
anacronistico, un passato, un linguaggio
tuo allegato alla memoria dei gesti, alla funzione
dei messi, ad esempio la moltitudine d’esempi
scivolati sulla schiuma dei momenti.
41
Dittologie Congelate
XXXIV
Ho aspettato
che tu togliessi il passo,
prima d’entrare,
che tu da tempo
già lontana sia stata
da quel gambo,
da quel lembo di piazza
che s’affaccia sul mare.
Tu con infinita freddezza
mi sconfinavi dalla terrazza.
È un’opinione fare buone
quelle parole, un errore
pensare a quelle nuove.
Ho atteso che tutto
fosse passato, ho attuato
la mossa prima della resa.
Qualcuno ti ha attesa
sulla piazza in quelle ore.
Alle tue contromosse perse
nei modi, aspettavo
le distrazioni per guardare.
Scrutavo ogni dettaglio,
ogni tua mossa. Ma l’attesa
fu la controprova resa
alla parola.
Ora aspetto il tuo passo,
di rado attendo il tuo sguardo.
Fermo ritorno,
poi d’incanto vedo il tuo corpo
tra la folla disperso.
La controprova è resa ora,
ché ti aspettai quella volta.
L’opinione è rimasta la sola
42
Federico Li Calzi
a fare buone quelle parole.
Dalla terrazza si guardava
anche il mare la sera,
tu, distante, con infinita
freddezza mi sconfinavi
come un boomerang
sul mare.
Ho atteso tutto,
attuato la prima mossa.
Ho ancora qualcosa
che, in attesa, mi parla di te,
delle tue promesse.
43
Dittologie Congelate
XXXV
Il gioco delle cose
pare che non menta
a quel sorriso breve.
Il gioco della sorte
è quel colore
che non muore.
Contorto, s’innerva
a quel risorto
gemito d’esempio.
Anche un niente
può bastare
ad esprimere le cose:
il male del tuo vivere,
il pensiero.
Il gioco della sorte
ci prende e ci confonde
in altre forme,
ci misura in altre tare.
Il gioco delle parole
pare niente,
ma quel niente
può bastare
a rendere semplice
quell’arte del parlare:
il vivere il tuo mancare.
È vero, non mente
quel sorriso breve,
ma la sorte
questa volta ha deciso.
Anche un niente
può bastare
ad esprimere il tutto,
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Federico Li Calzi
quell’arte del parlare
che traggo dal tuo corpo.
Anche il male
del tuo vivere
è mancanza, scrupolo,
difetto, resistenza
alle notizie.
Anche un niente
può bastare
a contenere il tutto.
Poche parole
cercano il subbuglio,
rendono il costrutto
a un’emozione
fatta di niente,
solo di parole.
45
Dittologie Congelate
XXXVI
Il mondo ci ha, così,
per sempre divisi,
persuasi e poi recisi,
persi in quegli attimi
precisi.
Una volta tu ci stavi,
ballavi e poi tornavi,
giravi attorno
a quell’informe idea
di ritorno: ed era lesta
la tua movenza nella sala
deforme dell’orchestra.
Non si scappa da nulla, oggi,
neanche dalla tua sentenza!
La vita ci ha creati,
ci ha disposto in circostanze,
separati e poi mangiati,
disperati, stranamente ritrovati,
come ombre in un sentiero.
Perché, poi, coloravo
i fondi col tuo pensiero?
Perché, a pensarti,
schiacci la memoria?
Mi rinfacci la tua parola
taciuta sulla soglia della casa?
Cosa rimarrà da adesso?
Cosa succederà, allora?
Come si ripartirà da un senso
che non si trova?
Dal fondo che tocchiamo ancora
se mai ritrovassimo la tua parola?
La tua faccia stanca e stravolta
come il pensiero d’allora?
46
Federico Li Calzi
XXXVII
Il tempo oggi si è fermato,
come un baleno apre
un abisso sconfinato,
dove svuota ogni ricordo,
pensiero e giorno.
Un passato come un film
di facce e di eventi
che si susseguono da sempre.
È vero, il tempo si è fermato,
in questo caldo
e insieme apre ogni ricordo,
lo schiude a nuove forme:
ogni giorno passato,
anche il più amaro, il più lungo,
quello che non è mai finito
da quel giorno, quel filo
che ancora mi conduce a te.
Il tempo si è fermato,
è lento ora,
come il caldo d’allora.
Il tempo è qualcosa
che taglia, ci allontana
da quel giorno, il nostro,
il più lungo che conservo d’allora.
Il tempo ora apre quel ricordo,
come un baleno nella mente:
tira, svuota, attira dentro.
È il tempo forse il nemico
più duro per chi attende.
Il tempo, che oggi
si è fermato su te
47
Dittologie Congelate
e sul quadrante dell’orologio,
svuota ogni ricordo,
come un film d’altri tempi,
e noi come attori
ci ripetiamo nelle pose.
48
Federico Li Calzi
XXXVIII
La notte ci sfuggì fra le mani,
mandate, macerate lodi,
dei tuoi lunghi oblii.
Restii a quanto accadde,
ci svegliammo già di colpo
a un nevicato cielo,
che qui rinasce a ricordare
un candido pensiero.
Lo spero che tu ci pensi
a quel mistero, lo penso
che tu ci speri a quella volta:
lo spettro della porta chiusa
restò fra noi.
Non importa parlare d’allora,
non conta giostrare la manovra,
svegliarsi fuori finora desti
dalla prova. Tu ci stavi
quella sera, ed era un fatto,
tu ballavi quella volta
e fu contatto lasso, basso,
messo: fra noi restò il tuo gesto
abbarbicato e svelto.
La notte creava le tue lodi,
i lunghi tuoni, la pioggia
e poi la raffica: è più
di quanto basti questa neve,
è più di quanto sembri
questo seme condannato
a ricordare il tuo pensiero.
Lo spero che tu ci pensi
a quella volta, lo vedo che tu
stai chiusa in quella porta
49
Dittologie Congelate
a parlare d’allora: non conta
ora la manovra per portare
a quota quella storia,
non c’entra ora la parola,
il fatto del tuo labile contatto.
Basso fra noi restò il tuo gesto
abbarbicato e lesto.
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Federico Li Calzi
XXXIX
La notte converge
a un insieme di frasi
e gesti persuasi,
sulla tua parola.
La notte viene
ed è la più breve,
che tiene chiusa
la speranza d’allora.
La notte abbrividisce
lontano al sipario
dei tuoi capelli.
Parla d’ogni cosa,
tira dentro
in un gorgo,
fino alle porte
del tuo castello.
La notte converge
su te, a questo punto:
è un lungo lamento
notturno il tuo sguardo
che giunge funesto,
come un gorgo d’allora.
La notte è un insieme
di frasi e gesti persuasi
sulla parola:
è la più breve d’allora
che ho vissuto finora.
La notte tiene chiusa
la speranza nell’alba,
abbrividisce sola,
ricorda lontano
51
Dittologie Congelate
il sipario dei tuoi capelli,
il reperto dei giorni
più intensi.
In un funesto
risucchio mi tira
in un gorgo
fino alle porte
del tuo castello.
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Federico Li Calzi
XL
La scossa è qui percossa,
tra il tuo e il mio capo.
La mossa è già promessa,
compresa dalla tua mano:
mia, forse lesta, prima volta.
Altalenante desiderio,
occhio infranto, tra le imposte
serrate del mattino.
Il sole sul cuscino, vicino
alito della terrazza,
di quei giorni quando
non esitavi ancora
a ripercorrere la storia,
delle tue inimmaginabili
proposte, percorse all’infinito,
tra il tuo e il mio vestito
stesi ad asciugare.
Finito il ceppo, scomposto
il ganglio: tuo bersaglio,
divagato gesto che qui nasce
rispetto alla coscienza,
conclusa a ripercorrere gli affetti,
i fatti, poi i difetti della tua parola,
della corona che ti abbagliava
sempre più nel chiuso cerchio
della tua stanza, stretta
fra la coscienza della persona.
È qui percossa la scossa
del tuo capo: la mossa
è già nascosta, qui promessa
dalla tua mano.
53
Dittologie Congelate
XLI
Le cose sospendono un resto,
ché tutto è perso.
Le cose contemplano un conto,
ché tutto è rotto:
sospetto inverso dell’intreccio.
Andati interventi,
corrotti impedimenti,
grandi, insistenti,
purtroppo persi nella notte.
Corrotto, il tuo volto
ci annunziava una promessa
infranta sulla storia più lontana;
la tua gonna già illustrava
il gioco delle gambe
sulle spalle
del tuo vicino passeggero.
Dall’aereo si guardava
anche il mare, la notte.
Le cose sospendono un resto
che non conta, imprimono
un pensiero che non resta,
racchiudono un’idea
che non manca,
contemplano, sorprese,
le menzogne, i resoconti rotti
del tuo più grande atto:
intreccio dato
al tuo più lungo viaggio.
Posto sul bagaglio
portavi il passeggero.
Ero sull’aereo quella volta.
Purtroppo persi, quella notte:
54
Federico Li Calzi
restò inerte il tuo volto.
Magari iniziava il tuo lustrale
gioco di sottana,
il tuo più lento modo
di proporre una serata.
Certo, le cose
sospendono un tutt’uno,
contemplano te,
il viso puro nel cielo notturno.
55
Dittologie Congelate
XLII
L’opinione è una tua mossa,
una frase che lasci su te stessa.
È lo sguardo che riempiva
la memoria, un circuito chiuso,
circonflesso sui gradini della storia
in tuo possesso.
Misero, modesto, chiuso, poi recesso
dal tuo semplice sospetto.
L’opinione è il foglio scritto
tra noi, lo scambio di parole
dei nostri anni: dei circostanti
sguardi che tu scansi. È la figura
dei tuoi riguardi, la mia anche buia
fotografia d’una volta.
La monomia degli abiti, l’aritmia
dei lasciti, la sinfonia purtroppo
anche mia monotonia. Che ci lasciò
negli attimi persi in quei fatti.
L’opinione è una tua mossa,
un circuito chiuso su se stesso,
uno sguardo dalla finestra.
Il tuo recesso non è poi ora;
la mia figura è anche tua
fotografia resa alla memoria.
L’opinione è una tua storia.
56
Federico Li Calzi
XLIII
Ora che la notte
batte il suo colpo
dalla piazza
dilata lontana
una luce diafana.
Dura la sequenza
dei passi,
muta la sensazione
di vaghezza
al colpo che, lento,
rintocca dall’orologio:
ricorda il tuo corpo,
il tuo volto libero
nella notte.
Dalla piazza batte
il suo colpo la notte,
sbatte chiude
le porte la luna;
dura la lunga fortuna
dei pochi valori
di poche parole,
povere, rimaste
fra noi.
Ora che anche la notte
ha consumato
il suo tempo,
cosa resta a me
per pensare di te?
La notte batte
il suo colpo
dalla piazza lontana.
Il tempo scocca,
57
Dittologie Congelate
deforma
a rilento
una diafana luce.
Rintocca, ricorda
il tuo corpo,
ora che la notte
batte il suo colpo.
58
Federico Li Calzi
XLIV
Può darsi che sia così
quella scorrevole sinergia
che fra noi impallidisce
gli occhi tuoi.
Può darsi che sia per noi
la scorrevole parola
che marcava i fianchi tuoi.
Nodi sempre sciolti,
groppi sempre tolti,
poi risolti all’urgenza
dei fatti. Patti chiusi
e ricomposti fra noi,
sigillati aperti poi
prima della fine.
Ma su noi che abbiamo
perso il nostro limpido
soggetto, per vivere
l’esempio di questo
mitico concetto,
cos’è che scolpita
ancora porti dentro?
Pensi che nulla
sia proposto al proponibile?
Che null’altro
sia mancato
al già mancabile?
Trasformabile strettoia
in cui ci ritroviamo ora.
Schiavi di noi
e dei nostri sensi,
di queste scelte
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Dittologie Congelate
che ci mettiamo sotto:
piccoli insuccessi
persi ogni giorno.
Può darsi che sia così
quella scorrevole
parola che, fra noi,
impallidisce gli occhi tuoi.
Può darsi che sia per noi
tutto così: chiuso nei nodi
sciolti, nei groppi tolti
alla parola dei fatti,
dei languidi misfatti
che tu porti ancora,
quando una scatola
chiusa era il tuo passato,
purtroppo muto,
che nessuno può aprire
prima della fine.
60
Federico Li Calzi
XLV
Sommesse chiuse porte,
desideri giravolte
sprechi di memoria
nei giorni senza storia.
La tua parola è la corona
dettata dalla prova.
Tristi chiusi eventi
mai battuti: prodotti
degli abusi.
Ripensare al tuo riguardo
è un’altra storia,
riproporre una memoria
è la prova:
una nuova produzione
che rimane adesso
chiusa in quella porta.
Sommessi chiusi cori
nella notte senza fine,
ci dicono che è rotta
con te la messa nella notte.
Tu produci un altro abuso,
conduci un altro muso
da tenere tutto il giorno.
Diedero ragione a te
i Sumeri, un tempo,
tra l’una e l’altra sponda
dell’Eufrate.
Diedero fiducia a te,
di riportare la corona
persa in quelle acque.
La tua parola
61
Dittologie Congelate
è la corona persa un tempo
tra il Tigri e l’Eufrate,
una storia chiusa
nella memoria.
62
Federico Li Calzi
XLVI
Tu, purtroppo mia consolazione,
grande degnazione, amante,
la sera di quegli anni. Oggi rimane
un dubbio di quanto accadde
allora: all’imbroglio circospetto,
dopo tempo, è tutto chiaro, adesso.
Resta solo il tuo sospetto.
Tu grande abuso, lunga intrisa
in quei fatti ci stavi bene. Tu infine
dubbia, persa nei discorsi. È tutto
chiaro allora, un dubbio pensarlo
ora, quanto accadde quella volta.
Tu grande amante, stupida,
importante, infinita, persa,
sulla lesta mossa che ci trovò,
adesso, la tua menzogna addosso.
Tu dal pudore più lontano, tu
infinita prova che non torna
oggi ancora.
Bisognava immaginare la tua
parola, fuori luogo, quella sera,
c’era da immaginarsi fin d’allora
che tutto era da fare,
consolazione che rimane
oggi ancora un dubbio.
63
Dittologie Congelate
XLVII
Un giorno pioveva sulla strada
che porta alla tua casa, una sera
dal profondo delle vie, quando
ti dissi: “Lascia l’ombrello sulla
soglia d’alabastro”, timido
pretesto per cercarti ancora.
Un giorno pioveva sulla nostra
storia, timida rimasta inerte
sulle prodezze che ogni giorno
m’inventavo:
immaginavo i tuoi capelli
come un sipario d’armamenti,
d’imperdibili impedimenti,
insistenti, smossi, che s’interponevano
in magnetiche sequenze di movimenti,
frangenti, la mia rovina.
Una notte pioveva prima del giorno,
dal profondo delle vie, quando
ti dissi: “Lascia l’ombrello
sulla soglia d’alabastro”.
64
Federico Li Calzi
XLVIII
All’ombra di un ricordo
sto seduto in questo giorno.
All’ombra d’un pensiero
sono rimasto come potevo:
crudele, ingrato,
dal tuo sguardo condannato.
All’ombra di un tramonto
mi lascio solo al tuo ricordo.
Perché pensarti è un abbaglio?
Perché guardarti è uno sbaglio?
All’ombra del tuo sguardo
si sta meglio in questo corpo,
mio difetto, mio aspetto più lesto
che nasce dal tuo orgoglio.
Dal tuo sguardo basso
mi guardo in ogni giorno.
All’ombra del tramonto
son giunto, solo, al nostro luogo:
col ricordo qui siedo,
in questo giorno.
65
Dittologie Congelate
XLIX
C’eri tu che forse spiavi gli amici,
che guardavi, vicini, i ragazzi più vivi.
C’eri tu quella sera, c’era la tua catena
che, lenta, lasciava la lunga scossa fra noi.
C’era la mossa dei tuoi gesti, la presenza
dei tuoi passi, la cadenza dei giorni limpidi
e puntuali. C’era un tuo nominale accento
che lasciavi nelle cose che dicevi.
C’eri tu quell’estate: la mossa protesa
e persa sulla nostra storia. C’eri tu
che forse parlavi e rischiavi un più certo
mormorio scettico delle parole.
C’eri tu e ogni cosa non torna più al suo
posto, in questi giorni, in questi lampi
di vita che attraversano gli anni.
La catena, ancora percossa, lascia
una lunga scossa fra noi.
66
Federico Li Calzi
L
C’è un passato fra noi,
un logorato tempo
di quei giorni, qualcosa
che legato a te mi tiene
ancora: il mondo che tu
vivi, tutto quel che conosco,
mi dà esempio di te.
Tutto il resto non è mai
finito da quel tempo,
legato ancora a te mi sento,
come se tutto quanto
non fosse mai successo.
È questo il controsenso
perso, l’impossibile momento
che, da allora, mi tiene chiuso
in quel passato: una gabbia
dalla quale non si scappa.
È questo il nuovo mondo,
il nuovo volto che m’hai
dato: il passato, dal quale
dipenderemo sempre,
con cui fare i conti, in tutti
i giorni di questo duplice
presente, che incastrato vive
in quel passato, logorato
ormai per noi, ma ancora
legato alla tua vita, che è
tutto quello che conosco.
Tutto il resto non è mai
finito, da quel tempo.
67
Dittologie Congelate
LI
Forse non basta
quel lungo ricordo
a tenerti fantasma,
lontana dai gesti.
Forse non cambia
malinconia, la tua,
per forza mia,
monotonia dei resti.
Poveri insuccessi fra noi,
dei nostri anni,
liberi fantasmi degli astri:
per noi proposte
forse poste e mai perse.
Forse qualcuno
lasciò la nostra storia
svolgersi in silenzio,
ché mancò la mole
delle prove rese
al tuo successo.
è successo tutto
e ripetuto il resto,
è mancato presto
l’antico gesto fra noi,
ripetuto e sprovveduto
nascosto fra le sottane
tue dismesse,
nei lunghi esili
della tua stanza.
Non basta qualcuno
a tenerti fantasma,
a tenerti
68
Federico Li Calzi
lontana dai gesti,
poveri insuccessi
fra noi, dei nostri resti.
69
Dittologie Congelate
LII
Ci trovammo un giorno a parlare su di noi,
persi sulle storie dei nostri fatti. Erano
magnetiche sequenze, orme stanche,
resti consunti del nostro mondo. Tu chiedevi
un ricordo come supporto, purtroppo
rimediavi un tappo al tuo fantastico contatto.
È troppo presto per dirsi ciao, è troppo lesto
quel guaio, che ci condusse lontano, per noi,
perso il tuo supporto. Ci trovammo un giorno
a girare su noi, in passi di scansi, liberi
in magnetiche sequenze, poi consunte,
forse perse, dal nostro successo. Ho ricordato
un tuo composto più certo, del successo
che restò fra noi.
Le tue sequenze, i sensi senza scampo,
la giostra dei processi, lo scarto dei contesti:
resti fra noi la nostra storia! È una scossa resa
alla memoria dei fatti, agli scarti dei contesti
mancanti della prova, resa fra noi, come la tua
anima già tesa. Fu così che ci trovammo
un giorno, alla fine di quegli anni.
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Federico Li Calzi
LIII
Dalla schiera dei balconi,
il nero fumo dei motori
scuote coltri di vapori.
Pennuta mi svolazza,
curiosa sta, spiuma vicina
e mi guarda una colomba
da una pensile grondaia.
(Sembrava un lenzuolo steso,
che al vento asciugava
e invece era l’ombra del passo
che il tuo corpo agitava).
Sul terrazzo, scanso
i pochi fiori che s’affacciano;
intento al tuo passo
ravviso l’affanno, riverso
rimango già attento,
sotto il cerchio deforme
dell’ombra sinistra.
Sovente mi giro affannato,
come chi attende e non vede;
vicino m’attardo,
attorno mi guardo,
sorpreso da un’ombra preziosa.
(Sembrava un lenzuolo steso
che al vento asciugava
e invece era l’ombra più lunga
che il tuo passo agitava).
71
Dittologie Congelate
LIV
Dimmi cos’è che ci prende talvolta,
che insieme sospende, ogni volta che
chiamo di te. Da lontano la tua mano,
sospesa, fredda, sta come in attesa.
Ma tu non puoi restare questa sera
lungo il mare, se è vera questa luna,
vero questo mare.
La sera è una, e c’è nell’aria una fortuna,
c’è una sostanza che lasci in questa spiaggia.
C’è un pretesto per stare con te, stasera,
lungo la riva.
C’è una musica che arriva da lontano
e lascia libera la mano: un’idea
socchiusa sul tuo corpo.
Dimmi: qual è l’intreccio di occasioni
che lungo questo mare ci ha portati
questa sera? Risalendo a ritroso
nel tempo, non saprei neanche dirlo adesso.
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Federico Li Calzi
LV
Dire delle cose significa mentire,
scandire le parole significa sentire:
intuire l’altro prima della mossa,
prepararsi alla risposta e poi finire.
Annoiarsi e anche starci in quel passato,
chiudersi e bastarsi nei fatti,
lasciarsi e anche privarsi delle catene,
come lunghe cantilene di forme brune:
orme perse nella resa dei tuoi passi.
Dire delle cose significa morire,
cancellare tutti i giorni, scatenarsi e rifiorire.
Scandire le parole significa morire,
intuire la sequenza degli attimi in quei fatti.
Privarsi delle parole è anche finire.
73
Dittologie Congelate
LVI
Diurna luce che s’imbratta
di spume intorte, brune:
circonflessi specchi d’acqua dolce.
Come storti sensi al tuo vagare,
lunghe schiume giù riflesse,
all’albeggiare, sulla barca stretta
in manovra al lungo gesto.
Tu venivi lesta nella luce,
in lunghe schiere
giù riflesse alle figure.
Diurna luce che scatena
lunghi giri d’altalena persi
in quel giardino della sera.
74
Federico Li Calzi
LVII
E già, mi lasci tu l’odore della festa,
le compromesse sfere di cartapesta,
nella schiera dei giardini. Le ore
più fresche, le tante tue richieste
perse nelle ore della festa.
L’odore di primavera, la prima
tua preghiera in coro sui gradini
della chiesa. Un ricordo,
compromesso al tuo successo,
però di cartapesta.
M’è rimasta la tua faccia, la gradevole
minaccia di tre parole, l’odore
di primavera nei giardini della sera,
l’ultima parola detta sulla corsa
dei vagoni, la frase bocconi,
rimasta persa la sera che partisti.
Mi lasci tu il tuo odore, le lunghe
ore di festa nel tuo giardino a primavera,
le tante tue promesse fatte la sera prima
che partissi.
75
Dittologie Congelate
LVIII
È tutto reso e domandato
sulla scia della memoria.
È tutto visto e condannato
sulla via della parola;
preso e congedato allora,
che resa e circoscritta era
la corona: un’oncia d’oro
che t’abbagliava,
più d’ogni altro oggetto.
Perfetto peso, circoscritto
cerchio, perso e ricordato
sullo strappo della menzogna.
È tutto teso e rimandato
su un filo, all’albeggiare.
Allontanare per noi ora non
vale: è la fortuna che dobbiamo.
Noi siamo quel che la vita
ha dato o forse reso, siamo
più di un peso, contrapposto
alla parola; siamo il contrappeso
appeso alla memoria, alla corona
d’oro sulla fronte della tua
coscienza, che poi scappava
dai labirinti dei tuoi istinti.
La notte è con te, ora:
ti propone, ti rimuove,
domanda, la resa dei conti
alla memoria, persa e congedata,
forse resa, malata
sulla scia della menzogna.
76
Federico Li Calzi
LIX
Era novembre
e lungo il viale, di notte,
il freddo torceva
un Natale alle porte.
Lucide strade
parlavano sole.
Al vento, due amici
dibattevano in silenzio:
interponevano
frasi ai nostri colloqui.
E tu, come estranea
ai discorsi,
fumavi distratta.
Ti fermavi agli sguardi,
ogni tanto parlavi.
Nel volto si coglieva
l’innocenza persuasa,
negli occhi si parlava
di una storia passata,
d’un tuo aspetto
che rimane dubbio
ancor oggi.
Eri come la carezza
d’un tempo lontano,
l’asprezza d’una cocente
menzogna.
Era novembre
lungo il viale,
77
Dittologie Congelate
le strade sole
stavano a guardare.
Ogni cosa
aveva un suo posto,
alla timida risposta
innata di quel paese,
una dignità povera
che destava rispetto
intorno.
Era novembre:
e tu c’eri, quella volta,
in quel margine di vita
che da lì è partita.
78
Federico Li Calzi
LX
Guardare i gesti
delle cose che fai
è solo un senso
di tutto quello
che non sai.
Prestarsi al tuo imbroglio
mi sembra un lento
spreco di promesse.
Restare fermo
al tuo incontro mi pare
un dubbio chiuso
di quel tempo.
Guardare quei giorni
è solo un senso; dire
delle cose è ciò che penso.
Abbandonarsi nel tuo fare
è solo il resto del tuo gesto.
Questo significa pensare
alle parole prima di parlare,
comprimere l’errore,
incassare l’orrore
di ciò che è vero.
Restare ancora mi pare
la sola speranza di tornare.
Mancare ancora
a quella prova
mi pare certo.
Tutto, altro ancora
e quello che non sai
è poi successo.
Presto, mi sembra lento
il tuo sognare.
La stasi del pensare
è un dubbio che rimane,
79
Dittologie Congelate
chiuso, fino
all’alba dell’abuso.
Guardare quei giorni
è qualcosa che tocca,
dire le menzogne
è qualcosa che trabocca
i fatti, i patti chiusi,
la lenta bocca tua:
parola che rimane
oggi, ancora, orrore
di quanto è vero.
80
Federico Li Calzi
LXI
Il sole spento al nuovo giorno
ha infranto il raggio contro il muro.
Tu venivi in quel cappotto,
persa in sequenza di quei passi.
L’ombra che striscia la tua veste
s’è consumata presto come fosse
donna, come luce che parla,
sente e prende forma.
Il giorno teso all’albeggiare
lascia strisce di luce sulla lunga
strada. Il tuo gesto divagato
fra noi, più breve, restò.
Il raggio striscia il muro accanto,
là sotto, contro il nuovo giorno.
Lo sguardo abbandona il tuo spasso,
lo stacco perso di quel lungo giorno.
L’ombra è più breve ora,
s’è costretta di nuova forma,
che lungamente parla e sente
come fosse donna, questa
donna che veramente sente,
come insieme luce ed ombra.
E il sole che prende nuova forma
ora basta alla tua orma,
a dimostrare il resto:
il senso del tuo gesto,
il raggio del lungo giorno.
Persa fra noi la lenta scossa
rimasta per te un lungo gesto.
81
Dittologie Congelate
LXII
La fabbrica di carta è lì tra la fratta,
d’erba secca e di luce compresa.
Tu venivi distesa, probabilmente
attesa alla tua stupida coccarda,
limpida, bugiarda assonanza,
che liberava, tra me,
la tua sostanza.
I pomeriggi poi non finivano
mai sotto quel sole,
probabilmente accorta
alle tue tante vicende.
Sopportabile memoria
la tua coccarda che liberava,
tra te e me, la tua sostanza:
lì, tra la fratta,
nella fabbrica di carta,
d’erba secca e di luce compresa.
82
Federico Li Calzi
LXIII
Le parole scritte
come la notte che viene,
sono le più vere
che ho stretto stavolta
nell’arsura dei fatti.
Le parole dette
come gli occhi che lasci
sono lenti misfatti.
Lunghe catene, perse,
nella notte che viene.
Le frasi dette
sulla soglia del falso,
rinascono sole
nel rumore del tempo:
parole dette
per destare stupore,
creare rancore,
sono le sole
che ho detto stanotte.
La parola persa
sulla soglia del falso,
è l’aspetto più dubbio
che resta una volta:
la prova
della più grande premura.
Le parole, stanotte,
sono le stesse
che tengo più strette
83
Dittologie Congelate
dalla notte lontana.
La notte leggera
che traspare notturna.
Ripeto le frasi
per destare il rancore.
Più stretta la notte
s’è infranta nel cuore;
stonate le parole
che ho detto una notte.
84
Federico Li Calzi
LXIV
Oggi è così,
come un giorno
in cui avviene qualcosa.
Una cosa da ricordare:
un giorno autunnale
di pioggia lungo i viali.
Tu per tua fortuna
trattieni il passo, docile,
felpato sotto i portici.
Uscita appena da pranzo
ti guardi intorno
e poi ritorni sui tuoi passi.
Era bello un tempo
traversare la piazza
con te sottobraccio,
nei giorni di pioggia.
Le gocce sotto i portici.
Tu trattieni il fiato.
Non ti lusinga più
se un mendicante
ti porge una rosa,
se avviene qualcosa
intorno a te.
Una cosa
tu ricorderai:
quel giorno autunnale
di pioggia lungo il viale.
85
POSTFAZIONE
Questione di timbro
La scrittura della poesia moderna punta, da sempre, al
raggiungimento di un timbro, alla conquista di un carattere
distintivo della voce che, in rapporto a vari elementi armonici, la differenzi da altre, concorrenti, pronunce. Proviamo
a vedere come ciò avviene nel canzoniere di Federico Li
Calzi. In sintesi, esso si fonda, già a prima vista, su una
situazione essenziale e costitutiva della poesia occidentale
che, in maniera cursoria, si può sintetizzare in tre fatti o
motivi semantici: la continua relazione tra memoria e oblio,
lo scavo della prima, talvolta infruttuoso, nella mole angosciante del secondo (“la resa dei conti/alla memoria, persa
e congedata” LVIII); la coscienza dello statuto negativo del
linguaggio che, mentre nomina le cose, le oscura, le travolge, le nasconde (“Dire delle cose significa mentire” e “Scandire le parole significa morire” LV); e la permanenza, nella
dominante ambientazione notturna, sul luogo dell’assenza
del tu e della sua remota distanza. Da qui – vera architrave
di tanti discorsi lirici della modernità e, ancor prima, della
poesia provenzale – il sentimento del “parlare da lontano”
(XVIII), del guardare ad un’”ombra” (XXVII), dell’essere
legati proprio da ciò che ostacola (“La forza che ci unisce
è la distanza che ci separa” XVIII). E sempre da qui, per
soprammercato, la duplice tensione che, da un lato, innerva la ricerca dell’introvabile (“Non so più dove/trovarti
89
ormai” VIII), e, dall’altro, detta i tempi faticosi dell’attesa
(“Ora aspetto il tuo passo,/di rado attendo il tuo sguardo”
XXXIV).
Ora, queste coordinate tematiche quali vesti assumono?
Quale è la loro forma? O meglio - tornando alla questione
iniziale – che timbro adotta questa partitura? Ecco ciò che
qui è più singolare è forse il ricorso intensivo e massiccio
a figure foniche che hanno nell’iterazione la loro chiave armonica. Si tratta, in primo luogo, dell’anafora (che, talvolta,
è anche troppo insistita, ma che dà comunque origine ad
uno dei testi più notabili della raccolta: il XX) e, in seconda
battuta, della rima o, ad essere più precisi, di un vasto repertorio di coaguli sonori che toccano anche altri luoghi non
necessariamente coincidenti con la fine del verso. Si incontrano allora casi di rimalmezzo (come “per noi proposte/
forse poste e mai perse” LI) e rime caratterizzate (come
peraltro già nell’esempio precedente) dal fatto che il primo
termine contiene per intero al suo interno il secondo: “E il
sole che prende nuova forma/ora basta alla tua orma” LXI.
Lungo questa strada si giunge ad individuare veri e propri
cortocircuiti fonici dati dalla contigua, stavolta, occorrenza
degli stessi suoni: “il pensiero che squassa,/la matassa che
tiene chiuso IV, “rimane ancora presa/la resa fra noi” VIII.
Una pulsione stilistica, questa, talmente forte da farcire il
discorso di agglutinazioni sonore che finiscono per coinvolgere più del semplice sinolo armonico di due termini.
Come avviene, con triplice iterazione, nel caso seguente:
“il tempo sia stremato/dall’evento, che lento si contorca”
XXIV.
C’è insomma in queste poesie una strenua ricerca di quelli
che si potrebbero chiamare effetti di saturazione fonica. La
quale, se si presta orecchio all’interazione tra temi e suoni,
90
determina a sua volta una conseguenza, insieme, originale
e paradossale: la tensione ad afferrare con le reti sonore
del timbro quanto è sfuggito per sempre, a cingere in un
ordito di soprassalti armonici la mancanza, a chiudere in
un abbraccio mnemonico di rime, consonanze e assonanze,
l’irreparabilmente perduto. Come in un rito: esorcismo o
manovra apotropaica: timbro che si fa mimesi del desiderio.
Ma cos’altro è la poesia se non questo?
Enrico Testa
scrittore, poeta, docente di Storia della lingua italiana
presso l’Università di Genova
91
indice
Indice
P.
V.
PREFAZIONE
Dittologie Congelate 2009-2011
3.
4.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
22.
23.
24.
26.
28.
29.
30.
32.
33.
34.
35.
37.
38.
Il tuo sguardo mi cattura...
Io vivo senza te...
La mente ritorna...
La notte ha chiuso il tuo volto...
La terra mi sta innanzi...
Nella luce del giorno, la finestra aperta...
Non c’è più aria intorno...
Non so più dove...
Oltre il breve, oltre il piglio che attacca...
Passano le auto...
Piove sulle tue scarpe...
Scriverò per te domani qualcosa che, non si sa mai...
So che il tuo sguardo è qualcosa che rimando...
Sperandoti, una volta, può darsi che t’abbia vista...
Ti ricordo adesso, come un modesto tuo imbroglio...
Troppe le cose lontane...
Una notte ho detto parole...
Vorrei piano, vicino a te, parlare da lontano...
C’era una sera magnetica fra noi...
Potrebbe essere un segno del tuo sguardo...
Certo, a pensarti...
Certo che può sembrare vera...
Dalle persiane, un tenue lucore soffuso abbrividisce...
Datemi del tempo che sia concorde con le mani...
Due parole...
Dura lo stato di vaghezza...
È solo l’ombra che sostiene...
È un considerevole scambio di parole...
È un mondo che scolora...
L’estate, piena, mi ricorda...
Forse non è possibile pensare a noi, come impensabile...
Indice
40.
41.
42.
44.
46.
47.
49.
51.
53.
54.
56.
57.
59.
61.
63.
64.
65.
66.
67.
68.
70.
71.
72.
73.
74.
75.
76.
77.
79.
81.
82.
83.
85.
La ragazza nell’alba ripensa da sola alla notte lontana...
Se contemplando te mi vien da piangere...
Ho aspettato...
Il gioco delle cose...
Il mondo ci ha, così...
Il tempo oggi si è fermato...
La notte ci sfuggì fra le mani...
La notte converge...
La scossa è qui percossa...
Le cose sospendono un resto...
L’opinione è una tua mossa...
Ora che la notte...
Può darsi che sia così...
Sommesse chiuse porte...
Tu, purtroppo mia consolazione...
Un giorno pioveva sulla strada...
All’ombra di un ricordo...
C’eri tu che forse spiavi gli amici...
C’è un passato fra noi...
Forse non basta...
Ci trovammo un giorno a parlare su di noi...
Dalla schiera dei balconi...
Dimmi cos’è che ci prende talvolta...
Dire delle cose significa mentire...
Diurna luce che s’imbratta...
E già, mi lasci tu l’odore della festa...
È tutto reso e domandato...
Era novembre...
Guardare i gesti...
Il sole spento al nuovo giorno...
La fabbrica di carta è lì tra la fratta...
Le parole scritte...
Oggi è così...
89. POSTFAZIONE
Questione di timbro
Finito di stampare nel mese di gennaio 2012 presso la
Tipolitografia Aurora di Cerrito Michele & C.
Via Ten. A. Chiolo, 12 - 92024 CANICATTì (AG)
Tel/Fax 0922 735145 - www.tipoaurora.com - [email protected]