malesia - Aiuto alla Chiesa che Soffre

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malesia - Aiuto alla Chiesa che Soffre
MALESIA
La Costituzione sancisce la laicità dello Stato e, all’art. 11, protegge e garantisce il diritto
inviolabile alla libertà religiosa. Tuttavia, l’Islam resta la religione ufficiale e permane il sistema
giudiziario a doppio binario che legalizza i tribunali islamici (le Corti della Shari’a, ndr) e
garantisce loro ampi poteri e svariati campi di intervento. Le Corti islamiche, in teoria, non
hanno potere decisionale sui non musulmani, ma questi giudici possono decidere di questioni
riguardanti matrimoni, eredità, divorzi, custodia dei bambini, riti per la sepoltura dei cadaveri e
altri fattori che finiscono per interessare anche i non musulmani, provocando tensioni interreligiose. La Carta fondamentale dello Stato stabilisce alcune restrizioni alla pratica del culto
che, sommate alle leggi ordinarie e alle politiche repressive, finiscono per limitare – in alcuni
casi, in maniera evidente e massiccia – il libero esercizio della propria fede, soprattutto se essa
è tra le dottrine bollate come «eretiche» dall’Islam ufficiale. In totale, sono 56 le interpretazioni
considerate «devianti» della fede musulmana; le autorità le considerano fonte di pericolo «per
la sicurezza nazionale» e potenzialmente atte a dividere la comunità islamica. Fra i gruppi al
bando vi sono gli ahmadi, gli islamailiah, gli sciiti e i bahai.
Limiti legali alla libertà religiosa
La Costituzione riserva al governo federale e ai governi dei vari Stati che costituiscono la
nazione, il potere di «controllare o restringere la diffusione di dottrine o fedi diverse, fra
persone che professano la religione islamica». Essa definisce, inoltre, l’etnia malay come
musulmana. Da segnalare che i tribunali civili, in genere, cedono la giurisdizione alle Corti della
Shari’a sui casi riguardanti conversioni dall’islam ed esse non sono certo propense a giudicarli
con favore. I musulmani non possono convertirsi a un’altra religione, ma è lecito il contrario. I
funzionari centrali e delle amministrazioni locali controllano le attività di culto e, a volte,
influenzano il contenuto dei sermoni, utilizzando le moschee per diffondere messaggi politici e
impedendo ad alcuni imam di esprimersi pubblicamente nei luoghi di culto. In ogni caso,
permane la tendenza a considerare l’Islam al di sopra delle altre religioni riconosciute dal
diritto.
Le minoranze, in genere, sono libere di praticare il culto anche se – negli ultimi anni –
aumentano le denunce che riferiscono di un passaggio graduale dal tribunale civile alle Corti
islamiche. Il fenomeno riguarda in particolare la legislazione che riguarda la famiglia, nelle
controversie che vedono opposti un musulmano e un non-musulmano. Per le minoranze
permangono ancora limitazioni alla libertà di espressione della fede e del culto, unite a
restrizioni nello sfruttamento delle proprietà, terreni e beni immobili. Fra questi, vi sono anche
pubblicazioni cristiane in lingua malay – con il controverso caso della parola “Allah” per definire
il Dio cristiano – e il divieto di proselitismo dei non musulmani in seno alla comunità islamica.
Dalle cronache emerge che vi sono ancora abusi o discriminazioni basate sull’appartenenza
religiosa, il credo professato o la pratica di culto.
Infine, per quanto concerne le festività tradizionali e i giorni di riposo, pur fra crescenti
polemiche la domenica – per tradizione associata alla festa cristiana – resta ufficialmente il
giorno in cui non si lavora nei Territori federali e in 10 dei 13 Stati che compongono la nazione, a
dispetto di quanto avviene nei Paesi musulmani del Medio oriente. Fanno eccezione gli Stati di
Kedah, Kelantan e Terengganu, dove il fine settimana cade al venerdì e al sabato. Molte le
festività riconosciute e celebrate in via ufficiale, fra cui: le ricorrenze musulmane di Hari Raya
Puasa, Hari Raya Haji e il compleanno di Maometto; il Wesak buddista; la festa Deepavali e
Thaipusam indù; il Natale cristiano e, negli Stati Sabah e Sarawak, il Venerdì Santo.
Rapporti diplomatici fra Santa Sede e Malaysia
Per quanto concerne la comunità cattolica, l’evento più significativo del 2011 è stato il
riconoscimento di rapporti diplomatici fra la Santa Sede e Kuala Lumpur, ufficializzato il 27
luglio a pochi giorni di distanza dalla visita in Vaticano compiuta dal Primo Ministro Najib Bin
Abdul Razak. La Santa Sede e la Malaysia, «desiderose di promuovere legami di mutua
amicizia», hanno deciso di comune accordo di stabilire relazioni diplomatiche, come emerso
dalla visita del Premier malaysiano a Benedetto XVI di metà luglio. I rapporti, viene specificato
nel Documento vaticano, saranno al massimo livello di nunziatura apostolica da parte della
Santa Sede e di ambasciata da parte della Malaysia. All’indomani dell’incontro fra Papa
Ratzinger e Najib Bin Abdul Razak era stato diffuso un comunicato in cui si parlava di «cordiali
colloqui» nei quali «sono stati evocati i positivi sviluppi nei rapporti bilaterali e si è concordato di
stabilire le relazioni diplomatiche tra la Malaysia e la Santa Sede».
Al momento dell’ufficializzazione delle relazioni diplomatiche, l’«Agenzia Fides» ha interpellato
padre Lawrence Andrew sj, sacerdote di Kuala Lumpur ed ex-direttore dell’«Herald Malaysia»
autorevole settimanale cattolico dell’arcidiocesi della capitale. Il sacerdote ha confermato che
avere un nunzio apostolico stabile a Kuala Lumpur, potrebbe avere molte conseguenze positive
sulla Chiesa e su tutta la comunità cristiana perché «miglioreranno le comunicazioni fra il
Governo e la Chiesa. Inoltre è per noi cristiani l’opportunità di diventare visibilmente una
grande “banca morale”, cioè un punto di riferimento per la moralità, per la diffusione e la tutela
dei valori, per la lotta a corruzione, abusi e gli altri mali che affliggono la vita nazionale». La
Chiesa, ha aggiunto il sacerdote «continuerà a essere se stessa e a difendere i valori
fondamentali come la dignità della persona e la libertà religiosa» e in tal modo contribuirà «allo
sviluppo del Paese.Le maggiori questioni che ci riguardano – sottolinea infine – restano sul
tavolo: l’uso del termine Allah per i non musulmani, la libera circolazione delle bibbie, la
battaglia per l’eliminazione della pena di morte, il rispetto delle libertà e dei diritti umani
fondamentali, senza alcuna discriminazione».
Chiesa e ONG contro la pena di morte a una cattolica, disabile mentale
A fine luglio la rubrica «Vatican Insider» del quotidiano «La Stampa» racconta l’impegno della
Chiesa e di diverse organizzazioni non governative per salvare una ragazza cattolica, di origine
indonesiane, che rischia la pena di morte. Wilfrida Soik, giace nelle carceri malesi, accusata di
aver ucciso la sua datrice di lavoro, reato per il quale potrebbe subire la pena capitale. In sua
difesa si sono mobilitate alcune ONG in Indonesia e Malaysia, e la Chiesa indonesiana di
Atambua (diocesi nella parte occidentale dell’isola di Timor, da cui la ragazza proviene).
Il caso, presenta diverse ambiguità ed è aggravato dal fatto che la giovane è una disabile
mentale, già vittima in passato di trafficanti di esseri umani. La Chiesa cattolica di Atambua,
grazie all’interessamento personale del vescovo, monsignor Dominikus Saku, ha segnalato il
caso alla Commissione per i diritti umani dell’Indonesia e si è adoperata per ottenere la grazia a
favore di Wilfrida e farla tornare a casa.
Interpellato dall’«Agenzia Fides» in merito alla vicenda, Charles Hector Fernandez, avvocato
cattolico di Kuala Lumpur, responsabile dell’Associazione Malaysians Against Death Penalty
and Torture (MADPET), ha assicurato il massimo impegno per «fare quanto è in nostro potere
per aiutarla». Ha spiegato che «secondo l’ordinamento malaysiano, in caso di omicidio, il
giudice è obbligato a applicare la pena capitale. È uno dei temi su cui ci stiamo impegnando,
chiedendo una revisione della norma, perché il giudice possa scegliere almeno se, in base alle
attenuanti, comminare l’ergastolo».
I cattolici, fra luci e ombre
In un’intervista pubblicata in agosto da «Free Malaysia Today» il vescovo cattolico di MelakaJohor, Paul Tan Chee, sj, accusa i politici malaysiani di fomentare l’odio inter-religioso,
contrariamente a quanto sentono e pensano i cittadini comuni che non vogliono dividersi su
questa frontiera. La disputa sul termine “Allah” per indicare Dio nella Bibbia, il blocco delle
bibbie in lingua locale e il presunto complotto cristiano per indebolire lo status dell’Islam nel
Paese, sono questioni che hanno creato problemi fra cristiani e Governo. Il prelato ricorda
anche un recente episodio di conflitto inter-religioso, verificatosi la settimana precedente le
dichiarazioni alla stampa: l’incursione in una chiesa da parte del Selangor Islamic Religious
Department (JAIS) sulla base di una denuncia secondo cui parecchi musulmani erano presenti a
una cena nel posto.
Anche se il raid ha suscitato critiche da varie parti, il consigliere esecutivo per gli Affari religiosi
dello Stato, Hasan Ali, ha affermato che era in corso proselitismo cristiano verso gli islamici. In
risposta, monsignor Paul Tan Chee ha dichiarato ad «AsiaNews»: «Se l’accusa è confermata,
farò tutto quanto è in mio potere per dare il via a un’azione correttiva, e contrita, da parte dei
cristiani. In caso contrario, esigo una smentita e delle scuse. La questione è molto semplice». E
commentando le parole del direttore del JAIS, Marzuki Hassan, secondo cui il raid era diretto a
proteggere gli interessi degli islamici, il vescovo ha replicato: «Credo che gli interessi dei
musulmani siano protetti meglio se i loro rappresentanti dicono la verità che non facendo
ipotesi allarmistiche». E ha aggiunto: «Ma se qualcuno vuole condividere la nostra fede, non
esiteremo a farlo, perché crediamo che la fede può essere proposta, ma non imposta». Infine,
secondo Paul Tan, i politici sono responsabili delle numerose controversie che hanno coinvolto
la fede cristiana di recente. «Questo è dovuto alle manipolazioni e alla duplicità dei politici in
caccia di voti alle spese dei creduloni e degli ignoranti», ha dichiarato il vescovo.
Qualche settimana più tardi, a metà settembre, il sito «Ucanews» rilancia il comunicato della
Catholic Lawyers Society of Malaysia che ha accolto con favore e, al tempo stesso,
circospezione, il piano governativo volto ad abolire la controversa Internal Security Act (ISA)
che prevede, fra l’altro, la possibilità di detenzione senza processo. Il Premier Najib Razak ha
sottolineato che l’emendamento sarà approvato dal Parlamento nel prossimo futuro e per il
presidente degli avvocati cattolici è senz’altro un passo «nella giusta direzione», perché in
passato «la legge è stata sfruttata per zittire le voci del dissenso». «È tempo che il Governo –
conclude – cancelli questa legge draconiana» e con essa tutte le norme che violano i diritti
umani, il libero pensiero e libertà religiosa.
Il 30 novembre, festa di S. Andrea, è stata una giornata di festa per l’intera comunità cattolica
che ha celebrato l’ordinazione sacerdotale di Andrew Wong, 43 anni e originario di Iph, della
Congregazione dei discepoli del Signore (Cdd). È quanto racconta l’«Herald Malaysia»,
sottolineando che quanti non hanno trovato posto in chiesa hanno seguito la cerimonia su uno
schermo collocato all’esterno. L’ultima ordinazione nella parrocchia di San Michele era
avvenuta 22 anni prima, quando fu ordinato padre Michael Cheah.
La celebrazione eucaristica, bilingue, è stata officiata dal vescovo di Penang, Antony
Selvanayagam; concelebranti erano il provinciale della Cdd, padre Philip Tan Chong Men, e il
parroco di San Michele, monsignor Stephen Liew. All’ordinazione, insieme a molti religiosi e
religiose, erano presenti 49 sacerdoti.
Pochi giorni dopo, è emerso un caso di violazione alla libertà religiosa riportato dall’«Agenzia
Fides»: il 15 dicembre, due chiese a Klang, un sobborgo di Kuala Lumpur, hanno ricevuto una
nota della polizia che chiedeva nomi e dettagli delle persone che cantavano canti natalizi (i
tradizionali “carols”), perché, secondo gli ufficiali, per eseguirli nelle chiese e nelle case è
necessaria una preliminare autorizzazione delle forze dell’ordine. I credenti hanno definito tali
richieste assurde e inammissibili. «Si tratta di un’interpretazione restrittiva delle norme esistenti
– racconta un portavoce – sull’esercizio della attività di culto e della libertà di religione. La
polizia è in totale confusione. Dopo le proteste dei cristiani, rappresentanti del Governo hanno
già smentito la necessità di tali autorizzazioni». Monsignor Paul Tan Chee Ing, vescovo di
Melaka-Johor e Presidente della conferenza episcopale, ha affermato che tali restrizioni e le
pretese di «tali requisiti burocratici», renderebbero il Paese «quasi uno Stato di polizia».
I motivi di questi episodi sembrerebbero politici ed elettorali. Con la sua decisione di abrogare
una serie di leggi molto odiate – come quella sulla sicurezza interna (ISA) introdotta nel 1957,
dopo l'indipendenza dalla Gran Bretagna – il Primo Ministro Najib Razak, aveva risollevato le
speranze della società civile sull’avvio di una nuova era di riforme. Il Documento, come
promesso dal Governo, avrebbe dovuto essere sostituito da una nuova legge nel 2011,
progettata per allineare la Malaysia con le norme internazionali. Il Governo si era pronunciato in
tal senso per rassicurare la popolazione, dopo le manifestazioni di piazza del Movimento Bersih
2.0 [pulizia] tenutesi a Kuala Lumpur nel luglio scorso per invocare «trasparenza e diritti». Un
nuovo Disegno di legge – denominato Peaceful Assembly Bill e approvato dalla Camera Bassa
del Parlamento per regolare l’esercizio del diritto di riunione e manifestazione – attribuisce,
invece, più poteri di controllo preventivo all’Esecutivo e alle autorità di polizia; l’iniziativa ha
suscitato proteste nella società civile e anche fra le minoranze religiose, riunite nel Malaysian
Consultative Council of Buddhism, Christianity, Hinduism, Sikhism and Taoism. In esso, infatti, si
specifica espressamente che «i luoghi dove non potranno tenersi assembramenti sono anche
quelli di culto». Secondo Teresa Mok, segretario nazionale del Partito di Azione Democratica, le
nuove regole sono «un abuso di potere da parte delle autorità» e «un tentativo di violare la
libertà religiosa».
Le discriminazioni anti-cristiane
Fra persecuzioni dichiarate e piccoli episodi di abusi o emarginazioni, la comunità cristiana
testimonia con coraggio e determinazione la propria fede. A fine 2010, leader cristiani hanno
denunciato che lo spazio riservato ai non musulmani nei cimiteri statali a Kuala Lumpur e nei
dintorni della capitale, è «quasi esaurito» e che il sistema “a zone” in vigore nella Chiesa
cattolica del Paese, impedisce che i residenti di un luogo vengano inumati in un’altra area.
Per esempio, lo racconta «AsiaNews», il cimitero cristiano di Shah Alam è riservato solo ai
residenti locali. In alcune aree, solo le persone ricche possono permettersi la sepoltura fuori dei
cimiteri pubblici (uno spazio in un cimitero privato costa intorno ai 1.500 dollari, circa 1.158
euro). La sepoltura è l’opzione preferita dai cristiani malaysiani, mentre la cremazione è in
genere associata ad altre religioni, come il buddismo. Questa preferenza ha le sue radici nella
tradizione cattolico-romana di trattare il corpo come qualcosa di sacro. Comunque, la Chiesa
cattolica non proibisce espressamente la cremazione, a differenza dell’Islam che impone
rigorosamente la sepoltura. E, nel momento in cui lo spazio per le sepoltura sembra diminuire
nella Malaysia in rapido sviluppo, sempre più fedeli stanno optando per la cremazione, scelta
più economica e più pratica.
Nel marzo 2011 è riesplosa la polemica sulle bibbie in lingua malay, bloccate dal Governo per
l’annosa polemica – che si trascina da anni, attraverso contenziosi giudiziari che avevano dato
ragione ai cristiani – riguardante l’uso della parola “Allah” per definire il Dio dei cristiani. Nella
polemica è intervenuta la maggiore organizzazione cristiana locale che ha dichiarato di «essere
stufa» del rifiuto governativo di permettere la distribuzione di alcune decine di migliaia di
bibbie, perché un affronto alla libertà religiosa. È una protesta piuttosto rara ed è anche un
segnale della crescente impazienza, fra le minoranze religiose, per la disputa. Il Presidente della
Federazione cristiana della Malaysia, il vescovo Ng Moon Hing, ha dichiarato che le autorità
stanno bloccando 30mila copie della Bibbia in Malay in un porto dell’isola del Borneo. Questo è
soltanto l’ultimo tentativo da parte di cristiani di importare bibbie, in particolare dall’Indonesi; i
precedenti sono tutti falliti. Non ci sono problemi, invece, per i testi in inglese. Nel dicembre
2009 un tribunale aveva deciso che i cristiani hanno il diritto costituzionale di usare il termine
“Allah”; il Governo si è appellato contro il verdetto, ma l’udienza non è stata ancora fissata. La
decisione del tribunale nel gennaio 2010 aveva causato tensioni e l’ira degli estremisti
musulmani. Undici chiese erano state attaccate. La Chiesa cattolica ha ristampato un dizionario
latino-malese antico di 400 anni per dimostrare l’antico uso del termine “Allah”, in senso
cristiano nel Paese.
La discriminazione non colpisce solo i testi religiosi, ma in un Paese a larga maggioranza
musulmana, sono vittime dell’intolleranza religiosa e sociale anche le donne. Nel marzo 2011 il
sito Persecution.org ha raccontato di un’avvocatessa cristiana che non ha ottenuto il permesso
di praticare nelle Corti giudiziarie musulmane che operano in base alla Shari’a. Victoria
Jayaseele Martin ha dichiarato che il suo desiderio era quello di rappresentare clienti non
musulmani chiamati in causa nel tribunale islamico, per garantire loro una difesa equa, tanto
più che un numero crescente di processi in questi tribunali, coinvolge anche non musulmani. La
Malaysia dispone di due ordinamenti giudiziari paralleli: l’ordinamento “laico” si occupa dei
cittadini non islamici, mentre la Shari’a decide sui temi che riguardano I musulmani,
maggioranza nel Paese.
La Jayaseele Martin ha fatto opposizione in tribunale alla decisione di un Consiglio religioso in
base alla quale tutti gli avvocati che appaiono nei tribunali islamici devono essere musulmani,
ma un giudice a Kuala Lumpur le ha dato torto. L’avvocatessa sostiene che questa sentenza è
anti-costituzionale e che farà appello a un grado di giustizia superiore. Il sistema giudiziario
islamico si focalizza in Malaysia su problemi familiari: poligamia, divorzio e custodia dei minori.
Nel 2010 il Governo ha ammesso donne giudice nelle sue corti islamiche per la prima volta,
accogliendo la richiesta delle “Sorelle nell’islam”.
Come riferisce «AsiaNews» la querelle sulle bibbie si è sbloccata ai primi di aprile con la
decisione del Governo di autorizzarne l’importazione e stampa in ogni lingua. Le autorità hanno
garantito ai cristiani che non sarà richiesta nessuna stampigliatura, o numero seriale, sulle
bibbie importate. Queste decisioni sono parte di una soluzione in 10 punti della controversia
sulle bibbie in lingua malay; Il Governo ha annunciato che non ci saranno condizioni
sull’importazione e sulla stampa locale delle bibbie per il Sabah e il Sarawak, in riconoscimento
delle ampie comunità cristiane presenti in questi Stati. Ci sarà, invece, una condizione per le
bibbie importate nella penisola della Malaysia o stampate in loco: esse dovranno avere sulla
copertina una croce e le parole «Pubblicazione cristiana», decisione che tiene conto
dell’interesse della comunità islamica maggioritaria nel Paese. Il Governo ha anche annunciato
che non dovranno esserci proibizioni o restrizioni sulle persone che viaggiano fra Sabah e
Sarawak e la penisola malaysiana con le loro bibbie. Il Ministero degli Interni ha emanato una
direttiva sulla Bibbia e i funzionari che dovessero mancare di applicarla, saranno soggetti ad
azione disciplinare; il Governo ha anche permesso agli importatori di prendere in consegna,
senza alcuna spesa, le 35.100 copie bloccate a Kuching e a Port Klang.
In aprile, tuttavia, il sito Persecution.org ha rilanciato i proclami di un’organizzazione
musulmana estremista – che riunisce 20 gruppi – che ha dichiarato il jihad contro gli «estremisti
cristiani» che sfidano e insultano l’Islam. Alla base delle minacce, di nuovo l’annosa questione
delle bibbie in lingua malay, la cui pubblicazione viene bollata come un crimine inammissibile e
imperdonabile. Il portavoce del gruppo jihadista aggiunge che i cristiani iniziano a costituire
una «sfida» allo Stato islamico che sarebbe smantellato e perdrebbe la sovranità.
Il 25 maggio il quotidiano «Malaysian Insider» riferisce le dichiarazioni di alcuni leader
musulmani, secondo cui i cristiani e le altre minoranze religiose hanno ricevuto trattamenti fin
troppo di favore e che «vanno rivisti» i loro diritti. Uno dei capi del movimento fondamentalista
Da’wah Foundation Malaysia (YADIM), invoca anche «espulsioni» contro i non musulmani che
avrebbero rotto il «patto sociale» e premono per la salvaguardia degli interessi musulmani. Un
intervento analogo viene confermato due mesi più tardi – siamo al 22 luglio – da «AsiaNews»:
l’uso di “Allah” per indicare Dio da parte dei cristiani deve cessare perché può provocare l’ira
islamica. La presa di posizione di un’eminente personalità islamica malaysiana, Mohd Sani
Badron, in un discorso tenuto all’Islamic Understanding Malaysia (IKIM) getta benzina sul fuoco
nella disputa sulla traduzione nella Bibbia in lingua locale del termine che indica la divinità.
L’attacco dello studioso islamico segue di pochi giorni lo storico incontro fra il Premier
malaysiano Datuk Seri Najib Razak e Papa Benedetto XVI. Nel suo testo «Kontroversi Nama
Khas “Allah” Dalam Konteks Pluralisme Agama», Badron, direttore degli Studi economici e
sociali, ha dichiarato che «la cattiva traduzione della parola “Dio” come “Allah” nella Bibbia
malese deve essere abbandonata, perché rappresenta erroneamente le due religioni come
eguali». «La traduzione di “Dio” come “Allah” è molto sbagliata, dovrebbe essere tradotto
correttamente. Noi interpretiamo non solo la parola, ma il significato e il significato è sbagliato
e non accurato». E ha continuato: «Guardando il significato, il termine giusto per “‘Dio” nel
cristianesimo è “Tuhan” e la parola “Signore” è anche “Tuhan”, non “Allah”».
Nell’agosto 2011 – come riporta AsianCorrespondent.com – torna ad alzarsi il livello di tensione
fra cristiani e musulmani dopo che un medico malay si sarebbe rifiutato di far curare i propri figli
in un centro di medicina gestito da musulmani. La notizia si è subito diffusa fra i quotidiani filoislamici del Paese che hanno interpellato un esperto del Dipartimento degli affari islamici
secondo il quale il medico ha commesso un reato punibile fino a tre anni di prigione e una multa
di circa 2mila dollari. Alla base delle accuse, vi sarebbero dissapori verso l’uomo e controversie
– a livello locale – di proselitismo da parte di organizzazioni protestanti.
La polemica sulle conversioni diventa un caso nazionale verso la metà di ottobre, come emerge
in un articolo di «Malaysian Insider»: Perils Mufti Dr Junanda Jaya, interpellato dalla stampa,
definisce «illogici» i proclami secondo cui oltre 250mila musulmani in Malaysia hanno rinunciato
alla fede islamica. Per il leader religioso va fermato il proselitismo e non vanno pubblicizzate
notizie di conversioni, perché oggetto di una materia troppo «sensibile» che potrebbe
distruggere l’immagine della nazione, «incapace di proteggere i suoi devoti». Per la fine di
agosto i leader musulmani avevano poi indetto una manifestazione di piazza, invocando la
partecipazione di un milione di persone, per difendere l’integrità dell’Islam in Malaysia, con la
collaborazione di associazioni giovanili e movimenti estremisti.
Il primo dicembre il principale quotidiano cattolico del Paese, l’«Herald Malaysia», raccoglie la
lamentela di alcuni genitori cristiani delle aree agricole di Sarawak, i cui figli di rientro da scuola
recitano preghiere musulmane. Essi parlano di un «tentativo sottile» di instillare nei piccoli gli
insegnamenti e i dettami dell’Islam al fine di convertirli. «Molte zone agricole – riferisce un
genitore – sono a larga maggioranza cristiana e la questione comincia a diventare pesante». Al
riguardo, la legge prevede che gli insegnanti che professano una religione diversa da quella dei
bambini, non compiano atti di proselitismo e non trasmettano di proposito la loro fede agli
alunni.
Musulmani e fondamentalismo
Anche in Malaysia, la visione fondamentalista dell’Islam finisce per colpire persone o addirittura
ricorrenze e celebrazioni percepite come «simbolo dell’Occidente» oppure di morale corrotta.
Fra queste, vi è anche la cosiddetta festa degli innamorati, definita la «trappola di San
Valentino», considerata contraria ai principi dei musulmani. È quanto è accaduto nei giorni che
hanno preceduto il 14 febbraio 2011, in concomitanza con la ricorrenza, e con la comunità
cristiana impegnata – di contro – sottolineare che l’evento commerciale non ha legami con la
fede e non deve diventare pretesto per manifestazioni di ostilità. In un talk-show intitolato «Il
giorno di San Valentino: proibito nell’Islam» e rilanciato su YouTube, la leadership musulmana ha
intimato ai giovani di non celebrare la ricorrenza. La campagna contro la «trappola san
Valentino» vede protagonista anche il Governo, mentre in numerosi hotel del Paese sono stati
effettuati controlli per impedire alle coppie rapporti extra-coniugali. La campagna contro la
festa risale al 2005, anno in cui è stata emessa una fatwa. L’ala giovanile del partito di
opposizione Pan-Malaysian Islamic Party ha promesso repressioni e interventi in caso di
«attività immorali». Tuttavia, non tutti i musulmani sono d’accordo con queste posizioni: Akmal
Arrifin, musicista 40enne, considera un comportamento «tribale» bloccare la festa e avverte
che un islam «moderno» non può permettere simili repressioni.
Alla fine del gennaio 2012 – come riporta «AsiaNews» – la scure dell’estremismo religioso si è
abbattuta su un poeta saudita, considerato blasfemo; per questo è stato arrestato dalle
autorità ed estradato a Jeddah, dove rischia la pena di morte. Il poeta e scrittore saudita,
Hamza Kashghari, ha lasciato il suo Paese per le minacce e il mandato di cattura emesso dalla
magistratura di Ryadh con l'accusa di aver offeso il profeta dell'Islam, Maometto, ma è stato
arrestato a Kuala Lumpur ed estradato in Arabia Saudita. In patria lo attende un processo per
vilipendio della religione islamica. Il giovane è stato costretto a fuggire per le polemiche
scatenatesi per alcune frasi scritte su Twitter riguardo Maometto e giudicate offensive.
Quando è stato arrestato stava cercando di organizzare il viaggio in un Paese che potesse
concedergli asilo, ma le autorità malesi lo hanno fermato e rimpatriato, sebbene manchino
accordi specifici fra i due Paesi. Tuttavia, la presunta offesa all’Islam ha giocato come elemento
chiave per il fermo e la decisione di rispedirlo a casa. Un gruppo su Facebook, che si è formato
rapidamente e conta 8mila membri si intitola «Chiedamo l’esecuzione di Hamza Kashgari». E, in
effetti, è molto probabile che Kashghari rischi la condanna a morte.