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Notiziario settimanale n. 467 del 31/01/2014
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
Prima del mare c’è il deserto che ne ammazza tanti quanti il mare.
Ma quei cadaveri non commuovono perché non si vedono in Tv. Perché
non c’è un giornalista che chiede ripetutamente quante donne e bambini
sono morti, quante erano incinte. Perché qui in Occidente a volte sembra
che l’orrore non basti, c’è bisogno di pathos.
Mio cognato è morto nel deserto. Per la fame. Dopo 24 giorni in cui
nessuno ci ha dato da mangiare. A casa c’è una moglie che non si
rassegna e aspetta una telefonata che io so non arriverà mai.
A casa c’è quel che resta di un sogno, di un progetto, di una vita. Un
biglietto per due i trafficanti se lo fanno pagare caro e, loro, i soldi non li
avevano.
Se fosse restato, li avrebbero ammazzati tutti e due. Il suo ultimo regalo
per lei è stata la vita.
Lui è scappato e lei non era più utile, l’hanno lasciata vivere.
Da "Perché saliamo su una barca", Awas Ahmed è somalo, rifugiato in
Italia. Racconta il senso della fuga e il perché abbiamo bisogno di
guardare oltre Lampedusa cambiando prospettiva.
Evidenza
24°
congresso
nazionale
del
Movimento
Nonviolento: 31 gennaio e 1-2 febbraio 2014, Centro
Studi Sereno Regis – via Garibaldi, 13 – Torino (di
Movimento Nonviolento)
Oggi, mentre una grave crisi economica, ecologica e sociale investe il
pianeta, è in atto una corsa globale agli armamenti senza precedenti, ad
essa si aggiunge in Italia anche una crisi politica e istituzionale della quale
non si intravede alcun sbocco positivo. Eppure, l’Italia, ultima in tutti gli
indicatori europei di benessere e civiltà (lavoro e istruzione tra tutti), è
nuovamente tra le prime dieci potenze militari globali. Una cultura
neobellicista ha rimosso il disarmo dall’agenda della politica, per cui tutto
può essere tagliato tranne che cacciabombardieri e portaerei.
Il complesso militare industriale internazionale orienta le scelte dei
governi, difendendo se stesso da quella che il generale Fabio Mini ha
definito “la minaccia della pace, indirizzando la spesa pubblica per la
guerra a vantaggio delle commesse militari. Il popolo e i suoi
rappresentanti sono sempre più espropriati da decisioni gia prese, spesso
in sedi internazionali, come per la base Dal Molin di Vicenza o il Muos di
Niscemi o l’ammodernamento delle testate nucleari presenti sul territorio
italiano, in violazione del Trattato di non proliferazione.
Eppure nonostante tutto ciò, continua ad essere presente in Italia un
significativo movimento dal basso che si impegna per la conversione
ecologica dell’economia, il disarmo e la tutela dei territori dagli scempi
delle grandi opere, beni comuni e la democrazia partecipativa. Insomma,
c’è ancora e, in qualche modo resiste, quella che Capitini avrebbe definito
“l’Italia nonviolenta”.
La partecipazione al congresso è libera, aperta a tutti.
Indice generale
24° congresso nazionale del Movimento Nonviolento: 31 gennaio e 1-2
febbraio 2014, Centro Studi Sereno Regis – via Garibaldi, 13 – Torino (di
Movimento Nonviolento)........................................................................... 1
Speculazione finanziaria: l’Europa prova a darsi regole (di Emanuela
Citterio)..................................................................................................... 2
Giorno della memoria: Porrajmos ma Samudaripen (di Moni Ovadia,
Marco Rovelli)........................................................................................... 2
Perché saliamo su una barca (di Jesuit Refugee Service)........................... 3
Le armi siriane arrivano a Gioia. Un porto senza «proteste» (di Paolo
Pollichieni)................................................................................................ 3
La Resistenza della Danimarca (di Sergio Luzzatto).................................. 4
Ridateci la legge truffa! (di Domenico Gallo)............................................ 5
Abitare gli spazi pubblici: Più donne in strada. La sicurezza siamo noi (di
Michela Barzi)........................................................................................... 6
Conto alla rovescia (di Maria G. Di Rienzo).............................................. 6
Ci rincuora e ci dà da riflettere (di ComboniFem - Redazione Newsletter
Suore Comboniane)................................................................................... 7
Speranze di emancipazione in Afghanistan (di Barbara Gallo)..................7
Creatività contro ingiustizia, le donne nel conflitto israelo-palestinese (di
Giulia Daniele)........................................................................................... 8
Hannah o del pensare (di Ida Dominijanni)................................................ 9
1
PROGRAMMA DEL CONGRESSO
VENERDÌ 31 GENNAIO 2014:
 ore 15,30 “Percorsi di Pace” (visita guidata di alcune tappe della
città)
 ore 18,00 “l’Europa che vogliamo” …disarmo, federalismo,
politica sociale… Intervengono: Roberto Burlando, Francesco
Vignarca, Paolo Bergamaschi, Roberto Palea
SABATO 1 FEBBRAIO 2014
 ore 10,00 accoglienza
 ore 10,30 relazione della segreteria e della presidenza
 ore 11,30 interventi e dibattito sulle relazioni
 ore 13,00 pausa pranzo
 ore 15,00 ripresa lavori, interventi, formazione delle
commissioni
 ore 16,00 lavori delle commissioni
1. 1. Diritti/doveri
2. 2. Disarmo
3. 3. Democrazia
4. 4. Decrescita/semplicità volontaria
 ore 21,30 proiezione del documentario “in marcia: 50 anni del
Movimento Nonviolento”
DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014
 ore 9 presentazione risultati dei lavori delle commissioni,
dibattito, presentazione mozioni
 ore 11 votazione delle mozioni congressuali, nomine e
adempimenti.
 ore 14 termine e chiusura del 24° congresso nazionale
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://www.aadp.it/index.php?
option=com_content&view=article&id=1984
operatori finanziari di comprare e vendere titoli attraverso sistemi
automatizzati che ragionano per algoritmi matematici, compiendo anche
migliaia di operazioni in un minuto, all’unico scopo di trarre il massimo
profitto dagli scambi finanziari in modo speculativo.
“Per la prima volta in UE, agiremo per impedire la speculazione sui beni
alimentari” ha detto la vicepresidente della Commissione per gli affari
economici e monetari del Parlamento europeo (ECON) Arlene McCarthy.
“Prezzi alti e volatili hanno un impatto devastante sui paesi poveri e
dipendenti dal cibo”. “Abbiamo combattuto duramente, lavorando a stretto
contatto con le ONG, così da assicurare la creazione di un sistema efficace
di limiti da imporre agli operatori finanziari” ha proseguito la McCarthy.
“Abbiamo raggiunto tutto questo nonostante l’opposizione del governo
britannico e dei conservatori”.
Il raggiungimento dell’accordo in sede europea, osteggiato da diversi
gruppi e frutto di lunghe negoziazini fra posizioni diversi, è anche il
risultato di numerose inziative di informazione e di advocacy della società
civile europea. In Italia a esprimere soddisfazione è stata la campagna
Sulla fame non si specula, lanciata a Milano da un gruppo di cittadini e
associazione che vede anche il sostegno di enti locali come il Comune di
Milano e la Provincia autonoma di Trento.
Approfondimenti
Economia
Speculazione finanziaria: l’Europa prova a darsi
regole (di Emanuela Citterio)
L’Europa prova a darsi regole per frenare la speculazione finanziaria,
soprattutto quella che riguarda i beni di prima necessità e alimentari. Ci
sono voluti quasi tre anni di negoziati. Alla fine, nella notte di ieri a
Strasburgo, i rappresentanti del Parlamento europeo, della Commissione
europea e dei governi degli Stati membri hanno raggiunto l’accordo sulla
riforma della direttiva MiFID, quella che stabilisce le regole per i prodotti
finanziari scambiati in Europa. Un accordo giunto sul filo del rasoio,
ormai alla vigilia della fine della legislatura europea.
L’obiettivo della riforma della direttiva MiFID è rendere più trasparenti i
mercati finanziari e chiudere dei veri e propri '”buchi” nella regolazione
dei mercati finanziari resi sempre più larghi dall'innovazione tecnologica e
alle pratiche iperspeculative. Sono almeno tre le novità essenziali
introdotte dall’accordo. Innanzitutto una maggiore trasparenza: d’ora in
poi le transazioni finanziarie potranno avvenire solo attraverso mercati
regolamentati.
In secondo luogo, ed è l’aspetto che più riguarda le materie prime e i beni
alimentari, verranno introdotti dei limiti di posizione: significa che un
operatore finanziario non potrà mai avere in mano oltre una certa quota di
titoli legati al mercato di una determinata materia prima; questo per
evitare che possa influenzarne l’andamento a partire dai propri interessi,
non necessariamente coincidenti con quelli degli altri. Questo varrà, oltre
che per i prodotti alimentari, su quelli petroliferi, altro settore su cui si è
concentratata spesso la speculazione (anche se l'accordo raggiunto stanotte
prevede che per i prodotti petroliferi i limiti di posizione entrino in vigore
solo nel 2016).
La terza importante novità è che il Mifid II prevede delle misure contro
l’High Frequency Trading, cioè quei sistemi che oggi permettono agli
2
Uno snodo decisivo dell’applicazione della riforma MiFID riguarderà
proprio i limiti di posizione. L’accordo prevede che siano stabiliti a livello
nazionale dai singoli paesi membri: l’efficacia di questa misura dipenderà
quindi dalle scelte dei singoli governi dell’Unione europea in fase di
attuazione della direttiva. “Essendo un aspetto decisivo, sarà fondamentale
vigilare perché questi limiti siano reali e le misure efficaci. In Italia noi
saremo presenti e faremo sentire la voce di cittadini e associazioni”
afferma Giorgio Bernardelli, uno dei portavoci della campagna italiana.
A sollevare analoghe preoccupazioni sono state organizzazioni come
Oxfam e World Developement Movement, che soprattutto in Gran
Bretagna portano avanti da anni una campagna di sensibilizzazione sul
problema della speculazione sui beni alimentari. “I limiti di posizione
verranno fissati dai governi nazionali e non a livello europeo” si legge in
comunicato di Oxfam International. “C’è il rischio che se, per esempio in
Gran Bretagna, si dovesse fissare un tetto di limiti inefficace, questo
provochi una corsa al ribasso tra i Paesi europei”. L’Inghilterra è infatti tra
i Paesi europei quello da sempre più restio a introdurre regole nei mercati
finanziari.
Emanuela Citterio
(fonte: Unimondo newsletter)
link: http://www.unimondo.org/Notizie/Speculazione-finanziaria-l-Europa-prova-adarsi-regole-144301
Fare memoria
Giorno della memoria: Porrajmos ma Samudaripen
(di Moni Ovadia, Marco Rovelli)
Il Giorno della Memoria è stato istituito nel giorno in cui 69 anni fa i
soldati dell'Armata Rossa abbatterono i cancelli del lager di Auschwitz e
vi entrarono rivelandone l'orrore. E sacrosanto è stato aver stabilito un
giorno in cui ricordare quell'abisso incancellabile. Ma, come per ogni
ritualizzazione, quella ferita sanguinante si scontra con il rischio della
museificazione da una parte e della falsa coscienza dall'altra.
Le attività e le manifestazioni di questa Giornata riguardano in maniera
soverchiante la shoah, ovvero lo sterminio degli ebrei, al punto da
oscurare quasi gli eccidi e le sofferenze subite dalle altre vittime della
ferocia nazista: i rom, gli omosessuali, i menomati, gli antifascisti a vario
titolo, i testimoni di Geova, gli slavi, i militari italiani che rifiutarono di
servire il governo fantoccio di Salò. Ricordare l'unicità della shoah non
può essere l'alibi per dimenticarsi degli altri.
I rom, in particolare, sono stati per lunghissimo tempo misconosciuti nel
loro status di vittime: e se oggi non c'è quasi un politico occidentale che
non voglia mostrarsi amico degli ebrei e soprattutto degli israeliani, quasi
nessuno di essi è disposto ad identificarsi con i rom. Nessuno dei
rappresentanti politici dei paesi occidentali ha il coraggio di uscire da una
visita al lager di Auschwitz dichiarando: "mi sento rom"; molti, però, si
affrettano ad affermare: “mi sento israeliano”. Ora sia chiaro, nessuno
vuole ignorare o sottovalutare lo specifico antisemita del nazifascismo e
sminuire l'immane dimensione della Shoah. Ciò che è inaccettabile è il
deliberato sottacere delle sofferenze dei rom e dei sinti anch'essi destinati
al genocidio. È intollerabile che si discrimini fra le sofferenze di esseri
umani che subirono la stessa tragica sorte.
I rom sono vittime secolari dell'occultamente della loro identità e della
loro memoria, oltre che essere vittime di un'antichissima persecuzione.
Essi non hanno terra, non hanno un governo potente che parli per loro,
sono tuttora gli “zingari” reietti: perché mai dunque riconoscere piena
dignità alle loro inenarrabili sofferenze? La cultura orale dei rom, del
resto, diversamente dalla cultura ebraica fondata sulla Scrittura, ha
facilitato il compito della dimenticanza: non c'è stato che un soffio di
vento, niente più che questo, nulla che sia conservato e degno di
conservazione. Solo con fatica si è imposto il nome dello sterminio nazista
dei rom: Porrajmos. Il merito di questo va al grande intellettuale rom
inglese Ian Hancock, linguista e fra le altre cose rappresentante del popolo
rom presso le Nazioni Unite. Il termine “Porrajmos”, nella lingua di alcuni
romanì, “devastazione”. Ma la lingua romanes ha molte articolazioni,
corrispondenti alla disseminazione dei suoi numerosissimi gruppi e
sottogruppi: perciò capita che un significante abbia significati diversi per
diversi rom. Da Jovica Jovic, grande fisarmonicista rom serbo, abbiamo
appreso che quel termine, nel “suo” romanes, ha un significato sessuale
osceno. Così per Jovica quel termine è inusabile, e offensivo: impossibile
per lui ricordare i suoi zii morti ad Auschwitz con quel termine. Una
vicenda paradossale, questa, direttamente legata alla dispersione e alla
secolare marginalizzazione e inferiorizzazione dei rom. Per rispetto nei
confronti dei rom come Jovica crediamo dunque che dovremmo
cominciare a trovare un altro termine, che non sia l'ennesimo affronto alla
memoria proprio là dove la memoria dovrebbe essere sacralizzata e
conservata. Samudaripen è il termine alternativo che molti rom
propongono: significa “tutti morti”, e non ha implicazioni imbarazzanti
per nessuno. Domani le associazioni 21 luglio e Sucar Drom hanno
organizzato un convegno a Roma intitolato proprio Samudaripen: può
essere un buon inizio, per avere finalmente un nome, e un nome giusto,
per l'Orrore dimenticato.
(fonte: Marco Rovelli)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2006
Immigrazione
Perché saliamo su una barca (di Jesuit Refugee
Service)
Awas Ahmed è somalo, rifugiato in Italia. Racconta il senso della fuga e il
perché abbiamo bisogno di guardare oltre Lampedusa cambiando
prospettiva.
A chi chiede: «Non era meglio rimanere a casa piuttosto che morire in
mare?», rispondo: «Non siamo stupidi, né pazzi. Siamo disperati e
perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte
probabile. Tu che sceglieresti? O meglio cosa sceglieresti per i tuoi figli?».
Due giovani ieri sono stati uccisi a Mogadiscio perché si stavano baciando
sotto un albero. Avevano vent’anni. Non festeggeranno altri compleanni.
Non si baceranno più.
A chi domanda: «Cosa speravate di trovare in Europa? Non c’è lavoro per
noi figurarsi per gli altri», rispondo: «Cerchiamo salvezza, futuro,
cerchiamo di sopravvivere. Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte
sbagliata e soprattutto voi non avete alcun merito di essere nati dalla parte
giusta».
Mio cognato scappava con me. Prima del mare c’è il deserto che ne
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ammazza tanti quanti il mare. Ma quei cadaveri non commuovono perché
non si vedono in Tv. Perché non c’è un giornalista che chiede
ripetutamente quante donne e bambini sono morti, quante erano incinte.
Perché qui in Occidente a volte sembra che l’orrore non basti, c’è bisogno
di pathos.
Mio cognato è morto nel deserto. Per la fame. Dopo 24 giorni in cui
nessuno ci ha dato da mangiare. A casa c’è una moglie che non si rassegna
e aspetta una telefonata che io so non arriverà mai. A casa c’è quel che
resta di un sogno, di un progetto, di una vita. Un biglietto per due i
trafficanti se lo fanno pagare caro e, loro, i soldi non li avevano. Se fosse
restato, li avrebbero ammazzati tutti e due. Il suo ultimo regalo per lei è
stata la vita. Lui è scappato e lei non era più utile, l’hanno lasciata vivere.
A chi chiede: «Come si possono evitare altre morti nel Mediterraneo?»,
rispondo: «Venite a vedere come viviamo, dove abitiamo, guardate le
nostre scuole, informatevi dai nostri giornali, camminate per le nostre
strade, ascoltate i nostri politici. Prima dell’ennesima legge, dell’ennesima
direttiva, dell’ennesima misura straordinaria, impegnatevi a conoscerci, a
trovare le risposte nel luogo da cui si scappa e non in quello in cui si cerca
di arrivare. Cambiate prospettiva, mettetevi nei nostri panni e provate a
vivere una nostra giornata. Capirete che i criminali che ci fanno salire sul
gommone, il deserto, il mare, l’odio e l’indifferenza che molti di noi
incontrano qui non sono il male peggiore».
Testimonianza raccolta dalla Fondazione Astalli
ALLA MENSA LA PRIMA ACCOGLIENZA
Ogni pomeriggio circa 400 persone si mettono in fila lungo il marciapiede
di via degli Astalli, vicino a piazza Venezia a Roma e attendono che venga
il loro turno per poter mangiare alla mensa del Centro. Da sempre, donne
e bambini hanno la precedenza rispetto agli uomini nell’entrare e prendere
posto intorno a un tavolo.
Il pranzo viene servito intorno alle 15.00, per garantire a chi vive
all’aperto la possibilità di consumare un pasto caldo e passare almeno le
ore centrali della giornata in un luogo riparato sia d’inverno che d’estate.
Il cibo viene preparato senza usare carne di maiale e alcol, nel rispetto
dell’alta percentuale di utenti di religione musulmana.
Preziosa è la collaborazione con il Banco Alimentare che garantisce pasta,
latte e cibi a lunga conservazione. Molti tra i volontari del Centro Astalli
hanno iniziato il loro servizio alla mensa. Porgere un piatto e scambiare
quattro chiacchiere con i rifugiati sono gesti semplici che racchiudono il
senso di un servizio fondamentale per chi, dopo aver vissuto violenze e
persecuzioni, ha bisogno di relazioni umane positive. Nel lungo corridoio
della mensa, inoltre, grazie alla presenza di operatori legali, medici e
mediatori, i rifugiati possono ricevere l’orientamento necessario a
muovere i primi passi in Italia.
(fonte: Popoli - Webmagazine internazionale dei gesuiti)
link: http://www.popoli.info/EasyNe2/Extra/Perche_saliamo_su_una_barca.aspx
Industria - commercio di armi, spese militari
Le armi siriane arrivano a Gioia. Un porto senza
«proteste» (di Paolo Pollichieni)
Qualcuno informi il governatore della Calabria del fatto che mentre lui
svolazza per pianificare il suo personale futuro politico tra Catanzaro,
Roma e Bruxelles, nelle segrete stanze del “governo amico” il suo
amicone ministro dell'interno Angelino Alfano insieme al premier
Enrichetto Letta ed alla ministra degli esteri Emma Bonino, sta decidendo
in quale porto italiano far attraccare due navi danesi che arrivano dalla
Siria cariche di trecentocinquanta tonnellate di armi chimiche da smaltire
a cura della marina militare americana.
La decisione dovrà essere comunicata alle autorità americane entro
domani e quindi dovrà essere adottata entro oggi. La scelta è ristretta,
secondo fonti governative, tra Gioia Tauro e Augusta ma nelle ultime ore
Gioia Tauro avrebbe “vinto” questa non certo ambita gara perché nei
report dei servizi segreti si annoterebbe che Gioia Tauro si presenta come
la scelta «meno problematica» perché trattasi di «un importante terminal
container nelle mani dei tedeschi della Gtp, che può contare sulle alte
profondità dei fondali a ridosso del canale di Sicilia. Non c’è, come a
Brindisi ed Augusta, una base militare nei pressi, ma la localizzazione
tutto sommato isolata della “città della Piana” garantirebbe discrezione e
poche tensioni e proteste».
Proprio così: siamo isolati e garantiamo «discrezione» e «poche tensioni e
proteste». Il silenzio del nostro distratto governatore ne è la più eloquente
conferma. Specialmente se rapportato alla letteraccia che il governatore
della Sardegna, Ugo Cappellacci, ha spedito al duo Letta-Alfano non
appena, il 10 gennaio scorso, un informatissimo articolo apparso su La
Stampa a firma del suo inviato a New York, dava notizia che il 7 gennaio
erano salpate dalla Siria due navi danesi con a bordo le 350 tonnellate di
bombe chimiche consegnate dai siriani. Aggiungeva che le due navi
avrebbero dovuto fare tappa in un porto italiano per qui passare il loro
carico alla marina militare americana incaricata della distruzione. Indicava
quattro porti possibili: Gioia Tauro, Brindisi, Augusta e Cagliari. «Noi
rigettiamo l’ipotesi di Cagliari con rabbia e choc, e la combatteremo in
ogni maniera possibile», scriveva Cappellacci. Il nostro Scopelliti, invece,
contattato dall'Agi si limitava a balbettare: «Non hanno ricevuto dalle
autorità di governo alcuna comunicazione, ragion per cui l'arrivo in
Calabria delle sostanze chimiche dismesse dall'esercito siriano è al
momento soltanto un'ipotesi». Tutto qui.
A scortare i cargo con le armi, alcune navi militari di Cina, Danimarca,
Norvegia e Russia. Su una di queste, la fregata danese Hnoms Helge
Ingstand, erano imbarcati alcuni giornalisti internazionali che due giorni fa
sono stati fatti scendere improvvisamente come testimoniato su twitter
dall’inviata della Bbc Anna Holligan.
Dalla capitaneria di porto italiana tengono le bocche cucite: il nome del
porto italiano che ospiterà il passaggio di carico sulla Cape Ray resta
segreto fino all’ultimo ed è probabile che la marina militare americana
informi le autorità italiane solo poche ore prima dell’arrivo delle navi, il
tempo necessario per allertare i rimorchiatori e il personale di terra. Le
navi Taiko ed Ark Futura sono state autorizzate a viaggiare con il sistema
Ais – ovvero una sorta di Gps globale che segnala la posizione dello scafo
in ogni momento – disattivato. L’ultima posizione conosciuta delle navi è
proprio all’entrata del porto di Latakia in Siria. Così come la Cape Ray su
cui recentemente è stato installato il sistema di idrolisi – Field Deployable
Hydrolysis System – che gli consente di disinnescare le armi chimiche
siriane. La Cape Ray è stata costruita nel 1977 dai cantieri giapponesi
della Kawasaki Heavy Industries per conto della Saudi Arabia’s National
Ship con il nome di Mv Seaspeed Asia. Nel 1993 questo gigante di 197
metri è stato acquistato dal Dipartimento della marina militare Usa che ne
ha cambiato il nome in Cape Ray e l’ha destinata ad uso militare.
Di tutto questo qualcuno si faccia carico di informare Peppe Scopelliti...
anzi lasci stare. Tanto Peppe resta il più fedele dei nostri utenti, sarà tra i
primi a leggerci e a sapere... grazie al suo Ipad nel quale, ironia della
terminologia informatica, ci ha dovuto collocare tra... “i preferiti”. (0040)
Fino all’ultimo bisognerà attendere per capire in quale punto le armi
chimiche siriane arriveranno nel nostro Paese. In ogni caso l’operazione è
tra le più delicate mai eseguite. D’altronde un disastro chimico in un mare
chiuso come il Mediterraneo potrebbe portare a conseguenze
apocalittiche. Damasco, anche se in ritardo, sta trasferendo le sue armi nel
porto di Latakia, dove una parte è già stata caricata su una nave danese.
Questa nave le trasferirà nel porto dove verranno caricate sulla Cape Ray,
l’unità americana attrezzata a distruggerle con l’idrolisi. Gli Stati Uniti
non possono prelevare direttamente le armi nel porto siriano, per ovvie
ragioni diplomatiche, e quindi effettuare il transito in sicurezza è diventata
una delle priorità più importanti per la Organization for the prohibition of
chemical weapons, che gestisce l’intera operazione.
Nel silenzio dei politici calabresi è il Wall Street Journal ad affrontare la
situazione con un pezzo pubblicato ieri e intitolato "Local opposition in
Italy risks delaying syrian arsenal destruction", cioè le resistenze locali in
Italia rischiano di ritardare la distruzione dell’arsenale siriano.
Il Wsj cita in particolare il no di Brindisi, e la lettera del governatore della
Sardegna Ugo Cappellacci. Nulla registra sul fronte calabrese perché nulla
c'è da registrare. Conclude rassicurando che «nonostante queste resistenze,
Roma è determinata ad andare avanti: giovedì il rappresentante della
Opcw sarà in Parlamento per partecipare ad una audizione, e in quella
occasione il ministro degli Esteri Bonino conta di annunciare il nome del
porto».
Così, mentre il nostro governatore si dedica alla caccia ai fantasmi ed alle
interviste di adulatori che abusivamente esercitano la professione
giornalistica, la Calabria si ritrova al centro di uno scenario di guerra a
motivo delle operazioni di smaltimento dell’arsenale militare siriano nella
disponibilità del dittatore Bashir Al Assad. Un’operazione militare senza
precedenti che si terrà nel bacino del Mediterraneo.
Ma dove saranno smaltite le armi siriane? La scelta è caduta sull’Italia
dopo i rifiuti da parte di diversi paesi dell’area Nato. Ha rifiutato dapprima
la Francia di Hollande, poi la Danimarca – che sarà comunque coinvolta
con alcune navi nell’operazione – ed infine, lo scorso novembre, anche
l’Albania ha detto no agli Stati Uniti dopo che manifestazioni di protesta
si erano svolte a Tirana dove centinaia di giovani si erano radunati sotto
l’ufficio del premier Edi Rama. Dal Pentagono è quindi partita una
richiesta al nostro governo che ha risposto positivamente.
Le operazioni sono già iniziate. Il governo danese ha commissionato alle
navi Taiko ed Ark Futura, quest’ultima di proprietà della danese Dfds
Seaways, il viaggio dal porto siriano di Latakia da dove sono partite il 7
gennaio. Il convoglio dovrà arrivare in una località segreta in Italia dove le
armi verranno trasbordate sulla Cape Ray, il super cargo della marina
militare americana. La nave è partita dal porto di Portsmouth in Virginia.
(fonte: Ida Dominijanni)
link:
http://www.corrieredellacalabria.it/stories/cronaca/20455_le_armi_siriane_arrivano
_a_gioia_un_porto_senza_proteste/
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Nonviolenza
La Resistenza della Danimarca (di Sergio Luzzatto)
L’8 settembre della Danimarca fu inaugurato da un telegramma. Era il
telegramma inviato a Berlino da Werner Best, giovane ufficiale delle SS
che Hitler aveva nominato da poco, in quell’estate 1943, plenipotenziario
del Reich a Copenaghen. «Una coerente attuazione del nuovo corso in
Danimarca comporta adesso, a mio parere, una risoluzione della questione
ebraica nel Paese»: così Best telegrafava a Berlino, e tutto lasciava
intendere che la risoluzione della faccenda coincidesse anche lì con la
Soluzione finale. Invece no. La storia prese tutt’altra piega. Per gli ebrei
locali – diversamente che in Italia – l’8 settembre ’43 segnò l’inizio di una
tragedia a lieto fine.
Ormai da tre anni e mezzo la Danimarca era stata occupata dai tedeschi
sotto uno strano regime di compromesso, una specie di occupazione
pacifica per cui il Reich non aveva dichiarato lo stato di guerra né si era
assunto la responsabilità degli affari interni danesi. A differenza che in
Norvegia, dove la monarchia e il governo costituzionale erano stati
deposti con l’avvento del collaborazionista Quisling, in Danimarca il re
Cristiano X era rimasto sul trono e le istituzioni democratiche avevano
continuato a funzionare. I tedeschi avevano tenuto quasi soltanto a
garantirsi, attraverso il controllo dello stretto di Øresund, la regolarità
delle comunicazioni dal mar Baltico al mare del Nord, e inoltre un accesso
diretto alla produzione agricola danese.
Ma nell’agosto 1943 il precario equilibrio dell’occupazione pacifica si era
infranto contro un’ondata di sabotaggi, scioperi, sommosse, cui i tedeschi
avevano risposto instaurando la legge marziale. E scatenando infine la
caccia – anche in Danimarca – contro il nemico per eccellenza, l’orrido
giudeo: contro i sette-ottomila ebrei presenti allora sul territorio danese.
Tremila circa di questi discendevano da famiglie insediate fin dal Seicento
e appartenevano a un’élite assimilata. Circa altrettanti, i cosiddetti «ebrei
russi», erano arrivati all’inizio del Novecento fuggendo la povertà e i
pogrom dell’Europa orientale. Mille e passa erano giunti di recente:
profughi tedeschi, austriaci, boemi, in fuga dalla persecuzione nazista.
Uomo di fiducia di Himmler, il «dottor Best» – come rispettosamente
veniva qualificato a Copenaghen – sapeva quel che il capo delle SS si
aspettava da lui: un personale contributo all’opera di disinfestazione
razziale, la liquidazione degli ebrei dalla Danimarca verso le terre dello
sterminio. Senonché Werner Best era un ufficiale nazista particolarmente
colto, sensibile, e scaltro. A fine settembre ’43, quando ricevette da
Berlino l’ordine esplicito di procedere all’arresto e alla deportazione di
tutti gli ebrei «purosangue», Best ebbe l’intelligenza di capire che la
Danimarca non era, agli effetti della Soluzione finale, un Paese d’Europa
come un altro. Decise allora di intraprendere un temerario doppiogioco. In
apparenza, promosse l’operazione di pulizia etnica. In sostanza, procurò di
limitarne la riuscita.
molto tardi su La7.
Ciò che rendeva la Danimarca un Paese diverso era una diversa
concezione del “noi” e del “loro”. Agli occhi dell’opinione pubblica,
l’altro da sé non era l’israelita, cittadino danese o profugo straniero, che
partecipava di una diaspora millenaria: l’alieno era il nazista, tedesco o
indigeno, che designava l’ebreo come un «sottouomo». Così, proprio
l’avvio dell’operazione antiebraica suscitò in Danimarca – dopo tre anni e
mezzo di attendismo, o di larvato collaborazionismo – un movimento
spontaneo di resistenza civile. E generò, rispetto ad altri contesti di
persecuzione degli ebrei d’Europa durante la Seconda guerra mondiale,
una configurazione originale del rapporto tra carnefici, vittime e spettatori.
L'inchiostro delle severe motivazioni che la Corte Costituzionale ha scritto
per sancire l'illegittimità costituzionale del Porcellum non si è ancora
asciugato ed ecco che Renzi e Berlusconi hanno stipulato un patto
d'acciaio per riscrivere un secondo porcellum, molto peggiore del primo.
La Corte Costituzionale ha cancellato il premio di maggioranza combinato
con l'assenza di una soglia minima perchè è "tale da determinare
un'alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato
sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo
comma, Cost.)"?
Loro lo ripristinano, mettendo una soglia minima talmente bassa da
comportare una distorsione enorme della volontà popolare espressa ed
incidere gravemente sull'eguaglianza del voto.
La Corte costituzionale ha detto che non è compatibile con la Costituzione
un sistema in cui la scelta dei rappresentanti è rimessa esclusivamente
nelle mani dei partiti, osservando che "in definitiva, è la circostanza che
alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il
sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica
della rappresentanza consegnata nella Costituzione (..)?
Loro ripristinano le liste bloccate, limitandosi soltanto a ridurne la
lunghezza incrementando il numero delle circoscrizioni: il risultato sarà
sempre lo stesso, il 100% dei "rappresentanti" del popolo saranno
nominati dai capi dei 3 partiti che sono ammessi ad avere la
rappresentanza in Parlamento.
Qui c'è un'altra modifica ulteriormente peggiorativa del porcellum. La
legge Calderoli comprimeva la rappresentatività delle assemblee
parlamentari non soltanto con l'artificio del premio di maggioranza ma
anche con la previsione di soglie di sbarramento variabili fissate, alla
Camera, nel 2% per le liste in coalizione e del 4% delle liste non
coalizzate. Mediante la combinazione di premio di maggioranza e soglie
di sbarramento, milioni di elettori non hanno trovato rappresentanza in
Parlamento nelle elezioni per la XVI e XVII legislatura (2008 e 2013).
Adesso questo sistema viene reso ancora più esclusivo raddoppiando le
soglie di sbarramento e portandole al 5 e all'8%.
Su 30 milioni di votanti alla Camera (esclusi i voti del Trentino, della
Valle D'Aosta e della Circoscrizione estero) l'8% sono 2.400.000 voti.
Questo significa stabilire per legge che partiti che hanno il consenso di
2.400.000 elettori (meno uno) non hanno il diritto di essere rappresentati
in Parlamento, con la conseguenza inevitabile che milioni di elettori
verrebbero espulsi, per legge, dal circuito della rappresentanza politica.
Non si era mai verificato un attacco così grave ai diritti politici del
cittadino. E non si tratta di un problema che riguarda soltanto i potenziali
elettori dei "piccoli" partiti, riguarda tutti i cittadini elettori perchè attiene
al principio costituzionale della libertà del voto. Il voto non è "libero",
infatti, se i cittadini non sono liberi di scegliersi da chi essere
rappresentati.
Ed è incredibile che gli attori politici che si apprestano ad infliggere un
vulnus così grave alla democrazia costituzionale possano agire
impunemente senza essere impallinati dai media.
Eppure una volta in Italia c'è stata una grande mobilitazione popolare che
ha portato al rigetto a furor di popolo di una legge elettorale che feriva
l'eguaglianza dei cittadini nel voto. Questa legge è stata bollata d'infamia
ed è passata alla storia come la "legge truffa".
Se noi la paragoniamo alla legge Renzi-Berlusconi, la legge truffa ci
potrebbe apparire come un miraggio. Essa infatti prevedeva sì un premio
di maggioranza del 15%, ma lo dava soltanto a quella coalizione di forze
che avesse ottenuto la maggioranza dei consensi da parte degli elettori e
Sapientemente ricostruita ed efficacemente raccontata, è questa la storia
che si legge nel libro di Bo Lidegaard, Il popolo che disse no: è
l’avventurosa storia del salvataggio di massa di quei sette o ottomila ebrei
di Danimarca. Entro le prime due settimane dell’ottobre 1943 la
stragrande maggioranza di loro poté traversare lo stretto di Øresund e
raggiungere la Svezia, la cui neutralità nella guerra equivaleva alla
salvezza. Gli ebrei furono indirettamente aiutati dagli uomini delle
istituzioni, che rifiutarono di prestare ai tedeschi qualunque tipo di
assistenza politica, militare, culturale. Furono indirettamente aiutati da
uomini di chiesa come il vescovo di Copenaghen, che contro la violazione
nazista del diritto fece appello alla libertà di coscienza del suo gregge.
Soprattutto, gli ebrei furono aiutati dal soccorso diretto della gente
comune. Inseguite dai carnefici, le vittime vennero assistite dagli
spettatori, che in Danimarca non rimasero tali.
Si prenda un posto come Gilleleje, villaggio di pescatori all’estremo nord
dello stretto di Øresund. Millesettecento anime che da un giorno all’altro
si trovano ad accogliere – a nascondere, a scaldare, a nutrire, infine a
imbarcare – diverse centinaia di ebrei sconosciuti, danesi o stranieri,
uomini donne vecchi bambini. Certo, per i pescatori di Gilleleje la rotta
degli ebrei braccati dalla Gestapo corrisponde a una benvenuta
opportunità economica: pur di salire su una barca e arrivare in Svezia, i
profughi sono pronti a sborsare fino all’ultima corona che resti loro in
tasca. Ma i soldi versati ai pescatori non bastano per spiegare la nascita, a
Gilleleje, di un «Comitato ebraico» animato dal meccanico Petersen e dal
droghiere Lassen insieme al falegname del villaggio, al maestro di scuola,
al medico condotto e al presidente del consiglio parrocchiale. I soldi non
spiegano la mobilitazione di una comunità locale che, salvando la vita agli
ebrei fuggiaschi, intende salvarsi come comunità umana.
12 gennaio 2014
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-01-12/la-resistenzadanimarca-084352.shtml?uuid=ABXYpAp
Sergio Luzzatto insegna Storia moderna all’Università di Torino. Si è
laureato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e compiuto gli studi
dottorali alla Scuola Superiore di Studi Storici di San Marino. È stato
anche docente presso l’Università di Genova e l’Università di Macerata.
Studioso della Rivoluzione francese, ha scritto anche di storia italiana fra
Otto e Novecento, in particolare sulla questione del revisionismo in
materia di lotta partigiana.
Dal 2002 al 2004 ha condotto il programma televisivo di
approfondimento storico Altra Storia, che andava in onda il sabato sera
5
Il suo saggio Bonbon Robespierre ha vinto nel 2010 la tredicesima
edizione del premio letterario città di Bari nella sezione saggistica.
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://serenoregis.org/2014/01/16/la-resistenza-della-danimarca-sergioluzzatto/
Politica e democrazia
Ridateci la legge truffa! (di Domenico Gallo)
non fissava soglie di sbarramento per impedire l'accesso al Parlamento
delle minoranze politiche.
Per favore qualcuno risusciti l'opposizione.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2002
Politiche sociali
Abitare gli spazi pubblici: Più donne in strada. La
sicurezza siamo noi (di Michela Barzi)
Cosa ci fa sentire al sicuro quando camminiamo per le strade in città?
Negli ultimi anni le istituzioni hanno risposto quasi ovunque promettendo
più forze dell'ordine. Ma la presenza di persone comuni in strada, il
recupero di spazi pubblici e molti sguardi che osservano fanno assai più di
divise e pattuglie. L'esempio di una campagna Usa
La politica da tempo propone una maggiore presenza delle forze
dell'ordine nei quartieri come programma di sicurezza urbana. Ogni volta
che un crimine viene commesso nelle strade delle città c'è sempre
qualcuno che invoca o promette più controlli di polizia per rafforzare il
“senso” di sicurezza. Evidentemente alla sicurezza vera e propria si
preferisce anteporre quella percepita, ma basterebbe riflettere qualche
istante per rendersi conto che è proprio la presenza delle forze dell’ordine
l'indicatore dell'insicurezza di un luogo mentre le persone che si muovono
liberamente in strada rassicurano con la loro stessa presenza. Al contrario,
uno degli indicatori della sicurezza di un luogo è la presenza delle donne,
sia come componente dell’umanità che anima la vita delle strade, sia come
attrici di una forma antica ed efficacie di controllo di ciò che avviene nelle
strade.
Tra i ricordi d’infanzia degli adulti di oggi c’è probabilmente un membro
della famiglia ad osservarli mentre attraversano la strada per andare a
scuola o a controllare che tutto andasse bene nel luogo dove i bambini
s’incontravano a giocare. Nella maggior parte dei casi era una figura
femminile, una madre, una nonna, una sorella maggiore ad occuparsi di
dare un occhio ai più piccoli. Ancora oggi sono soprattutto le donne ad
accompagnare i bambini a giocare all’aperto, certo non nelle strade
dominate dalle auto ma nei giardini pubblici e ovunque esista uno spazio
sicuro.
Qualche tempo fa è capitato che in Texas una madre di due bambini di 6 e
9 anni fosse arrestata per aver consentito loro di uscire a giocare nella
strada cul de sac davanti alla loro abitazione in un sobborgo residenziale.
Malgrado la signora stesse sull’uscio di casa a buttare un occhio sulla
strada dove i pargoli si divertivano con i monopattini, qualche vicino ha
pensato di chiamare la polizia e di denunciarla per aver messo i figli in
pericolo. Eppure la signora stava facendo una cosa che milioni di madri
urbane hanno fatto da sempre: controllare che i bambini potessero usare la
strada per il proprio divertimento e come mezzo di esplorazione del
mondo.
Osservare cosa succede sulla strada ed in generale negli spazi pubblici
dove s’incontra una comunità di persone non ha nulla a che vedere con il
controllo dell’ordine pubblico svolto dalla polizia. Anzi, l’attenzione al
modo in cui nello spazio pubblico s’incontrano i diversi attori sociali
dovrebbe rientrare nelle competenze di chi si occupa di pianificare la città.
Lo affermava più di 50 anni fa Jane Jacobs che urbanista non era ma che
conosceva molto bene i danni prodotti dalla pianificazione urbana
disattenta alla società. La strada e lo spazio pubblico in genere sono il
teatro della convivenza civile, il luogo dove le persone s’incontrano e
mischiano le loro diversità. Come tutti sanno per esperienza diretta,
l’intensità e la varietà di questi incontri è una garanzia di sicurezza: è
normale sentirsi in pericolo camminando in una strada deserta, mentre al
contrario più le strade sono affollate più ci sentiamo sicuri. Ciò accade
perché le persone che vi transitano o che si affacciano dalle finestre degli
edifici, sono in grado di restituire la sensazione di controllo esercitata dai
loro occhi. Avere molti occhi sulla strada, ci ricorda Jacobs nel suo Vita e
morte delle grandi città americane, è uno straordinario antidoto contro il
6
crimine ed è un potente collante del senso di comunità.
Le strade dei sobborghi dominati dall’auto, con le strade che finiscono
dentro la lottizzazione e le file di garage che affianco agli ingressi delle
villette, sono quanto di meno adatto esista per fare passeggiate ed
incontrare le persone. Qui l’abitante privo dell’auto semplicemente non
esiste. Tanto meno, in quanto agglomerati edilizi monofunzionali, questi
insediamenti residenziali si possono definire quartieri,
dato che
l’interazione tra persone che avviene nello spazio pubblico lì non trova le
condizione per esistere.
I figli della signora texana, malgrado la brutta esperienza della madre,
sono fortunati: a differenza degli altri bambini dei sobborghi a loro è
consentito spostarsi non esclusivamente sull’auto. Eppure da tempo i
medici e gli psicologi lanciano periodici allarmi sulle conseguenze della
mancanza di movimento da parte dei bambini. Stress ed obesità,
insicurezza e depressione sono in crescita tra i minori di 15 anni,
perennemente accompagnati da un genitore in auto a scuola, a svolgere
l’attività sportiva, e persino a giocare dagli amici. E’ quasi sempre la
madre a farsi carico di questi spostamenti che potrebbero essere evitati se
per il gioco ai bambini fosse data la possibilità di uscire di casa da soli, se
le scuole non fossero costruite a distanze impossibili da coprire a piedi, se
i percorsi casa-scuola fossero pensati anche per chi usa la bicicletta.
Justice for Family, un’associazione che negli Stati Uniti si occupa di
riformare il sistema giudiziario minorile, lo scorso 6 agosto ha dato vita
all’evento Night Out for Safety and Democracy. L’immagine del
manifesto realizzato per l’occasione, qui riportato, sarebbe probabilmente
piaciuta a Jane Jacobs che quell’idea di strada piena di scambi sociali
l’aveva fortemente difesa contro l’urbanistica dei sobborghi-giardino,
collegati alla città solo dalle strade di scorrimento veloce automobilistico.
E un caso che nel manifesto chi osserva la vita della strada sia una donna?
No, perché l’osservazione è un’attività di cura ancora prevalentemente
svolta dalle donne, come ci ricorda l’espressione inglese to look after.
L’approccio di Justice for Family alla sicurezza urbana è esattamente
l’opposto di ciò che normalmente avviene nel sobborgo, dove le strade
sono pattugliate dalla polizia e dalle agenzie di sicurezza privata. Gli occhi
sulla strada promossi con la loro iniziativa sono finalizzati ad evitare che
della sicurezza di un quartiere si debba occupare le forze dell’ordine. E’ il
senso di appartenenza alla comunità che spinge i cittadini ad usare lo
sguardo per rendere più sicuro il proprio quartiere, mentre, al contrario,
l’individualismo del sobborgo genera l’insicurezza del suo abitante appena
fuori da casa o dall’auto. Una diversa considerazione del ruolo delle donne
nella sicurezza urbana e nel campo della pianificazione urbanistica, che ha
una grande responsabilità circa la separazione dei flussi della mobilità
gerarchicamente basati sull’auto, servirebbe molto a cambiare le cose, e
chi sa se almeno lo capiranno le donne che pur lentamente stanno
cominciando a far parte delle amministrazioni comunali.
Riferimenti
Kaid Benfield, A City With No Children,
http://www.theatlanticcities.com/neighborhoods/2013/11/city-nochildren/7541/
Sarah Goodyear, A New Way of Understanding 'Eyes on the Street',
http://www.theatlanticcities.com/neighborhoods/2013/07/new-wayunderstanding-eyes-street/6276/
(fonte: InGenere)
link: http://www.ingenere.it/articoli/piu-donne-strada-la-sicurezza-siamo-noi
Questione di genere
Conto alla rovescia (di Maria G. Di Rienzo)
La ragazza che vedete, Shumaya, ha 16 anni. Il suo viso non è stato
sempre così, segnato dal dolore e con un occhio che continua
inesorabilmente a gonfiarsi. Da quando di anni ne aveva 11, Shumaya
lavora come cucitrice, e quando ne aveva 13 finì in una fabbrica di
indumenti, la Tazreen Fashions Ltd., in un sobborgo di Dhaka,
Bangladesh.
La ditta è conosciuta per il suo ruolo di subappaltatrice, assai comune nel
paese: fabbriche più grandi accettano ordinazioni che non sono in grado di
soddisfare e le girano ad altri produttori che sono ancora meno attenti di
loro agli standard di sicurezza. Grazie alle paghe da fame per i lavoratori –
in grande maggioranza lavoratici – e ai costi irrisori di produzione, il
paese è un paradiso per ditte e marchi di Europa e Stati Uniti: Calvin
Klein, Tommy Hilfiger, Speedo, Izod, Benetton, Inditex (Zara), H&M,
Tesco, Walmart, Sears, Gap, Target, Macy’s… tutti sfruttano all’osso
bambine, ragazze e donne – e magari poi cercano di venderci i loro
stramaledetti vestiti con qualche “pubblicità progresso” o ci danno lezioni
sulla violenza di genere (vero, Benetton?).
Shumaya lavorava 12 ore al giorno per 6 giorni la settimana: doveva
cucire 90 pezzi l’ora (magliette, abiti, cappucci, jeans) e poteva andare in
bagno solo durante la pausa per il pranzo. Sino al 24 novembre 2012,
quando di colpo le luci si spensero e la ragazza si trovò nel mezzo di un
disperato parapiglia verso l’uscita: un incendio era scoppiato al primo
piano e si era rapidamente propagato. Al quinto piano, dove Shumaya si
trovava, in breve il fumo fu così fitto da accecare le lavoratrici. Durante la
fuga la giovane si prese parecchi colpi involontari, soprattutto al viso, e
cadde svenuta. Le colleghe riuscirono a sollevarla e a passarla da una
finestra ad un altro edificio.
Almeno 112 persone morirono quel giorno. Mentre fuggivano, le operaie
videro che l’incendio si era originato accanto all’uscita – in un’area
adibita a magazzino per la stoffa – e dovettero accorgersi che le porte della
fabbrica erano tutte chiuse dall’esterno. Molte si lanciarono dalle finestre,
con in mente la preghiera di non morire e di non restare paralizzate.
L’anno successivo, in Rana Plaza, il collasso dell’edificio di una fabbrica
simile lascerà sul terreno 1.130 cadaveri.
Shumaya tuttavia era scampata, si sarebbe ripresa, avrebbe vissuto. Ma i
giorni e i mesi passavano e il dolore al viso aumentava invece di
diminuire; l’occhio non si sgonfiava, il naso perdeva sangue di continuo.
La madre della ragazza, la 37enne Kala Begum, la accompagnò infine dal
medico ed entrambe seppero cos’era accaduto: le ferite toccate a Shumaya
durante la fuga dal fuoco sono state esposte ai gas tossici prodotti dallo
stesso e adesso, dietro agli occhi, Shumaya ha un tumore che cresce. Gran
parte dei miseri guadagni di sua madre, che ha lavorato anch’ella come
cucitrice ed ora fa mattoni, vanno a pagare gli antidolorifici e altri
medicinali destinati ad alleviare l’intensa sofferenza di Shumaya. Anche i
tre gioielli che Kala possedeva sono andati in medicine. Le due vivono in
una stanza praticamente vuota, il cui unico mobile è un letto.
Kala e Shumaya
Nel dicembre scorso, il proprietario della Tazreen Fashions Delwar
Hossein è stato finalmente denunciato assieme ad altre 12 persone per
omicidi colposi dovuti a negligenza: è la prima volta che capita, in
Bangladesh. Poiché tutti i proprietari hanno forti connessioni con politici
locali e poteri esteri, è incerto se Hossein sarà condannato e se, qualora lo
fosse, passerà o no del tempo in galera.
Shumaya e sua madre, va da sé, non hanno ricevuto alcun compenso per
quanto è accaduto, ne’ hanno titolo legale a riceverlo. Grazie ad una
campagna di sottoscrizione, Shumaya si è sottoposta ad un trattamento di
irradiazione in un ospedale di Dhaka abbastanza costoso, ma non ne ha
ricavato alcun beneficio. Gli attivisti hanno tentato di organizzarle un
viaggio in Europa per curarla, ma Shumaya – minorenne – non può
ottenere un passaporto senza la firma di suo padre. E suo padre è
praticamente irreperibile. Kala Begum è fuggita da lui grazie
all’ammontare di abusi e violenze di cui faceva grazioso dono a moglie e
figlia. Che sopravvivono facendo il conto alla rovescia: quanto manca alla
morte per cancro di Shumaya?
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Maria G. Di Rienzo
(Fonti: Joseph Allchin per Takepart e Financial Times, World Time,
Reuters, New York Times)
(fonte: LunaNuvola's Blog - il blog di Maria G. Di Rienzo)
link: http://lunanuvola.wordpress.com/2014/01/02/conto-alla-rovescia/
Ci rincuora e ci dà da riflettere (di ComboniFem Redazione Newsletter Suore Comboniane)
Chissà che pensieri avranno attraversato la mente di Roxanna in quei nove
mesi in cui si è accorta di aspettare un bambino e andava a giustificare il
gonfiore del ventre con una gastrite. Chissà quale paura l’ha
accompagnata fino a quell’ultima telefonata per chiamare l’ambulanza,
facendosi ricoverare per “sospetta colica renale”. Chissà quale senso di
liberazione l’avrà pervasa, quando tra le braccia ha tenuto per la prima
volta il suo Francesco, sentendosi “più madre che suora” e riconoscendo
in lui “un dono di Dio”.
Tutto questo non lo sappiamo, possiamo solo intuirlo. Tutto questo magari
un giorno lo racconterà. Intanto siamo ben a conoscenza di quanto
clamore abbia accompagnato la notizia di “una suora che partorisce”, di
quante assurdità si siano scritte a partire dal ricovero (“sospetta gravidanza
in suora” (!!!) come se ci fosse differenza…), dell’atteggiamento avuto da
chi doveva starle accanto. Anche se “ha mentito”. Anche se “non ha
saputo resistere alle tentazioni”. Anche se “ha fatto tutto da sola”. Anche
se “è venuta meno a uno specifico voto”.
Vengono alla mente storie di paternità sacerdotali, immuni da tanto
clamore mediatico e da allontanamento dalla canonica. Ci rincuora invece
l’affetto laico delle madri e dei padri della maternità dell’ospedale di Rieti,
il loro saper avvolgere il piccolo Francesco, ancora privo di corredino, di
tutine e cuffiette, la loro solerzia nel dar vita a una colletta per
l’immediato domani di questa neomamma che “non tornerà” (la priora è
stata chiara) nel convento delle Piccole discepole di Gesù. Ci rincuora,
certo, il volto laico di questo Dio caritatevole. Ci rincuora e ci dà da
riflettere.
Fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane n. 3/2014 del
23/01/2014
(fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane n. 3/2014 del 23/01/2014)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2003
Notizie dal mondo
Afghanistan
Speranze di emancipazione in Afghanistan (di
Barbara Gallo)
Dopo la guerra fredda, il modo tradizionale di fare guerra è tramontato ed
è subentrato, al suo posto, un nuovo modello di conflitto, in cui gli attori
in campo hanno mezzi a disposizione e finalità di obiettivi completamente
diversi fra loro, in un regime di evidente asimmetria. La diretta
conseguenza è che nelle guerre contemporanee sempre più spesso la
popolazione civile è direttamente coinvolta nelle dinamiche degli scontri
sul campo.
In particolare le donne diventano arma strategica e questo vuol dire, nella
pratica, che nei loro confronti si verificano efferate violenze. I conflitti
sono però al contempo occasione di apertura di inaspettati e nuovi spazi
sociali. Caso emblematico è l’Afghanistan, paese in stato di guerra da
ormai più di 30 anni, il quale, se da una parte è tristemente famoso per
l’oppressione e la forte violazione dei diritti umani subiti soprattutto dalle
donne, dall’altra registra un vasto movimento femminile e che lotta
attivamente per la parità dei diritti e per l’uguaglianza di genere.
L’Afghanistan, letteralmente la terra dei Pasthun in lingua persiana è il
crocevia dell’Asia centrale. Il suo essere la porta naturale di passaggio tra
il Medio oriente e il subcontinente indiano ne ha fatto, per secoli, teatro di
guerre e invasioni [1]. Nei primi anni ’90 del secolo scorso, all'indomani
della ritirata dell’Unione sovietica dal paese, che ha lasciato l’Afghanistan
dilaniato dalla guerra civile e con il conseguente collasso del suo sistema
economico e sociale, compaiono sulla scena i talebani che conquistano
Kabul nel 1996. Accolti inizialmente con favore, i talebani, letteralmente
studenti di religione, incarnavano il ritorno ad una situazione di stabilità e
ad un ritorno al “vero Islam”. In realtà i talebani iniziarono ad emettere
una serie di editti e restrizioni che toccavano soprattutto il mondo
femminile con l’unico fine di rendere invisibile metà della popolazione:
alle bambine fu vietato di andare a scuola e alle donne veniva impedito di
lavorare, creando così gravi conseguenze economiche per tutta la famiglie
la cui sopravvivenza dipendeva anche dal lavoro femminile. Questi editti
segnarono ovviamente l’involuzione di ogni processo di emancipazione
femminile presente nel Paese, grazie al quale, prima dell’avvento dei
Talebani, molte donne afghane lavoravano nel campo dell’istruzione come
insegnanti ed educatrici.
Nel 2012 la ricercatrice statunitense Anna Pessala ha svolto
un’interessante ricerca sulle donne pasthun in Pakistan e in Afghanistan,
prendendo in esame varie aree tematiche relative al loro stile di vita,
all'economia e alle loro aspettative [2]. Lo studio ha rilevato che, sebbene
in entrambi i paesi le donne non lavorino quasi mai fuori di casa – nel
2012 il 95% delle donne afghane pasthun svolgeva unicamente attività
domestiche contro il 91% delle donne Pakistane - il reddito delle donne
afghane pasthun è molto inferiore a quello delle donne che vivono in
Pakistan. C'è da notare una profonda differenza tra zone tribali rurali e
grandi città; le zone tribali sono ad oggi di fatto ancora sotto il controllo
dei talibani, che continuano ad esercitare una forte pressione sulla
popolazione, imponendo regole severe e causando una forte
discriminazione tra ruoli sociali maschili e femminili.
In Afghanistan proprio a causa della guerra i cambiamenti maggiori hanno
riguardato le donne, le quali, con mariti, padri e fratelli impegnati a
combattere, si sono ritrovate, giocoforza, a sobbarcarsi il mantenimento
della famiglia. Ciò ha permesso, a molte di loro, di apprendere un
mestiere, di andare a scuola e di uscire fuori dalle mura domestiche,
creando di fatto un cambiamento nella struttura sociale del gruppo di
appartenenza. Sono diverse le organizzazione afghane gestite da attiviste
locali che promuovono programmi di educazione ed alfabetizzazione.
Questo spiega quale sia il dramma di queste donne, divise tra la modernità
della globalizzazione (la popolazione dell’Afghanistan possiede un
numero elevatissimo di strumenti elettronici quali computer e cellulari) e
le regole millenarie del Pasthunwali.
È un errore, quindi, immaginare l'Afghanistan solo come un paese di
donne oppresse e silenziose; molte di loro infatti combattono battaglie
quotidiane contro le violenze, i soprusi e le brutalità quotidiane. Alcune
sono sconosciute, ma altre, invece, sono salite alla ribalta della cronaca
per gesti e dimostrazioni che passeranno alla storia. Una di queste è
Malalai Joya, attivista afghana trentenne che ha sfidato i Signori della
guerra denunciando pubblicamente le loro violenze ed efferatezze. Ad
oggi è sfuggita a sei attentati ed è costretta a vivere indossando l’odioso
burqa che lei ha sempre combattuto con forza. Malalai, come molte altre
donne afghane non ha mai smesso di combattere, nonostante le
intimidazioni e le difficoltà e come spiega lei stessa: “A coloro che
vogliono far tacere la mia voce io dico: sono pronta , quando e ovunque
vogliate colpirmi. Potete uccidere me, ma non potrete mai uccidere il mio
spirito”. Dati significativi riguardano poi l’introduzione dei nuovi mezzi di
comunicazione (internet e telefoni cellulari) che in futuro potranno portare
a cambiamenti profondi in queste società così staticamente legata al
passato.
Sia nella fase di pieno svolgimento del conflitto, che di quello postconflict è determinante l'impegno degli organismi internazionali e delle
Ong che hanno il ruolo di aiutare le donne in un percorso di sostegno e
formazione che permetta loro di raggiungere un ruolo sociale consapevole
e partecipato e di godere pienamente dei loro diritti fondamentali. Per
esempio nel 2003 nell’area urbana e periferica di Kabul la Fondazione
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Pangea Onlus ha avviato il Progetto Jamila. L’intento è quello di rivolgersi
alle donne economicamente in difficoltà, ma motivate a voler contribuire
ad un miglioramento della loro vita e di quella dei loro familiari.
Fondazione Pangea permette alle donne che lo richiedano di avere accesso
ad un microcredito con l'obiettivo di avviare un’attività generatrice di
reddito e di seguire, allo stesso tempo, un programma formativo di
alfabetizzazione. Ad oggi le beneficiarie sono più di 3.000 e grazie a
questo progetto molte donne hanno avuto la possibilità di curarsi
gratuitamente e di poter mandare i figli a scuola e di riacquistare fiducia in
se stesse.
di Barbara Gallo
* Il presente articolo è una sintesi de Il ruolo sociale delle donne nei teatri
di crisi. Il caso afghano.
[1] Per approfondimenti: E. Giunchi (a cura di), Afghanistan. Storia e
società nel cuore dell’Asia, Carocci, Roma, 2007
[2]Per approfondimenti si veda A. Pessale (a cura di), Perspective on
Attidìtudes and Behaviours of Pasthun women in Pakistan and
Afghanistan, D3 System, Inc. Virginia, USA, 2012. Lo studio è basato su
un serie di interviste (circa 2.000) condotte sul campo nel 2007. Sono state
intervistate circa 100 donne pasthun nella FATA, in Pakistan, mentre in
Afghanistan le interviste sono state circa 500.
(fonte: InGenere: donne e uomini per la società che cambia)
link: http://www.ingenere.it/news/speranze-di-emancipazione-afghanistan
Palestina e Israele
Creatività contro ingiustizia, le donne nel conflitto
israelo-palestinese (di Giulia Daniele)
Sono le donne a mettere in campo pratiche politiche creative e non
violente che aprono lo sguardo a scenari di pace ancora da inventare,
mettendo in discussione i confini e le narrazioni dell'occupazione.
La realtà odierna di occupazione militare continuativa, dimostra che non è
stata raggiunta nessuna soluzione giusta. In questo scenario, cercando di
andare oltre il piano etno-nazionalista che divide quella terra nella
dicotomia del “noi” e gli “altri”, e nella peculiarità del conflitto tra gli
“occupati” e gli “occupanti”, l’attivismo delle donne continua a
rappresentare una delle poche alternative politiche a suggerire prospettive
realizzabili per una soluzione pacifica ed equa. Numerose attiviste e
studiose di entrambi i fronti hanno appoggiato proposte politiche
finalizzate a sviluppare un confronto e azioni che superino le divisioni
etno-nazionaliste, attraversando confini politici e geografici.
Dopo il fallimento degli Accordi di Oslo, lo scoppio della seconda Intifada
e la fine dello storico “due popoli, due stati” molte iniziative del
movimento delle donne hanno avuto problemi politici e strutturali.
Eppure, di recente la non-violenza e la disobbedienza civile vengono
riconsiderate tra gli strumenti utili a raggiungere la fine dell’occupazione
militare. Nonostante rimanga un tema piuttosto marginale nell’agenda
internazionale, visto che l’informazione mainstream è focalizzata
sull’esplosione della cosiddetta “rivoluzione araba”, c’è una generale
consapevolezza del loro potenziale socio-politico come strategia plausibile
nelle iniziative congiunte israelo-palestinesi e in ognuna delle due società.
La resistenza non-violenza palestinese ha una lunga storia, iniziata con le
prime lotte contro il Mandato britannico e culminata nei casi più recenti
sotto la guida del Movimento di Resistenza Popolare Palestinese (Bröning,
2011; Qumsiyeh, 2011). Rispondendo alle ondate rivoluzionarie che si
vanno diffondendo in molti paesi del Medio Oriente e del Nord Africa
dall’inizio del 2011, la partecipazione delle donne in diversi contesti di
resistenza popolare è aumentata in termini numerici, e il loro
coinvolgimento nei processi decisionali come gruppo politico collettivo ha
acquisito maggiore importanza. Le donne attiviste hanno dimostrato la
propria capacità, la propria forza e la determinazione nel riuscire a
diventare protagoniste della lotta, oltre che nel motivare le persone di
ambienti diversi e di opinioni politiche differenti ad unirsi alle loro azioni.
In particolare, nei villaggi più noti della Cis-Giordania, come Bi’lin,
Ni’lin, Budrus, Nabi Saleh, nei quali la lotta non-violenta contro la
costruzione del Muro e in opposizione agli insediamenti illegali israeliani
è cresciuta negli ultimi dieci anni, le attiviste hanno consolidato la loro
posizione organizzando manifestazioni settimanali.
Palestina/Israele.
Altre lotte simili hanno avuto luogo nella zona di Gerusalemme: i
residenti palestinesi hanno dovuto sopportare l’arrivo di coloni ebrei
israeliani che hanno occupato case e palazzi palestinesi per aumentare la
presenza ebraico-israeliana e ottenere il maggiore controllo possibile sul
territorio, oltre che assistere alla demolizione di case che hanno lasciato
senza riparo migliaia di palestinesi. Uno dei simboli più controversi della
resistenza non-violenta a Gerusalemme-est è rappresentata dal quartiere di
Sheikh Jarrah, dove numerose famiglie palestinesi sono state sfrattate
negli ultimi anni per decisione di tribunali israeliani. Opponendosi a
questo piano, donne palestinesi del quartiere si sono organizzate nel
Forum delle Donne di Sheikh Jarrah per affrontare direttamente gli sfratti
israeliani, mentre le attiviste israeliane sono entrate nel Movimento di
Solidarietà con le attiviste internazionali e palestinesi.
Qumsiyeh, Mazin B., 2011. Popular Resistance in Palestine: A History of
Hope and Empowerment. Londra e New York: Pluto Press.
Pur rappresentando una voce minoritaria, alcune donne israeliane,
femministe e orientate alla pace, hanno messo in discussione i propri ruoli
di cittadine dello Stato d’Israele (“l’occupante”) e, soprattutto, il loro
compito nel sostenere le donne palestinesi (le “occupate”) con attività
condivise fondate sui principi di solidarietà tra donne. In questa
prospettiva, una delle iniziative di disobbedienza civile più importanti è
iniziata nel maggio del 2010, quando la scrittrice e attivista Ilana
Hammerman, insieme ad altre attiviste israeliane, ha fatto entrare un
gruppo di donne palestinesi in Israele per godersi il mare per la prima
volta nella loro vita. Queste donne israeliane hanno annunciato
pubblicamente, in particolare scrivendo articoli e annunci pubblicitari nel
principale quotidiano d’Israele Ha’aretz, la loro scelta di non obbedire ad
una “legge illegale e immorale” in relazione alla loro violazione della
Legge sull’Ingresso[1]. I rischi indiretti legati a questi viaggi illegali
hanno inciso su entrambi i fronti: naturalmente, questi rischi sono stati
maggiori per le donne palestinesi, che rischiano severe condanne se
scoperte nel territorio israeliano senza permesso, ma anche nella società
israeliana hanno prodotto aspri dibattiti producendo un atteggiamento di
intolleranza nei confronti di attivisti per i diritti civili e umani.
Iniziative analoghe di disobbedienza civile e non-violenta, come ad
esempio una delle maggiori conferenze congiunte organizzate da donne
palestinesi e israeliane nel marzo del 2011 nella città di Beit Ommar nei
territori palestinesi occupati, hanno prodotto accesi dibattiti in tutta la CisGiordania e in Israele. Prendendo in mano le redini del proprio destino e
agendo in modi più creativi e con notevole successo, le attiviste hanno
sviluppato e affinato le proprie prospettive e forme di resistenza.
L’attivismo dei movimenti delle donne palestinesi ed ebraico-israeliane è
quindi diventato sempre più imprescindibile sia in un quadro teorico
basato sulla critica femminista relativa a situazioni di conflitto, sia riferita
specificamente alla loro resistenza quotidiana all’occupazione militare
palestinese. Se da un lato è necessario tenere a mente le condizioni
strutturali che hanno caratterizzato la realtà dei fatti in Palestina/Israele, è
altrettanto importante sottolineare che un divario tra teoria e pratiche delle
organizzazioni delle donne ha causato la nascita dell’attuale lunga impasse
in corso nell’ambito degli esempi più progressisti di resistenza nonviolenta e di disobbedienza civile. Ciò ha continuato a rappresentare un
tema difficile non solo in relazione alla mobilitazione delle donne, ma
anche nel modo in cui quest’ultima si è occupata delle politiche alternative
attuali e trascorse rispetto alle politiche dominanti, come in generale nei
gruppi pacifisti e nei partiti politici di sinistra. In effetti, attraverso la
primavera e poi l’autunno delle mobilitazioni socio-politiche iniziate nel
2011, resta ancora irrisolta la questione di quale tipo di cambiamenti
politici gli attivisti devono realizzare per porre fine all’occupazione
militare e per produrre una nuova prospettiva di giustizia sociale in
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Riferimenti:
Bröning, Michael, 2011. The Politics of Change in Palestine: StateBuilding and Non-Violent Resistance. Londra e New York: Pluto Press.
Hammerman, I. (2010), ‘If There Is a Heaven’. Ha’aretz, 7 maggio.
[1] La ‘Citizenship and Entry into Israel Law’ (decreto provvisorio),
trasformata in legge nel 2003 e prorogata nel 2007, vieta l’ingresso in
Israele ai Palestinesi dei territori occupati e della Striscia di Gaza, oltre
che agli altri cittadini di “Stati nemici”, come Siria, Libano, Iraq e Iran, a
fini di ricongiungimento familiare con cittadini israeliani. Questa legge ha
causato conseguenze drammatiche, soprattutto per il ricongiungimento
familiare di cittadini palestinesi di Israele con palestinesi della CisGiordania e della Striscia di Gaza.
(fonte: InGenere: donne e uomini per la società che cambia)
link:
http://www.ingenere.it/articoli/creativita-contro-ingiustizia-le-donne-nelconflitto-israelo-palestinese
Recensioni/Segnalazioni
Film
Hannah o del pensare (di Ida Dominijanni)
Fu durante un convegno sul quarantennale del Sessantotto, più di cinque
anni fa, che Margarethe Von Trotta mi anticipò che stava lavorando a un
film sulla vita di Hannah Arendt. Ardua scommessa, pensai e le risposi
provando a immaginare come si potesse restituire la complessità della
vita, del pensiero e della persona di Arendt in un film di due ore. Ma
Margarethe le scommesse, se non sono ardue, non le prende nemmeno in
considerazione; e fino a quel momento le aveva vinte tutte: con Anni di
piombo (Leone d’oro a Venezia 1981), con Rosa Luxemburg (1986), con
Rosenstrasse (20013).
Ha vinto anche questa. Presentato al festival di Toronto del 2012, Hannah
Arendt (coproduzione Germania-Lussemburgo-Francia-Israele) è uscito
nel frattempo con acclamazione di critica e di pubblico negli Stati uniti
(uno dei dieci film migliori del 2013 secondo il New York Times) e in
tutta Europa salvo che in Italia, dove pare che le sale non ritengano
commestibile la storia di una ignota filosofa: un bel sintomo dello stato
dell’arte nel nostro paese. La distribuzione (Ripley’s film e Nexo Digital)
approfitta dunque della Giornata della memoria per mandarlo in 70 sale e
19 città il 27 e 28 febbraio prossimi, e della ripubblicazione per Feltrinelli
de La banalità del male per diffonderlo in formato digitale. Il resto lo
faranno scuole, università e circuiti culturali interessati.
In coppia con la cosceneggiatrice americana Pam Katz (ma sono donne
anche la produttrice Bettina Brokemper, la direttrice della fotografia
Caroline Champetier, la montatrice Bettina Böler), Von Trotta sceglie gli
anni fra il 1960 e il 1964 per condensare vita e pensiero di una delle
protagoniste assolute del Novecento. Reincarnata in una strepitosa Barbara
Sukowa, Hannah vive a New York dal 1941, dopo la fuga in Francia dalla
Germania di Hitler nel ’33, l’internamento nel campo di detenzione di
Gurs e l’esodo oltreoceano con la madre e il secondo marito, Heinrich
Blücher, il comunista tedesco autodidatta incontrato a Parigi e sposato nel
’40.
Sfondando – giustamente – il confine fra privato e pubblico che Arendt
mantenne come un punto fermo della sua filosofia, il film restituisce
assieme la dimensione personale e politica di Hannah, le amicizie e
l’insegnamento, gli amori e il pensiero, incastonati fra la decisione di
andare a Gerusalemme per seguire il processo a Eichmann e il discorso
tagliente tenuto alla New School per rispondere agli attacchi suscitati dal
suo reportage del processo sul New Yorker, con le tesi esplosive sulla
”banalità del male” perpetrato da Eichmann nonché sulla ”cooperazione”
dei vertici della comunità ebraica tedesca con le deportazioni.
Esplosive allora e dopo (Von Trotta: «io stessa ho potuto recepirle appieno
solo dopo la caduta del Muro di Berlino»), perché insopportabili tanto per
la cultura antinazista, rassicurata dall’idea della mostruosità eccezionale di
quel male di cui Arendt svelava invece la banale normalità, tanto per la
comunità ebraica, rassicurata dalla certezza dell’innocenza assoluta delle
vittime. Non solo la comunità intellettuale newyorkese ma tutto il mondo
affettivo di Hannah ne resta terremotato: i colleghi che la invitano a
dimettersi dall’insegnamento, gli amici ebrei che le voltano le spalle, Hans
Jonas, il più antico fra loro, che l’accusa di far prevalere in lei l’arroganza
dell’intelligenza tedesca sulle radici ebraiche.
È il nocciolo anti-identitario e ”non allineato” del pensiero di Arendt che
ci convoca e ci parla tutt’ora, ogni giorno e in ogni circostanza in cui la
certezza dell’appartenenza va a discapito della comprensione dei fatti.
Così come tutt’ora ci parla la battaglia di Hannah per non rinunciare alla
pubblicazione del suo reportage sul New Yorker: allora come oggi, c’è
sempre un caporedattore o una caporedattrice zelante (per inciso, uno dei
personaggi più vivi del film) che ti dice che pensi troppo liberamente per
vendere, o che sei troppo filosofa per fare del buon giornalismo.
C’è nel film questo nocciolo, che si forma nella testa di Hannah durante il
processo al criminale nazista che «siede nella gabbia di vetro come un
fantasma e non è per niente terribile»; ma non c’è solo questo. C’è
l’amicizia di Hannah con Mary Mc Carthy (Janet McTeer) e Lotte Köhler
(fonte diretta della sceneggiatura), quell’amicizia femminile che fu un filo
d’acciaio della «non femminista» Arendt ed è un filo d’acciaio della
filmografia di Von Trotta, da Sorelle a Anni di piombo a Rosenstrasse. C’è
il controverso rapporto d’amore fra Hannah e il suo maestro Martin
Heidegger, una sorta di passato che non passa e che non cessa di tornare,
fra la gratitudine e l’incubo, nei ricordi e nel sonno, irrinunciabile
malgrado e contro l’adesione di Heidegger al nazismo.
C’è, ancor più irrinunciabile, il rapporto con la lingua materna, che
s’impone negli esuli contro l’inglese ogni volta che c’è da discutere di
qualcosa in cui ne va di se stessi (il film alterna infatti le due lingue, e per
fortuna non sarà doppiato in italiano). C’è infine e soprattutto, come ha
notato il NYT, non solo il pensiero ma il pensare di Arendt, quella sua
peculiare capacità di fare la spola fra i fatti e la teoria, fra l’evento e il
concetto, che ne ha fatto la grandezza e che Barbara Sukova lascia
srotolare fra una sigaretta e l’altra, fra una nottata alla macchina da
scrivere e un riposino diurno sul divano, vita activa senza soste e missione
senza tempo.
Erano i favolosi anni Sessanta, quando a New York si poteva ancora
fumare perfino in un’aula della New School, e chissà se pure per questo il
pensiero volava più libero.
Fonte: alfabeta2
(fonte: alfabeta2)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1999
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