architettura in uniforme

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architettura in uniforme
ARCHITETTURA IN UNIFORME
Progettare e costruire per la seconda guerra mondiale
19 dicembre 2014 – 3 maggio 2015
www.fondazionemaxxi.it
Roma, 18 dicembre 2014. Sperimentare nuovi materiali e tecniche costruttive, inventare forme di
mimetizzazione, progettare strutture gigantesche per la produzione e i test bellici ma anche per i campi di
concentramento, modernizzare le tecniche costruttive e il modo di lavorare, usare l’informazione e la
propaganda, salvare i monumenti dai bombardamenti.
La mostra Architettura in uniforme. Progettare e costruire per la seconda guerra mondiale, al MAXXI
dal 19 dicembre 2014 al 3 maggio 2015, esplora che cosa è successo all’architettura durante la Seconda
Guerra Mondiale e i diversi modi in cui gli architetti sono stati coinvolti e hanno lavorato, in ogni Paese.
A cura di Jean Louis Cohen, Architettura in uniforme è stata concepita e realizzata dal Canadian Centre
for Architecture di Montreal, e adattata dalla Cité de l’Architecture et du patrimoine a Parigi e dal
MAXXI a Roma.
La mostra, organizzata nell’edizione italiana dal MAXXI Architettura diretto da Margherita Guccione, si
basa su decenni di ricerche d’archivio e sul campo, e racconta una fase di grande ricerca e profonda
trasformazione dell’architettura quando tra il 1939 e il 1945 tutti e quattro i continenti furono messi a ferro e
a fuoco dalla Seconda Guerra Mondiale.
Molti gli architetti che partecipano ai combattimenti, mentre altri continuano la loro attività professionale
mettendola al servizio delle necessità del momento. La modernizzazione tecnica iniziata negli anni Venti
viene portata avanti con ricerche e programmi innovativi, la guerra “sfrutta” ogni forma di competenza
architettonica: tecniche costruttive, visive, organizzative e manageriali.
Alcuni tra i più importanti architetti del Movimento moderno sono coinvolti direttamente in progetti per i vari
programmi bellici: da Auguste Perret e Le Corbusier a Walter Gropius, Mies van der Rohe, Richard Neutra
e Louis Kahn. Loro disegni originali sono esposti in mostra.
Con l’ideazione di edifici giganteschi, come il Pentagono o la fabbrica di Oak Ridge dove fu costruita la
bomba atomica, e la pianificazione di interi territori proibiti, cambiano le dimensioni della progettazione,
cambia la stessa progettazione urbana, architettonica e paesaggistica che ebbe un ruolo importante anche
nell’ambito di imprese criminali come i campi di Auschwitz.
Dal 1945 l’architettura moderna regna incontestata in tutto il mondo, salvo, per un breve periodo, nel
blocco sovietico: vengono tracciati piani per il futuro del mondo e disegnate le planimetrie di città nuove.
Dopo il conflitto gli architetti applicano a scopi residenziali e urbani i metodi elaborati in quegli anni,
rendendo evidente come la guerra avesse trasformato non solo il modo di progettare e costruire gli edifici,
ma il modo stesso di pensare.
“Più che chiarire le vicende di un momento storico trascurato dalla maggior parte dei racconti storici, e di
evidenziare progetti sconosciuti o interpretati solo in maniera parziale, la mostra mette in evidenza la sfida
etica che la guerra ha rappresentato per gli architetti. - Dice Jean-Louis Cohen curatore della mostra Dai criminali di guerra, come Albert Speer, ai resistenti come il Polacco Szymon Syrkus, il quale è
sopravvissuto lavorando come progettista del lager di Auschwitz, viene percorso l’ampio spettro delle
esperienze umane di quegli anni.”
“Questa mostra rende molto bene l'idea di come è necessario uscire dagli stereotipi della storia e
riaccendere l'attenzione su un momento cruciale per l'architettura del 900 e per i suoi effetti sulla cultura
successiva. - Dice Margherita Guccione, Direttore MAXXI Architettura - Il ricchisssimo percorso
espositivo sulla mobilitazione degli architetti negli anni della guerra, integrato in questa edizione da molti
materiali italiani, è il risultato di una grande ricerca e della collaborazione del Museo di architettura con
due tra le più prestigiose istituzioni internazionali, il CCA di Montreal e la Citè de l'architecture di Parigi."
Aggiunge il Direttore del CCA, Mirko Zardini: “Le mostre e i progetti del CCA indagano spesso temi poco
noti che possono informare e arricchire il dibattito contemporaneo sull’architettura e la sua pratica.
Architettura in Uniforme affronta una vasta zona grigia della nostra disciplina e offre nuove prospettive; la
guerra non servì solo come acceleratore di innovazione tecnologica, ma coinvolse gli architetti in una
struttura militare con precise responsabilità sociali, politiche e morali i cui effetti si sentono ancora oggi”.
Un immenso repertorio di esperienze compone il racconto della mostra, organizzato in 14 temi che ne
costruiscono il percorso e illustrano quanto furono varie le attività architettoniche condotte dalle nazioni
belligeranti, dagli Stati Uniti al Giappone, dal Regno Unito alla Francia, dalla Germania, alla Polonia e
l’URSS.
I temi della mostra includono le esperienze personali di architetti come Ernst Neufert che collabora con i
Nazisti e di quelli che combattono nella Resistenza, come Ludovico di Belgiojoso; il modo in cui città come
Roma, Milano o Londra rispondono agli attacchi aerei; lo sviluppo gigantesco delle fabbriche come si vede
ad esempio nei progetti di Albert Kahn a Detroit e nel Middle West; il contributo di Erich Mendelsohn alla
sperimentazione delle bombe incendiarie al poligono di Dugway, nello Utah; la ricerca sviluppata nel
campo della percezione visiva per realizzare la mimetizzazione di paesaggi e luoghi di guerra, di cui sono
esempio i progetti di Hugh Casson per gli aeroporti di Gloucestershire. La comunicazione e la
propaganda, che utilizzano media differenti come manifesti e film, vengono raccontate attraverso il lavoro
di designer come Norman Bel Geddes. Infine, caratterizzano la mostra, oggetti disegnati o che si sono
diffusi negli anni della guerra, come il tutore ortopedico di Charles e Ray Eames o la jeep Willys.
Si passa poi alle storie di prigionia, al processo di Norimberga, allestito dal paesaggista Dan Kiley, per
giungere infine all’architettura del dopoguerra e della memoria.
Un’enfasi particolare viene dedicata all’Italia, sia prima che dopo l’armistizio del 1943, raccontata da video
d’epoca, fotografie, progetti, documenti, tra cui le immagini del David di Michelangelo avvolto da protezioni
contro i bombardamenti, i taccuini di Bruno Zevi e Ludovico Quaroni, i progetti per Tirana di Gherardo
Bosio, la Littorina (la bicicletta realizzata in alluminio e legno per ovviare alla mancanza di metalli utilizzati
per gli armamenti), il Monumento ai caduti delle Fosse Ardeatine di Mario Fiorentino e Giuseppe Perugini,
e molto altro.
I 14 temi della mostra: Architetti in uniforme - Guerra alle città nelle città - Il fronte interno e l’autarchia - Il
fronte industriale: produrre e dare alloggio agli operai - Fortificazioni e progetti di guerra - La protezione
antiaerea - Il camouflage, ovvero disegnare l’invisibile - Al servizio della comunicazione - Quattro macro
progetti - Architetture dell’occupazione - Architetti e prigionieri - Processo di Norimberga - Immaginare il
dopoguerra e riciclare le tecnologie militari - Architettura della memoria
Completa il progetto il libro, pubblicato in francese e in inglese Architecture en uniform. Projeter et
construire pour la seconde guerre mondiale / Architecture in Uniform. Designing and Building for the
Second World War, CCA (Montreal) e Hazan (Paris), 2011. Il catalogo è stato realizzato anche grazie al
generoso supporto del “Graham Foundation for Advanced Studies in the Fine Arts”.
La cartella stampa e le immagini della mostra sono scaricabili nell’Area Riservata del sito della
Fondazione MAXXI all’indirizzo http://www.fondazionemaxxi.it/area-riservata/ inserendo la password
areariservatamaxxi
MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo
www.fondazionemaxxi.it | info: 06.320.19.54 | [email protected]
orario di apertura: 11.00 – 19.00 (mart, merc, giov, ven, dom) | 11.00 – 22.00 (sab) | chiuso il lunedì
Ufficio stampa MAXXI +39 06 3225178, [email protected]
Jean-Louis Cohen, costruire in tempo di guerra
Di Luca Molinari
Intervista al curatore della mostra Architettura in Uniforme. Progettare e costruire per la Seconda Guerra
Mondiale, aperta al MAXXI di Roma dal 19 dicembre 2014 al 3 maggio 2015*
Dopo le due edizioni del CCA di Montreal e di Parigi, la tua mostra arriva al MAXXI a Roma.
Come si è evoluta l’esposizione in questi tre anni e che aggiornamenti significativi potremo
leggere in questo importante evento italiano?
Dopo la tappa inaugurale a Montréal nella primavera del 2010, la mostra è stata arricchita per
l’esposizione a Parigi: ho aggiunto molti documenti relativi all’attività di Jean Prouvé in tempo di
guerra, tra cui oggetti 3D come la bicicletta o il forno. Ho anche inserito un numero significativo di
disegni – e un modello – relativi ai programmi di ricostruzione del regime di Vichy, oltre a una sezione
completa dedicata ai progetti realizzati da architetti francesi nei campi di prigionia tedeschi.
Nel caso della mostra romana, ho attuato una politica analoga. Invece di aggiungere un capitolo
italiano, ho “iniettato” materiali relativi all’Italia in quasi tutte le sezioni: manifesti e testimonianze
relative alle politiche autarchiche, foto di monumenti protetti contro le incursioni aeree, camouflages di
Pietro Porcinai e progetti di Luigi Cosenza per “città militari” e lo sviluppo della Campania.
Contribuiscono all’italianizzazione della mostra anche film dell’Istituto Luce e riviste pubblicate
durante la guerra.
Il tuo lavoro di ricerca ha finalmente coperto una fase storica che per troppo tempo è stata
considerata di sospensione e assenza lavori significativi. In che cosa, invece, consiste
l’elemento di novità di questa lunga ricerca e come definiresti invece la Seconda Guerra
Mondiale alla luce degli studi fatti?
La Seconda guerra mondiale è stata troppo spesso considerate una sorta di buco nero nella storia
dell’architettura, un periodo di stasi piuttosto che una fase nella quale l’unica preoccupazione fosse
pianificare la ricostruzione. Ho messo in luce come la guerra abbia determinato un cambio di scala
nei progetti, con mega edifici come il Pentagono e le gigantesche fabbriche progettate da Albert Kahn
o costruite dalla società Austin. Un cambiamento che ha interessato anche le porzioni di territorio
dedicate alla produzione e alla sperimentazione, come Oak Ridge e Peenemünde, nonché la
massiccia infrastrutturazione sviluppata per sostenere i progetti criminali dei nazisti.
Un altro fondamentale cambiamento riguarda l’uso delle tecnologie. La combinazione di strutture
leggere, aria condizionata e luce artificiale ha dato il via alla fabbrica senza finestre, che è il prototipo
delle grandi scatole che conosciamo. Contemporaneamente, non posso ignorare un altro fattore
fondamentale, ovvero la posizione etica degli architetti, che hanno dovuto decidere – quando ne
avuto la possibilità – se collaborare o meno con i barbari, e con che ruolo. Pochi sono stati stati veri
criminali, un buon numero i cinici, la maggior parte semplicemente indifferenti. Molto pochi si sono
uniti alla fine alla resistenza. Questi approcci hanno senza dubbio condizionato il loro destino nel
dopoguerra.
Uno degli elementi più affascinanti che si evince dalla pubblicazione è la dimensione della
guerra come impressionante laboratorio tecnologico e sperimentale. Che conseguenze
significative ha avuto il conflitto mondiale sulla nostra vita dell’immediato dopoguerra?
Parallelamente alla comparsa di nuove tipologie edilizie, la Guerra ha portato allo sviluppo di nuove
tecnologie, basate su materiali che sono stati riciclati dopo il 1945. Cito l’alluminio, che ha avuto un
impiego massaccio nella produzione di mobili dopo la Guerra, e tutte le plastiche, sviluppate in tutte
le loro possibili declinazioni. Ma anche un materiale antichissimo come il legno è stato reinventato,
potrei dire trasfigurato, grazie alla tecnologia della pressatura e all’uso della colle fenoliche, che
hanno consentito la creazione di strutture laminate ad ampia luce. Potrei dire che la colla è uno dei
più importanti nuovi materiali emersi con la guerra.
Accanto ai materiali da costruzione, il conflitto ha anche determinato un nuovo modo di abitare gli
edifici, in particolare in Gran Bretagna. La nascita delle ricerche operative, in un primo momento
mirate a migliorare l’efficacia delle armi, ha portato a un analogo approccio scientifico nei settori
residenziale e formativo, che si è concretizzato negli edifici del dopoguerra.
La fine della guerra e tutto quello che aveva provocato nelle città e nella mente delle persone
può essere considerata come una fondamentale occasione per ripensare il contributo della
cultura moderna su una scala inimmaginabile durante gli anni delle Avanguardie. Come
possiamo leggere gli anni tra la seconda metà degli anni Quaranta e i primi Cinquanta
muovendo dall’esperienza della guerra? Che visioni ed energie si liberarono con la fine della
guerra e cosa produssero?
Gli effetti della guerra sono stati complessi e contraddittori, per dirla con Robert Venturi. Gli architetti
moderni sono stati legittimati dalla loro presenza nei programmi di guerra e il discorso nostalgico in
voga prima del 1939 è svanito nella maggior parte dei Paesi. In una delle teche dell’allestimento, ho
esposto uno dei primi numeri del dopoguerra diL’Architecture d’aujourd’hui, che celebra il porto
galleggiante di Mulberry, costruito dopo lo sbarco degli alleati in Normandia del 1944. L’esperienza
dele costruzioni mobili, prefabbricate, avrebbe poi avuto un forte impatto sull’edilizia residenziale e
scolastica. Come dimostra la campagna sviluppata negli Stati Uniti prima della fine della guerra che
invitava a immaginare le città nel 194X, emersero tipologie edilizie come i centri commerciali o gli
alberghi moderni che ebbero un grande successo dopo il 1945. Anche il prestigio dei più celebrati
pezzi di attrezzatura militare – come la jeep, che introdurrà alla galleria del MAXXI – ebbe un forte
impatto sull’immaginario collettivo e contribuì alla diffusione delle forme moderne.
La guerra ha avuto un impatto radicale sull’immaginario e il modo di pensare della
popolazione mondiale, come questo grande trauma collettivo ha influenzato il modo di
progettare degli architetti moderni?
L’esperienza degli architetti è stata diversa nei diversi Paesi interessati dalla guerra. Nel caso della
Germania, i progetti sviluppati durante il conflitto hanno agevolato a modernizzazione dell’architettura
industriale, che ha continuato a essere prodotta anche in tempo di pace, anche per edifici non legati
alla produzione. Negli Stati Uniti, dove l’architettura moderna era stata esclusa dall’edilizia
residenziale pubblica prima del 1941, la guerra ha permesso a Richard Neutra o Louis Kahn di
sperimentale forme radicali, che hano avuto un’influenza sui loro lavori del dopoguerra. In generale,
direi che la guerra ha contribuito all’emergere di nuovi ideali e linguaggi, permettendo di raggiungere
il sogno della produzione di massa abbozzato negli anni Venti. In sintesi, il fordismo è stato il grande
vincitore.
Ci sono anche altri, contraddittori, aspetti. L’osservazione delle macerie nelle città bombardate è stato
un fattore significativo nell’affermazione di un discorso mirato a pianficazioni urbane pittoresche,
mentre il camouflage ha stimolato la riscoperta del colore, come spiegato da Hugh Casson, brillante
ufficiale della Raf e futuro architetto del Feestival of Britain del 1951.
La guerra come laboratorio sperimentale e progettuale ha fatto crescere una nuova,
importante generazione di autori. Quali consideri i progettisti e i designer che maggiormente
sono stati influenzati dall’esperienza della guerra?
Anche in questo caso, la varietà di esperienze maturate in pochi anni è impressionante. L’impatto
della guerra è stato molto forte sui progettisti coinvolti in manipolazioni visive a fini mimetici, come nel
caso di Casson. Aver vissuto negli ambienti spartani dei sottomarini italiani è stato fondamentale per
lo sviluppo dei progetti per le cucine e gli spazi domestici compatti di Marco Zanuso. L’aver servito la
marina militare americana nei battaglioni destinati a costruire si riflette nelle strutture immaginifiche di
Bruce Goff, mentre Charles e Ray Eames hanno dato nella loro casa una poetica interpretazione
della prefabbricazione di guerra. Si potrebbe anche dire che la loro attrazione adolescenziale per le
automobili e gli aeroplani, quindici anni dopo la guerra sarebbe stata l’ispirazione per le fantasie
tecnologiche di Archigram e Metabolisti.
*intervista pubblicata su Abitare.it il 28 novembre 2014
ARCHITETTURA IN UNIFORME
Progettare e costruire per la seconda guerra mondiale
INTRODUZIONE
La Seconda Guerra Mondiale, che tra il 1939 e il 1945 infiammò quattro continenti, coinvolse
indistintamente militari e civili, facendo appello a tutte le risorse umane dei belligeranti. Neppure
l’architettura poté sottrarsi a tale mobilitazione e, contrariamente a quanto afferma ancora oggi la
maggior parte dei racconti storici, conobbe un periodo ricco di ricerche e di trasformazioni.
Mentre numerosi architetti prendevano parte ai combattimenti, altri continuarono a dedicarsi al loro lavoro
mettendolo al servizio di una produzione industriale intensa, ovvero rispondendo alle necessità del fronte.
Avviatasi negli anni ’20, la modernizzazione tecnica fu perseguita sia dagli Alleati sia dall’Asse, ad
esempio attraverso la ricerca sulle costruzioni leggere e trasportabili. Più in generale, la guerra fece
appello a ogni forma di competenza architettonica: conoscenze edilizie, utili per la costruzione di bunker e
per il consolidamento dei rifugi; conoscenze visive, indispensabili per il camouflage e utili ai fini della
sfrenata propaganda del tempo; competenze organizzative, necessarie per la promozione di progetti
industriali e territoriali di una portata senza precedenti. Mobilitati come gruppo professionale, gli architetti
dovettero affrontare anche delle scelte personali, in particolare coloro che furono reclutati dalla politica
criminale nazista. In tal senso, la guerra mise a dura prova anche la loro tempra morale. Alcuni di loro
furono complici delle politiche di stermino, mentre altri furono tra le loro vittime.
Nell’ambito dell’immenso repertorio di esperienze, i temi che testimoniano la diversità delle attività
architettoniche variano al variare dei contesti nazionali, spaziando dagli Stati Uniti al Giappone, passando
per il Regno Unito, la Francia, l’Italia, la Germania, la Polonia e l’URSS. Dopo il 1945, la supremazia
dell’architettura moderna non sarebbe stata più messa in discussione, eccezion fatta per il blocco
sovietico, e anche in quel caso solamente per un breve periodo. La guerra trasformò non solo il modo di
costruire, ma anche il modo di pensare, e dopo sei anni di combattimenti gli architetti avrebbero
cominciato ad applicare a fini pacifici i metodi sviluppati sotto la pressione dell’urgenza.
I TEMI DELLA MOSTRA
ARCHITETTI IN UNIFORME
La distanza che separa il ministro nazista Albert Speer, criminale di guerra condannato a
Norimberga nel 1946, e Szymon Syrkus, resistente polacco detenuto nel campo di Auschwitz, è la
testimonianza della portata della guerra.
Tra queste due figure antitetiche - da una parte, l’uomo di Stato impegnato nello sfruttamento delle
popolazioni sottomesse e nel loro sterminio, dall’altra la vittima di queste stesse politiche - si collocano
decine di migliaia di casi che hanno come protagonisti architetti che furono sradicati dalla loro terra a
causa della guerra. Mobilitati, dispiegati sui fronti, uccisi o feriti, prigionieri, resistenti o rifugiati, neppure gli
architetti non poterono sottrarsi al destino che accomunò le popolazioni dei paesi in guerra. Fu così che si
videro affidare un’ampia gamma di missioni, che fecero di loro molto più di semplici cittadini arruolati. Il
loro impegno professionale nello sforzo della guerra segnerà per sempre il destino di coloro che
riusciranno a sottrarsi a una fine tragica.
GUERRA ALLE CITTÀ E NELLE CITTÀ
Già negli anni ’20, lo scrittore André Maurois aveva predetto che “la prossima guerra sarà orribile.
Le città di retrovia saranno interamente distrutte dagli attacchi aerei”.
Lo sviluppo dell’aviazione, profetizzata dal Generale italiano Giulio Douhet, stravolse completamente le
precedenti distinzioni tra il fronte militare e gli obiettivi civili. La cronaca della guerra fu così scandita dai
bombardamenti, destinati a terrorizzare la popolazione civile: raid giapponesi su Chongqing e Shanghai,
quelli tedeschi su Guernica e successivamente su Rotterdam e, durante il Blitz del 1940, su Londra. A
partire dal 1942, gli Alleati intrapresero la loro offensiva aerea, che distruggerà le città tedesche e
giapponesi, ma anche quelle dei Paesi occupati, come la Francia o l’Italia. Di fronte a tali attacchi, gli
architetti si impegnarono direttamente nella protezione dei monumenti storici, sia sul campo, sia redigendo
degli elenchi per l’equipaggi degli aerei indicando i siti sensibili da evitare.
IL FRONTE INTERNO E L’AUTARCHIA
Ancor più di quanto non avesse fatto la Grande Guerra, la Seconda Guerra Mondiale estese il suo
impero ben oltre le zone di combattimento.
L’effetto della mobilitazione delle forze armate e industriali fu moltiplicato dalla requisizione dei complessi
residenziali. La totalità delle materie prime, minerali o agricole, nonché i materiali industriali, furono messi
al servizio della Nazione per far fronte agli sforzi della guerra. L’esclusività accordata in tempo di guerra
all’industria manifatturiera e l’interruzione di molti dei tradizionali metodi di trasporto fornirono uno stimolo
alla ricerca scientifica e portarono all’invenzione di nuove forme e processi. La gamma dei materiali
sintetici spaziava dai combustibili e gli elastomeri, comprendendo una vasta varietà di prodotti come le
materie plastiche.
La preoccupazione relativa alla conservazione dei materiali portò a una nuova etica progettuale, basata
sul risparmio e la propensione al riciclo. Quest’insieme di strategie convergenti delinea quello che
potrebbe essere considerato il primo laboratorio sperimentale di architettura sostenibile ante litteram.
IL FRONTE INDUSTRIALE: PRODURRE E DARE ALLOGGIO AGLI OPERAI
La costruzione di migliaia di fabbriche necessarie alla produzione di aerei, di veicoli o di munizioni
fece appello a un esercito di progettisti e disegnatori provenienti dal Pacifico agli Urali. Tra i quali
gli ingegneri civili e gli architetti giocarono un ruolo di primordine.
Dispiegate su nuovi territori, lontane dagli agglomerati esistenti, e soprattutto fuori dalla portata delle
bombe, le fabbriche cambiarono scala, divenendo complessi dalle dimensioni paragonabili in alcuni casi a
quelle di una città, dando lavoro a decine di migliaia di operai. Divenuta necessaria a causa dei rigorosi
requisiti dell’oscuramento antiaereo, e resa possibile grazie alla combinazione di strutture leggere,
condizionamento e illuminazione al neon, la fabbrica senza finestre, immaginata negli Stati Uniti, avrebbe
dato origine nel post-guerra, a una delle più comuni tipologie di fabbricato presente al di fuori dai centri
urbani: la “grande scatola”, adattabile a ogni uso.
PREFABBRICAZIONE, MOBILITA’ E NORMALIZZAZIONE
La mobilità delle forze impegnate nella Seconda Guerra Mondiale superò di gran lunga i livelli
raggiunti nei conflitti precedenti, portando allo sviluppo di sistemi che consentissero la rapida
costruzione di unità prefabbricate.
L’inventiva degli architetti s’indirizzò quindi sulle costruzioni leggere, modulari o smontabili. I progetti di
maggior successo furono quelli la cui precisione e semplicità ne consentiva una produzione industriale
massiccia. Il capannone Quonset fu l’esempio più importante, utilizzato per ospitare le truppe. Per quanto
riguarda le infrastrutture invece, i ponti modulari sviluppati da Donald Bailey, costruiti a partire da
innumerevoli combinazioni di un singolo pannello reticolare in acciaio, avrebbero consentito gli
spostamenti delle truppe alleate in Europa, dove ne furono assemblati 1500. Il più grande dei successi fu il
porto artificiale di Mulberry, le cui componenti furono trasportate in Inghilterra via mare. Come avrebbe
ammesso più tardi Albert Speer, questo espediente ingegnoso renderà irrilevante il Vallo Atlantico.
FORTIFICAZIONI E PROGETTI PER LA GUERRA
In Europa, a una quindicina di anni di distanza, furono costruiti due giganteschi sistemi di
fortificazioni: la Linea Maginot e il Vallo Atlantico.
Costruita lungo il confine tra Francia e Germania, la Linea Maginot, ultimata nel 1936, costituiva una sorta
di “flotta sotterranea”, le cui fortificazioni erano collegate da gallerie. Nel 1940, la Wehrmacht l’aggirerà
passando a ovest, dopo aver superato la prova del fuoco dello scontro frontale. Ormai regina dell’Europa
continentale, la Germania nazista, su precisa direttiva di Hitler, inaugurò il più grande cantiere bellico del
secolo. Il Vallo Atlantico si estendeva per più di 2.658 km, comprendendo oltre 15.000 opere in cemento
dispiegate dal nord della Norvegia al Paese Basco. Nel suo libro del 1975, intitolato Bunker Archeology,
egli scrive “la guerra assoluta è divenuta realtà e il monolito ne è il monumento”.
IL CAMOUFLAGE, OVVERO DISEGNARE L’INVISIBILE
Nel 1942, Salvador Dalì, a quel tempo a New York, scrisse a proposito del camouflage: “La ‘guerra
della produzione’, sembra essere l’unico dato reale per l’oggi e per il domani. Ma nel nostro mondo
c’è ancora spazio per la magia”.
Tale magia, che consentiva di nascondere agli occhi degli aviatori nemici le forze armate, le fabbriche e
persino le città, faceva appello alle abilità e alle competenze visive di architetti e paesaggisti, sebbene i
primi esperimenti nel mondo del camouflage, compiuti tra il 1914 e il 1918, erano stati condotti da pittori.
Ciascuna nazione belligerante si dota di un servizio di camouflage, conducendo spesso delle ricerche
estremamente sofisticate sulla percezione diurna e notturna dei paesaggi, sugli effetti dell’irraggiamento e
su quelli delle nuvole, data la crucialità della presenza o meno delle ombre. Si sviluppa pertanto un
approccio autenticamente scientifico dell’architettura, basato su rigorosi protocolli di verifica sul campo.
LA PROTEZIONE ANTIAEREA
Manifestatasi su scala ancora modesta durante la Prima Guerra mondiale, negli anni ’30, con i raid
giapponesi in Cina e quelli nazisti in Spagna, la minaccia aerea assunse una nuova dimensione.
Gli architetti moderni non impiegarono molto a integrare tale aspetto nella progettazione architettonica e
urbanistica. Con la guerra alle porte, gli architetti iniziarono a dedicarsi a diversi studi collegati alla
prospettiva bellica. Alcuni di loro, come Ernö Goldfinger, studiarono i campi sfollati destinati alle
popolazioni civili. Esaminarono la resistenza degli edifici esistenti e dei loro scantinati, così da trasformarli
in rifugi, spingendosi persino a immaginare la creazione di grotte artificiali per accogliere folle più
numerose. In particolare, venne chiesto loro di progettare strutture la cui unica finalità fosse quella di
fornire riparo a migliaia di abitanti.
AL SERVIZIO DELLA COMUNICAZIONE
Fortemente ancorata alla produzione e all’amministrazione, la Seconda Guerra Mondiale divenne
anche una guerra d’informazione.
L’informazione fu parte integrante del processo decisionale, della gestione delle operazioni e della
persuasione delle masse, sia per quanto riguarda i combattenti sia i civili. Il nodo della comunicazione è
stato cruciale soprattutto nel campo delle rappresentazioni visive: le planimetrie, i diagrammi, le fotografie,
le caricature assumono delle forme specifiche che variano a seconda del destinatario. Erano infatti rivolte
a decisori politici, agli stati maggiori militari, alle truppe sul campo e alle popolazioni urbane che si cercava
di manipolare con la propaganda. Egualmente vari erano i supporti cui la comunicazione ricorre: dai
documenti segreti ai manifesti, dalla stampa alle esposizioni fino ai cinegiornali, che introdussero negli
spettacoli d’intrattenimento degli spiragli sulla realtà della guerra. Il contributo di grafici, artisti o architetti
esperti sarà determinante nella realizzazione di spazi incentrati sull’informazione capaci di rispondere alle
esigenze degli stati maggiori.
QUATTRO MACRO-PROGETTI
Nel 1944, l’urbanista tedesco Ludwig Hilberseimer, che insegnava a Chicago, in riferimento alle
“grandi dimensioni e i loro effetti sulla vita”, affermò che “la principale tendenza della nostra
epoca va verso la grande scala”.
I grandi edifici furono inseriti in reti territoriali incredibilmente estese. A Washington, il Pentagono divenne il
centro nodale di un vasto sistema di autostrade e aree di sosta. Le strutture nucleari di Oak Ridge
poterono essere costruite in quella zona solamente in virtù del fatto che furono raccordate alle fabbriche
idroelettriche della Valle del Tennessee. Per quanto riguarda i progetti dei nazisti, il campo di Auschwitz
non era altro che parte integrante di un grande agglomerato industriale situato in corrispondenza dello
snodo di più linee ferroviarie che lo collegavano all’Europa. Affinché i meccanismi interni di sistemi di così
vasta scala potessero essere compresi e ne fosse garantito il funzionamento, vennero formate delle
squadre di architetti, che operarono in seno alle amministrazioni civili e militari o sotto forma di agenzie
private.
ARCHITETTURE DELL’OCCUPAZIONE
L’occupazione dell’Europa da parte dei nazisti, che raggiunse il proprio apice prima della vittoria
dell’Armata Rossa a Stalingrado nel 1943, è accompagnata da una specifica politica architettonica
e urbanistica.
Mentre in Francia, Belgio e Paesi Bassi i tedeschi si accontentarono di fissare dei limiti ai poteri delle
amministrazioni locali, nelle regioni che intendevano germanizzare condussero una vera politica di
asservimento coloniale. Nei Paesi che erano stati annessi de facto al Reich, furono organizzati dei
concorsi. Fu così che i fratelli Luckhardt, figure prominenti nel mondo dell’architettura moderna di Berlino,
studiarono un complesso universitario monumentale per la città slovacca di Bratislava. Dal canto suo, nel
1939 l’Italia invase l’Albania, dove avrebbe messo in atto un ambizioso programma di trasformazione
urbana. A Tirana il cantiere per l’attuazione del piano regolatore elaborato da Gherardo Bosio fu
inaugurato prima del 1943.
ARCHITETTI E PRIGIONIERI
Migliaia di architetti da ogni Paese condivisero l’esperienza della prigionia e dei campi di
concentramento. Alcuni vi morirono, altri deperirono, altri ancora riuscirono a portare avanti i
proprio studi.
L’architetto romano Ludovico Quaroni, detenuto assieme ad altri 20.000 italiani in uno Young Officers
Leave Camp situato sull’Himalaya, progettò nel 1943 una chiesa votiva per la città di Dehra Dun. Durante
questo periodo accumulò nei suoi taccuini centinaia di disegni.
Molto particolare è il caso francese, Henry Bernard, vincitore del Gran Prix de Rome, progettò di sua
iniziativa un monumento in onore di Charles Maurras. Riunì 448 architetti prigionieri dei tedeschi in
Pomerania e nella Prussia Orientale, trasformando il campo di Stablack in una vera École des Beaux-Arts
in esilio.
IL PROCESSO DI NORIMBERGA
Nel 1945 al giovane paesaggista Dan Kiley fu affidata la missione di ristrutturare le sale del
tribunale di Norimberga, dove dal novembre 1945 all’ottobre 1946 si sarebbe svolto il processo dei
criminali del terzo Reich.
Kiley dichiarò: “Noi abbiamo riaperto delle fabbriche, recuperato i resti degli edifici pubblici ridotti in rovina
e comprato dei materiali sul mercato nero per costruire la sede dove troveranno spazio
contemporaneamente il più profondo dei giudizi umani e le tecniche mediatiche più recenti”. Il progetto di
Kiley collocava i membri del tribunale e gli accusati gli uni di fronte agli altri dietro dei lunghi banchi,
utilizzando un mobilio dalle linee semplici e pulite. Oltre al lavoro di Kiley sui principi spaziali dell’aula di
giustizia e sull’ideazione degli arredi, la Presentation Branch realizzò filmati e fotomontaggi sui campi di
concentramento che vennero mostrati durante le sedute. Fu il primo processo della storia in cui il cinema
fu ammesso come prova.
IMMAGINARE IL DOPOGUERRA E RICICLARE LE TECNOLOGIE MILITARI
Sono pochi i momenti della storia che sono stati attesi con così tanta speranza come è accaduto
con la fine della Seconda Guerra Mondiale. Oltre alla liberazione, a lungo anelata dalle persone
soggiogate dagli eserciti dell’Asse, c’erano milioni di civili e di soldati a condividere le aspettative
per una società più giusta e democratica.
Il mondo immaginato per il post guerra acquistò anche una forte componente architettonica nel momento
in cui vennero elaborati dei progetti per le città distrutte, rispondendo non solo all’esigenza di ricostruire,
ma anche a quella di rifondare le città. Questa aspirazione fu resa spesso possibile dalla tabula rasa che
la distruzione si era lasciata alle spalle. Da Los Angeles, Richard Neutra scrisse: “Nuovi stabilimenti
industriali, nuovi metodi di produzione, prodotti inediti, improvvisati sostituti che portano a nuovi materiali di
valore e, soprattutto, nuove abilità e attitudini. È questa la migliore eredità delle guerre”.
ARCHITETTURA DELLA MEMORIA
Sin dagli inizi della guerra, gli architetti furono chiamati a dare il proprio contributo per
commemorare le vittorie. La progettazione di memoriali costituirà un aspetto importante
dell’attività di quei professionisti sottratti alla mobilitazione o non coinvolti nei grandi studi di
progettazione presenti nell’industria.
Ostili alla nozione stessa di monumento, i critici e gli architetti moderni rividero la loro posizione. Nei loro
“Nove punti sulla Monumentalità”, redatti a New York nel 1943, Sigfried Giedion, Fernand Léger e José
Luis Sert, immaginarono nuove tipologie di monumenti. Una serie di occasioni successive permise alla
dimensione simbolica di riaffacciarsi nuovamente nel discorso moderno, nell’ambito di una collaborazione
alla pari tra architetti e artisti. I monumenti megalomani immaginati sia dai tedeschi che dai russi erano
invece ancorati a una concezione conservatrice di tale collaborazione.