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Questione di grammi
di Patrizia Rocchi
“Ti va un piatto di spaghetti a casa mia?”. “Perché no, non ho mangiato quasi niente”, mentre lo dico non credo alle mie orecchie. Lo conosco appena, so solo che si chiama Mario, che è ingegnere e lavora con Giacomo. E che guida troppo veloce e in macchina non fa fumare. Neanche fosse ‘sto gran figo. Una volta, forse. D’accordo, gli anni sono passati anche per me. Abita nello stesso comprensorio di Nanni Moretti, nel cortile è posteggiata la mitica vespa. Casa piccola e arredamento spartano, ma terrazza clamorosa. Molto radical chic. “Ti serve una mano?”, dico così, tanto per educazione. “No, non ti preoccupare, esci pure a fumare questa benedetta sigaretta”. Ecco fatto, non si può fumare neanche in casa. Il panorama è mozzafiato, mi siedo su una poltroncina di vimini mentre lui armeggia in cucina con una vecchia bilancia. “Sai, è quella dove pesavo i miei figli quando erano piccoli. Tu quanta pasta mangi?”, mi urla dall’interno. “Come dici? Intendi quanti grammi? Beh, non saprei, di solito faccio ad occhio. Dai, ti aiuto almeno ad apparecchiare”. Tanto preciso, ma non sa dove la colf ha messo le tovaglie. “Uso i sottopiatti arancioni che stanno sulla credenza?”, taglio corto dopo una breve ricerca, è l’una di notte e non so perché sono qui. Vada anche per gli ottanta grammi di spaghetti e per i sette minuti di cottura. Il pesto poi l’ha fatto la figlia con ingredienti naturali! “Come va tra te e Giacomo?”, me lo chiede quasi subito, mentre mangiamo in terrazza. Buona la pasta e ottimo il vino, devo ammetterlo. “Mah, non so che dire, non è proprio una storia”. “Conosco bene Giacomo e poco te, ma non mi sembra che abbiate molto in comune”. “Lo so. Neanche l’età”. “No, non volevo dire questo, non ti mettere sulla difensiva”. “L’età conta, non è questione di difensiva”. “Allora io e te abbiamo qualcosa in comune”, mi guarda fisso negli occhi mentre lo dice. Lo guardo anch’io, e lo vedo davvero per la prima volta. E’ alto e magro, stempiato, diciamo quasi calvo. Lineamenti delicati e aria piuttosto aristocratica. Non è male, anche se io preferisco quelli, che ne so, ‘più stropicciati’. “Infatti sono qui”, dico sorridendo. “Sì, lo vedo, ma credo che te ne andresti volentieri a casa”. “Sono un po’ stanca, in effetti”, veramente non sono mai stata così sveglia. “Ancora due chiacchiere e un bicchiere di vino e poi ti riaccompagno”. Mi sistemo meglio nella poltroncina di vimini. Forse la serata non finisce qui. Si mette a raccontare nei minimi dettagli del suo divorzio e dei figli che si fanno vedere poco. Io mi limito ad ascoltare, e le due chiacchiere diventano presto un monologo. Ho sviluppato da tempo una teoria: è difficile relazionarsi con i coetanei, dopo una certa età. Gli uomini hanno paura di invecchiare e di diventare impotenti. Le donne ne hanno viste tante, e non hanno più la voglia e la pazienza di scendere a compromessi. Viagra vs Xanax, nessun punto d’incontro. “Ti faccio vedere lo studio che ho ricavato di sopra”, dice all’improvviso. Bisogna salire per una scala a chiocciola, e ho pure i tacchi alti. Lo studio in sé è poco interessante, una stanza piena di computer e dispositivi elettronici vari. Ma adesso siamo proprio in alto, la vista su Roma è a trecentosessanta gradi. “Guarda, laggiù sulla destra c’è il terrazzo di Moretti”. Un terrazzo piuttosto abbandonato, una sola sedia a sdraio e pochissime piante, neanche rigogliose. Mi torna in mente una scena di ‘Bianca’, quella del vaso buttato di sotto. “Ho la raccolta di tutti i suoi film. Ti va se ne vediamo uno?”. “Magari un pezzetto, per esempio di Bianca”, dico seguendo il filo del mio pensiero. “L’ho rivisto ieri, ti dispiace sceglierne un altro?”. “Allora ‘La messa è finita’, così mi godo Ventotene”. E’ decisamente organizzato, quasi maniacale, ha anche un megaschermo che scende dal soffitto. Si siede su una poltrona rossa, credo una Frau, e a me lascia un divano scomodo, ma di fronte allo schermo. Non so se interpretarlo come un gesto di cortesia. Comincia la proiezione, seguo in silenzio l’inizio, e mi perdo nei miei ricordi guardando Ventotene. “Mi dispiace dirlo, ma il film è un po’ datato, non credi?”, commento dopo una decina di minuti. Nessuna risposta. Mi sporgo dal divano e vedo Mario abbandonato nella poltrona. Lo chiamo un paio di volte, a voce sempre più alta, niente. Mi prende il panico, sta lì immobile, sembra proprio morto. Che situazione, è notte fonda, non so neanche il suo cognome, devo chiamare l’ambulanza, forse la Polizia, penso ai titoli dei giornali: “Ingegnere sessantenne muore in circostanze poco chiare. Strani giochi erotici con una coetanea appena conosciuta?”, e per un attimo mi viene voglia di scappare alla chetichella. Invece mi alzo, lo osservo da vicino, mi sembra che respiri, lo scuoto per un braccio. “Oddio, scusa, mi sono addormentato”. Non si meraviglia più di tanto, mi sa che è una situazione normale. Almeno per lui. “E’ tardi. Chiamo un taxi”, a questo punto me ne voglio solo andare. “Non se ne parla, ti accompagno io. Scusa ancora, è che sono sotto psicofarmaci, da un anno a questa parte”. Forse era meglio se prendeva il Viagra. “Mi dai un’altra chance, uno di questi giorni? E’ uscito il nuovo film di Woody Allen”, arriva in tarda mattinata il suo sms. “Va bene. Ti chiamo presto. Grazie per la cena”, non voglio infierire, è chiaramente in difficoltà. Magari uno spettacolo pomeridiano… “Che fine avete fatto tu e Mario ieri sera? Mi devi dire qualcosa?”, segue a ruota il messaggio di Giacomo. Ne avrei di cose da dire, eccome, ma non rispondo. Mi chiama sul cellulare. “Guarda che quello non ci sta con la testa, da quando ha divorziato”, è preoccupato, lo capisco dal tono. “Con me è stato gentile, mi ha invitato a cena a casa sua”, in fondo è la verità, un po’ edulcorata. “E di che avete parlato? Dei Beatles?”, direi che è anche arrabbiato. “No, abbiamo visto un vecchio film di Moretti”, visto, si fa per dire. “Grandioso. Sai che palle!” “In effetti. Mario si è addirittura addormentato. Ho avuto paura che fosse morto”. Scoppiamo a ridere tutti e due, senza riuscire a fermarci. E’ la cosa che mi piace di più del rapporto con Giacomo. Mi porta a sdrammatizzare e mi diverto. Certo lui nel sessantotto non era ancora nato, Berlinguer lo conosce solo dai filmati, preferisce gli U2 ai Beatles, nella sua libreria non c’è l’opera omnia di Freud, non ama tout court Nanni Moretti o Kurosawa, fuma e non abita nel centro di Roma. Viene da un paesino della Sicilia, ha faticato a laurearsi, ha un lavoro ancora precario, legge di tutto, anche Fabio Volo, e non se ne vergogna. “Io vado al pub questa sera. Che fai, mi raggiungi?”, ha ripreso la sicurezza di sempre. “Perché invece non vieni da me? Ti faccio gli spaghetti con il pesto. Quanti grammi di pasta mangi?”, lo dico ridendo, anche se lui non può capire la battuta. “Ma che cavolo dici? Fanne quanti ti pare!”, evviva, al diavolo l’età e le esperienze condivise.