Fuga dai centri storici I negozi chiudono e gli abitanti scappano: l

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Fuga dai centri storici I negozi chiudono e gli abitanti scappano: l
Fuga dai centri storici
I negozi chiudono e gli abitanti scappano: l’esodo dai nuclei urbani italiani si fa sempre
più preoccupante. Colpa della crisi economica, ma anche di una mentalità che ha decretato
il successo di uno stile di vita sempre più individualista.
di Luisa Santinello
Serrande abbassate, strade deserte. L’impressione è che da un momento all’altro anche i
lampioni si spengano all’improvviso, lasciando i malcapitati passanti smarriti, a vagare
per le vie un tempo popolate da boutique e negozi. Non siamo in una delle città fantasma
che tanto sarebbero piaciute al genio del brivido Edgar Allan Poe, ma neppure nel regno
della fantasia. Il modello «città degli spettri» è reale, e potrebbe a breve diventare lo
specchio dei nostri centri storici: tra locali sfitti e negozi che falliscono, a guardare gli
ultimi dati sull’attività commerciale dentro le mura di capoluoghi e cittadine italiane, non
c’è, infatti, molto da stare allegri.
Qualche esempio? A Urbino la popolazione del centro storico è scesa dai 1.700 abitanti
circa del ’91 fin sotto al migliaio; Venezia, che nei primi anni ’90 contava oltre 78 mila
abitanti, oggi ne ha appena 59 mila. Nel 1951 a Roma, dentro le mura aureliane,
risiedevano 370 mila persone; oggi, nello stesso perimetro, gli abitanti non arrivano a 100
mila.
Che cosa è accaduto? Complici il caro affitti degli ultimi anni e i prezzi proibitivi praticati
da botteghe e negozi di generi alimentari, gli affezionati del centro storico hanno fatto le
valigie, seguiti a ruota da negozianti e piccoli imprenditori. Stanchi di zone a traffico
limitato, file ai parcheggi e lunghi tratti da percorrere a piedi per raggiungere l’uscio di
casa o il negozio di fiducia, hanno ceduto alla tentazione di una vita apparentemente più
facile. Colpa della crisi, dunque, ma non solo. Alla base della morte dei centri storici
italiani, infatti, sta un radicale cambio di mentalità dei cittadini stessi. Affascinato dal mito
americano della villetta a schiera, con tanto di giardinetto privato, ampio parcheggio e
centro commerciale dietro l’angolo, il popolo dei centri città ha barattato le crepe sul
soffitto dell’appartamento (spesso piccolo) dal sapore un po’ retrò con l’odore di vernice
fresca, il prato verde plastica e una casa più spaziosa, ma che sembra fatta con lo
stampino. Ha formattato la tradizione, sacrificandola per uno status symbol. Nel
frattempo, a questa migrazione è corrisposto un calo dei prezzi intra moenia (cioè nei
centri città) che ha attirato un gran numero di cittadini immigrati.
Una sorta di ghettizzazione al contrario, insomma, come spiega Pier Luigi Paolillo,
professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano, che punta il dito contro
l’impostazione conservazionista mantenuta, fino a vent’anni fa, dalle amministrazioni
locali. «Troppi vincoli all’edilizia, conditi dalla scarsa capacità al riuso da parte delle
imprese, hanno accelerato la morte dei centri storici. Ma ora non possiamo più insistere sul
modello della “città diffusa” (area metropolitana che cresce in modo rapido e disordinato,
ndr); dobbiamo tornare a riempire i nuclei urbani». Primo passo verso la riqualificazione
del centro città, secondo Paolillo, è liberarsi dei legami con il passato, adeguando norme e
scelte culturali ai nuovi modelli di vita: «Bisogna garantire un modello abitativo ampio,
permettere interventi sostitutivi sul patrimonio architettonico-artistico. Le soffitte si
devono poter allargare: basta trattare i travi storici come simulacri! Se non si possono
ampliare, a che servono due sole stanze per una famiglia moderna?».
La città ideale
C’era una volta un sogno chiamato città ideale. Qualcuno lo teorizzò soltanto, qualcun
altro – come l’Anonimo fiorentino, autore della tavola di fine ’400 conservata alla Galleria
nazionale delle Marche a Urbino – lo dipinse pure. Una piazza rotonda e tutt’intorno
edifici pubblici e privati mai più alti di tre piani. Un gioco di luci e pastelli, tra geometrie,
marmi e rimandi all’architettura romana, ma soprattutto un concetto monocentrico che ora
vale la pena di riprendere per il bene dei nostri nuclei storici. Accantonata da tempo
questa organizzazione classica a favore di una struttura urbanistica «a macchia di
leopardo», «si tratta oggi – scrive Cesare Macchi Cassia nel libro Centri storici e nuove
centralità urbane (Alinea) – di leggere il rapporto tra materiali diversi, fra diverse realtà
insediative e funzionali che nella città vengono a integrarsi in modo inedito (…).
L’esistenza del centro contribuisce alla visione classica della città intesa come pregnante
rappresentazione della società che la abita e la ridisegna». Il nucleo urbano, quindi, come
punto di riferimento e di identificazione della società, va riadattato alle nuove esigenze dei
suoi fruitori, tramite un progetto che chiama in causa non solo urbanisti e architetti, ma
anche politici, commercianti e, non ultimi, gli abitanti. «Spetta al progetto dare senso al
paesaggio e al patrimonio diffuso – continua Macchi Cassia – segnalare le diversità dalle
identità locali».
Ricostituire un unico centro città non significa tuttavia dimenticare la periferia urbana,
bensì ripartire proprio da questa per favorire il rientro della popolazione tra le mura
storiche. «Il centro è definito dalla presenza di una periferia – scrive ancora l’architetto,
che fa parte del Consiglio direttivo dell’Associazione nazionale per i centri storico-artistici
–. A Milano, ad esempio, il centro ha cessato di rappresentare gli abitanti e gli operatori,
mentre sono le continue prese di significato da parte della periferia a testimoniare un
nuovo salto qualitativo nella storia della città. La periferia è la verifica della vitalità della
città».
Il modello «spalmato»
Parafrasando un concetto di Pier Paolo Pasolini, potremmo affermare che oggi il «vampiro
del consumismo» ha toccato anche i modi dell’abitare e del vivere, ha corrotto l’anima
delle classi subalterne in una forsennata ricerca di benessere e di un luogo abitato da
omologhi sociali. Ora più che mai l’eterogeneità fa paura. Ne è convinto Giovanni Pieretti,
direttore del dipartimento di Sociologia Achille Ardigò dell’Università di Bologna, per il
quale l’equazione sprawl (in italiano, «città diffusa», ndr) uguale isolamento sociale è un
dato di fatto. «I centri storici? Ormai sono zone morte», assicura il docente. Per toccarlo
con mano non serve andare lontano. «A Bologna, dove abito, si contano oggi 22 mila
appartamenti vuoti tra centro e prima periferia. Nel giro di una quarantina di anni oltre
370 mila persone hanno lasciato il nucleo urbano per mettere su casa nell’area agricola a
nord della città». Convinti di risparmiare sull’affitto o sul mutuo, di migliorare il proprio
tenore di vita e, infine, di dare una mano all’ambiente (alzi la mano chi ha ben chiaro il
concetto di «casa ecostenibile»), questi «migranti» non sanno invece che il modello
«villettopoli», così come lo ha definito l’urbanista Pier Luigi Cervellati, richiede ben più
risorse e sacrifici. «Almeno due automobili, litri e litri di carburante e una vita all’insegna
dell’individualismo. Tra navigatori satellitari, computer e televisioni, oggi la tendenza è di
isolarsi dalla società», continua Pieretti. La fuga dalla città (e a volte dalla realtà),
rappresenta dunque un modo per emanciparsi dalla propria condizione e prendere le
distanze da quel melting pot, quella mescolanza di culture e classi sociali, che si è creata in
molti centri urbani piccoli o grandi.
Ma, in fondo, come insegna il filosofo greco Aristotele (IV secolo a.C.) nella sua Politica,
«l’uomo è un animale sociale» e per natura ha bisogno di punti di riferimento che la «città
spalmata» non può offrirgli. «Per questo li va a cercare nei luoghi d’origine, dove in
genere ritorna a compiere i riti importanti della vita – aggiunge Giovanni Pieretti –.
Battesimo, matrimonio e sepoltura di un familiare in primis». Ecco dunque una breccia che
renderebbe l’inattaccabile modello urbano «spalmato» non così tanto inattaccabile. Negli
Stati Uniti d’altra parte, dove il modello sprawl è arrivato ben prima che da noi, la «città
diffusa» è già in crisi.
E in Italia che cosa accadrà? Per Pieretti è questione di anni – dieci, o anche meno – prima
che outlet e centri commerciali perdano mordente e che i nuclei storici comincino a
ripopolarsi. Merito, quindi, della crisi che «costringerà a tornare coi piedi per terra e a
riscoprire i valori appannati dalla cultura consumistica. Sarà un ritorno all’essenzialità e al
concetto cristiano di redistribuzione – conclude il sociologo bolognese –, un ritorno al fare
comunità, nella convinzione che, armati di orgoglio e risorse sociali, ce la possiamo fare
anche con molto meno».
Zoom
Serravalle, trionfo dell’artificiale
Il paragone «come un’oasi nel deserto» non potrebbe essere più azzeccato. Il deserto in
questione è quello della crisi economica che ha messo in ginocchio i negozianti di tutta
Italia. L’oasi, invece, si chiama Serravalle Designer outlet village e, di tutti i centri
commerciali che negli ultimi decenni hanno tappezzato il Paese, è un po’ l’ape regina. Per
raggiungerlo non servono estenuanti giorni di carovana sul dorso di un cammello: basta
salire in auto e imboccare l’A7 che collega Milano a Genova. Piena espressione del
consumismo contemporaneo, questo villaggio dello shopping nato nel 2000 ad appena un
paio di chilometri dal paese di Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria, dista un’ora
di auto da Milano e Torino, e ancora meno da Genova e Portofino. In dodici anni di
attività ha fatto parlare molto di sé; l’ultima volta, lo scorso 5 gennaio in occasione
dell’apertura dei saldi. «Al bollettino autostradale in radio non segnalavano alcuna
irregolarità – ricorda Luciano Camera, responsabile del servizio Pianificazione territoriale
del Comune di Serravalle Scrivia – unica eccezione in tutta la Pianura padana era il casello
di Serravalle, già assediato dai visitatori dell’outlet (l’80 per cento milanesi, ma anche
veneti, piemontesi e stranieri)
fin dalle prime luci del mattino». Quello di Serravalle è un caso a sé, perché qui il villaggio
dello shopping – con gli edifici fatti in serie e colorati come in un plastico dei celebri
mattoncini per i piccoli – più che competere col centro storico, l’ha in pratica sostituito.
Non che sia una grave perdita. Almeno a detta del funzionario comunale, che descrive così
quel che resta del paese storico: «Un budello lungo appena 250 metri, chiuso da un lato da
una montagna e dall’altro dal fiume Scrivia, e tagliato a metà da una strada statale larga
quattro metri e mezzo. Un centro formato da poche case e tre negozi che non è neppure
degno di essere chiamato tale». In questo scenario la nascita del Designer outlet
rappresenta una valvola di sfogo sia in termini commerciali che di vivibilità. Quando le
principali aziende dolciarie e meccaniche della zona chiudevano i battenti, questo
villaggio dello shopping è riuscito a sviluppare un vero e proprio business che oggi dà
lavoro a 2.500 persone e attira fino a 5 milioni di visitatori ogni anno. Il tutto su una
superficie di circa 80 mila metri quadri, uno spazio grande tre volte il paese da cui prende
il nome. Non a caso il Serravalle 2 – come lo chiamano i 6 mila abitanti di quarantacinque
diverse etnie che ci gravitano intorno – è tra i più grandi parchi commerciali d’Italia. Un
primato che non sembra minacciato dalle previsioni dei sociologi, secondo cui l’era dei
centri commerciali sarebbe giunta ormai al capolinea. «Quella del Designer outlet di
Serravalle è una realtà in espansione – conclude Luciano Camera –. Finché gli incassi
aumentano e c’è la fila di negozi che vogliono aprire, perché mai dovremmo preoccuparci
del “dopo outlet”?».
Zoom
Bastia Umbra, commercianti in rete
Conoscere il nemico è il primo passo per sconfiggerlo. Ai negozianti di Bastia Umbra, in
provincia di Perugia, non è servito saccheggiare il repertorio di aforismi cinesi per capire
come affrontare l’avanzata di supermercati e centri commerciali. Alla domanda «che
cos’hanno loro più di noi?» è seguita una controffensiva mirata a potenziare le strategie di
comunicazione. Perché sono state proprio queste ultime, secondo il presidente del
Consorzio Bastia city mall, Marco Caccinelli, a decretare il successo della grande
distribuzione organizzata. Tutto ebbe inizio nel settembre del 1997, quando l’Umbria
venne colpita dal terremoto che mise a dura prova l’economia regionale. Fu tuttavia una
seconda catastrofe, non naturale bensì commerciale, a scuotere, un mese dopo, la cittadina
di Bastia. «In ottobre aprì il primo centro commerciale del comune di Perugia – ricorda
Caccinelli –. Un colosso di 27 mila metri quadri che distava solo cinque chilometri dal
nostro paese». Trovatisi a fronteggiare un concorrente sconosciuto, i commercianti del
centro di Bastia decisero di «fare rete» e, in 107 soci, costituirono un Consorzio. Da allora,
con alti e bassi, questi imprenditori – oggi rimasti in 39 titolari di 48 negozi tra boutique,
alimentari, erboristerie e bar – proseguono la battaglia per mantenere vivo il loro nucleo
urbano. Lo fanno organizzando promozioni, curando la pubblicità e pianificando eventi in
collaborazione col Comune. Un esempio? «La rivitalizzazione di fiere quasi dimenticate,
come quella di Primavera o quella in onore di San Michele Arcangelo, a ottobre – elenca il
presidente di Bastia city mall –. E poi c’è la notte bianca: lo scorso luglio i negozi del centro
sono rimasti aperti fino a tardi, accompagnati da spettacoli lungo le strade e momenti di
intrattenimento musicale. Risultato: in poche ore le 200 attività commerciali sparse per il
paese hanno incassato 700 mila euro». Segno che per muovere i soldi basta muovere la
gente. Solo lavorando sulla mentalità di ogni cittadino è possibile sconfiggere quel
modello commerciale che ci rende simili a sardine in scatola. «Reso accattivante da precise
regole espositive, nei centri commerciali artificiali il prodotto entra nel carrello quasi da sé
– continua Caccinelli –. Così spesso si esce dal supermercato col portafoglio vuoto e la
borsa piena di prodotti inutili. E col risultato che il giorno dopo siamo di nuovo a fare la
spesa, questa volta, però, dal salumiere sotto casa». In tal senso, dunque, il ritorno a un
commercio al dettaglio sembra inevitabile. A maggior ragione se si considerano gli ultimi
dati relativi al fatturato 2011 nei centri commerciali italiani: «In un anno il fatturato
relativo al comparto alimentare è calato del 6 per cento – spiega Maddalena Panu,
presidente della Commissione consultiva research del Consiglio nazionale dei centri
commerciali (Cncc) –. Quanto alle restanti categorie merceologiche, la perdita si è fermata
al 3,9 per cento».