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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 19 novembre 2014
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
IL RIFORMISTA
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 19/11/14, pag. 15
Il supporto «colto» al razzismo di ritorno
Filippo Miraglia
Diritti. La destra xenofoba sfrutta la crisi economica per acquisire
l’elettorato deluso delle periferie, ma colpiscono ancor di più le
«assoluzioni» del razzismo provenienti dal mondo democratico
L’Italia è un Paese dove il razzismo è purtroppo radicato. Fa parte di una cultura diffusa ed
è spesso strumentalizzato — da movimenti e forze politiche — per raccogliere facili
consensi.
In molte città le periferie, anche per la scelta di ridurre le risorse a disposizione degli enti
locali, sono sempre più abbandonate a se stesse e diventano luoghi nei quali il disagio
sociale si somma alla solitudine.
La destra politica che, a differenza di altre forze, ha mantenuto legami e insediamento nel
territorio, sta cercando di acquisire egemonia nell’elettorato deluso o smarrito, puntando
sull’insicurezza, sulle paure, sulla chiusura individualistica, sulle campagne diffamatorie
nei confronti delle minoranze e dei migranti. Si generano conflitti, alimentati dalla
costruzione del capro espiatorio, dalle scelte sbagliate di chi ha responsabilità pubbliche e
da campagne mediatiche irresponsabili.
La retorica razzista infatti non è solo caratterizza l’iniziativa politica della destra xenofoba,
ma è sostenuta anche dalle politiche sbagliate sull’immigrazione e in particolare nel campo
dell’accoglienza.
L’affermazione alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo della destra più estrema
e xenofoba, la ripresa di protagonismo della Lega, la scelta del Movimento 5 stelle di
formare un gruppo a Strasburgo con la destra di Farange sono tutti sintomi di quanto stia
tornando tra i prodotti «appetibili» in politica il razzismo.
Si è poi palesato, in questi mesi, un attacco particolarmente violento e organizzato sul
piano politico (come dimostrano le ultime sortite di Salvini) contro le comunità Rom e Sinti
che, sempre più isolate dentro spazi urbani separati e degradati, sono le minoranza che
subiscono di più gli effetti negativi delle scelte sbagliate – o delle non scelte – delle
amministrazioni locali.
Anche gli intollerabili errori del Ministero dell’Interno nell’occuparsi dell’accoglienza hanno
contribuito a far aumentare i fenomeni d’intolleranza e razzismo. La pervicacia con la
quale si continuano a costruire grandi centri e ad alimentare un sistema d’accoglienza
parallelo allo Sprar (Sistema d’Accoglienza per Richiedenti Asilo e Rifugiati), gestito dalle
Prefetture (Centri d’Accoglienza Straordinari – Cas), che in molti casi ricorre a strutture
enormi gestite da soggetti incompetenti, oltre che a una distribuzione territoriale senza
alcuna regia e programmazione, non fa altro che predisporre sul territorio centinaia di
«incubatori di razzismo».
Da anni ripetiamo che l’accoglienza va fatta dentro strutture piccole e inserite nel contesto
urbano (appartamenti per gruppi di singoli o famiglie in numero non diverso dalla media
delle presenze «normali»), per consentire processi di inclusione sociale e un impatto
positivo sulle comunità locali. Solo questo tipo di accoglienza produce condizioni di vita
dignitose e un rapporto costi benefici adeguato all’obiettivo dell’inserimento sociale dei
rifugiati.
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C’è poi, come è sempre successo nei periodi più bui della nostra storia, il supporto teorico
al razzismo dei «colti» e degli amministratori democratici. Basta pensare al caso di
Borgaro (periferia di Torino), dove la scelta annunciata dal sindaco dell’autobus
«separato» per i Rom, sostenuta da autorevoli interventi di persone colte e di fama
indiscussa, ha finito per alimentare comportamenti discriminatori, spesso sfociati in
violenza razzista, sia di singoli cittadini che di gruppi organizzati.
Leggendo i commenti di un giornalista noto come Massimo Gramellini, e di un giurista
altrettanto conosciuto come Vladimiro Zagrebelsky (magistrato, fratello del più noto
Gustavo, e giudice della Corte Europea dei Diritti Umani per 10 anni) sulla annunciata
decisione del sindaco di Borgaro, tornano alla mente episodi e commenti analoghi del
recente passato. Rinunciando a porsi le domande giuste, questi interventi assolvono di
fatto chi ha responsabilità pubbliche per attribuire la colpa del dilagare del razzismo alle
vittime e non agli aguzzini.
Così come racconta Hannah Arendt nel sul libro «La banalità del male», in cui le vittime
sono gli ebrei, si compie un ribaltamento delle responsabilità con un importante contributo
del «razzismo dei colti» e di quello istituzionale.
Saranno ovviamente movimenti e partiti xenofobi a passare all’incasso. Questa volta in
maniera più esplicita e decisa, forse proprio in ragione della grande concorrenza del
populismo post moderno rappresentato da Renzi da una parte e da Grillo dall’altra.
Per questo, dopo aver perso terreno sia sul piano della credibilità che della visibilità,
cambiano i protagonisti, ma si continua a fomentare odio e razzismo, per riconquistare
consenso nell’opinione pubblica.
In un periodo nel quale la crisi colpisce in modo sempre più pesante gli individui e le
famiglie, i razzisti di professione (Salvini) e i neofiti (Grillo) ricorrono al vecchio gioco del
capro espiatorio.
A tutti e a ciascuno spetta reagire e non consentire che la marea razzista si insinui negli
spazi che la crisi e la disoccupazione aprono.
Alle organizzazioni sociali democratiche spetta il compito di lanciare l’allarme e di
chiamare tutti alla difesa della convivenza civile. Le istituzioni si assumano fino in fondo le
responsabilità che gli competono, dando prova di saper governare i processi determinati
dal disagio e dal malessere sociale. Evitiamo che, come in passato, l’ignavia apra la
strada a un nuovo periodo buio nella storia della nostra democrazia.
* vicepresidente nazionale Arci
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ESTERI
del 19/11/14, pag. 3
Strage nella sinagoga terrore a Gerusalemme
la rabbia di Netanyahu
Quattro rabbini uccisi con accette e pistola. Lodi da Hamas La risposta:
armi ai civili e check point nei quartieri arabi
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FABIO SCUTO
GERUSALEMME
SETTE minuti di terrore nella Città Santa hanno insanguinato di nuovo le strade e gettato
nel panico la gente di Gerusalemme, in un conflitto che si sta rapidamente trasfigurando in
una guerra di religione con la “complicità” dei leader politici. Ebrei e palestinesi sanno
bene come premere l’un l’altro i tasti più sensibili per suscitare una reazione popolare, il
dramma di questa terra è “tecnicamente” pronto per una nuova tappa verso l’abisso.
Bruciano i quartieri arabi della città avvolti dai fumi della guerriglia urbana, insorgono quelli
ebraici dove è scattata la “caccia all’arabo” mentre i canti di morte accompagnano le
spoglie di quattro rabbini trucidati in una sinagoga al grande cimitero.
Gerusalemme è una città di santità e di oscena violenza nella quale gli assassini che
invocano il nome di Dio seminano la morte fra la gente comune. Come i due “lupi solitari”
palestinesi che ieri, armati di pistola, accette e coltelli hanno deciso di andare nel cuore di
Har Hof, uno dei quartieri della città abitati quasi esclusivamente da ortodossi, nella
sinagoga Kehilat Bnei Torah dove a quell’ora un gruppo di religiosi era intento alle
preghiere del mattino. Un massacro. Quattro rabbini uccisi, altri sei fedeli feriti
gravemente. Uno degli agenti della prima pattuglia di polizia arrivata sul posto dopo la
telefonata di allarme, mentre tra le mura del primo piano si consumava la mattanza, è
morto in tarda serata per le ferite riportate. Morti anche i due attentatori.
Dalle 07.01 alle 07.08 i due cugini Uday e Ghassan Abu Jamal, — due ventenni di
Gerusalemme Est — hanno dato la caccia dentro il grande palazzo che ospita la sinagoga
e anche la yeshiva (la scuola talmudica) urlando “Allah Akbar”. Di quei minuti di terrore
restano le porte di vetro della sinagoga sforacchiate dai proiettili della polizia, una lunga
scia di sangue nell’androne sul pavimento di marmo lucido, i libri che le vittime avevano in
mano squadernati in terra maculati di rosso, come i tallit (gli scialli da preghiera)
abbandonati sui banchi, occhiali spezzati in terra. In biblioteca, l’ultimo rifugio nella fuga
delle vittime, sui testi sacri e sulle pareti bianche c’è il sangue.
L’arrivo tempestivo della polizia e dei reparti speciali ha impedito che gli altri venticinque
fedeli presenti nella sinagoga cadessero sotto i colpi dei due killer. «Durante le preghiere
ho sentito gli spari», racconta Amos, «e ho visto uno dei rabbini a terra avvolto nel tallit e
uno di questi bastardi che correva e gridava “Allah Akbar” e sparava scegliendo le persone
più vicine». Una delle quattro vittime, il rabbino Moshe Twersky, doppia cittadinanza
americana e israeliana come altri due, discendeva da uno dei più antichi lignaggi hassidici
d’Europa. La notizia della strage alla sinagoga si è diffusa in un attimo in una città che
sente di essere tornata nell’occhio del ciclone, con la paura di una nuova Intifada e
l’incubo del ritorno al terrorismo. Mentre il premier Netanyahu riuniva il gabinetto
d’emergenza e Hamas si felicitava con i killer, le strade si sono svuotate di colpo, bus e
tram deserti, gli elicotteri in volo a bassa quota, gli aerostati con le telecamere per i
quartieri arabi, le sirene, le colonne di mezzi militari che corrono ai quattro angoli della
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città. Gerusalemme somiglia sempre più a una città sul fronte di una guerra, con sei
attentati e 12 morti in meno di quattro settimane.
Il premier Netanyahu ha promesso misure draconiane. I civili — ex poliziotti, ex militari e
coloni — saranno autorizzati a portare armi per difesa personale e saranno istituiti checkpoint all’ingresso e all’uscita dei quartieri arabi. Ma non è aumentando il numero delle
pistole che cresce la sicurezza. Il premier ha anche ordinato la demolizione delle case di
famiglia dei due giovani killer nel quartiere arabo di Jabal Mukaber. Una misura ripresa dal
governo dopo dieci anni di sospensione e che suscita molti dubbi anche in Israele
sull’effettiva legalità.
Netanyahu punta il dito contro Abu Mazen, che ha subito condannato la strage, accusando
il presidente palestinese di essere il “regista” di questa escalation per aver chiamato gli
arabi alla difesa della Spianata delle Moschee minacciata dall’estensione della sovranità
israeliana sul terzo luogo santo dell’Islam. Nel pomeriggio gli scontri fra polizia e giovani
palestinesi sono dilagati a macchia d’olio in tutti i quartieri arabi e anche nei pressi di
Kalandia, il check-point verso i Territori più vicino alla Città Santa. La protesta contro
l’occupazione dei Territori sta trasformandosi nella battaglia per la difesa di Al Aqsa. È la
sindrome di Gerusalemme. Da un lato gli estremisti palestinesi che hanno diffuso la
menzogna che Israele intende ricostruire il Terzo Tempio sulla Spianata soppiantando il
culto islamico, dall’altra gli ultrà ebrei, le cui azioni e le parole messianiche, apocalittiche e
potenzialmente catastrofiche gettano benzina sul fuoco.
Nei corridoi del potere israeliano, sulla collina dove sorge la Knesset, l’ufficio del premier e
il ministero degli Esteri, la parola negoziato è scomparsa dal lessico politico. Si fa strada
un altro termine abbondantemente abusato: «Contenimento». In altre parole il mondo
politico israeliano sostiene che è possibile vivere in questa realtà. Il portavoce più chiaro di
questa linea è il ministro della Difesa Moshe Yaalon quando dice: «Il conflitto con i
palestinesi non è risolvibile, dobbiamo solo gestirlo meglio». Non c’è nessun Yitzhak Rabin
all’orizzonte e nessun Mandela palestinese, certamente non Marwan Barghouti che chiede
il ritorno dell’Intifada da una cella d’isolamento in una prigione israeliana.
del 19/11/14, pag. 1/2
Soffiare sul fuoco
Zvi Schuldiner
Israele-Palestina. Un regalo ai fratelli fondamentalisti israeliani. L’odio
degli uni alimenta quello degli altri
È mattina presto; in una sinagoga di Gerusalemme i fedeli hanno iniziato le preghiere del
giorno. Due palestinesi armati di coltelli e di una pistola irrompono e uccidono quattro
persone, ferendone altre sette od otto, prima di essere uccisi dalla polizia sopraggiunta.
Giovedì scorso Washington aveva fatto pressione sul primo ministro Netanyahu, e questi
si era recato ad Amman con Abu Mazen. In realtà, protagonisti dell’incontro erano stati il
re di Giordania Abdallah, il segretario di Stato americano John Kerry e il primo ministro
israeliano, mentre Abu Mazen aveva partecipato ad accordi bilaterali. Chi vuole capire
qualcosa di quel che sta succedendo deve fare attenzione alla successione degli eventi.
Il governo israeliano aveva annunciato che il giorno successivo la moschea di Al Aqsa
sarebbe stata aperta a tutti senza limiti di età. Sono dunque arrivati oltre 40mila
musulmani, senza alcun incidente. Quando la repressione diminuisce, si riduce anche la
reazione alla repressione stessa.
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Il governo israeliano attraversa una fase di profonda crisi relativa all’approvazione del
bilancio, ai malumori interni alla coalizione e alla paranoia di Netanyahu, convinto che si
stia congiurando contro di lui. Tutto questo è cresciuto negli ultimi quattro o cinque giorni,
che sono stati di una tranquillità molto relativa. Grazie alla criminale stupidità di due
palestinesi, la crisi sarà dimenticata e si potrà allegramente alimentare il fuoco che sta
divampando. Per Hamas, già «contento» dei limitati progressi nei tentativi di evitare una
crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, in conseguenza dell’ultima guerra israeliana,
l’attacco (ma che potrebbe essere però un atto scellerato dell’assai debole Fronte
popolare al quale appartenevano i due giovani attentatori) è un’ottima occasione per
congratularsi con gli «eroi» che liquidano nemici sionisti nelle sinagoghe, rispondendo in
questo modo ai crimini israeliani.
Hamas, assai indebolito, oggetto di nuove accuse da parte del Cairo per la presunta
partecipazione all’attacco nel quale sono rimasti uccisi 30 militari egiziani, rischia di nutrirsi
di cadaveri come i corvi; diversi suoi portavoce si sono rallegrati per quest’atto che avrà
ampie ripercussioni. Le immagini degli abiti religiosi macchiati di sangue, i cadaveri dei
quattro rabbini uccisi in sinagoga: il crimine ha un profondo potere evocativo. A parte il
significato in sé, è anche un regalo, un grande regalo ai fratelli simbolici: i fondamentalisti
israeliani. L’odio degli uni alimenta quello degli altri, scatenando una catena di fuoco che
può bruciare tutti.
Non è sufficiente analizzare il contesto politico e ovviamente bisogna subito fare una
considerazione chiara e netta: sono quotidiani i crimini dell’occupazione israeliana, come
la politica sciovinista e fondamentalista del governo di Tel Aviv e dei suoi alleati, ma
questo non può giustificare delitti come quello di ieri a Gerusalemme, né l’antisemitismo
che prende piede in Europa.
Non solo sono atti brutali sul piano morale e politico ma, e gli effetti sarebbero ancor più
gravi, minacciano di convertire il conflitto israelo-palestinese — che è un conflitto
nazionale e politico, e può, deve trovare soluzione — in un conflitto religioso, islamicoebraico, che non consente invece accordi ed è insolubile. L’analisi del conflitto e delle sue
implicazioni non può attenuare la condanna di simili atti. Ma chiariamo bene una cosa:
l’esplicita condanna di attacchi criminali come questo non può giustificare i crimini
israeliani, quelli degli ultimi mesi e settimane e quelli che verranno e c’è già chi reclama
vendetta.
La creazione di un governo palestinese di unità nazionale era stata un segnale di
«pericolo» per il governo israeliano: mentre le discussioni con un presidente palestinese
debole — Abu Mazen — potevano andare avanti all’infinito senza minacciare il progetto
coloniale israeliano, un governo di unità nazionale poteva preludere a negoziati seri. Il
rapimento e l’assassinio di tre giovani israeliani sono stati un regalo per il governo di Tel
Aviv che ha così potuto avviare una violenta repressione in Cisgiordania e in seguito la
guerra di Gaza, con oltre duemila morti fra i palestinesi.
L’episodio ha anche sciolto i freni inibitori a criminali razzisti ebrei; l’assassinio di un
giovane palestinese a Gerusalemme — per «vendicare il sequestro» — ha innescato la
miccia dell’incendio che è divampato in città in questi ultimi mesi.
Il «Monte del Tempio» — per gli ebrei, sulla cui spianata sorge la moschea di Al Aqsa, per
la maggior parte dei rabbini è un luogo al quale gli ebrei non devono accedere, ma per
alcuni ristretti gruppi fondamentalisti, privi di importanza fino a poco tempo fa, sarebbe il
luogo dove ricostruire il Tempio, distrutto nell’anno 70 (d. C.). L’estrema destra israeliana
ha subito colto l’occasione per infiammare la città, e rendere impossibili negoziati che
erano possibili; deputati e politici hanno iniziato ad arrivare al Monte con dichiarazioni
veementi contro lo status quo che assicura ai musulmani il controllo dell’area.
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Debole e inefficace, il governo israeliano continua a nutrirsi di provocazioni e incitamenti
razzisti; ogni attacco palestinese è un’eccellente occasione per gettare altra benzina sul
fuoco. In Europa e nel mondo si susseguono le condanne.
Oggi stigmatizzano i palestinesi irresponsabili che con un crimine vergognoso hanno fatto
il gioco di Netanyahu; domani lo faranno rispetto ai fondamentalisti dell’Isis, che pure sono
un prodotto evidente delle guerre criminali avviate dal grande impero statunitense.
Occorrerebbe invece iniziare un’azione reale a favore della pace, senza le menzogne,
l’ipocrisia e il cinismo che contribuiscono a tragedie sanguinose, nella regione, o in
Ucraina, e ovunque.
del 19/11/14, pag. 3
Il riconoscimento della Palestina è l’unica
soluzione
Richard Falk
Uno stato per i palestinesi. Così i parlamenti e i governi dell’Ue possono
favorire la pace impedendo che «Oslo» diventi un’arma nelle mani di
Israele e sotto vigilanza Usa
Il 13 ottobre scorso, la Camera dei Comuni britannica a stragrande maggioranza (274 a
favore contro 12) ha votato a favore dell’urgente riconoscimento diplomatico dello Stato di
Palestina da parte del governo di Londra. Poteva apparire come un gesto insignificante.
Non costituiva una risoluzione con obbligorietà e il premier Cameron dichiarò che il voto
parlamentare non avrebbe avuto alcuna influenza sulle direttive del governo. Di fatto, sino
ad oggi la Gran Bretagna in accordo con il resto dell’Europa Occidentale, aderisce
all’ostinata opinione di Israele, come un’eco preoveniente da Washington, che il
riconoscimento della Palestina come Stato può venire solamente mediante una soluzione
al conflitto, negoziata fra le parti stesse.
E poi, perché mai la decisione di un parlamento dovrebbe esser considerata così
importante? Dopo tutto,la Palestina ha già ottenuto il riconoscimento con l’approvazione di
134 paesi sin da quando Yasser Arafat, sin dal 1988, dichiarò l’esistenza di uno stato
Palestinese con la delimitazione dei territori del 1967. Tale sottovalutazione faceva anche
parte della tattica di Israele nella stessa risposta. Prima del voto lo stesso Netanyahu
hanno persino insistito che tale passo avrebbe seriamente diminuito le prospettive di nuovi
negoziati e danneggiato ogni prospettiva di pace. Poi il tono del governo di Israele è
cambiato: il voto è diventato insignificante, privo d’importanza.
Di fatto, l’iniziativa della Camera dei Comuni ha costituito una importante vittoria simbolica
per i palestinesi. Sino a quando il governo della Svezia il 30 ottobre scorso non ha
riconosciuto lo Stato di Palestina, diventando il primo governo dell’Europa occidentale ad
osare di rompere le righe sull’interpretazione degli accordo di Oslo secondo la versione di
Israele e degli Usa; per la quale una soluzione poteva venire solo con negoziati diretti, con
gli Stati Uniti come intermediari.
L’iniziativa inglese — e poi quella svedese ndr — implica non soltanto che l’estensione del
diritto a riconoscere la Palestina costituisce una fase storica di costruzione dei Paesi
europei, ma costituisce una indiretta ammissione che questo approccio agli accordi di
Oslo, dopo oltre 20 anni di futilità, non va più guardato come la base consensuale per la
risoluzione del conflitto arabo-israeliano.
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Perché l’iniziativa dei Comuni di Londra comprendere gli sviluppi della recente diplomazia
da parte dell’Autorità Palestinese (Anp): innanzi tutto l’accordo Fatah-Hamas di aprile per
la formazione di un governo di unità nazionale e, ancora piu importante, la risoluzione da
sottomettere ai membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu da parte dell’Anp nella quale
venga richiesto il ritiro di Israele ai confini del 1967 riconosciuti da due Risoluzioni Onu,
inclusa East Jerusalem, non oltre la data di novembre 2016.
C’è da aspettarsi che gli Stati uniti oppongano il veto a questa Risoluzione qualora non sia
in grado di ottenere una influente pressione sui nove stati membri del Consiglio di
Sicurezza dell’Onu impedendo loro di votare in modo favorevole. Il fatto è che l’Anp da
Ramallah non ci sta più a scommettere sui tempi di attesa che hanno dato ad Israele
l’opportunità per l’espansione massiccia degli insediamenti nei territori occupati e per la
«pulizia etnica» a Gerusalemme est come punto di non-ritorno.
Mahmoud Abbas nel discorso del 26 settembre all’Assemblea generale dell’Onu ha
chiaramente annunciato che si rifiutava di cooperare con queste manovre diplomatiche
facilitate dai principi di Oslo. Soddisfacendo le richieste pressanti venute dalla base
palestinese, Abbas ha voluto segnalare senza alcun dubbio che non pretendeva di
rivolgersi ad «un partner per la pace» e così facendo ha passato la mano a Tel Aviv. Lo ha
ribadito con chiarezza quando ha descritto i 50 giorni dell’operazione militare di Israele a
Gaza questa estate come «una guerra di genocidio».
La parola «genocidal» ha chiamato in causa Netanyahu che, alcuni giorni dopo, ha
accusato il discorso di Abbas di essere «vergognoso». (…) Due gli eventi che dall’ultima
guerra contro Gaza hanno avuto un valore significativo: innanzi tutto la diplomazia
intergovernativa sta discostandosi dal cosiddetto «Oslo Approach» e l’Europa occidentale
comincia a riempire quel vuoto diplomatico creatosi con il fallimento della serie di colloqui
di John Kerry fra Israele e l’Anp.
In secondo luogo la società civile non violenta, con il suo impegno e leadership politica,
comincia ad occupare una centralità di palcoscenico per le speranze e sogni dei
palestinesi, mediante la campagna di boicottaggio economico (Bds) visibile ad Oakland,
California (Usa) dove i portuali rifiutano di scaricare cargo israeliani. A quando una presa
di posizione dei parlamenti europei, a partire da quello italiano?
Rapporteur dell’Onu su Gaza
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INTERNI
del 19/11/14, pag. 8
Legge stabilità, scontro nel Pd adesso la
minoranza chiede di dare i bonus ai più
poveri I renziani: sono un altro partito?
Presentati otto emendamenti. E intanto i grillini pensano a un asse
“Dialogo possibile con i dissidenti dem per aiutare famiglie e imprese”
ROMA .
La legge di Stabilità al battesimo del voto in Commissione Bilancio della Camera con
l’obiettivo di chiudere l’esame in settimana in attesa dell’approvazione in aula il 27
novembre, dopo l’esame del Jobs Act. «Restituisce fiducia e riduce le tasse», dichiara on
line il premier Renzi.
Scontro all’interno del Pd: la minoranza con Fassina, Cuperlo e Civati presenta gli 8
emendamenti annunciati che prevedono la modifica dei criteri di assegnazione del bonus
da 80 euro parametrandolo all’indicatore Isee e dunque rivolgono l’aiuto ai redditi più
bassi.
Proposta anche la riduzione della platea per il bonus bebè (da 90 mila a 70 mila euro di
reddito familiare); il divieto di beneficiare degli sconti contributivi per le assunzioni alle
aziende che abbiano fatto recenti licenziamenti. «Bene la conferenza stampa delle
minoranze Pd sulla Stabilità», scrive su Twitter il deputato M5S Danilo Toninelli, che
aggiunge: «Speriamo che ora dialoghino col M5S per aiutare famiglie e imprese in
difficoltà». Dura invece la reazione dei renziani.
«Altro che metodo democratico, altro che discussione e confronto interno. A parole si dice
di volere il bene della casa comune, nei fatti ci si comporta come se non se ne facesse
parte», osserva Ernesto Carbone della segreteria del Pd.
Il clima è teso e non sono stati ancora affrontati a colpi di voti gli emendamenti più caldi
che occuperanno la Commissione da stamattina: bonus bebè, Tfr in busta paga e 80 euro.
Su uno di questi temi c’è già da registrare una posizione netta del governo: «Il bonus di 80
euro non si tocca», avverte il sottosegretario al Tesoro Pier Paolo Baretta.
In prima battuta ieri è stato comunque approvato il rafforzamento della manovra di 4,5
miliardi chiesto dalla Commissione di Bruxelles che lunedì darà il suo giudizio sulla
Finanziaria italiana.
L’emendamento del governo corregge, dunque, i saldi della legge di Stabilità. Le misure
previste riducono di 3,3 miliardi il fondo taglia tasse, sfoltiscono di 500 milioni fondi del
cofinanziamento nazionale ai fondi strutturali europei e allargano la reverse charge dell’Iva
alla grande distribuzione, cioè agli ipermercati, i supermercati e i discount alimentari. Per
quest’ultima misura è stata introdotta l’ennesima clausola di salvaguardia che rischia di
portare un aumento delle accise sulla benzina poiché l’ampliamento della reverse charge
deve essere sottoposto all’ok Ue.
«Mi aspetto che sarà riconosciuto lo sforzo anche qualitativo sul bilancio e sulle riforme
strutturali», dice il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan rispondendo a chi gli ha
chiesto se ci sia preoccupazione per l’imminente giudizio Ue sulla manovra. Secondo il
titolare di Via Venti settembre la legge di Stabilità «coniuga consolidamento della finanza
pubblica e crescita». Padoan si è anche soffermato sulle prospettive di crescita del Paese:
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«Per l’ultimo trimestre – aggiunge - mi aspetto che continui a dimostrare quello che sta già
succedendo, cioè che la macchina smetta di scendere e cominci la risalita».
Tra le misure esaminate anche l’emendamento Pastorelli e Di Gioia in Commissione
Bilancio della Camera che proponeva di trasferire le risorse della Cassa conguaglio per il
settore elettrico alla Tesoreria unica. E’ stato bocciato.
Intanto anche Forza Italia si prepara alla battaglia della legge di Stabilità. Ieri ha
presentato la sua “contromanovra”. Si tratta di 72 emendamenti, già dichiarati ammissibili,
che spaziano dalla tassazione sulla casa al Mezzogiorno.
(r.p.)
del 19/11/14, pag. 10
Il voto in Calabria
Il grande favorito è Mario Oliverio, che alle primarie del Pd ha sconfitto
l’avversario renziano e che ha fatto il pieno di berlusconiani nelle liste
“Votate quel comunista” così gli amici di
Scopelliti si preparano a saltare sul carro del
vincitore
SEBASTIANO MESSINA
DAL NOSTRO INVIATO
REGGIO CALABRIA .
Cosa ci fa il repubblicano Francesco Nucara, già viceministro berlusconiano, a cena da
solo con Mario Oliverio, il superfavorito candidato del Pd alla carica di governatore della
Calabria? Gli dà consigli, gli chiede notizie e soprattutto gli conferma che domenica gli
porterà i suoi voti. Ma come, gli domando, lei non stava con il centrodestra? Non era il più
grande sostenitore di Giuseppe Scopelliti, il presidente spodestato dai giudici? Nucara non
si scompone. «Purtroppo la Calabria è un malato terminale, e a me non interessa se il
medico è un comunista, mi basta che sia un bravo medico». Poi gli spunta sulla bocca un
sorriso malizioso: «Lo sa che mi ha fatto la stessa domanda il segretario del Pd, Ernesto
Magorno? Allora è vero, mi ha detto, che appoggi un comunista. Erne’, gli ho risposto, lo
appoggio perché è un comunista. Se era del Pd non lo appoggiavo ».
Nucara, che a 74 anni ormai è una vecchia volpe della politica, non è un’eccezione, anzi.
Qui, nella regione più povera, più disoccupata e più depressa d’Italia la perenne ricerca
dei calabresi perbene dell’uomo che li tirerà fuori dall’inferno è puntualmente
accompagnata da una massiccia transumanza dei professionisti della politica e del loro
seguito di vassalli, valvassori e valvassini, che fiutano il vento prima di tutti gli altri e
stanno sempre dalla parte giusta: quella del vincitore. E poiché in Calabria più che altrove
la politica odora di favori concessi e di promesse tradite, eppure rimane l’unica corda alla
quale aggrapparsi per non affondare nella disperazione, ogni volta che si volta pagina si
riaccende la speranza che sia la volta buona. Questo spiega perché alle primarie del
centrosinistra, vinte da Oliverio battendo il renziano Callipo, si siano presentati in 110 mila,
più del doppio dei 58 mila che sono andati ai seggi del Pd nella rossissima Emilia
Romagna, che pure ha due volte gli abitanti della Calabria. Spiega perché abbia vinto non
un rottamatore ma un capitano di lungo corso della politica calabrese (a 61 anni, Oliverio è
già stato consigliere e assessore regionale, sindaco di San Giovanni in Fiore, segretario
provinciale dei Ds, deputato per quattro legislature e presidente della Provincia di
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Cosenza). E spiega anche perché, una volta ottenuta l’investitura, lui abbia messo in
campo otto liste e 240 candidati per essere certo di fare il pieno dei voti. Otto liste nelle
quali sono stati esclusi quasi tutti gli uscenti del Pd ma è stato trovato un posto per molti
alleati dell’ultima ora, dall’ex sottosegretario berlusconiano Elio Belcastro all’ex presidente
(di centrodestra) della commissione regionale Antimafia, Salvatore Magarò.
«Trasformismo!» accusa la principale rivale di Oliverio, Wanda Ferro, 45 anni, che pure ha
imbarcato nelle sue tre liste (Forza Italia, Fratelli d’Italia e Casa delle Libertà) i dissidenti
dell’Udc e soprattutto dell’Ncd, due partiti che ora appoggiano il terzo incomodo, il
sessantenne senatore Nico D’Ascola. Lei ha contato trenta ex del centrodestra nelle otto
liste del centrosinistra, e ora descrive con finto distacco «quest’ondata di transfughi che
ogni volta passa da una sponda all’altra, tutti folgorati alla vigilia delle elezioni sulla via di
Damasco», e racconta di aver proposto un patto al suo avversario: «Chiudiamo le porte ai
trasformisti, gli ho detto. Ma lui ha preso di tutto e di più». È difficile trovare qualcuno in
tutta la Calabria che scommetta sulla sua vittoria, con il centrodestra diviso in due
tronconi, eppure lei non getta la spugna: «Anche nel 2008, a Catanzaro, dicevano che non
ce la potevo fare, e invece sono stata la prima donna in Calabria a essere eletta
presidente della Provincia. Io faccio politica da quando avevo 14 anni, nel Fronte della
Gioventù, sono una che non molla».
Lontano dal palcoscenico che calcava da mattatore, Giuseppe Scopelliti - esiliato dalla
scena politica per una condanna a sei anni per abuso d’ufficio e falso in atto pubblico a cui
non si rassegna non è affatto uscito dal gioco: lui che era stato uno degli otto fondatori del
Nuovo Centrodestra è tornato con Berlusconi, e solo 4 dei 19 consiglieri del suo gruppo
sono rimasti con Alfano. Adesso, dopo aver visto il giovane Giuseppe Falcomatà trionfare
con il 61 per cento nella stessa città dove lui stravinceva con il 70 per cento, riflette sulle
amarezze della vita: «Questa è una terra ingovernabile, un terra maledetta. Siamo
circondati dai ricattati e dai ricattatori. La politica perde perché non ha la schiena dritta. Io
ho lottato, mi sono battuto contro tutto e contro tutti, e alla fine ho perso. Ma non mi
arrenderò mai, devo difendere un sogno nel quale credono ancora tanti calabresi ».
Il voto di domenica chiude l’ignobile sceneggiata della finta riforma elettorale, quella che
prevedeva uno sbarramento da record al 15 per cento e introduceva l’inedita figura del
«consigliere regionale supplente», norme scritte e approvate a rotta di collo dai consiglieri
uscenti dopo le dimissioni obbligate di Scopelliti con l’unico trasparente obiettivo di far
impugnare la riforma dal governo e chiedere una sentenza della Corte costituzionale,
allungando artificialmente la vita di un Consiglio regionale già tecnicamente morto, mentre
là fuori la Calabria continuava a sprofondare e ad accumulare record nazionali uno
peggiore dell’altro, dal reddito pro capite più basso (7412 euro) al tasso di disoccupazione
più alto (22,2 per cento), con sei giovani su dieci senza lavoro.
Seduto dietro il lungo tavolo della sala convegni del Consiglio regionale, accanto a Luca
Lotti - il vero alter ego di Matteo Renzi -Mario Oliverio deve sentire sulle sue spalle il peso
delle mille speranze affidate alla sua vittoria, perché dopo aver ascoltato le sacrosante
parole del sindaco Falcomatà («Bisogna che in questa terra progredisca chi conosce
qualcosa e non chi conosce qualcuno ») avverte il giovane sottosegretario arrivato da
Roma: «Noi non verremo a Palazzo Chigi col cappello in mano, però la Calabria deve
avere quello che le spetta». Sul tavolo, per cominciare, ha messo il progetto per rilanciare
il porto di Gioia Tauro trasformandolo in una «zona economica speciale» che darebbe
lavoro ad altri 2700 calabresi. Ci vogliono 892 milioni, che sono meno della metà dei fondi
europei che la Calabria rischia di perdere. Oliverio, che del tenente Kojak ha la pelata ma
anche l’occhio furbo, fa i conti: «Sono un miliardo e 800 milioni, che l’Unione europea si
riprenderà se non riusciremo a spenderli entro il 2015. Abbiamo tredici mesi per
progettare, fare le gare, aprire i cantieri, realizzare le opere e mandare i rendiconti. Sarà
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una corsa contro il tempo». Lotti lo ascolta, poi guarda il grande orologio digitale appeso
alla parete e dice: «Vedo che è fermo al 9 maggio. Dev’essere il 9 maggio di quattro anni
fa. Adesso vi propongo il patto dell’orologio: noi vi daremo una mano, ma voi lunedì
mattina fatelo ripartire, quell’orologio».
del 19/11/14, pag. 11
Il voto in Emilia
Lo shock “spese pazze” spinge i non votanti a far propaganda e
Bonaccini rischia una vittoria “debole”. A destra Salvini sperimenta
l’opa su Fi
Il partito dell’astensione avversario unico del
Pd la Lega sogna il podio davanti ai Cinque
Stelle
MICHELE SMARGIASSI
BOLOGNA .
I primi due posti sul podio sembrano già prenotati. Vincitore assoluto il partito stavoltanonvoto. Secondo, un governatore del Pd indebolito. La vera gara, alle elezioni regionali di
domenica in Emilia-Romagna, è semmai per il terzo classificato, in una sorta di test su
quale sia il più promettente anti-renzismo prossimo venturo, con la Lega che mira alla sua
prima riscossa nell’era post-bossiana. Non è un caso che gli unici leader nazionali scesi
finora in campo per questo mini-macro-test di medio mandato siano i due Mattei, il premier
Renzi e il sempre più sfidante Salvini. «Non basta vincere, bisogna vincere bene», ripete
come un mantra nelle soste del suo pellegrinaggio in camper Stefano Bonaccini,
quarantasettenne bersaniano- turnedrenziano, il «Bruce Willis di Campogalliano» (questa
è di Renzi in persona), già candidato riluttante, sapendo di dover fare gli scongiuri per la
prima speranza («ai comizi mi chiamano già presidente, ma non ho ancora vinto...») e di
avere problemi con la seconda. La prospettiva al momento più gettonata è un’affluenza
che farà fatica a non scendere sotto la metà degli aventi diritto. Un collasso democratico
nella regione che da sempre primeggia per voglia di urne, 68% nel 2010 e 77% nel 2005.
Se anche il Pd riuscisse a replicare le sue tradizionali percentuali di consenso, un po’
sopra il 50%, per la prima volta governerà la “sua” regione con la metà dei voti della metà
dei cittadini.
Domani dunque arriva Renzi, il Pd punta a riempire d’orgoglio lo storico PalaDozza, la
coscrizione dei militanti delle Feste dell’Unità è pressante e probabilmente sortirà il suo
effetto. Ma l’aiuto fraterno del Partito della Nazione rischia di servire poco a un Partito
della Regione logorato, giunto ai seggi con un affanno mai visto. Tutto è andato storto, da
quando Vasco Errani ha dovuto lasciare le alte torri di Kenzo Tange per guai giudiziari, e il
quindicennio della pax erraniana è andato in frantumi. Primarie nel caos, candidature e
scandidature, da far perdere la pazienza proprio a Renzi che venne su a settembre con un
diavolo per capello: «avete fatto un gran casino!». E dire che, con la sua bacchetta magica
di grande narratore, il premier era quasi riuscito a sanare la ferita originaria, riabilitando
Errani come eroe del buongoverno a furor di popolo della Festa dell’Unità; ma poco ha
potuto fare di fronte alla catastrofe dell’inchiesta sulle “spese pazze” dei consiglieri
regionali, due milioni e passa di euro pubblici da giustificare, inclusi ostriche e sextoys .
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L’unica fortuna per i candidati è che ci son finiti dentro praticamente tutti, grillini e leghisti
compresi (su 50 consiglieri uscenti sono 41 gli indagati, dodici dei quali si erano intanto
ricandidati in varie liste), e dunque la questione morale è miracolosamente evaporata dalla
campagna elettorale, non la tira fuori quasi nessuno, tranne i giornali, e gli elettori
disgustati. Certo, quei pastrocchi con le notule sono forse meno eclatanti che in altre
regioni, ma come dice la politologa Nadia Urbinati, nella terra del buongoverno sono
proprio le «piccinerie fastidiose» come il mezzo euro del wc della stazione messo a carico
dei contribuenti «a dare l’idea di un uso abituale e privatistico dei soldi di tutti».
Ci mancavano solo i fuori-onda e sono arrivati: con un registratore nel taschino il
consigliere exgrillino Defranceschi (espulso proprio perché indagato anche lui) ha carpito
le contumelie riservate dei suoi colleghi contro i giornalisti «servi della gleba», e i loro goffi
tentativi di nascondere i panni sporchi, sicché il capogruppo uscente del Pd Marco Monari,
fra i più loquaci, ha dovuto sospendersi dal partito, con scuse, una settimana prima del
voto, niente male come viatico.
E dunque tira un’aria che nessuno avrebbe mai detto. In questa parte d’Italia dove si
masticava la politica come a Bisanzio la teologia, la disaffezione si dà voce: assieme a
clamorosi abbandoni (Francesco Guccini voterà un candidato di Sel, «scelgo la persona
»), inviti ad acrobatici voti disgiunti, sfide da sinistra (una versione emiliana della lista
Tsipras guidata dalla storica pasionaria parmense Cristina Quintavalla), serpeggiano sui
social network pubbliche confessioni di non-voto, e non suona assurda la domanda del
cronista a Romano Prodi (una sua nipote è candidata a Reggio Emilia), professore lei ci va
a votare? Risposta, «Ci andrò senz’altro», ma allegata a una pessimista citazione
manzoniana: «il buon senso restava nascosto per paura del senso comune».
Come su un altro campo di gioco, la Lega nazionale tenta la sua terza storica calata sotto
il decaduto dio Po. Matteo Salvini pare aver cambiato residenza, in un mese già sei
giornate di incursioni, inclusa quella finita a mattonate sul lunotto dell’auto al campo
nomadi di Bologna; tornerà ancora domani e venerdì per concludere nel capoluogo, nel
frattempo va in tivù con la scritta “Emilia” sulla felpa e pesta come un martello pneumatico
sui temi della sua nuova destra xenofoba, omofoba ed eurofoba. Il suo campione è il
sindaco di Bondeno, il trentacinquenne Alan Fabbri, ma sui poster “vota Fabbri” c’è solo la
faccia di Salvini; e dire che sembra anche un tipo simpatico, questo Fabbri, spendibile
anche a sinistra, con quei capelli lunghi raccolti in un codino un po’ freak che ha resistito
anche al diktat di Berlusconi: «Se lo tagli!».
Già, perché qui, in quel che resta della destra d’Emilia, non è più l’uomo di Arcore che
comanda. Sfibrata, muta e senza uomini, Forza Italia s’è rassegnata ad attaccarsi al
Carroccio pur di non scomparire, le resta solo il diritto al mugugno («Salvini nei campi
rom? Solo uno spot»). Ed è chiaro che se i voti all’alleanza arriveranno copiosi, sarà solo
la Lega a intestarseli. La speranza, non così folle: scavalcare, magari doppiare, addirittura
umiliare i Cinquestelle, diretti rivali nell’imprenditoria della rabbia. Che in Emilia ebbero la
loro alba, dal Vaffa-Day di Bologna al trionfo di Parma, ma ora hanno solo tramonti, il
sindaco Pizzarotti eretico in odor di scomunica, e presentano agli elettori il magro
rendiconto di due consiglieri regionali eletti nel 2010 e poi entrambi cacciati dal partito (il
dissidente Favia e l’indagato Defranceschi). Forse per questo il grande capo di Genova da
queste parti non si è ancora visto. Lui, che due anni fa venne ben due volte in dieci giorni
a Budrio, paesino di poche migliaia di anime, per sostenere il suo candidato sindaco, salvo
possibili ripensamenti dell’ultimora lascerà sola la modenese Giulia Gibertoni, poco urlante
trentacinquenne ricercatrice, diventata capolista con la bellezza di 266 voti dalle primarie
online, nel compito di trattenere un impegnativo 20% di voti.
In fondo, non è che una nuova incarnazione del perpetuo laboratorio politico emiliano. A
sud del Po, in questi giorni irato con gli uomini, gonfio come una vena varicosa e tenuto a
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freno da decine di migliaia di sacchetti di sabbia, si sperimenta con quali sacchetti di
rabbia sia più efficace costruire la prossima rampa d’assalto al governo Renzi.
del 19/11/14, pag. 6
Italicum 2, c’è il caso senato
Andrea Fabozzi
Riforme. Legge elettorale valida solo per la camera. Il Pd: non è un
problema. La commissione copia e incolla le novità del Nazareno, Renzi
detta i tempi ma un sistema doppio non rispetta la sentenza della Corte
Costituzionale
Si apre il capitolo della legge elettorale al senato e nel giorno in cui la presidente della
prima commissione, Anna Finocchiaro, celebra il rito della relazione, il presidente del
Consiglio detta già i tempi al parlamento: «La legge sarà approvata dal senato entro
l’anno». Finocchiaro, d’altra parte, nel presentare il testo approvato alla camera — e
anche allora fu una corsa, tutta strappi al regolamento e forzature — indica guarda un po’
tre punti deboli da correggere, e mezzo. Sono precisi precisi, non uno in meno non uno in
più, quelli concordati al tavolo del Nazareno tra Renzi e Berlusconi: «Innalzare la soglia
oltre la quale si ha diritto al premio di maggioranza» (l’Italicum prima versione prevedeva il
37%, adesso si vuole il 40% e sotto ballottaggio); «limitare alle sole liste l’assegnazione
del premio» (era previsto per la coalizione vincitrice); «ridurre sensibilmente le soglie per
l’accesso al riparto dei seggi» (dalle folli vette del testo che arriva dalla camera a un 3%
generalizzato, buono per Alfano e per tutti). La mezza proposta accennata da Finocchiaro
è sulle preferenze: l’idea è di introdurle solo per il partito che prende il premio, anche
questa l’hanno avuta al Nazareno.
Per la verità sul premio alle liste e sulla ritrovata sensibilità del Pd per i partiti piccoli
(purché marginali) Berlusconi non è ancora del tutto convinto (ha solo da perderci) e
uscendo dall’ottavo incontro con Renzi ha alzato un sopracciglio. Non troppo minaccioso,
però, visto che ha subito aggiunto che Forza Italia non ostacolerà comunque la corsa della
legge. E in effetti più di ogni altra cosa il proprietario di Mediaset con i sondaggi a picco ha
interesse a restare legato al patto e possibilmente a rinviare le urne. E così il capogruppo
dei berlusconiani Romani ieri ha invitato alla calma: «La discussione non si deve
comprimere», messaggio rivolto ai commissari della Affari Costituzionali ma da girare a chi
governa i tempi del parlamento, cioè Renzi. Una situazione già vissuta proprio dalla stessa
commissione e dalla stessa presidente, quando da relatrice della riforma costituzionale
andava a concordare a palazzo Chigi calendario ed emendamenti.
Il vero punto debole del vecchio Italicum, però, è che si tratta di un sistema elettorale
valido solo per la camera dei deputati. Un «baco» inserito alla camera dalla minoranza Pd
che così si è tutelata da eventuali tentazioni renziane di voto anticipato: prima
occorrerebbe completare la riforma costituzionale che non prevede un senato elettivo.
Altrimenti?
Lo chiede adesso Forza Italia, che teme lo scioglimento anticipato, e dunque un po’ per
buon senso, un molto per convenienza, vorrebbe legare il cammino della legge elettorale a
quello della riforma costituzionale (che dovrebbe essere approvata dalla camera, secondo
il calendario renziano, a gennaio). La risposta della presidente Finocchiaro è
sorprendente. Lo è perché proprio lei cerca di motivare le modifiche alla legge decise dal
Nazareno come necessaria risposta alla famosa sentenza della Corte costituzionale che
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ha abbattuto il Porcellum (sentenza che essendo di gennaio era ben conosciuta anche a
marzo, quando invece fu votato il testo così com’è). Ebbene, ha risposto Finocchiaro a
Romani, non c’è problema «la legge elettorale del senato c’è» ed è quella venuta fuori
dalla sentenza della Consulta: proporzionale, alto sbarramento, una preferenza, niente
premi.
Come questo possa essere rispettoso della Corte Costituzionale è un mistero. Nella
famosa sentenza di gennaio c’è infatti scritto che sbarramenti e premi, cioè le distorsioni
della rappresentatività in funzione della «governabilità», si giustificano solo in un sistema
coerente in grado di assicurare effettivamente una maggioranza. Due leggi diverse per le
due camere politiche, una con il premio e una senza, avrebbero l’effetto opposto, un caos
che andrebbero a sbattere contro il richiamo alla «ragionevolezza» ribadito dalla Corte.
Per conservare il Consultellum e usarlo come arma di ricatto per elezioni anticipate c’è un
solo modo razionale: tenerlo anche per la camera, rinunciare all’Italicum.
del 19/11/14, pag. 15
Italicum, alt di Forza Italia: Renzi vuol votare
Il partito di Berlusconi teme che la maggioranza voglia le elezioni
anticipate. Alfano: servono 5 mesi per disegnare i collegi Renzi:
“L’approvazione al Senato entro il 2014”. La mano tesa di Finocchiaro
all’Ncd: “No a soglie di sbarramento alte”
CARMELO LOPAPA
ROMA .
Il treno della legge elettorale parte e corre già spedito. Matteo Renzi lo vuole in stazione
entro fine anno. Torna a ripeterlo mentre è in viaggio di ritorno dal Turkmenistan, nelle
stesse ore in cui la commissione Affari costituzionali al Senato comincia l’esame
dell’Italicum (versione 2). «Dopo qualche rinvio di troppo, abbiamo finalmente chiuso sulla
tempistica della legge elettorale della riforma costituzionale» e la prima «sarà approvata
dal Senato entro l’anno», scrive il premier nella sua e-news. Con tanto di elenco
dettagliato delle modifiche da apportare all testo concordato a suo tempo con Berlusconi:
premio di maggioranza per chi raggiunge il 40 per cento al primo turno, sbarramento al 3,
cento collegi con capolista bloccati e preferenze a seguire. «Mi sembra un ottimo
traguardo che consentirà di avere candidati riconoscibili, certezza di un vincitore, una
maggioranza stabile non ricattata dai piccoli partiti» conclude.
Tutti paletti che una manciata di ore prima la relatrice della riforma in prima commissione,
Anna Finocchiaro, aveva già illustrato ai colleghi (premio solo alle liste e sbarramento più
basso), pur senza scendere nel dettaglio dei numeri: sono i capisaldi dell’accordo
raggiunto tra Renzi e Alfano, del resto. «In un Paese democratico normale c’è una legge
elettorale votata dal Parlamento e non risultante da una sentenza della Corte
Costituzionale » dice. Tradotto: non possiamo tenerci il “Consultellum”, bisognerà dotarsi
di un sistema e in tempi rapidi. La senatrice Pd non ha finito di illustrare i ritocchi
«necessari», sotto gli occhi attenti del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, che
Forza Italia entra in fibrillazione. La sensazione tra i dirigenti è che i ritmi serrati imposti in
commissione, e in prospettiva in aula, palesino le reali intenzioni del presidente del
Consiglio. «È lampante che voglia andare al voto in primavera », si ripetono Giovanni Toti
e Paolo Romani, Mariastella Gelmini e Renato Brunetta, Mara Carfagna e Deborah
Bergamini, tutti in breafing in Transatlantico a Montecitorio dopo la conferenza stampa per
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illustrare la contromanovra alla legge di stabilità e il “No tax day” del 29-30 novembre (con
Berlusconi in piazza San Carlo a Milano). E allora bisogna rallentarla, quella corsa, è la
parola d’ordine. Romani ci prova subito, in commissione. «Qui sembra che il lavoro sia già
finito, non si può comprimere la discussione e poi si rischia che in caso di voto anticipato
la Camera vada al voto con l’Italicum 2 e il Senato col Consultellum ». La Finocchiaro gli
replica solo che «la discussione non sarà compressa». Una battaglia sui tempi nella quale
Forza Italia si ritrova a sorpresa al fianco di Alfano. Già, perché il ministro degli Interni,
nell’audizione in commissione, oltre a dirsi favorevole alle preferenze, fa notare che «i 45
giorni previsti dalla legge per la definizione dei collegi elettorali sono un termine esiguo, se
si pensa che nel 1993 furono necessari cinque mesi di lavoro». Perché quei cento nuovi
collegi andranno tutti ridisegnati. «È così, non c’è il tempo necessario per votare a marzo»
è la conclusione che trae Giovanni Toti in Transatlantico. Con Alfano del resto lui è
sempre in contatto, in vista di una ripresa del dialogo con l’Ncd che Berlusconi vuole far
ripartire con un incontro dopo le regionali di domenica (anche se per ora smentisce che
una telefonata sia già intercorsa). Su una federazione, se non su una lista unica,
bisognerà pur lavorare. In commissione, partite le audizioni, da martedì prossimo si entra
nel merito. Forza Italia è a un bivio, che farà se il premio resterà alla lista e lo sbarramento
al 3 per cento? Voterà contro? Rischia l’isolamento e l’estromissione dal patto del
Nazareno, dato che Pd e Ncd hanno i numeri (15-13) per approvare la legge anche senza
di loro in commissione.
del 19/11/14, pag. 8
Il rilancio del «marziano»
Eleonora Martini
Roma Capitale . Il sindaco Ignazio Marino replica agli attacchi in
un’infuocata assemblea capitolina. E sottoscrive un patto con gli
abitanti di Tor Sapienza. Al Pd non resta che deporre le armi e fare
quadrato attorno al chirurgo
«Ci sono tanti poteri e tanti interessi che non gradiscono il lavoro che stiamo facendo. Sì,
lo confermo. Chi vede finire monopoli, rendite di posizione, abusivismi, corruzione,
mancato rispetto delle regole, chi in quel sistema che stiamo contrastando trovava la
ragione della propria forza, è normale che non gradisca il nostro lavoro e che ci osteggi
duramente». Lo cinguetta su Twitter, Ignazio Marino, ma lo ripete in un discorso duro e
orgoglioso davanti all’assemblea capitolina, chiamato a riferire del caso surreale della
«Panda rossa, ormai considerata più pericolosa di un cacciabombardiere della Corea del
nord che invade lo spazio aereo di Okinawa».
Ci scherza su, il sindaco di Roma, ma fa fatica a concludere il suo discorso nell’aula Giulio
Cesare, trasformata per l’occasione in una moderna arena, stipata di cittadini e
manifestanti giunti in Campidoglio con un singolare corteo di scooter, con i sostenitori della
giunta del sindaco «marziano» da una parte e dall’altra gli affossatori che a gran voce ne
chiedono le «dimissioni».
Una giornata campale, quella di ieri, per il primo cittadino della Capitale. Iniziata stipulando
un patto con la delegazione dei rivoltosi di Tor Sapienza ricevuti in Campidoglio e
conclusa – dopo un faccia a faccia di un’ora con il vicesegretario nazionale del Pd,
Lorenzo Guerini, e un confronto che sa più di resa dei conti con il gruppo dei 19 consiglieri
dem – con le scuse ai cittadini per la sua Panda fotografata in divieto di sosta («purtroppo
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in quell’occasione i vigili non sono passati, e non lo dico ironicamente», sottolinea Marino),
e con la ricostruzione del caso delle otto multe comminate per errore al suo veicolo privato
che, come per ogni sindaco, è autorizzato a entrare nelle zone Ztl.
«Sono stati fatti errori da parte degli uffici competenti – spiega Marino nel suo discorso in
Aula – ma nulla di grave, nulla che giustifichi il clamore; errori che non hanno prodotto
danni, se non a me stesso. Mi sono stati sottoposti documenti che gli uffici ritenevano
prova di una manomissione informatica e ho ritenuto mio dovere presentarli agli organi
inquirenti. Si è gridato allo scandalo ma intanto le autorità stanno indagando e io attendo
che facciano il proprio lavoro» (ma l’Ansa a sera fa sapere che «il fascicolo aperto dal pm
Maiorano per accesso abusivo ad un sistema informatico potrebbe essere a breve
archiviato»).
Il caso sembra chiuso, almeno per il Pd — anche quello romano. «L’incontro è stato
positivo», dichiara l’ex capogruppo D’Ausilio, dimessosi dopo il sondaggio anti-Marino.
Presto i consiglieri dem, che ancora non si mettono d’accordo sul suo successore,
incontreranno di nuovo il sindaco «per discutere — aggiunge D’Ausilio – il merito dei
contenuti di rilancio dell’azione di governo in città che abbiamo auspicato». Ma le
dimissioni tanto richieste dalla destra (sebbene il Ncd non abbia presentato ieri alcuna
mozione ad hoc) non ci saranno: «Chi parla di mie dimissioni non vuole comprendere la
dimensione della nostra sfida, l’ambizione di cambiare Roma».
Dal Nazareno però attendono un «cambio di passo, con un segnale di attenzione forte, in
tempi rapidissimi, ai temi cruciali della città». Nessun nome però, secondo fonti del
Campidoglio, sarebbe stato fatto durante l’incontro con Guerini sui papabili per il rimpasto
di giunta che molto probabilmente vedrà riassegnare l’assessorato alla Scuola e quello
alle Politiche sociali, oltre al posto di capogabinetto che è attualmente di Luigi Fucini,
ritenuto responsabile del «Panda-gate». A Marino il partito di Renzi ha chiesto solo di
ricostruire un’agenda politica efficace per i prossimi tre anni, fino a fine mandato. Sondaggi
alla mano e col fiato sul collo della destra che avanza nelle periferie, giocoforza il partito
dunque fa quadrato di nuovo attorno al “suo” sindaco della Capitale.
E il chirurgo, che sul caso Tor Sapienza era intervenuto con troppo ritardo, già ieri mattina
ha messo a segno un gol. Alla fine di un incontro durato due ore, Marino e i comitati del
quartiere hanno sottoscritto un documento in sei punti che impegna entrambi —
amministrazione e residenti — alla risoluzione del conflitto apertosi sul caso dei rifugiati
nel centro di accoglienza di viale Morandi. Prostituzione, campi rom e occupazioni abusive
sono i nodi cruciali.
«Interverremo in maniera più rigorosa possibile per liberare alcune strade dalla
prostituzione», assicura Marino. E poi intensificazione dei pattugliamenti e dei presidi di
polizia nelle strade del quartiere, e in particolare nei pressi del campo di via Salviati dove
vivono — contro il loro volere — famiglie rom e sinti, per «impedire» il fenomeno dei «roghi
tossici». Secondo il patto condiviso, si procederà anche a una verifica dello stato di
attuazione del progetto Punto Verde Tor Sapienza. Ma sulla struttura di viale Morandi,
gestita dalla onlus «Un sorriso», la mediazione è stata più complicata: «Rispetto alla
proposta iniziale di chiudere il centro — ha riportato Marino — stiamo valutando di
trasformarlo in una casa di accoglienza solo per donne e bambini».
«Vi controlleremo ogni settimana», hanno assicurato, un po’ minacciosi, gli abitanti della
borgata romana. Chissà se anche con loro, come ha fatto con gli abitanti dell’Infernetto, il
sindaco ha ricordato che ad essere stati cacciati via dal loro quartiere, al momento, sono
stati solo dei «bambini profughi». Due parole che Marino ripete nell’Aula capitolina tra le
urla di coloro che «soffiano sul fuoco dei disagio e della paura».
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del 19/11/14, pag. 9
Casa Pound importa la rabbia di Tor Sapienza
Giuliano Santoro
Viterbo. Dietro l'aggressione ai tifosi dell'Ardita
C’è un filo che corre dalle periferie in subbuglio a rischio razzismo di Roma
all’aggressione, violentissima e a freddo, di domenica scorsa ai danni dei supporter
dell’Ardita, squadra autogestita ed esperimento di «calcio popolare», che è costata il
ferimento di sette persone. È un filo nero che indica una strategia e riannoda le tracce di
un disegno fatto di strumentalizzazione del disagio sociale e abitudine alla violenza.
I fatti: a poche ore dall’attacco i carabinieri di Viterbo hanno posto nove persone agli
arresti domiciliari, con l’accusa di aver assaltato ai bordi del campo del Magliano Romano i
tifosi dell’Ardita, considerati antifascisti. Molti degli arrestati gravitano attorno all’area
viterbese dei «fascisti del terzo millennio» di CasaPound. La questura diffonde le loro
generalità. Sono giovani, in qualche caso giovanissimi. Sono sbucati, cappuccio in testa e
manico di piccone alla mano, da quattro auto. Il più grande, denunce e provvedimenti
restrittivi sulle spalle ha 32 anni e si chiama Ervin Di Maulo. A Viterbo se lo ricordano per
le risse e i guai con la giustizia. Di Maulo da qualche settimana si muove in sintonia con la
svolta filo-leghista del suo gruppo e cerca di dar vita ad un «comitato» nel centrale
quartiere di San Faustino. L’armamentario retorico cui attinge assomiglia molto a quelli
che abbiamo sentito nei giorni scorsi nelle periferie romane: «Gli italiani sono scavalcati
dagli stranieri anche nella fruizione di importanti servizi come quelli sociali», dice Di Maulo
presentando la sua iniziativa ai giornalisti. Lo scorso 20 ottobre, poi, ha presieduto
l’incontro che avrebbe dovuto far nascere il comitato anti-degrado. Anche in questo caso,
nella sala della Libreria dei Salici che ha ospitato l’iniziativa, sono risuonati tutti i luoghi
comuni classici del repertorio xenofobo: «Vivono in 12 dentro alle cantine, significa che
sono troppi», «Le associazioni integrazioniste [SIC]come l’Arci prendono 30 o 40 euro a
immigrato e poi se ne fregano di quel che succede».
Inutile specificare che si agitano bufale e fantasmi: quei soldi sono destinati all’accoglienza
dei rifugiati, la cui presenza però nel quartiere non è registrata. «Se si tratta davvero di un
comitato contro il degrado bisogna includere anche gli stranieri che vivono qui», ha detto
dalla platea uno dei partecipanti all’incontro. «No — ha risposto una pensionata in preda
alla psicosi — Di extracomunitari bravi non ce ne sono». «C’è anche l’idea di organizzare
un corteo con residenti e commercianti per sensibilizzare istituzioni e opinione pubblica»,
ha promesso Di Maulo. Accanto a lui un altro degli arrestati di domenica, Dario Gaglini, 26
anni, ex candidato sindaco di Viterbo per CasaPound. Nel 2013 ha raccolto 305 voti, pari
allo 0,91 per cento. È dopo bagni elettorali di questo tipo che la formazione d’estrema
destra abbandona posizioni da destra radicale «postmoderna» e, dopo anni di
sper[/ACM_2]giuri circa la discontinuità con i vecchi schemi del fascismo comincia a
inseguire gli umori razzisti.
Lo schema assomiglia molto a quello di Alba Dorata, che nel 2009 cominciò a raccogliere
voti e consensi operando nel centro di Atene sotto le mentite spoglie di sedicenti «Comitati
di cittadini». Con la scusa del «degrado», ad esempio, i neonazisti greci chiusero un parco
giochi ritenuto rifugio notturno per migranti e tacciarono di «estremismo» gli antifascisti. Da
lì in avanti, le aggressioni a migranti e militanti di sinistra furono all’ordine del giorno. Che
questa fosse la strategia a partire dalla periferie romane lo aveva anticipato nel corso di un
incontro dell’estrema destra del giugno scorso il leghista Mario Borghezio, garante
dell’alleanza tra Lega e CasaPound, invocando l’ex fondatore di Avanguardia nazionale
Stefano Delle Chiaie con l’appellativo di «comandante». «Perché non far breccia nel cuore
18
dei romani e organizzare noi delle iniziative per difendere la grande bellezza di questa
città, violentata schifosamente da quelli che l’hanno riempita di immigrati e di
immondizia?», disse Borghezio in quell’occasione.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 19/11/14, pag. 1/18
Aghi, sangue e pillole al veleno i bossimprenditori del Nord affiliati come un secolo
fa
ROBERTO SAVIANO
«IL NORD non conta niente senza la Calabria». Sono parole di Antonino Belmonte,
‘ndranghetista, ora collaboratore di giustizia. Belmonte si riferisce alle cosche che più si
allontanano dalla «mamma», il territorio originario, più perdono forza e autorevolezza,
sbandando. Potremmo prenderla anche come una sintesi perfetta della fase storica che
stiamo vivendo: sono i capitali delle mafie a tenere in piedi il residuo di imprenditoria
«sana» che ormai sta crollando; senza i capitali della criminalità organizzata immessi nel
tessuto economico l’Italia subirebbe una nuova deriva e le molte aziende del Nord che ora
sopravvivono e resistono sembrano prossime prede pronte ad essere fagocitate nel
sistema delle organizzazioni.
E in quel Nord che non conta niente senza la Calabria continuano a esserci inchieste ed
arresti. Speriamo che il governatore della Lombardia Maroni apra gli occhi, anzi li
spalanchi di fonte ai 40 arresti dell’operazione «Insubria», inchiesta alla quale hanno
lavorato Ilda Boccassini e i sostituti procuratori Paolo Storari e Francesca Celle, insieme ai
Ros. Per la prima volta in questa incredibile inchiesta vengono filmati e svelati i rituali di
affiliazione, ovvero i passaggi da una «dote», ossia una gerarchia, all’altra. È un punto di
non ritorno; non era mai stato visto prima. Certo si conoscevano parole e meccanismi, ma
non era mai stato visto e ascoltato prima. Quello che fino a oggi abbiamo immaginato, e
talvolta ricostruito in studio con attori, basandoci sulle deposizioni di pentiti, adesso ci è
dato vederlo così come avviene. Con le sue formule, i suoi tempi, le sue pause, i suoi volti
che tanto somigliano ai nostri.
Chi non conosce le regole ‘ndranghetiste non può dire di conoscere l’Italia. Perché
conoscere le gerarchie mafiose significa scoprire che esiste un’Italia organizzata in stretti
vincoli, doveri, responsabilità. Significa comprendere che questi doveri e queste
responsabilità sono feroci e criminali. Eppure, nonostante pericoli e ferocia, ci sono
centinaia di giovani che ambiscono a entrare nell’organizzazione perché seguire quelle
regole ti organizza e risolve la vita. Affiliarsi con la ritualità può sembrare un’usanza da
pastori, un cascame di villaggi sottosviluppati. Niente di più falso. Condivido l’analisi di
Isaia Sales che considera questi rituali direttamente mutuati dalle organizzazioni segrete
aristocratiche settecentesche e dal loro diritto di erogare violenza e sfuggire alla punizione.
Questi riti sono rimasti sostanzialmente immutati, salvo piccole variazioni, e vengono
celebrati da Sidney a New York, da Milano a Bovalino, da San Luca a Roma, da oltre
cento anni.
Non basta una stretta di mano o un contratto scritto, serve un simbolo. Puoi perdere amici,
lasciare la moglie, essere indifferente ai figli non vedere mai più genitori ma il simbolo è
immutabile e nutre sempre.
I gradi di affiliazione sono chiamati «doti» e sono come gradi militari. L’inchiesta mostra
come non sia semplicemente l’anzianità a decretare il passaggio da un livello gerarchico
all’altro. Anzi, soprattutto negli ultimi tempi, sembra che il merito e le effettive capacità
siano divenute requisito fondamentale. La struttura è divisa in due macro-aree: Società
20
Minore e Società Maggiore. Il primo grado di affiliazione nella Società Minore è detto
«picciotto» o anche «picciotto liscio». È la prima dote che riceve uno ‘ndranghetista e il rito
attraverso cui questa dote viene conferita di chiama «battezzo». Il secondo grado di
affiliazione si chiama «camorra» che è una dote della Società Minore e non c’entra niente
con l’organizzazione campana. Al terzo posto, nel punto più alto della Società Minore, c’è
lo «sgarro».
Poi l’entrata nella «santa» segna l’ingresso nella prima dote della Società Maggiore. La
dote superiore alla «santa» si chiama «vangelo», dopo il «vangelo» vengono il
«trequartino» e il «quartino ». Poi il «padrino» e la «crociata ».
Dopo la crociata ci sono una serie di doti la cui genesi è molto singolare. A crearle è stato
Carmelo Novella, il boss che storicamente tenta attraverso una astuta e complessa
strategia diplomatica di costruire una struttura autonoma della ‘ndrangheta al Nord. E
quindi la prima cosa che fa è costruire delle doti: «stella», «bartolo »,
«mammasantissima», «infinito » e «conte Ugulino» o «conte Agadino».
Personalità mitologiche o storiche che fungono nei rituali da «protettori» e segnano il
passag- gio da un grado di affiliazione a quello successivo. Appena entri, il rituale è
mediato da Osso, Mastrosso e Carcagnosso i tre cavalieri, nella leggenda scappati dalla
Spagna dopo aver ucciso il violentatore della loro sorella, e poi riunitisi a Favignana dove
costruirono le regole dell’Onorata Società.
Nell’ultima tappa della Società Minore, accompagnano al grado di «sgarrista», Minofrio,
Misgrizzi e Misgarro tre figure anch’esse mitologiche, i presunti assassini di San Michele
Arcangelo (tagliarono la testa all’arcangelo che poi è divenuto protettore della ‘ndrangheta
e allo stesso tempo della Polizia di Stato). Nella Santa invece, ovvero nella prima dote
della Società Maggiore, si entra con Garibaldi, Mazzini e Lamarmora, che vengono citati
nel video dell’inchiesta. Tre personaggi storici che hanno in comune l’essere stati capi
massoni — alle società massoniche le cosche hanno copiato il rito — e quindi, in qualche
modo, protettori di segreti: è un chiaro riferimento alla regola dell’omertà ma anche alla
possibilità di parlare con le istituzioni militari politiche e morali. Alla Società Minore è
vietato avere rapporti con “persone infami” ossia il politico, il rappresentante delle forze
dell’ordine, l’imprenditore che sono corruttibili per definizione. Un uomo che ha come
obiettivo carriera, soldi e proprietà è sempre comprabile. I boss nel rituale vogliono
formare uomini “diversi” dagli altri. E questa diversità è l’ambizione ad un potere assoluto e
conquistato. Ecco la loro onorabilità cosa è. I rituali avvengono secondo modalità precise e
alla presenza di oggetti dalla forte carica simbolica. Per entrare nella Società Maggiore si
utilizzeranno un limone, un ago, una pillola. Il limone rappresenta l’asprezza della vita
‘ndranghetista, oltre a simboleggiare la terra. L’ago è il fucile, ma anche la pungitura del
dito. L’ago rammenda ma fa uscire sangue, quindi determina una distinzione che nella
‘ndrangheta è fondamentale tra fratello biologico e fratello di sangue. Il sangue nelle
organizzazioni criminali è scelta, non una fatalità che ti manda il destino. Questo
smentisce qualsiasi luogo comune sulle mafie che le ritiene vincolate alla sola radice
famigliare: la famiglia è un contesto, il sangue è una scelta. La pillola è il veleno che dovrai
usare in caso di fallimento, di infamia. Perché il santista non avrà altro giudice che se
stesso. Dopo aver rinnegato il passato «per salvaguardare l’onore dei miei saggi fratelli»,
non resta che assumersi il compito finale, quello di giudicare se stessi e decretare il
proprio diritto a continuare a vivere o a morire. Crescere per uno ‘ndranghetista è
rinnegare tutti coloro che superi nel tuo percorso («giuro di rinnegare tutta la società
criminale da me finora riconosciuta», recita il rito). Se resti coerente con valori e persone
di un preciso stadio gerarchico (e sociale) resterai sempre al loro livello non ti innalzerai
mai.
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Perché chi non conosce le regole ‘ndranghetiste non può dire di conoscere l’Italia? Perché
gli è preclusa la conoscenza di una parte del nostro Paese, delle sue tradizioni e delle sue
regole che sono ferree, non eludibili, che non possono essere violate. Dall’altra parte c’è lo
Stato, dove non troviamo rigore, né continuità, né unità nel combattere il nemico criminale.
Tutto questo ci dovrebbe far riflettere. E tutto questo accade non nella estrema periferia
calabrese, ma nel profondo Nord, nelle province di Lecco e Milano: nulla di più
geograficamente lontano dall’Aspromonte. Questa che ci crediate o no, è la nuova
borghesia vincente del nostro paese.
del 19/11/14, pag. 18
“Rinnego tutto fino alla settima generazione”
Il giuramento dello ‘ndranghetista in Brianza
Nuovo colpo ai boss in Lombardia, 40 arresti. Video-shock
sull’iniziazione Il pm Boccassini: “Nella ridente Milano i riti antichi della
Calabria”
PIERO COLAPRICO
MILANO .
Un capanno isolato. Un rudere senza corrente elettrica. L’ordine preciso: «Datemi i
telefonini, li metto via io, avere in tasca un telefonino è come avere in tasca un carabiniere
». Eppure, anche laggiù nella campagna piatta e derelitta di Castello Brianza, invisibili,
c’erano i carabinieri, con le loro «trappole elettroniche» e la pazienza di chi, dopo notti e
notti d’appostamento, scova «il posto», quello dove «il nemico» si sente sicuro, e lo
«attacca». Una strategia militare, che avanza senza bisogno di pentiti, senza dover
«controllare» se i collaboratori dicono la verità o la mezza verità.
Se non si capisce questo concetto, anzi questo «metodo» (lo stesso che portò «Ultimo » a
catturare nel 1993 a Palermo Totò Riina), non si comprende sino in fondo il significato
dell’»operazione Insubria». Si è conclusa ieri con 37 persone in carcere, tre ai domiciliari,
e con la sorte giudiziaria di un minorenne «affiliato» alle cosche in mano al tribunale dei
Minorenni. Con accuse che vanno dall’associazione di stampo mafioso ad estorsioni e
armi.
È quel metodo, il «metodo Falcone», diventato il «metodo Boccassini», che può mostrarci i
sorprendenti e quasi incredibili (ma reali) video in possesso della procura di Milano, e da
ieri mattina già su Internet. Come la clamorosa sequenza del giuramento in diretta, in cui
«per la prima volta — spiega Ilda Boccassini, procuratore aggiunto, capo dell’antimafia
milanese — sentiamo la formula segreta dalla viva voce dei mafiosi protagonisti, e siamo
nella ridente Lombardia».
«Buon vespero e santa sera ai santisti... Giustappunto questa santa sera, nel silenzio della
notte e sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna, formo la santa catena! Nel nome
di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora, con parole d’umiltà — si sente recitare — formo la
santa società! Dite assieme a me: “Giuro di rinnegare tutto fino alla settima generazione”».
E poi: «D’ora innanzi lo conosco per un mio saggio fratello...(…) e sotto la luce delle stelle
e lo splendore della luna sformo la santa catena».
Parole d’umiltà (nientemeno), ma anche esoterismo e fratellanza, con sottintesa la paura,
come viene sintetizzato da un altro video che decreta la morte certa per chi si macchia di
«trascuranza grave»: se uno sbaglia, o usa il veleno (e quanti i suicidi in carcere), o si
22
tiene l’ultimo colpo della pistola: «Questo è per te». Frasi pronunciate in quelli che i
calabresi ritengono «luogo sacro, santo e inviolato ».
Politici e funzionari dello Stato, specie al Nord, e specie nel centrodestra, hanno
minimizzato il tema, evitando persino di pronunciare la parola ‘ndrangheta. Eppure,
«Insubria » altro non è che una costola dell’»operazione Infinito», che nel giugno 2008
riportava quest’intercettazione tra due boss: «Vedi che in Lombardia siamo venti “locali”!
Siamo cinquecento uomini, non uno». I «locali» sono i clan, le cosche. Li chiamano così gli
stessi ‘ndranghetisti. E di questi venti «locali» — attenzione — i pubblici ministeri
coordinati da Ilda Boccassini ne avevano sinora trovati e «segati» sedici. Ai quali sono da
aggiungere ufficialmente da ieri altri tre. A conti fatti, ne resta indenne uno? O più?
Certo, si spaccano la testa i detective del colonnello Giovanni Sozzo nell’interpretazione
delle carriere malavitose e delle frasi di «Pizzicaferro» e «Occhiazzi» (capi di
Calolziocorte); di «Melangiana» e «Gazzosa» o «Popon» (vertici di Cermenate); e di
Michelangelo Chindamo, di Fino Mornasco, diciannovesimo «locale» sgominato. Ma al di
là delle aule del tribunale è la «lettura» che proprio Chindamo fa di se stesso a sembrare
sociologicamente più forte di una sentenza: «Siamo sempre noi... non è che cambia, noi
non possiamo mai cambiare».
Frase talmente lapidaria che viene messa dal gip Simone Luerti in cima all’ordinanza di
875 pagine che approva (in larga parte) le richieste dei sostituti Paolo Storari e Francesca
Tecce. Tra gli arrestati, anche un imprenditore brianzolo, azienda di tubi: «Ti informiamo
— apprende un avvocato civilista sua controparte — che il debito nei miei confronti dei
220mila è diventato 270 mila per il troppo ritardo».
Sono lettere anonime come questa, con un corredo di incendi e pistolettate a circolare,
accanto alle mail, nell’operosa Lombardia. Trovare chi denuncia il racket era e resta però
difficile: «Con queste operazioni — dice il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati —
speriamo anche che chi subisce estorsioni si dia il coraggio di farsi avanti. Noi ci siamo».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 19/11/14, pag. 2 (Roma)
«Via il campo nomadi e il centro
d’accoglienza»
Le richieste al Campidoglio dei residenti di Tor Sapienza. Rissa tra
ragazzi all’Infernetto: 4 minori e un operatore feriti
Sembrava la giornata giusta per la mediazione ma è finita con una rissa tra i ragazzi
ospitati al centro di accoglienza per minori dell’Infernetto. A testimonianza del fatto che le
tensioni sul numero dei rifugiati e immigrati accolti nella capitale non tendono a scemare.
Dopo le notti di rivolta ieri Ignazio Marino ha incontrato in Campidoglio gli abitanti di Tor
Sapienza, il quartiere dove è avvenuto l’assalto al centro per rifugiati e minori.
«Valuteremo la possibilità di accogliere solo donne e bambini» dice il sindaco, e lo scrive
nero su bianco.
L’accordo, però, non è scontato. I residenti continuano a chiedere la chiusura del centro:
«Troppi immigrati, circa 1.600 nel raggio di un chilometro e mezzo. Con le occupazioni
abusive e il campo rom superiamo le 2.500 persone a rischio in una borgata degradata»
spiegano tre dei rappresentanti del quartiere, Elvio, Nuccia e Franco. Le trattive sono
aperte:«Su qualche cosa dovremo pure accontentarci» ammettono.
I residenti chiedono, infatti, un maggiore controllo del territorio. A cominciare dalla chiusura
del campo nomadi di via Salviati, vera spina nel fianco di una periferia già ferita da
illegalità, degrado sociale e occupazioni. «Studieremo le soluzioni possibili per superare la
logica del campo rom. E per l’immediato ci sarà un intervento deciso dei vigili per porre
fine ai roghi perché inquinano l’ambiente con fumi tossici» dice il sindaco che chiederà al
Prefetto un pattugliamento straordinario di tutte le zone di Tor Sapienza più colpite dalla
prostituzione e il controllo delle aree verdi dove periodicamente nascono baraccopoli.
Mentre le trattative proseguono la tensione non accenna a diminuire. Ieri sera verso le 21
all’Infernetto, dove sono ospitati 24 ragazzi provenienti da Tor Sapienza, è scoppiata una
rissa tra i giovani immigratigià ospiti della struttura di via Salorno e i nuovi arrivati che si
sono affrontati a colpi di bastone. Sul posto sono arrivati carabinieri, polizia e ambulanze.
Il bilancio è di 4 minori e un operatore del centro feriti. E davanti al centro si sono subito
radunati i residenti: «Ora basta» hanno gridato.
Carlotta De Leo
Valeria Costantini
del 19/11/14, pag. IV (Roma)
Trenta euro per ogni profugo
La mappa dei fondi per l’accoglienza
Oltre 5mila stranieri ospitati in città e nell’hinterland Dove sono le 24
strutture utilizzate per l’emergenza
ANNA RITA CILLIS CHIARA RIGHETTI
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PIANETA rifugiati. Dalla prima accoglienza nel Cara della prefettura ai posti finanziati dal
Viminale dello Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Una galassia,
quella dei richiedenti asilo, rifugiati, titolari di protezione umanitaria, che a Roma coinvolge
oltre seimila persone.
LA RETE DEL COMUNE
Sono quasi 2600 i richiedenti asilo e i rifugiati nelle strutture del Campidoglio. E spiega
Giovanni Impagliazzo, responsabile dello staff tecnico dell’assessorato alle Politiche
sociali: «Nell’ultimo anno, abbiamo fatto uno sforzo enorme per l’accoglienza di persone
richiedenti protezione internazionale già presenti sul territorio. Fino a un anno fa, i posti
disponibili a Roma nelle strutture comunali erano appena 150. Ma ci siamo resi conto che
in città già vivono migliaia di persone fuggite dai loro Paesi. Abitano sotto i ponti, nelle
case occupate, negli edifici abbandonati. Per questo abbiamo avviato un confronto con
Viminale, Anci, questura e prefettura e abbiamo deciso di fare uno sforzo in più».
L’ACCOGLIENZA RECORD
Con il bando nazionale dell’ottobre 2013, i posti disponibili nella rete del Comune, in
strutture gestite da enti dedicati come la Caritas e il Centro Astalli, sono passati da 150 a
2581, in 28 centri in tutta la città. La nuova stagione dell’accoglienza ha preso il via a
febbraio 2014, e si concluderà a fine 2016. La gestione dei centri è a carico del Viminale,
che riconosce per ogni ospite 30 euro al giorno che l’ente gestore utilizza «per vitto,
alloggio, screening sanitario, corsi d’italiano, biancheria». Un primo screening sanitario
viene fatto subito dopo lo sbarco, un secondo nel centro di riferimento; in più tutti gli
stranieri sono assistiti dalla Asl di zona. Ogni richiedente asilo o rifugiato può soggiornare
nei centri per un massimo di un anno. Se, durante questo periodo, la sua richiesta di
protezione viene respinta, viene allontanato. Diversamente, al termine della fase di
accoglienza riceve un documento con il quale può circolare nell’Unione europea e cercare
lavoro.
I CENTRI DELLA PREFETTURA
Fino a maggio, in provincia di Roma, la Prefettura si occupava solo della gestione del Cara
di Castelnuovo di Porto, che ospita circa 800 stranieri. Ma le cose, con l’operazione “Mare
nostrum”, che ha portato in Italia all’accoglienza di circa 140mila persone, sono cambiate
rapidamente. Dopo i massicci sbarchi dell’estate scorsa, anche Roma e il suo hinterland si
sono ritrovate a fronteggiare migliaia di nuovi arrivi. Perciò la Prefettura, ad agosto, ha
chiesto agli enti gestori dei centri della rete Sprar di allargare la disponibilità.
LE 24 NUOVE STRUTTURE
Negli ultimi sei mesi, si stima che nel Lazio siano arrivati circa cinquemila richiedenti asilo,
tremila solo tra Roma e l’hinterland; ma non tutti sono rimasti sul territorio. Un nuovo
bando ha quindi consentito alla Prefettura di aprire altri 12 centri nella capitale e altrettanti
in provincia, che accolgono ad oggi circa 2800 persone.
LE ZONE
I 12 nuovi centri a Roma sono distribuiti nei municipi IV, V, VI e IX, ovvero, in prevalenza,
nel versante est della città (tra le strutture inaugurate a settembre, tra le polemiche, anche
quella di Corcolle). Una “concentrazione” che dipende dalle cooperative che si
aggiudicano l’appalto per la gestione delle strutture, che spesso hanno la disponibilità di
palazzi in zone periferiche. Ma negli ultimi mesi, per motivi “ambientali”, la Prefettura ha
iniziato a non prendere più in considerazione i quartieri dove già ci sono altri centri di
accoglienza.
LA SPESA
Nel capitolato di spesa è previsto, per le cooperative vincitrici, un corrispettivo di 30 euro al
giorno per ospite. I bandi indicano i servizi che le cooperative devono erogare:
dall’assistenza all’orientamento, ai servizi di lavanderia e igiene. L’accoglienza prevede
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inoltre la mediazione linguistica, i trasporti, la fornitura di biancheria e abbigliamento, i
prodotti per l’igiene. Infine (sempre grazie ai 30 euro giornalieri) ogni straniero riceve circa
2,5 euro al giorno e una ricarica telefonica da 15 euro all’arrivo. A fronte dei costi, ogni
struttura ha un indotto notevole: solo nel Cara di Castelnuovo di Porto sono impiegate
circa cento persone.
del 19/11/14, pag. II (Roma)
Invisibili e ufficiali
Quei 10 mila rifugiati «nascosti» in periferia
La parola «rifugiato» può trarre in inganno: perché a Roma almeno in tremila vivono in
strutture occupate abusivamente (in qualche modo tollerate da Prefettura e Comune) che
somigliano più a grotte, baracche, nascondigli. Basta affacciarsi al palazzo Salaam, alla
Romanina: dentro c’è un po’ di tutto, i rifugiati e i clandestini, nuclei familiari, e ovunque
miseria e sporcizia, scarsissime condizioni igieniche. C’è chi racconta che per perfino i
cartoni per dormire si trasformino, quando fa buio, in posti letto da subaffittare. Secondo i
dati della Prefettura, al momento risultano assistiti a Roma, tra richiedenti asilo e rifugiati,
5.112 persone: 2.600 migranti nell’ambito del progetto Sprar (Sistema di protezione per
richiedenti asilo e rifugiati) e circa 1700 in strutture provvisorie che gestisce la Prefettura
tramite il ministero dell’Interno. Mentre ammontano a 812 i richiedenti asilo assistiti al
Cara. Poi ci sono i numeri non ufficiali che certo cambiano continuamente ma, in linea di
massima, si aggirano tra le tremila e le quattromila persone. I «rifugiati invisibili» vivono
nascosti in occupazioni, sia quelle storiche sia altre occasionali. Come detto, c’è il palazzo
Salaam alla Romanina (tra i 1200 e i 1500 abitanti di cui 20 nuclei familiari con minori)
prevalentemente provenienti dal Corno d’Africa; poi il palazzo Natnet sulla Collatina (non
lontano da Tor Sapienza): erano 700 l’anno scorso ora sono arrivati a più di 1000; una
baraccopoli vicino l’Aniene, in Via delle Messi d’Oro, a Ponte Mammolo, ospita tra le cento
e le duecento persone: tra queste, anche dei minori non accompagnati; l’ultima struttura è
quella di piazza Indipendenza, con qualche centinaio di persone. Naturalmente si tratta di
esempi: le micro comunità di rifugiati e richiedenti asilo sono sparse per tutta la città. Del
resto l’Italia nel 2014 ha registrato oltre 140 mila arrivi al ritmo di 15.000 alla settimana e
516 al giorno: oltre la metà degli arrivi proviene dalla Siria (più 400% rispetto al 2013) e
dall’Eritrea (più 600%). Moltissimi dall’Irak e dalla Somalia. I minorenni sbarcati in Sicilia —
quelli non accompagnati dai genitori — sono più di tremila. Così, di fronte a questi dati e
alla situazione complessiva della città, è evidentemente che quanto accaduto qualche
settimana fa a Tor Sapienza non ha rappresentato una sorpresa almeno per quelli che —
a volte per lavoro ma spesso da volontari — dedicano tempo all’accoglienza: in quella
zona c’è un campo rom fuori controllo, occupazioni spontanee di rifugiati sulla Collatina e
in un altro centro di accoglienza poco distante (il «Cara» di via degli Staderini) e poi è
arrivato un altro centro di accoglienza proprio nel cuore del quartiere. Il racconto che viene
da loro è semplice: «I rifugiati hanno un anno di tempo, sei mesi più sei mesi, poi devono
lasciare le strutture ufficiali. E una volta fuori dove credete che vadano?». Nelle strutture
occupate abusivamente, certamente: i più fortunati negli stabili, gli altri nelle baraccopoli.
Nascosti in tutta la città.
Alessandro Capponi
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 19/11/14, pag. 22
I politici colpevoli legge per legge
Vittorio Emiliani
Caro direttore, è di nuovo tragedia in Liguria, il Po fa paura, i fiumi veneti allarmano... Tutto
ciò conferma che questa è la vera, urgentissima priorità nazionale: salvare l’Italia e gli
italiani dallo sfascio del territorio. E invece, dopo anni (gestione Bertolaso) di
espansionismo fino a coprire i centenari dei Santi, oggi la Protezione civile difetta di
risorse pure per le urgenze più drammatiche; il governo in carica dirotta i fondi su nuovo
cemento e asfalto a tappeto, mentre si limita a promettere che cercherà di raschiare 2
miliardi di euro per la difesa del suolo. Ma soprattutto manca un quadro legislativo – e
quindi operativo – che connetta strettamente l’azione nazionale e quella regionale e locale
oggi disarticolata. Perché? Anzitutto per il mai risolto rapporto Stato-Regioni fra il
decentramento più spinto e il ritorno a una catena di comando che ridia un senso
“nazionale” ai problemi.
COMINCIAMO dall’abusivismo edilizio, fin dentro le golene e gli alvei, solo ora sottolineato
dal ministro Galletti. Si possono indennizzare gli abusivi che l’hanno potenziata
costruendovi? Si possono continuare a sanare, invece di abbatterli, quei fabbricati? Una
demenza diffusa che ha investito, a livello politico, a monte di tutto, anche i grandi Istituti
nazionali. Il nostro Paese disponeva di un efficiente Servizio Idrografico Nazionale, poi
smantellato con la regionalizzazione (per anni la Regione Lazio ha interrotto la secolare
preziosa statistica dei livelli di un fiume “pazzo” quale il Tevere). Il Servizio Geologico ha
realizzato “solo per il 40%” la Carta d’Italia, e non sta bene. Ancora peggio il Servizio
Meteorologico civile “mai istituito con legge nazionale”. Con Berlusconi, la Protezione civile
è straripata dai suoi già gravosi compiti, inglobando il Servizio Sismico Nazionale da cui
era stato cacciato, (ottobre 2002) per ragioni politiche il suo valido direttore Roberto De
Marco. Dissennata la vicenda della legge nazionale sulla difesa del suolo del 1989, la
numero 183, che un gruppo di idraulici e di amministrati rimpiange al punto da aver
costituito un “Gruppo 183” per studi e convegni: istituiva alcune Autorità di Bacino
nazionali (dal Po al Volturno), altre Autorità regionali e locali. Dovevano redigere i piani
idrogeologici su cui fondare dettagliati piani di graduale “ricostruzione”, dalla montagna e
dalla collina abbandonate al dissesto fino alla pianura invasa dal cemento abusivo, a
Olbia, nel Gargano, alla foce del Tevere. Sul modello della Authority del Tamigi che
riunisce i poteri di ben 11 mila enti. Essa traeva origine dal piano De Marchi (1970),
successivo al tragico 1966, che chiedeva 10 mila miliardi di lire in un decennio.
Inascoltato: così, per inseguire le continue emergenze, abbiamo speso almeno 6-7 volte
tanto. Approvati i primi piani di bacino, è cominciata la lotta di Comuni e Regioni “contro” di
essi. E la legge n.183 è stata di fatto svuotata dai particolarismi.
IL COLPO di grazia è venuto dal Testo Unico sull’ambiente (2006). Storia parallela a
quella della legge Galasso (1985) per i piani paesaggistici ignorati in alcune regioni
(Sicilia), tardivi e debolissimi in altre (Lombardia). Risuccede coi piani previsti dal Codice
per il Paesaggio: sinora la sola Toscana vi ha ottemperato fra bordate furibonde di cavatori
di marmo e costruttori. Il Titolo V della Costituzione varato nel 2001 per “catturare” la Lega
ha messo alla pari Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e infine Stato. Il caos.
Lo Sblocca Italia allenta o cancella controlli sul cemento e l’asfalto in un Paese dissestato,
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franoso, sismico. Dovremmo, da anni, istituire le Autorità di Distretto secondo le direttive
Ue e “nutrirle” con un vero Salva Italia (spesa prevista, 40 miliardi in quindici anni), fonte
oltretutto di migliaia di posti di lavoro certi, ma chi ci pensa?
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INFORMAZIONE
del 19/11/14, pag. 14
Emittenti locali al buio
Vincenzo Vita
Ri-Mediamo. La rubrica settimanale di Vincenzo Vita
Sedotta e abbandonata, l’emittenza locale. Corteggiata quando il sistema politico si
reggeva sul rapporto con il territorio, dimenticata quando la scelta delle leadership ha
preso ben altre strade di legittimazione. In verità, la crisi di oggi — legata al pasticciaccio
delle frequenze assegnate per il digitale nel 2012 e richieste indietro dallo Stato per via
delle interferenze con i paesi confinanti — ha origini nell’antichità, nel medio evo e nella
fase più moderna del sistema radiotelevisivo. Alle origini, dopo la sentenza della Corte
Costituzionale del 1976 che aprì il fortilizio del monopolio della Rai con l’apertura
dell’ambito locale ai privati, fu la luce, coperta rapidamente dalla concentrazione in poche
mani del potere. Fino all’(ir)resistibile ascesa della Fininvest di Berlusconi, seduta
rapidamente sulla poltrona del dominio: una poltrona per due, condivisa con un servizio
pubblico in gran parte omologato alle culture commerciali.
In pochi anni, insomma, il villaggetto globale italiano perse tutta la sua ingenuità, per
diventare un prepotente meccanismo di condizionamento o persino soggetto politico in
proprio. Fino alla Gasparri del 2004. Resa vana la concorrenza sul piano nazionale,
l’emittenza locale fu progressivamente sospinta verso le periferie dell’impero. Pochissima
pubblicità, risucchiata dai tentacoli del duopolio, assenza di ogni strategia finalizzata a
valorizzare la comunicazione locale: la pietra preziosa del mosaico, l’unica alternativa
fondata al risucchio della globalizzazione.
Decimate nella lunga traversata nel deserto, le stazioni private si sono ridotte un po’ di
numero, ma soprattutto hanno perso occupati — da ultimo 3/400 giornalisti, il doppio
almeno di tecnici, ma si legga il crudo rapporto della Slc Cgil e dell’Associazione Bruno
Trentin — e forza d’urto nel consumo di massa.
E sì, perché il passaggio alla diffusione digitale è stato gestito come una mannaia,
piuttosto che come l’avvio dell’età matura.
Tra l’altro, chissà quale bizzarra logica portò il governo Berlusconi (conflitto di interessi con
geometrica potenza) a preferire uno switch off spezzatino crucis piuttosto che la via
maestra del cambio di generazione tecnologica. Negli Stati uniti, l’amministrazione Obama
guidò la transizione — avvenuta per tutto il paese il 12 giugno del 2009 — con
determinazione, mettendo a disposizione squadre di volontari per aiutare i cittadini a
sintonizzarsi sui nuovi canali. No. Nella piccola Italia il caos regnò sovrano e a farne le
spese furono i soggetti deboli, i locali. Cui furono attribuite frequenze spesso di risulta o
persino prive del coordinamento internazionale.
Peggio, requisite salvo indennizzo (ma quanto e quando?) per far posto alle esigenze
dell’asta per i gestori di telecomunicazione. Quella che andò bene per le casse pubbliche,
in cui entrarono oltre quattro miliardi di euro dai rialzi. Non così è stato per la gara delle
frequenze televisive, praticamente fallita.
Tant’è che il sottosegretario Giacomelli avrebbe ipotizzato (?) di prelevare porzioni di
quella torta per dare qualcosa alle emittenti, che teoricamente dovrebbero restituire i propri
beni — pur assegnati per vent’anni nel 2012– entro la fine del 2014. Va ricordato che la
gara fu chiesta dall’Europa, per superare una procedura di infrazione tuttora in corso. Per
la mancanza di pluralismo, appunto. La radiofonia va un po’ meglio, e lì il digitale non ha
prodotto disastri.
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Ma il quadro è di allarme rosso. Complice il taglio dei fondi previsti dalla legge 448 del
1998 per il settore, il buio è anche a mezzogiorno.
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CULTURA E SCUOLA
del 19/11/14, pag. 35
Cultura e impresa
Così i Luoghi del cuore diventeranno di tutti
In questi giorni si presentano i risultati di 10 anni e 6 edizioni de «I Luoghi del Cuore»,
l’iniziativa del Fondo Ambiente Italiano (Fai). I numeri sono impressionanti: solo nell’ultima
di queste edizioni, un milione di italiani hanno indicato i luoghi che vorrebbero preservare e
128 tra questi luoghi hanno ricevuto più di 1.000 segnalazioni.
In Italia, quindi, sembra esistere una grande domanda di cultura, come peraltro in molti
altri Paesi. Nel Regno Unito, ad esempio, sono quattro milioni gli inglesi che ogni anno
finanziano il National Trust (NT) con 60 sterline (75 euro) a fronte di proventi complessivi
per circa 600 milioni di euro: una cifra enorme, se si pensa che gli iscritti al Fai sono
ancora 90 mila e i proventi ammontano a 24 milioni di euro.
Questi numeri dimostrano che negli altri Paesi la cultura, oltre a essere un fenomeno di
massa e non più di élite , è diventata un servizio per il quale i cittadini sono disposti a
pagare. La domenica, infatti, le famiglie inglesi preferiscono portare i figli nei siti del
National Trust piuttosto che nei centri commerciali e di conseguenza sono pronte ad
iscriversi all’Nt (e a finanziarlo). Non basta: ben 60 mila persone sono volontarie dell’Nt. È
utopico pensare che ciò possa avvenire anche da noi? Sinora gli italiani non sono stati
troppo disposti a pagare di tasca propria per la cultura: vivono in un museo gratuito, oltre a
frequentare scuole pubbliche e università con rette bassissime. Tuttavia non sembrano
contrari a pagare un biglietto per accedere a un’iniziativa culturale capace di suscitare
interesse. E lo dimostrano le lunghe code davanti alle biglietterie di alcune mostre.
Non sarà che l’avarizia degli italiani nello spendere per la cultura sia anche un effetto
dell’incapacità di valorizzare al meglio e rendere fruibili per il pubblico il nostro patrimonio
culturale? Una cosa è certa: fino ad oggi, in Italia l’attenzione si è rivolta soprattutto alla
conservazione e al restauro del nostro patrimonio, e non alla sua valorizzazione. I dibattiti
su Pompei e sui musei chiusi durante le feste vanno avanti da anni. Ma, a parte i soliti
problemi sindacali, la critica mossa allo Stato continua a essere quella di «non spendere
abbastanza per la cultura».
C’è sotto qualcosa d’altro e lo conferma il dibattito, oramai abusato, sul «marketing dei
beni culturali». Mentre i sostenitori della cultura d’ élite lo snobbano, chi lo sostiene ritiene
spesso che il modo migliore per introdurlo sia quello di importare manager dalla Procter
& Gamble o McDonald’s nei territori della cultura. Esperimenti clamorosamente falliti.
Non è solo un problema di marketing della cultura: il marketing dei detersivi non può
essere applicato tale e quale neanche ad altri settori, come l’alta tecnologia. Quando un
big della Procter & Gamble è stato assunto a capo della Apple, l’azienda ha rischiato
di fallire, mentre quando è stato sostituito da Steve Jobs sono nati l’iPhone e l’iPad. Il chief
marketing officer poteva essere solo Jobs, perché conosceva a fondo il prodotto e la
tecnologia .
Chi si occupa di marketing della cultura non può quindi non avere fatto studi seri di storia
dell’arte, architettura, archeologia (ma anche di filosofia e geografia: Fiona Reynolds che
ha guidato l’Nt per dieci anni è geografa). Ma questi studi sono stati integrati con
esperienze sul campo che hanno consentito di acquisire competenze di marketing. Per
esempio, fondamentale è capire quali tipi di visitatori possano essere interessati
all’esperienza specifica di un sito: famiglie con bimbi o persone curiose dell’arte? Sportivi
alla ricerca di un weekend fuoriporta o stranieri? Così come è decisivo concepire un
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allestimento coerente con le esigenze di chi lo deve visitare, come ha fatto il Fai quando
ha realizzato al castello di Masino un percorso per i bambini che attirasse scuole e
famiglie.
Essere veri «imprenditori della cultura» significa poi esplorare continuamente nuove strade
per chiamare i visitatori o farli tornare con temi legati all’attualità. In questi giorni, il sito
dell’Nt propone lezioni su geroglifici letti attraverso tecnologie digitali, nel luogo dove c’è
Philae, l’obelisco egizio che ha dato il nome alla sonda della navicella spaziale Rosetta,
appena atterrata su una cometa. E significa anche saper comunicare, usando la potenza
multimediale: come ha fatto Piero Angela trasformando i sotterranei di palazzo Valentini.
E, infine, occorre saper leggere i numeri, le ricerche di mercato, i costi e il budget,
conoscere il project managemen t di cantieri complessi, saper motivare il personale e
lavorare in team.
Per avere anche da noi questo tipo di leadership i profili dei sovrintendenti dei musei
dovranno assomigliare più ai curatori del Moma o del British Museum, ai manager locali
del National Trust e del Fai, che a funzionari super esperti in storia dell’arte e restauro.
Solo così potremo passare dai «luoghi del cuore» ai «luoghi per la gente».
Roger Abravanel
meritocrazia.corriere.it
del 19/11/14, pag. 47
Franco Fortini, un utopista civile estraneo alle
seduzioni del tempo
A vent’anni dalla morte, il profilo di un poeta e intellettuale poco
ortodosso
Roberto Galaverni
La poesia di Franco Fortini non ha mai avuto il suo tempo. Non l’ha avuto lungo il corso
della vita del poeta, e non l’ha nemmeno oggi, a vent’anni dalla sua scomparsa. Il tempo
atteso, promesso, scommesso da questa poesia potrebbe anche non venire mai. Certo è
che l’adempimento dell’utopia rivoluzionaria appare oggi, se mai possibile, anche più
arduo e lontano di quanto non apparisse a Fortini, che pure già lo poneva dietro la curva
delle cose visibili. Ma il fatto è che il suo verso vive proprio dell’essere in discontinuità col
presente, fuori tempo, perfino al di là della storia. L’anacronismo coincide con la vitalità,
con la presenza stessa dell’opera poetica di Fortini. Ne costituisce, in sostanza, la
giustificazione. Così, se non è mai il tempo della sua poesia, è però sempre il tempo per la
sua poesia. Questo è il suo paradosso originario, e non può essere sciolto.
Del suo marxismo non ortodosso e non confessionale, sensibile a contenuti religiosi
anch’essi sbilanciati verso l’eresia, Fortini è riuscito a dare un perfetto equivalente
espressivo. Ciò significa che come accade con ogni vero poeta la sua forma dice
altrettanto se non più dei contenuti espliciti. La sua assoluta non complicità con una storia
inadempiente quanto a giustizia, eguaglianza, verità, si è infatti determinata in una poesia
non solo estranea a ogni sorta di novecentismo poetico, ma, anche più profondamente,
cioè a partire dalle particelle costitutive del discorso poetico, in un sentimento della lingua
e in una pratica del verso ostili a ogni immediatezza, comunicazione diretta, naturalezza
espressiva. Così, se da un lato ha inteso la poesia come istituzione, codice poetico,
specializzazione linguistica già data e in quanto tale impersonale e oggettivabile, se ha
prediletto modi indiretti della rappresentazione quali l’allegoria e la parabola, dall’altro lato
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ha come devitalizzato la propria lingua, sottraendola alla sfera dei sensi e delle percezioni
come ai più inaffidabili veicoli della conoscenza, in favore dei procedimenti anch’essi
indiretti del pensiero e della mediazione intellettuale. Discontinuità, distacco,
distanziamento, di contro al contatto diretto con la materia del mondo.
Sembrerebbe fare eccezione la vista, perché Fortini è in larga misura un poeta del vedere,
ma non è così. Si tratta infatti di un vedere della mente piuttosto e prima che degli occhi.
«Se al vuoto anzi tempo mi volgo / ricolmo rientro dal vuoto. / Quando pratico col niente /
torno, il mio compito, a saperlo», scrive in una tarda imitazione Da Brecht, ovvero dal più
importante dei suoi maestri di poesia. Fortini è un poeta che vede soltanto al buio. La sua
vista, voglio dire, per entrare in azione non dev’essere impedita dal mondo
immediatamente circostante nella sua particolarità e finitudine irriducibili. Il presente non
viene attraversato, ma è un ostacolo in cui s’inciampa per saltare al di là. Cecità e visione,
di conseguenza, fanno tutt’uno. Di qui, un po’ come per Luzi, anche se a partire
ovviamente da fondamenti diversi, deriva il suo sguardo categoriale, sub specie
aeternitatis. Non questo o quell’uomo, ma gli uomini; non questo o quel giorno della vita,
ma il significato tutto della Storia universale. Di qui, anche, le sue tipiche inversioni
temporali. Non a caso il suo tempo più congeniale non è propriamente il futuro, ma il futuro
anteriore, vale a dire, alla lettera, il futuro che viene prima: prima del paesaggio o delle
persone che vediamo ogni giorno aprendo la finestra, prima delle cose appoggiate sulla
tavola, prima della cosiddetta realtà. Il che, a ben vedere, costituisce un’azzardata,
sbilanciatissima e oltremodo propizia condizione di poesia.
«La mia grinta mortuaria, di ghiaccio-represso», così Fortini parlava di sé in una lettera a
Pasolini. È difficile immaginare una definizione più precisa anche per la sua poesia. Il
rigorismo etico e politico, infatti, si converte qui in un autentico rigor mortis espressivo.
«Proteggete le nostre verità», chiede nella sua ultima raccolta di versi, Composita
solvantur. A sua volta, per preservare quelle stesse verità, Fortini ha come fermato il cuore
della lingua. L’ha congelata, imbalsamata, resa impermeabile e durevole in attesa del
tempo del disgelo, di una nuova e ultima primavera. Fredda e dura come il ghiaccio o
come il marmo per le epigrafi cimiteriali, questa poesia è stata scritta per essere usata ma
non consumata.
In ogni senso, non è dunque una poesia fatta per i consumatori. Proprio per questo non
avrà mai il suo presente; per questo, anche, non potrà mai sciogliersi come neve al sole.
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ECONOMIA E LAVORO
del 19/11/14, pag. 6
Jobs Act, intesa sui licenziamenti reintegro
soltanto in pochi casi
Sciopero Cgil-Uil, no della Cisl
Emendamento del governo sui provvedimenti disciplinari, un decreto
dirà chi va a casa e chi resta Renzi: l’accordo non toglie diritti ma alibi.
La protesta non sarà il 5 dicembre, si cerca una nuova data
ROBERTO MANIA
ROMA .
Sciopero generale separato: lo faranno Cgil e Uil ma non la Cisl. La Uil, che proprio oggi
aprirà i lavori del sedicesimo congresso confederale, con il passaggio del testimone da
Luigi Angeletti a Carmelo Barbagallo, ha rotto gli indugi e ha proclamato lo sciopero contro
le politiche del governo. La data dell’astensione generale sarà fissata oggi ed è quasi
scontato, a questo punto, che non sarà più il 5 di dicembre, giorno scelto in precedenza
dalla Cgil di Susanna Camusso. Cadrà comunque nella prima decade del prossimo mese.
Scenario sindacale del tutto inedito, dunque, nel giorno in cui la maggioranza di governo
ha formalizzato l’intesa definitiva sul Jobs Act con la condivisione dell’emendamento sulla
riforma del lavoro che ritocca l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, limitando la
possibilità del reintegro nei soli casi di licenziamento discriminatorio e in alcune fattispecie
(le fisserà il prossimo decreto delegato) di licenziamenti disciplinari, cioè nella stragrande
maggioranza dei licenziamenti individuali. In tutti gli altri casi (sempre comunque nei
licenziamenti economici) scatterà il risarcimento monetario (esentasse se si sceglierà la
strada della conciliazione) il cui ammontare crescerà con l’anzianità di servizio del
lavoratore. Contro l’emendamento hanno votato tutte le opposizioni che, subito dopo, in
segno di protesta per come la maggioranza e il governo hanno gestito la discussione,
hanno abbandonato la Commissione Lavoro. «Un voto contro l’autodelega di Renzi e
Sacconi, un gesto simbolico molto forte contro lo scempio del Jobs Act», ha sintetizzato il
parlamentare di Sel Giorgio Airaudo.
Il nuovo segretario generale in pectore della Uil, Barbagallo, ha voluto dare un segno di
discontinuità rispetto alla precedente gestione. Non più l’asse preferenziale con la Cisl ma
una sorta di strategia con alleanze a geometria variabile. E la risposta indiretta anche alla
mobilitazione sindacale è arrivata dal premier, Matteo Renzi, attraverso la sua e-news.
«Quando la cortina fumogena del dibattito si abbasserà, vedrete che in molti guarderanno
al Jobs Act per quello che è: un provvedimento che non toglie diritti, ma toglie solo alibi.
Toglie alibi ai sindacati, toglie alibi alle imprese, toglie alibi ai politici».
I tempi per l’entrata in vigore dell’ennesima riforma del mercato del lavoro saranno
strettissimi. L’accordo di ieri dovrebbe consentire un rapido esame parlamentare.
L’obiettivo è quello di far approvare la legge dalla Camera entro il 26 di novembre. Se si
dovessero allungare i tempi il governo ricorrerà al voto di fiducia. Poi il testo passerà al
Senato per la terza lettura visto che nella versione approvata a Palazzo Madama non c’era
alcun cenno alla ristruttura dell’articolo 18.
Per il Jobs Act è stato azzerato il periodo di vacatio legis (quindici giorni), così da
consentire al governo di varare entro 30 giorni i decreti delegati attuativi. In questo modo,
fin da gennaio, si potranno assumere lavoratori con il contratto a tutele crescenti sostenuto
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dai forti incentivi fiscali (il taglio dell’Irap sul costo del lavoro) e contributivi (cancellati per i
primi tre anni).
Nella stesura dei decreti delegati, il Parlamento sarà sostanzialmente estraneo. Il pallino
sarà in mano al governo e in particolare ai tecnici di Palazzo Chigi. Non c’è dubbio che la
formulazione contenuta nella delega, con l’emendamento presentato ieri dal
sottosegretario al Lavoro, Teresa Bellanova, restringa già in partenza i casi nei quali è
possibile il ricorso all’istituto del reintegro per i licenziamenti disciplinari. L’emendamento è
stato ritoccato fino all’ultimo. Alla prima versione che prevedeva il diritto al reintegro nei
casi di licenziamenti nulli e discriminatori e «a talune specifiche ipotesi di licenziamento
disciplinare ingiustificato », è stata preferita quella meno generica che parla di «specifiche
fattispecie» anziché ipotesi. Il governo punta a limitare al massimo il reintegro nei casi di
licenziamenti disciplinari e, nello stesso tempo, di ridurre i margini di discrezionalità da
parte del giudice. Superando in questo modo anche i difetti che secondo i giuristi
conteneva l’ultima versione dell’articolo 18, quella introdotta con la legge Fornero del
2012.
del 19/11/14, pag. 9
La svolta soft di Bruxelles verso il sì alla
nostra Finanziaria no di Juncker a nuove
richieste
ALBERTO D’ARGENIO
ROMA .
Si va verso il via libera europeo alla manovra del governo Renzi. Il grande giorno per
l’economia dell’Unione sarà lunedì, quando la Commissione guidata da Juncker emetterà
le opinioni sulle Finanziarie dei Paesi dell’eurozona e approverà il piano di investimenti da
300 miliardi, oltre a un documento sul funzionamento della governance della moneta unica
e il “Growth annual survey”, il rapporto sulle priorità economiche dell’Unione per il 2015.
Messo insieme, il pacchetto potrebbe segnare una svolta nella gestione dell’economia da
parte di Bruxelles. Se non si esclude che vengano messi nero su bianco anche alcuni
elementi della flessibilità, in molti ai aspettano che il big bang di lunedì possa riequilibrare
il rapporto tra falchi del rigore e colombe.
Dell’intero pacchetto destinata a fare notizia, almeno in Italia, è l’opinione sulla legge di
Stabilità. A fine ottobre non era stata rimandata al mittente grazie ad un accordo tra Renzi
e la Commissione con il quale il governo ha corretto il deficit strutturale solo di 0,2 punti
decimali. Ora arriva il giudizio definitivo. Inizialmente a Bruxelles circolava l’ipotesi di
chiedere una ulteriore correzione dello stesso importo, circa 3,3 miliardi, accompagnata da
un early warning sul debito, il primo passo di una procedura di infrazione che avrebbe
potuto commissariare l’Italia e tracciare un percorso di risanamento socialmente e
politicamente esplosivo. Almeno questa era la linea dei due vicepresidenti della
Commissione, Katainen e Dombrovskis. Ma il presidente Juncker, insieme al suo vice di
maggior peso, l’olandese Timmermans, ha avocato a sé tutti i dossier e al momento
sembra prevalere una linea più morbida.
La stessa che Juncker ha fatto intuire a Renzi nella bilaterale a margine del G20 di
Brisbane: nessuna bocciatura e nessun early warning , ma un via libera condizionato. Non
a caso ieri Padoan diceva: «Mi aspetto che sarà riconosciuto lo sforzo qualitativo sul
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bilancio e sulle riforme». L’opinione della Commissione sulla manovra dovrebbe limitarsi a
contenere una serie di raccomandazioni che picchieranno sulla necessità di portare a
termine le riforme e sui rischi legati al deficit e al debito, ma niente di vincolante. In pratica
si dovrebbe rinviare tutto a marzo, quando Bruxelles pubblicherà le nuove previsioni
economiche e tirerà le somme: sarà allora che si deciderà se procedere o meno contro
l’Italia. Questo lo scenario anche se, avvertono fonti Ue, fino a lunedì nulla può essere
dato per scontato: «Dobbiamo trovare un equilibrio tra tutti i giudizi, ad esempio tra quello
sull’Italia e quello sulla Francia, e tra le avverse condizioni economiche e la credibilità delle
regole, ma andiamo verso un’interpretazione flessib ile», confermava ieri un commissario
di peso parlando a taccuini chiusi. Dunque per l’Italia si va verso il via libera. Non solo
perché Juncker è indebolito dallo scandalo Lux-Leaks, ma anche perché i bilanci nazionali
saranno esaminati nel 2015 alla luce del nuovo pacchetto di regole in preparazione.
Ecco perché saranno fondamentali gli altri documenti che Bruxelles sfornerà lunedì, al
momento ancora in fase di gestazione, come testimonia l’eccezionale maratona alla quale
saranno sottoposti nel fine settimana i capi di gabinetto dei 28 commissari Ue chiamati a
finalizzare l’intero pacchetto. Nel quale il piano da 300 miliardi per rilanciare l’economia
avrà un ruolo fondamentale. Non ci sarà denaro fresco dai governi, ma qualche decina di
miliardi proveniente dal bilancio dell’Unione che ricapitalizzeranno la Banca europea degli
Investimenti che a sua volta con l’emissione di project bonds li moltiplicherà.
Centrale sarà anche il ruolo dei privati, che dovranno co-finanziare i progetti scelti da
Bruxelles tra una rosa di proposte che i governi dovranno selezionare entro dicembre. I
300 miliardi verranno indirizzati in questi settori chiave: innovazione ed economia digitale,
energia e trasporti, educazione, salute, ambiente, servizi urbani e risorse naturali. Infine il
rapporto sul funzionamento della zona euro, premessa di un lavoro più ampio al quale
parteciperà anche Draghi che Juncker porterà al summit europeo di dicembre.
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