verità e menzogna in carcere
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verità e menzogna in carcere
verità e menzogna in carcere di Massimo Carlotto Ha senso parlare di verità e menzogna in carcere? O meglio: la verità ha diritto di cittadinanza nella reclusione? L’esperienza quotidiana insegna che il detenuto usa la menzogna come strumento di adeguamento e/o sopravvivenza nelle relazioni con gli operatori, il personale di polizia penitenziaria e le altre persone che vivono la sua stessa condizione. L’obiettivo di questa cultura della negazione della verità non è solo tattico, e legato al superamento di difficoltà contingenti ma è strategico dato che punta a ottenere quei giudizi positivi necessari alla concessione di benefici e clemenza, in grado di accorciare la lunghezza della pena. Va anche detto che “dall’altra parte” la verità non è praticata con disinvoltura. L’istituzione totale mente anch’essa per necessità diverse, tanto che si può affermare che il carcere è il luogo della menzogna per eccellenza. Solo la pena è reale e in questo senso l’“istituzione” porta a termine il compito. Per contribuire ulteriormente all’approfondimento del tema, Giochi di identità nella narrazione autobiogra- 199 200 fica, trattato in Appendice a Tell Me Your Story 2 da Gian Luca Barbieri, ritengo fondamentale evidenziare la più straordinaria esperienza collettiva di menzogna in carcere che ha avuto, tra l’altro, l’effetto di diventare “storia”, nel senso più ufficiale del termine, anche all’esterno. Mi riferisco ai fenomeni del pentitismo e della dissociazione tra le fila dei militanti delle cosiddette organizzazioni armate e insurrezionali in Italia. La sconfitta politico militare “convinse” un grande numero di quadri ad accettare la proposta di collaborare con lo Stato in cambio di importanti sconti di pena. La conseguenza diretta fu la fine del terrorismo e la pacificazione sociale a livello nazionale. Quello che è importante sottolineare ai fini di questa riflessione è che l’inizio e la definizione del processo avvenne in carcere e solo successivamente nelle aule di giustizia. Percorsi personali di autobiografie si intrecciarono in un’unica collettiva, che venne percepita a livello sociale come spunto per una ricostruzione storica che ancora oggi viene riproposta, discussa e studiata. Eppure tutti i soggetti coinvolti, senza eccezione alcuna, adattarono autobiografie e intenti riabilitativi e reinseritivi alla volontà del vincitore. Si prestarono, prima in carcere e poi nei dibattimenti e ancora dopo in libertà, alla demolizione sistematica del loro vissuto personale e collettivo. Non vi fu solo il riconoscimento dell’errore politico di base che aveva portato a scelte tanto scellerate ma una rivisitazione antropologica di una generazione sbagliata. Tutto questo è stato possibile perché generato dalle forme perverse del rapporto fra verità e menzogna in carcere. Ognuno adattò confessioni, delazioni e abiure alla necessità di apparire meno colpevoli e socialmente non più pericolosi, rinunciando anche in maniera palese alla verità. La prova è nel fatto che non tutti i terroristi e fian- cheggiatori vennero individuati e puniti, in quanto “salvati” dalla possibilità degli imputati di selezionare e quantificare la verità da elargire allo Stato. Il ruolo degli operatori fu importantissimo soprattutto in relazione al fenomeno della dissociazione che interessò la maggior parte dei soggetti coinvolti. Con grande abilità riuscirono a gestire un rapporto complesso e conflittuale interno/esterno, convogliando i soggetti verso un percorso riabilitativo dai risultati certi. Un vero successo. Una fase storica superata grazie anche, ma in certi versi soprattutto, al carcere. Solo oggi ci si rende conto di quanto fu perverso ed eversivo quel percorso nei confronti della verità. E di quanto il sistema si accanì contro il silenzio dei cosiddetti irriducibili che divennero la discarica delle responsabilità personali dei più furbi. Però anche questo fu utile alla vittoria dello Stato e alla fine della sanguinosa era del terrorismo. Fu l’alto livello culturale e di scolarizzazione dei soggetti (in rapporto alla media dei detenuti) ad aiutare la concretizzazione del percorso carcerario, non sarebbe possibile ipotizzare esperienze simili a partire dalla marginalità o da culture criminali organizzate. Un vero peccato da un punto di vista della “contabilità” sociale e, per motivi molto diversi, per la storia di questo Paese che è rimasta priva di elementi fondamentali per comprendere quantomeno alcuni passaggi. 201