The European Commission 1958-1972.Memories of an institution

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The European Commission 1958-1972.Memories of an institution
© Archives historiques de l'Union européenne
© Historical Archives of the European Union
CONSHIST.COM
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Histoire interne de la Commission européenne 1958-1973
Entretien avec
Gianfranco ROCCA
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par Michel Dumoulin et Veronica Scognamiglio
à Bruxelles le 7 juillet 2004
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Transcription révisée par M. Rocca
Coordonnateur du projet :
Université catholique de Louvain (UCL, Louvain-la-Neuve),
dans le cadre d’un financement de la Commission européenne.
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© Archives historiques de l'Union européenne
© Historical Archives of the European Union
Ont collaboré au projet CONSHIST.COM :
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Pr. Michel DUMOULIN, Project manager, Université catholique de Louvain
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M. Yves CONRAD, Deputy project manager, Université catholique de Louvain
M. Charles BARTHEL, Centre d’études et de recherches européennes Robert Schuman (Luxembourg)
Pr. Marie-Thérèse BITSCH, Université Robert Schuman (Strasbourg III)
Pr. Gérard BOSSUAT, Université de Cergy-Pontoise
Pr. Éric BUSSIÈRE, Université de Paris IV – Sorbonne
Pr. Wilfried LOTH, Universität Duisburg-Essen
M. Jean-Marie PALAYRET, Archives historiques de l'Union européenne
Pr. Jan VAN DER HARST, Rijksuniversiteit Groningen
Pr. Antonio VARSORI, Università degli studi di Padova
Nienke BETLEM, Julie CAILLEAU, Veronika HEYDE, Ghjiseppu LAVEZZI, Anaïs LEGENDRE, Myriam RANCON,
Corinne SCHROEDER, Veronica SCOGNAMIGLIO, Mariella SMIDS, Natacha WITTORSKI
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GR: Gianfranco Rocca
MD : Michel Dumoulin
VS: Veronica Scognamiglio
n.r.: nota del redattore dell’intervista
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MD: [Qual è stata la Sua formazione] prima di entrare alla Commissione?
GR: Beh, la mia formazione sono i miei studi, perché io sono arrivato qui nel ’62, avevo 22 anni,
quindi non è che potessi ancora avere esperienza professionale. La mia città d’origine era
Genova, dove frequentavo il corso di Scienze Politiche all’Università. Poi il problema
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dell’impiego: all’epoca Genova era la capitale italiana delle società petrolifere; nel ’62 tutte le
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grosse multinazionali petrolifere erano lì...Eh...va beh, magari questi sono dettagli molto
personali, ma insomma, ecco mio padre lavorava a Genova, era una certa autorità in Genova,
conosceva un po’ l’establishment, e quindi come ogni padre di famiglia cominciò ad occuparsi di
un impiego del figlio...All'epoca l'ambizione dei giovani universitari del luogo era poter entrare
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nelle società petrolifere, più che altro perché c’era una buona selezione, erano reputate avere
persone di buon livello, e poi erano multinazionali americane! Siamo nel ’62, eh? C’erano
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stipendi elevati, quindi l’ambizione era entrare nelle petrolifere. Io ebbi un contatto con l’allora
presidente di una di queste società , che mi intervistò in un’ottica di assunzione. E poi, nella
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conversazione mi chiese: “Ma Lei conosce le lingue straniere?” Io all’epoca conoscevo la lingua
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straniera principale anche per ragioni di famiglia, in quanto avevo una zia che era professoressa
di francese, insomma, conoscevo abbastanza bene il francese. E allora lui rifletté e disse: “Ma,
senta, perché prima di entrare in società Lei non fa subito un’esperienza internazionale?" evidentemente era un concorso di circostanze, - "io ho un caro amico a Bruxelles – che è l’attuale
Vice Presidente della Commissione, si chiama Giuseppe Caron, e mi ha chiesto di suggerirgli dei
giovani per il suo Gabinetto, e così si è rivolto a me sempre con l'idea che nell’ambito delle
società petrolifere ci sia una selezione qualitativa accurata, sulle persone; mi ha chiesto se gli
posso mandare qualcuno...”. E allora dice: “Come inizio...”All’epoca – adesso hanno molta più
autonomia – le multinazionali petrolifere erano veramente delle multinazionali...cioè, si
consideravano delle divisioni nazionali della società americana. E quindi erano quelle più portate,
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per ovvie ragioni, ad avere un personale con esperienza internazionale. E lui [n.r.: il Presidente
della società petrolifera] disse: “Ma perché non va un periodo a Bruxelles: vada un po’ a
Bruxelles, così acquista un po’ di esperienza internazionale e poi ritornerà qua”. Io ne parlai un
po’ con mio padre e si disse, perché no? Quindi lui [n.r.: il Presidente della società petrolifera]
prese i contatti con l’allora Vice Presidente Caron. All’epoca, le parlo di prima della fusione degli
esecutivi, la Commissione aveva due Commissari per nazionalità (l'altro italiano era Lionello
Levi-Sandri) – e così mi fu offerto un impiego nel Gabinetto del Vice Presidente. Entrai col titolo
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di stagiaire, ero uno stagiaire...[breve pausa] Ecco, questa, diciamo, è la preistoria. In principio
gli stagiaires vengono qui per apprendere, devono fare una certa pratica, quindi il servizio reso è
piuttosto limitato. Lì, siccome i Gabinetti erano composti da un numero limitato di persone – e
all’epoca – forse ne parleremo, se la mia memoria mi aiuta, l’Italia aveva un portafoglio molto
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importante, anche il momento storico era molto importante – i colleghi anziani non si
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preoccuparono assolutamente di dire: “Mah, qui forse dobbiamo dare una formazione a questo
giovane." Niente! Arrivai, mi dissero: “Guardi, le Sue competenze sono questo, questo, questo e
quest’altro...”. Mi ricordo benissimo, mi diedero tra l'altro il delicato incarico di seguire le
questioni amministrative del personale italiano. “E quindi: se la sbrighi...” [risate]...Mah, dico
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subito, il contesto era favorevole, perché essere direttamente nel Gabinetto di un Vice Presidente
mi facilitava i contatti con i servizi perché potevo qualificarmi come suo stretto collaboratore.
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Nonostante ciò, consideravo il tutto transitorio, perché restava l'idea di fare una carriera in Italia
nel settore delle industrie petrolifere. Passarono sei mesi, i sei mesi canonici, e il capo di
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Gabinetto dell’epoca [mi disse]: “Ma insomma, no, non parta, resti adesso”. E...[breve pausa] –
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adesso non ricordo esattamente come fu – se rientravo in Italia avevo in prospettiva due periodi
di lavoro-formazione – [attraverso] questi ci passavano tutti, i dirigenti del petrolifero ci
dovevano passare tutti – erano due anni in raffineria, e io sarei dovuto andare a Gela – c’era una
raffineria a Gela: due anni; ma questo era un percorso obbligato per la carriera di dirigenti – e un
anno – gli headquarters di questa società erano a Londra – un anno a Londra. E devo dire che
questa prospettiva mi angosciava un pochino [risate], soprattutto la raffineria, Londra magari di
meno...Nel frattempo qui si era sviluppata la collaborazione, avevo cominciato ad acquisire
competenze, e allora chiesi alla società un rinvio: “Aspettiamo un pochino: ancora sei mesi,
poi...” Cosa che mi fu accordata, anche perché poi Caron parlò col Presidente [n.r.: della
compagnia petrolifera]. Mentre, passati altri sei mesi, ecco, mi si disse da Genova: “Allora no,
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Lei deve decidere se rientrare o meno” Era ormai passato un anno, e io optai per permanere alla
Commissione. Anche perché – io c’ho qui il nel mio curriculum, cerco di ricordarmi – nel
frattempo ci fu un avvenimento che mise molto la pressione su di me per restare, e cioè come
spesso è avvenuto – tra l’altro, anche con Monti è di attualità questo week-end [n.r: il testimone
si riferisce alle voci che all’epoca dell’intervista circolavano su una possibile candidatura del
Commissario Mario Monti come Ministro dell’Economia al posto di Tremonti nel governo
Berlusconi] – Caron, che non aveva ultimato il suo mandato, ebbe un’opportunità di rientrare in
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politica in Italia – adesso non ricordo, in quel momento [n.r: 1963] ci fu un rimpasto nel Governo
e gli offrirono un posto di ministro in Italia. E quindi Caron in anticipo – noi abbiamo il record,
noi italiani [risate] dei Commissari e Presidenti – poi arriveremo a Malfatti – che non hanno
completato – Spinelli stesso – che non hanno completato il mandato...E quindi Caron partì in
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anticipo per l’Italia per assumere l'incarico di Ministro, credo al Ministero delle
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Telecomunicazioni. Qui a Bruxelles, il portafoglio, che era il portafoglio del Mercato Interno
[breve pausa]...restò senza Commissario...E allora cosa successe: diedero l’interim di questo
portafoglio, diedero l’interim al collega italiano che era Levi-Sandri, il quale Levi-Sandri aveva
già la competenza degli Affari Sociali. Per cui, il Commissario italiano rimasto in carica ereditò il
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portafoglio che era di Caron. A questo punto, chiaramente un’infrastruttura di Gabinetto che
tecnicamente potesse aiutare questo altro Commissario che si ritrovava a coprire un interim
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diventò necessaria, e quindi visto il momento furono esercitate pressioni su di me ed altri colleghi
perché rimanessimo compatti ad aiutare questo Commissario responsabile di un nuovo
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supplementare portafoglio che gli cascava in testa, giusto perché Caron aveva deciso di rientrare
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in Italia per prendere un ministero. Ecco, questo per dire come il tutto è evoluto: io ero venuto qui
provvisoriamente e come vedete sono ancora qui dopo quarant’anni, insomma [risate]... Per
ritornare alle origini, diciamo che all'epoca la facoltà di Scienze Politiche era abbastanza nuova, e
si diceva in Italia che Scienze Politiche doveva preparare a una carriera in diplomazia o ad
attività internazionali. Poi nel’63 ci fu questo Vice Presidente italiano che optò per un rientro in
Italia prima della fine del mandato, lasciando il portafoglio Mercato Interno e Dogane che a
quell’epoca era la priorità di azione numero uno della Commissione. Nel’62 noi avevamo ancora
i dazi doganali intracomunitari, le tasse di effetto equivalente, le misure di effetto equivalente a
restrizioni quantitative, non avevamo ancora una tariffa esterna comune. Oggi si dà tutto per
scontato! E il portafoglio del Mercato Interno doveva seguire e portare avanti questi grandi
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cantieri. In effetti, la grande iniziativa politica della Commissione dell’epoca fu l’accelerazione
della riduzione dei dazi doganali intracomunitari, intracomunitari [sottolinea]. La sparizione
completa dei dazi doganali era stata prevista, mi pare, nel ’70: e la grande iniziativa politica fu
quella di anticipare la sparizione al ’68, in maniera graduale. Ora questo, assieme ai problemi di
armonizzazione delle legislazioni doganali, alle restrizioni quantitative, alle misure d’effetto
equivalente, alle tasse di effetto equivalente, facevano del Mercato Interno il portafoglio, direi,
numero uno, perché era il motore della creazione di un mercato unico, che oggi è acquisito, ma
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allora era tutto da realizzare. E poi, le questioni doganali non riguardavano solo l'interno dei sei
Stati. Si trattava pian piano di costruire un'entità unica dal punto di vista doganale. Ma
incominciavano anche le pressioni dei Paesi terzi, cioè l’Europa cominciava a diventare una
realtà, e quindi non poteva esimersi anche di guardare ai Paesi terzi, ai Paesi in via di sviluppo, i
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quali facevano pressioni, i quali erano preoccupati in un certo senso della creazione di una tariffa
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esterna comune. In fondo la tariffa esterna comune fu un primo passo verso una politica
commerciale della Comunità. Perché prima ogni Stato aveva una sua politica con tariffe doganali
che erano in funzione di relazioni storiche di questo Stato con i diversi Paesi terzi. Si lavorava
quindi con impegno all'armonizzazione dei dazi esterni e alla parallela diminuzione e poi
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sparizione di dazi doganali intracomunitari. Ecco, tutto questo per dire – torno al punto – che
quando andò via il Commissario titolare del Mercato Interno, il collega italiano che assunse
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l’interim, e che era in primis responsabile degli Affari Sociali, ebbe bisogno di un aiuto
supplementare. Fu quindi presa una decisione abbastanza sui generis: nel senso che pur in
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assenza del Commissario titolare, il suo Gabinetto restava in funzione in appoggio tecnico,
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diciamo, al Commissario italiano restante...Dopodiché – ma fatemi delle domande: io cerco di
andare avanti cronologicamente – dopodiché...
VS: Mi scusi, chi erano gli altri membri del Gabinetto di Caron, le persone con cui ha lavorato?
GR: All’epoca – e la cosa durò per un certo periodo – la Farnesina [n.r.: il Ministero degli Esteri
italiano] adduceva un certo diritto ad avere nel Gabinetto dei Commissari italiani dei diplomatici.
E infatti per diversi anni il Capo Gabinetto del Commissario italiano è stato un diplomatico. Per
rispondere alla Sua domanda, Capo Gabinetto di Caron era un certo Maurizio Bucci che allora –
adesso non mi vorrei sbagliare – credo che in diplomazia fosse un ministro plenipotenziario,
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insomma – Maurizio Bucci, sì, esatto...E vedremo poi coi Commissari successivi, almeno sino a
Malfatti, è stato sempre presente un diplomatico, sino a Malfatti...[breve pausa] Si trattava di
funzionari di carriera “farnesiniana”, quindi in principio non venivano integrati definitivamente
qui nella casa. Così, in concomitanza con la partenza di Caron, anche Maurizio Bucci rientrò in
carriera diplomatica. In effetti il Gabinetto in appoggio a Levi-Sandri non restò nella sua
composizione di origine: restammo solo io e il Capo Gabinetto aggiunto dell’epoca – lui non era
un diplomatico – si chiamava Stefano Ponzano...Ma perché non mi sfugga: la tradizione dei Capi
un
ambasciatore,
e
il
suo
Capo
Gabinetto
era
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Gabinetto diplomatici continuò con Colonna di Paliano, che era già lui stesso un diplomatico, era
Paolucci
di
Calboli,
ministro
plenipotenziario...[breve pausa] Non so se Lei è uno storico, era il figlio del Paolucci di Calboli
il quale fu ambasciatore a Madrid durante la seconda guerra mondiale...E con il Presidente
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Malfatti – e lì vedete il persistere della tradizione – con Malfatti il Capo Gabinetto – adesso
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arriviamo a personaggi più recenti - il Capo Gabinetto fu Renato Ruggiero. Renato Ruggiero era
ancora un giovane diplomatico, lavorava qui nella Rappresentanza Permanente, e fu chiamato a
dirigere il Gabinetto d Malfatti.
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VS: Dunque, Lei ha detto che sino a Malfatti c’era questa tradizione della Farnesina che manda
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[funzionari]...
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GR: Sì.
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VS: Successivamente le cose sono cambiate?
GR: Successivamente le cose sono cambiate, e cambiarono già un po’ quando arrivò un
personaggio come Spinelli: potete immaginare, non è che Spinelli fosse molto tradizionalista,
anzi...Anche in seguito Guazzaroni [n.r: Cesidio Guazzaroni, Commissario dal ’76 al ‘77] –
anch'egli ambasciatore, adesso in pensione – mantenne il Capo di Gabinetto del suo predecessore
Spinelli. E poi Giolitti ebbe come Capo Gabinetto un ex Direttore generale del Ministero del
Bilancio. Quindi lì si fermò [la tradizione]...Forse è poi continuata a livello junior. Per esempio
oggi con Prodi collabora un giovane funzionario del Ministero Esteri, però da Monti non
abbiamo rappresentanti di questo Ministero. [n.r.: il testimone è attualmente Vice-Direttore
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Generale alla DG Concorrenza]. Ma lì, in quel lontano periodo, la presenza della Farnesina,
ripeto, era abbastanza costante. E ciò aveva una sua logica: l'Europa era vista da Roma come
facente parte della politica estera dell'Italia. Ai tempi di Colonna poi non c’era soltanto una
presenza a livello senior – quindi Capo di Gabinetto – ma anche a livello junior. Per un periodo
nel suo Gabinetto furono addirittura tre gli appartenenti al Ministero degli Esteri. [Pausa]
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MD: I Suoi compiti all’interno prima nel Gabinetto di Levi-Sandri, poi di Colonna?
GR: Ecco, come detto, tra le altre cose le questioni amministrative, e il personale italiano. Sa,
erano tempi in cui si trattava di occupare posizioni...E per rispondere meglio alla Sua domanda, i
miei compiti erano nel settore Unione Doganale – che poi era il core del portafoglio del
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Commissario e nella politica del personale in generale. C'era un Vice Presidente italiano e un
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Commissario italiano. Il Vice Presidente era colui il quale doveva anche seguire la politica del
personale italiano. Quindi, grosso modo io ebbi questi due settori da seguire: l’amministrazione
in generale – l’amministrazione in generale significa anche controllare tutto l’organigramma della
Direzione Generale di competenza – e poi in particolare seguire la situazione del personale
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italiano della Commissione, più tutto l’aspetto di realizzazione del mercato interno, unione
doganale eccetera...E mi ricordo – ma è sempre a titolo aneddotico che vi dico questo – che uno
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dei primi compiti che mi fu affidato in materia amministrativa, ma che aveva in filigrana un
aspetto di interesse italiano fu di cercare di seguire e di portare avanti una proposta di modifica
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dello Statuto dei funzionari. Voi sapete che noi abbiamo, tranne i belgi, abbiamo un indennità di
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dislocazione, così si chiama: insomma, lo Statuto [dei funzionari] ha stabilito che il fatto di non
lavorare nel paese di origine attribuisce ai funzionari una indennità compensatrice che equivale al
16% dello stipendio base. E allora, in quel periodo venne fuori che questo 16% indiscriminato era
iniquo, perché non teneva conto delle reali distanze dal luogo d’origine al luogo del lavoro delle
diverse nazionalità. Ecco eravamo ancora una Comunità a Sei, e quindi vedete subito che si
trattava soprattutto di un interesse italiano modulare veros l'alto l’indennità di dislocazione in
funzione dell’effettiva distanza tra Bruxelles e il luogo d’origine. Io ricordo sempre l’esempio
che mi facevano: sono diverse le spese che sostiene il funzionario italiano il cui luogo d’origine è
Palermo, e il francese che sta – allora non era un’ora e venti, ma insomma erano due ore e mezza
di treno – a Parigi. E ricordo che una delle prime cose di cui dovetti occuparmi – naturalmente
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c’erano i sindacati in prima linea - fu proprio questa. Non se ne fece poi nulla. Nel settore
doganale ebbi una spina per lunghi mesi: l’Italia applicava una tassa sulle esportazioni degli
oggetti d’arte e antichità . Evidentemente era al fine di salvaguardare il suo patrimonio artistico,
ma una tassa sulle esportazioni era contraria al Trattato. Dovettimo così portare il caso alla Corte
di Giustizia, dopo lunghi mesi di procedure di infrazione.
Ecco, ho fatto due esempi concreti di attività, ma è solo a titolo aneddotico. La struttura
prevedeva ovviamente un Capo Gabinetto che coordinava e che seguiva più gli aspetti politici,
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mentre le funzioni di un membro di Gabinetto, più a livello tecnico, erano duplici: seguire i
settori di competenza diretta del Commissario, che potevano poi essere ripartiti tra vari membri di
Gabinetto – non so, per esempio nel Mercato Interno poteva esserci qualcuno che si occupava di
riduzione dei dazi doganali, e un altro che si occupava di diritto di stabilimento. Eravamo agli
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albori...Ma diciamo, grosso modo c'era questa funzione di go-between tra il Servizio, cioé la
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Direzione Generale e il Commissario per le competenze proprie, e poi c’era da assicurare anche
la funzione collegiale del Commissario – mi spiego? Il Commissario, oltre alle sue competenze,
deve poter partecipare alle deliberazioni della Commissione su materie di responsabilità di altri
colleghi. Non so, ha il Mercato Interno? Deve poi poter discutere di politica sociale, di
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agricoltura, ecc. E quindi per assicurare tale funzione, ogni membro di Gabinetto aveva altre
specifiche competenze. Io già all’epoca, oltre al Mercato Interno, avevo la Concorrenza – lì si
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trova l'origine – avevo la Concorrenza. Avevamo poi dei membri di Gabinetto che quasi
esclusivamente – vi immaginerete perché – coprivano un solo settore: per esempio il settore
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dell’Agricoltura. Nel settore agricolo avevamo – io non l’ho mai fatto – un collega al Gabinetto
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che si consacrava interamente alla politica agricola comunitaria per preparare il ruolo collegiale
del Commissario su tale materia...Ecco, queste erano grosso modo...[breve pausa] le attività...
Ma diciamo che quel periodo può considerarsi pioneristico: eravamo persone eradicate, che
cercavano una certa tutela in un ambiente ancora nuovo. Essendo in un Gabinetto italiano,
seguivo ovviamente la politica del personale italiano. Ecco, chi espatria ha bisogno poi di trovare
un “padre”, è ovvio...Oggi di meno, oggi molto di meno, ma all’epoca era così. Quindi c’era tutto
un lavoro di contatti con i funzionari italiani che non erano presenti solo nei Gabinetti. Erano
nelle Direzioni Generali, nei servizi...E vi assicuro, non era soltanto per ragioni di avanzamento
di carriera: si trattava anche di inquadrarli, di incoraggiarli, di aiutarli nella conversione verso
nuove dimensioni di lavoro poiché, all'epoca, in maggioranza erano funzionari provenienti da
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ministeri nazionali. Ma insomma, era un periodo molto delicato, nel quale il contatto umano era
importante e, agendo in rappresentanza del Commissario, si trasmetteva la sua presenza e il suo
incoraggiamento nella vita professionale del personale italiano.
MD: Qual era il rapporto col Segretariato Generale?
GR: [Breve pausa] Beh, io non mi posso esimere, per rispondere a questa domanda, dal ricordare
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subito che il Segretario Generale della Commissione era Émile Noël. Quindi quando Lei mi
chiede qual era il rapporto col Segretariato Generale non posso rispondere avendo presente
semplicemente una struttura. Oggi risponderei avendo presente una struttura. All’epoca la
struttura era indissociabile dalla personalità dell’individuo. Noël...Beh, Noël era un Commissario
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– adesso non ricordo quanti erano all’epoca i Commissari, ma insomma, era il Commissario in
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più.E se vogliamo parlare di struttura, la struttura, in confronto ad oggi, aveva dimensioni
ridottissime. In fondo, il grosso compito del Segretariato Generale era assicurare il verbale della
Commissione. Ma ancora una volta, c’era Émile Noël. Émile Noël veniva considerato, come
dire...con il rispetto dei Commissari, un po’ il padre dei Gabinetti. Per noi funzionari era il
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superiore gerarchico amministrativo, ed era colui il quale ricomponeva i conflitti. Noi andavamo
in confessionale da lui. Cioè, noi avevamo due tipi di esperienze con Emile Noël: una era
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formale, ed erano le riunioni dei Capi di Gabinetto, che lui presiedeva. Allora le riunioni dei Capi
di Gabinetto erano riunioni ad hoc, non c’era la riunione settimanale che preparava la riunione
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della Commissione: [le riunioni si svolgevano] su dei temi specifici, su delle problematiche
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specifiche, e lui le presiedeva tutte, tranne le riunioni sulle infrazioni al diritto comunitario, la cui
presidenza era riservata al Direttore Generale del Servizio Giuridico. Ripeto, non parlo troppo
sulla struttura, perché all’epoca la struttura era principalmente un greffe. Il Segretariato Generale
era un greffe: doveva assicurare il coordinamento delle riunioni della Commissione, i verbali e
l'adozione di decisioni tramite procedura scritta...Ma ancora una volta, a capo di questa struttura
c’era un certo Emile Noël, il quale anzitutto aveva autorità su di noi, anche se in fondo eravamo
collaboratori diretti di Commissari e, forte di tutto questo, riusciva molto spesso a comporre le
cose. Cioè, se si profilavano dei dissensi tra Commissari, si iniziava un lavorio tra i membri del
Gabinetto sotto l'egida di Noel il quale tesseva le fila per risolverli. Ovviamente poi lui riferiva
anche al Presidente prima della riunione[della Commissione], il Segretario Generale riferisce
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sempre al Presidente...Quindi io riassumerei il ruolo [del Segretariato Generale] dell'epoca, lo
riassumerei molto sulla persona a capo di tale Servizio perché ripeto, la struttura era
relativamente modesta. Credo che ci avrete già pensato, per il vostro esercizio sarà comunque
molto utile che riguardiate i verbali della Commissione, che vanno ritrovati, eh? Non sono più
qua, credo che si trovino...
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MD: Negli archivi...
GR: Negli archivi...Perché lì vedete anche tutte le composizioni e così via...
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VS: Noi siamo partiti da lì...
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GR: Sì, sì...E avete avuto accesso?
VS: Sì sì...Abbiamo fatto anche una sorta di catalogazione dei processi verbali...
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[Pausa]
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VS: Senta, in generale ci può dare anche...
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GR: No, io aspetto che siate voi a fare domande...
VS: Sì, certo. Se ci può dare anche un’idea di qual era l’atmosfera proprio all’epoca della
Commissione Hallstein: come veniva visto Hallstein e come funzionava la collegialità nella
pratica, e così via...
GR: [Pausa] Rispondo con riserva, perché Lei sa che la natura umana tende a idealizzare il
passato...Il passato lo si idealizza sempre...Incomincio da Hallstein...In quell'epoca non c’era
ancora stata la fusione degli esecutivi, quindi sussisteva l'Autorità del carbone e dell'acciaio – alla
quale Autorità era stata data una competenza quasi assoluta, cioè non c’era ripartizione di
funzioni e di responsabilità tra tale istituzione sovrannazionale e gli Stati: l’Autorità – si
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chiamava Alta Autorità del Carbone e dell’Acciaio, aveva a sua volta un presidente e dei
commissari, stava a Lussemburgo e aveva ampi poteri proprio in questo settore. E quindi forse
Hallstein, al di là della sua personalità, poté un po’, come dire, usufruire di questa prima
esperienza di reale e importante trasferimento di poteri nazionali verso le istituzioni
internazionali europee. Fatto sta – ma sempre con riserva... – fatto sta che, forse lo avrete sentito,
l'idea dei tappeti rossi al Presidente della Commissione non è campata in aria...Bisogna certo
mettere tutto nel contesto politico-istituzionale degli Stati di allora. In fondo parliamo del ’62,
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anche prima, inizio anni ’60: la fine della guerra non era poi tanto lontana. Quindi avevamo delle
situazioni economiche e politiche nazionali abbastanza instabili. Per cui, con riserva dei francesi
che comunque – c’era de Gaulle – mantenevano una linea di continua affermazione dell’identità
nazionale, forti anche del loro programma nucleare, l'immagine di un’autorità centrale europea fu
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vista con rispetto, considerazione e speranza dalle varie capitali. I problemi vennero dopo...
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Quindi Hallstein era una reale autorità europea [con enfasi], una reale autorità europea...In
Commissione era – da quel poco che io [vedevo], e da quanto mi riferiva il mio Commissario – in
Commissione era un Presidente che cercava sempre – voi sapete che c’è la regola dei voti di
avere, dopo discussioni, l'accordo del Collegio, senza il ricorso al voto. Ma ancora una volta,
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oltre al fatto che rappresentava una novità istituzionale – [Hallstein] aveva un grande carisma
personale. Rappresentava una istituzione nuova, e usufruiva allo stesso tempo dell'esperienza
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dell'Alta Autorità Carbone e Acciaio, concepita sull'idea di un vero trasferimento di poteri
nazionali. In più, politicamente [Hallstein] era visto nelle capitali come il “super
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Presidente”...C’era molto rispetto, ma ancora una volta, eravamo in un’epoca che si può definire
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post-bellica...Ripeto, in Commissione quello che io ricordo è che lui [n.r.: Hallstein] cercava
sempre di portare il collegio al consenso unanime. Il suo comportamento personale nei confronti
dei colleghi io non ve lo so descrivere, ve lo dovrebbe dire un Commissario dell’epoca. Io ricordo
che il mio Commissario gli tributava stima e rispetto riconoscendone l'autorità. Però di più non vi
posso dire, perché il tutto si svolgeva nelle riunioni della Commissione...Aveva fatto un’altra
domanda mi pare, o era questa?
VS: No, era questa...
GR: L’atmosfera?
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VS: L’atmosfera, esatto, e come funzionava la collegialità nella pratica: quindi appunto ci ha
risposto che Hallstein aveva questo ruolo molto forte. Quando c’è stata poi la transizione tra la
Commissione Hallstein e la Commissione Rey, quali sono le cose fondamentali che sono
cambiate?
GR: Il cambio fondamentale, nel frattempo, è avvenuto con la fusione degli esecutivi...Prima la
Comunità aveva sei Stati, l'apparato della Commissione era composto, – guardi, io ho questa cifra
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in testa, adesso con riserva – da appena duemila persone. Eravamo in un piccolo immobile alla
Joyeuse Entrée. Il Collegio dei Commissari stava all’ultimo piano, al settimo piano: poi c’era
l’ottavo dove c’era la sala di riunione.s Come ho detto, l’amministrazione era composta da circa
duemila funzionari. La fusione con l’EURATOM e l’Alta Autorità CECA fu quindi un passo
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istituzionale e amministrativo gigantesco. Insomma, anche considerando il progressivo ingresso
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dei nuovi Stati membri, direi che l’istituzione – io do sempre una mia percezione di questa... –
insomma, il passaggio da esecutivi separati a esecutivo unico comportò all’interno della “casa”
una profonda modifica nella metodologia di lavoro...Sa, in un’amministrazione di duemila
persone il Commissario si occupava personalmente anche delle questioni del personale, si
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occupava del destino di un funzionario B, di una segretaria eccetera. Non parliamo dei funzionari
A, poi: se ne occupava! Naturalmente aveva un collaboratore referente, però se ne occupava. La
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decisione di assumere anche il più junior A nei servizi era adottata formalmente dal Collegio:
passava per procedura scritta, però era una decisione della Commissione. Oggi sarebbe
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inimmaginabile questa cosa, perché siamo passati ad una ampia serie di deleghe. Nella
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Commissione Rey, già dovemmo cambiare la metodologia di lavoro: per esempio, sul piano
organizzativo interno ci si rese conto – siccome il Collegio unico dei tre esecutivi fusi doveva
occuparsi di molti più dossiers – che era necessario istituzionalizzare la riunione dei Capi di
Gabinetto in preparazione della riunione della Commissione. Dicevo prima che le riunioni dei
Capi di Gabinetto si svolgevano esclusivamente su problematiche specifiche: si tennero poi
sistematicamente ogni lunedì, in preparazione delle delibere della Commissione del mercoledì.
Questo perché in fondo, anche se il Collegio si allargò, restammo comunque con due Commissari
per Paese, e il carico specifico di competenze di ciascun Commissario si appesantì con la fusione.
Ripeto, la metodologia di lavoro interno [cambiò]...E poi, l'apparato amministrativo piano piano
cominciò – visto dai Gabinetti – a depersonalizzarsi perché ovviamente l'amministrazione si era
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triplicata. Dal punto di vista politico, direi che in fondo dall’epoca Rey, l’Europa è andata avanti
grazie alla visione di certi grandi uomini di stato che hanno saputo fissare alcuni importanti
obiettivi di realizzazione comune. Io ho citato all’inizio forse il più ovvio [n.r.: il Mercato Unico],
ma non bisogna dimenticare che cominciammo con le frontiere intracomunitarie sbarrate, i
doganieri che ti perquisivano per vedere se stavi portando le sigarette, le formalità, i passaporti, i
controlli, eccetera...Più poi, i dazi doganali sugli scambi di merci...Ecco, la riduzione e poi
sparizione di tutto ciò era l’obiettivo politico numero uno, poi perfezionato da Delors, con il
AH
UE
completamento del Mercato unico. E’ andata avanti così l’Europa, sempre con una fissazione di
obiettivi politico-istituzionali a termine: adesso siamo in una fase più sofisticata, ormai il grosso
di queste cose è acquisito, ma allora. Allora sembrava facile dire eliminiamo i dazi, creiamo il
Mercato interno: vi assicuro, invece, non è stata un’opera facile, non è stata un’opera facile [con
U
enfasi]...Perché non si trattava soltanto di fare proposte tecniche, non si trattava di dire: “adesso
HA
E
riducete i dazi...”. C’era da cambiare le mentalità: l’Italia credeva di risolvere il problema delle
fughe delle sue opere d’arte mettendo una tassa all’esportazione; l’Olanda, che aveva il capitale
dei suoi tulipani, aveva paura di perderlo, a profitto della coltivazione in altri Stati, per cui mi
ricordo che misero un divieto all’esportazione dei giovani bulbi! [risate] Capisce, erano i loro
UE
tulipani! Non era facile, bisognava cambiare le mentalità, cioè da Stati chiusi bisognava passare
ad una comunità. Sembra una cosa tecnica! Sì, forse la riduzione dei dazi doganali, ma poi
AH
esisteva tutta la gamma delle misure d’effetto equivalente a restrizioni degli scambi, i
contenziosi, le procedure di infrazione... Grazie a Dio abbiamo avuto una Corte che ci ha fornito
U
giurisprudenza, piano piano: ma è stata un’opera immensa. Ancora per risponderle: l’epoca Rey è
HA
E
stata l’epoca in cui era ancora presente, diciamo, il capitale d’inerzia politico-istituzionale di
Hallstein, ma l’epoca Rey è stata anche l’epoca nella quale si è cominciato a dare per acquisita la
realizzazione di questa area di mercato interno, e sono incominciate le riflessioni sulle politiche
comuni. In fondo, all’origine, l’unica politica comune che avevamo era l’agricola, voluta
soprattutto dai francesi, voluta da una scelta di ricordi di fame del periodo di guerra. E l’opzione
fu: dobbiamo avere i granai pieni, nem ricordo che l’America ci aveva fornito grano per sfamarci.
La scelta oggi si rivela troppo costosa: ma all’epoca i francesi insistettero fortemente. E fu la sola
politica comune ab origine. Ecco, nell’epoca Rey cominciarono a svilupparsi temi e iniziative su
altre politiche comuni europee, e fu così per esempio, voi l’avete citato [n.r: il testimone si
riferisce alla lettera contente i temi dell’intervista] – faccio danni? [rivolto alla ricercatrice dopo
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aver urtato il microfono]
VS: No, no.
GR: Fu così per esempio che venne fuori il Memorandum Colonna sulla Politica Industriale: il
memorandum – forse anticipo, adesso, ma siccome Lei ha citato Rey... – ecco, il Memorandum
Colonna sulla Politica Industriale scaturì proprio da questa constatazione: bene, insomma, con
AH
UE
tutti i problemi, stiamo andando avanti abbastanza bene sulla realizzazione del Mercato Unico;
però ecco, adesso, in taluni settori, dobbiamo fare un salto di qualità e passare da politiche
puramente nazionali a politiche comunitarie. Ciò perché l’Europa, in quanto tale, cominciava
anche a mostrare una sua identità nei confronti del resto del mondo. C’era ancora il Muro, va beh,
U
quindi quel lato del problema era risolto, c’era il Muro... Però l'Europa cominciava ad avere le
HA
E
sue responsabilità. Beh, innanzitutto a giusta ragione fu voluta – anche lì la Francia premeva –
una politica comune di aiuti ai Paesi in via di sviluppo. E mentre si pensava che [l’Europa]
doveva operare una politica attiva, anticipando e evitando in un certo senso la pressione dei Paesi
in via di sviluppo, in seguito, paradossalmente, questa pressione aumentò e fece aumentare la
UE
coscienza di un’Europa come entità operante in un contesto mondiale... I concetti di
globalizzazione sono venuti fuori di recente, però già all’epoca c’era la percezione di un’Europa
AH
unita che si affacciava sul Terzo Mondo, sui altri paesi, e così via...E quindi si pensò: va bene,
facciamo un salto qualitativo, e dagli aspetti tecnici passiamo a delle linee di politica comune.
U
Già allora il Giappone cominciava ad affermarsi come grossa potenza industriale, e si disse: in
HA
E
Europa – lì ritorniamo alla Concorrenza – non bisogna pensare soltanto a sviluppare una
concorrenza intracomunitaria e garantire il libero scambio, ma riflettere su un ruolo di sviluppo
proprio nel contesto politico-commerciale mondiale. Ricordo che c’era il terrore dei giganti
industriali americani e giapponesi. La concorrenza giapponese in quel periodo veramente faceva
paura. E insomma si affermò: non basta più un’area di libero scambio, dobbiamo avere politiche
comuni proporzionate alle sfide, perché messi insieme riusciremo a far fronte alla concorrenza
mondiale. Il memorandum di Politica Industriale scaturì poi proprio da queste considerazioni e fu
un salto di qualità. Non so se l'avete notato. Ecco, voglio dire, se guardate il Trattato di Roma,
non ci sono articoli che menzionino la Politica Industriale. Ciò indica che ci volle una forte
volontà politica per operare un salto qualitativo nelle iniziative comuni: quanto poi questo negli
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anni abbia avuto risultati determinanti... però, in taluni settori, grazie anche alla politica di
Concorrenza, questi risultati li abbiamo ottenuti. Ma ecco, per ritornare alla Politica Industriale,
ancora oggi non so se si può parlare dell'esistenza di una reale Politica Industriale comune, o se
alla fine il salto non fu solo in termini di intitolati di organigramma...Abbiamo ormai da anni una
Direzione Generale Politica Industriale, ma all’origine questo servizio rappresentava solo una
costola del portafoglio Mercato Interno, che aveva già Caron, di cui vi ho parlato. Era una
costola...La verità è che la Politica Industriale manca di strumenti giuridici per portare avanti
AH
UE
determinate azioni. E’, così, un servizio che serve soprattutto da “confessionale” per i vari
problemi industriali settoriali e che ripercuote poi all’interno della Commissione. Ecco, dico
questo per spiegare che nonostante tutto ciò, ci volle allora una forte volontà per passare
dall'unione doganale, dal mercato interno, ad una serie di politiche comuni, l'idea essendo che
U
ciascuno Stato, da solo, avrebbe difficilmente affrontato il contesto mondiale. Poi ovviamente –
HA
E
però adesso qua le date le sapete meglio di me - tante evoluzioni di pensiero, di politica e di
programmi, vennero condizionate dalle successive adesioni di nuovi Stati, con apporti di nuove
mentalità, di nuove problematiche: inutile che io ricordi, insomma, le posizioni del Regno Unito,
UE
della Thatcher, e così via...
VS: Parlando sempre della Politica Industriale, qual era il progetto di Colonna, più in dettaglio? E
AH
così ci riallacciamo anche al contenuto del memorandum, l’elaborazione di questo
U
memorandum...
HA
E
GR: Dunque, il concetto di base era questo: non è più possibile lasciare gli Stati intraprendere
politiche industriali disparate. Negli anni precedenti c'era stata – da parte di ciascuno Stato – una
corsa forsennata, e anche giusta, al rilancio industriale del dopoguerra – bisognava riparare i
danni della guerra. Si realizzò in seguito che le risorse e gli sforzi dovevano essere messi in
comune. E’ così che nacque la prima idea – la Comunità del carbone e dell’acciaio – e l’idea
della politica agricola comune...Era tutto in reazione a quella che era una situazione post-bellica
disastrosa: beh, insomma, l’Europa era in ginocchio. Ma negli anni successivi certi settori
cominciavano a entrare rapidamente in una fase post-industriale, nel senso che, vuoi per sviluppo
tecnologico in settori paralleli, vuoi per maggiore concorrenza dei Paesi terzi, si incominciavano
a vedere dei settori industriali cronicamente in crisi di competitività.
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VS: Come l’industria tessile...
GR: Come l’industria tessile. Le importazioni dal sud-est asiatico, e così via...Incominciavano
anche i primi problemi nel settore dell’acciaio...Non avevamo soltanto il tessile, il tessile è un
esempio: c'era poi la cantieristica, i cantieri navali dove anche lì, insomma si manifestavano le
prime necessità di ristrutturazione. Era questo il problema e l’idea della Politica Industriale
europea – per tornare al Memorandum Colonna – ebbe tra l'altro come spinta la concorrenza
AH
UE
sull’industria europea da parte dei Paesi terzi e le conseguenti crisi settoriali. Ecco perché si
disse: non più politiche industriali nazionali, dobbiamo avere sì un approccio settoriale, ma
settoriale europeo. Non dimentichiamo che bisognava rispettare anche le regole di concorrenza
comunitarie, quindi divieto in principio degli aiuti di Stato. Ora, voglio dire, parliamo chiaro: una
U
politica industriale che vuol dire ? Cosa significa, politica industriale in concreto – facendo
HA
E
astrazione da concetti filosofici? Mah, in concreto politica industriale vuol dire un’autorità
pubblica nazionale o comunitaria che stabilisce delle priorità settoriali, e che cerca di sviluppare,
quindi aiutare determinate industrie in rapporto ad altre. Oppure, se ha un settore in crisi, cerca
nei limiti del possibile di dosare il rubinetto delle importazioni e quindi della concorrenza da
UE
parte dei Paesi terzi. Cioè, se io considero che l'industria della calzatura in Europa è
AH
estremamente importante, però poi mi arrivano i cinesi...
U
VS: All’interno stesso dell’Italia, fra parentesi...[risate]
HA
E
GR: ...allora cerco di manovrare sugli strumenti della politica commerciale. A questo punto,
schiacciati tra le regole di concorrenza che in principio vietano gli aiuti di Stato a livello
nazionale e le regole sul commercio internazionale, l’idea fu quella di dire: elaboriamo sui
cantieri navali, sul tessile, sull'acciaio dei piani europei di ristrutturazione. Eventualmente, se
l’industria europea ha bisogno di aiuti, concediamo degli aiuti comunitari, non nazionali; dando
degli aiuti comunitari, bypassiamo la disciplina sugli aiuti di Stato. In effetti non arrivammo col
Memorandum Colonna fino ad una generalizzazione di questo genere di sovvenzioni: il
Memorandum Colonna sviluppò l'idea di aiuti comunitari concentrati principalmente sulle attività
di ricerca e sviluppo. Già allora puntammo molto su questo, cioè su fare della ricerca una priorità,
perché era – adesso di meno – era il momento in cui si cominciò a percepire il gap tecnologico tra
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l’Europa, gli USA e soprattutto il Giappone: infatti il Giappone, con le condizioni post-belliche di
non riarmamento, aveva potuto finanziare molto la ricerca e cominciava a raccoglierne i frutti. E
quindi tutto ciò ci preoccupava. In definitiva, il Memorandum Colonna cercò di dare una spinta
verso la “comunitarizzazione” della politica industriale, ovviamente prevedendo degli incentivi,
perché non si può solo fare della filosofia...Abbiamo in seguito trovato delle soluzioni
comunitarie a taluni problemi industriali, preparate in gran parte da Davignon. Ne è di esempio il
settore dell’acciaio. Ma ecco, sui cantieri navali... vedo che l'avete citato [n.r.: il testimone fa
AH
UE
riferimento di nuovo alla lettera coi temi dell’intervista: “Prime realizzazioni di Politica
Industriale”] – devo essere molto sincero: se prendiamo ad esempio i cantieri navali e la stessa
industria tessile, come abbiamo realizzato questa politica industriale? L’abbiamo realizzata con
gli strumenti di disciplina degli aiuti di Stato. Perché una politica industriale è anche un
U
incitamento alla ristrutturazione e a nuovi investimenti selettivi e non "ciechi". Per esempio sui
HA
E
cantieri navali si prese coscienza che avevamo una enorme sovracapacità di produzione europea.
Ciò in presenza di una forte concorrenza mondiale. Fu così che per attuare una politica comune
industriale dei cantieri navali, il principale strumento utilizzato è stato quello degli aiuti di Stato.
All'epoca, pur di mantenerli in vita, i vari Stati nazionali davano, prevedevano aiuti al solo
UE
funzionamento. Noi abbiamo invece autorizzato gli aiuti solo in presenza di precisi piani di
ristrutturazione. In fondo con una visione comunitaria della cantieristica, abbiamo, con la
AH
disciplina [degli] aiuti di Stato, messo in piedi una politica comune, nel senso che – non è ancora
tra l’altro finita – nel senso che abbiamo stabilito a livello europeo quale poteva essere la capacità
U
massima di produzione nonché il livello di specializzazione nella produzione delle navi al fine di
HA
E
raggiungere la competitività dell'industria europea. Ma lo strumento concreto...Perché sì, sulla
Politica Industriale si possono fare dei bellissimi memorandum, ma poi in concreto alla fine è una
questione di incentivi e di pressioni a operare delle ristrutturazioni, che poi spesso significano
chiusura, riduzione di capacità ma anche nuovi investimenti. Ecco perché veniva permesso
l’esborso di aiuti a degli investimenti ben mirati, e vietati gli aiuti destinati giusto a tenere in vita
una produzione. Per esempio si diceva: dobbiamo incitare e aiutare la produzione di navi di alta
quota, specializzate nella ricerca sottomarina, dove noi abbiamo un certo avanzo tecnologico in
rapporto agli altri. In altri settori, come quello del tessile, si cercava di dosare, nei limiti del
possibile, i flussi di importazione dai Paesi terzi. Anche nel settore dell’automobile: qui non
l’avete citato, ma all’epoca ci fu l’esplosione della concorrenza giapponese. Ebbene in quegli
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anni l’Italia aveva un contingente annuale di importazione di appena tremila automobili
giapponesi, era chiusa l’Italia...
VS: Se no la FIAT come faceva...
GR: E’ così che la FIAT aveva all’epoca il 60-70% del mercato nazionale, è così che ce l’aveva.
Comunque questo è stato sempre il grosso dilemma: tutti alla fine possono essere d’accordo che
AH
UE
una politica industriale nazionale non è efficace come lo può essere una comunitaria. Però poi gli
strumenti concreti di attuazione si trovano nelle norme di concorrenza – all’epoca mi trovavo dal
lato della Politica Industriale -oppure nelle linee di politica commerciale...
HA
E
U
VS: Colonna, tra parentesi, ha avuto occasione di incontrare i grandi industriali dell’epoca?
GR: Assolutamente. Beh, sì, Colonna era un uomo di sistema, Colonna – aveva avuto in
precedenza delle esperienze in FIAT – era un uomo di sistema, cosa che non era Spinelli, il quale
ereditò lo stesso portafoglio. Naturalmente, con questo non voglio dire che Colonna faceva dei
UE
favori particolari, però Colonna era molto [con enfasi], molto sensibile ai problemi del tessuto
industriale europeo. In quel periodo, ripeto: taluni settori avevano già raggiunto delle fasi post-
AH
industriali, e nello stesso tempo bisognava svilupparne di nuovi; all’epoca – oggi di meno –
all’epoca accusavamo il nostro ritardo tecnologico, e vedevamo i giapponesi avanzare in una
U
maniera incredibile. Eravamo passati dalla considerazione di prodotto cheap, ad un momento in
HA
E
cui invece il Giappone metteva sul mercato prodotti di qualità. E’ lì che venne l'allarme e la presa
di coscienza, appunto, che per la nostra industria dovevamo fare qualcosa e dovevamo farlo
immediatamente. Ecco, questa fu una delle maggiori spinte dell’epoca...
VS: Tra Colonna e Spinelli, quali sono le differenze fondamentali, a parte naturalmente le
caratteristiche di Spinelli che erano molto differenti da [quelle di] Colonna?
GR: Devo dire che ho avuto, dal punto di vista umano, due esperienze di collaborazione che mi
hanno arricchito, sia con Colonna che con Spinelli, però diciamo la verità: si trattava di due
personalità completamente diverse ...[breve pausa] Colonna era un alto diplomatico, un
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ambasciatore; un nobile, Colonna di Paliano, un principe, sposato con una principessa russa
scappata da Mosca al tempo della rivoluzione del ’17, rifugiata a New York...Per la cronaca, era
la sorella di quello che è poi diventato un grande regista in Francia, Jacques Tati...il quale,
anch'egli rifugiato, cominciò col fare lo chauffeur de taxi a Parigi. Con Colonna – adesso poi i
dettagli non li conosco – si conobbero a New York dove lui iniziava la sua carriera diplomatica:
principe e principessa!! Tutto questo per dire [che] era un uomo con precisi modelli e principi.
Prima di venire qua, Colonna era stato segretario generale della NATO quando la NATO era a
AH
UE
Parigi. Poi fu, credo, ambasciatore a Oslo, e poi venne a Bruxelles. Ecco, era un uomo di ordine,
di sistema istituzionale. Allora, la FIAT in Italia aveva un enorme peso all'interno dello Stato e la
sua precedente esperienza nell'azienda lo aveva reso molto sensibile al ruolo e alla dimensione
delle imprese...Quindi era molto attento alle problematiche industriali. Spinelli ereditò il
U
portafoglio che si chiamava Affari Industriali: comprendeva il Mercato Interno, l'Unione
HA
E
doganale, ma si chiamava ormai Affari Industriali...Sa, su Spinelli sono stati scritti dei libri: vi
segnalo l’ultimo, forse lo conoscete, questo qui di Luciano Angelino [n.r.: “Le forme
dell’Europa: Spinelli o della Federazione” – Edizioni Il Melangolo] – lo conoscete questo libro
qua? – è il più recente, [il testimone mostra il libro al professore e alla ricercatrice]...[Breve
UE
pausa] Luciano Angelino è un nostro ex collega – oltre che un caro amico – lui ha raccolto un
po’ tutti i libri scritti su Spinelli e ne ha ricavato un eccellente saggio biografico. [Breve pausa]
AH
Questo è proprio il più recente...[il testimone fornisce altri dettagli sul libro, mentre il professore
e la ricercatrice lo sfogliano] Basta leggere per constatare che le origini dei due uomini sono
U
completamente diverse: di comune c'è poi stata la gestione dello stesso portafoglio nell'ambito
HA
E
della Commissione. Un uomo, Spinelli, che ovviamente per formazione, per storia politica
eccetera, non aveva particolari sensibilità alle lamentele dell'industriale che subiva la concorrenza
di un Paese del sud-est asiatico, dove il reddito pro capite era di un decimo di quello europeo.
Nello stesso tempo, però, dovevamo portare avanti le cose, avevamo ancora da completare
l'unione doganale, la legislazione, la tariffa esterna e gestire l'eredità del memorandum...Mentre
Colonna era in fondo un tecnocrate di altissimo livello – potevamo passare delle ore a discutere
se aprire un contingente tariffario al Canada sulla carta da giornale, e se il dazio doveva essere di
2,5 o di 2,8, con Spinelli non ci si poteva dilungare su queste cose [risate]. In effetti, il suo ruolo
in Commissione è stato molto più caratterizzato dalle sue visioni politico-istituzionali...Beh, lui
ha fatto ovviamente il suo dovere di Commissario alla Politica Industriale, ma il suo ruolo in
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Commissione è stato più che altro quello di fare da “grillo parlante” sulle prerogative istituzionali
della Commissione stessa: ecco, era la coscienza istituzionale, era colui il quale appena vedeva
che il Collegio dei Commissari sbandava un pochino per cercare di andare incontro a certi
interessi nazionali, reagiva con forza nell'interesse della Comunità. Non bisogna dimenticare che
eravamo in pieno regime Thatcher, con questa Inghilterra dentro ma che trascinava tutto il peso
dei propri euroscettici. A proposito, abbiamo parlato dei Capi Gabinetto, dei Gabinetti com’erano
composti. Ebbene Spinelli anticipò i tempi: prima ancora che il Regno Unito entrasse nella
VS: C’era Perissich che ha sottolineato questo aspetto qua...
HA
E
U
GR: Ah, Perissich l’avete già visto?
AH
UE
Comunità, assunse un Capo Gabinetto di nazionalità inglese – si chiamava Christopher Layton...
VS: L’ho intervistato a Roma col Professor Varsori.
GR: Perissich l’ha ricordato...[Breve pausa] Ripeto, sì, Spinelli ottenne questo portafoglio –
UE
mantenendo una buona posizione per gli italiani, in quanto la qualità delle competenze é
importante nel contesto collegiale, – e fece diligentemente il suo lavoro. Però bisogna riconoscere
AH
che la gestione tecnica del portafoglio non era la sua vocazione: ebbe un ruolo estremamente
incisivo, ripeto, nell’ambito delle discussioni in Commissione e in Consiglio sulle problematiche
U
istituzionali. Direi che come uomo politico si è espresso nella sua pienezza in quanto
HA
E
parlamentare europeo, non in quanto Commissario...Non è una critica che faccio: è un dato di
fatto, insomma. In effetti fu poi nel Parlamento che nacque il Memorandum Spinelli, l’idea
dell’Europa con istituzioni forti, eccetera...Ancora una volta, le discussioni sui problemi doganali
o le lamentele dell'industriale sulla concorrenza che subisce la propria impresa non erano temi
che lo appassionavano. Colonna invece era molto di più un uomo di sistema industriale.
[Pausa]
MD: A proposito del rapporto Davignon, del 1970: ci sono stati contatti tra il Gabinetto Colonna
e i redattori del rapporto Davignon?
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GR: [Pausa] Lei dice tra quelli di Davignon e...
MD: E il Gabinetto o i Gabinetti, o le diverse Direzioni Generali...
GR: Tra Davignon e le Direzioni Generali?
AH
UE
MD: Nel ’70, quando Davignon era Direttore Generale della Politica estera al ministero belga...
GR: ...Francamente ho paura che...[pausa] Non lo so, su questo io ho un buco di memoria.
U
MD: Ma forse non ci sono stati i contatti...
HA
E
VS: Finora non c’è stata una conferma. Cioè, ci si pone questa domanda, ma la maggior parte
delle persone intervistate danno l’idea che il rapporto Davignon sia caduto come una tegola in
testa alla Commissione, e che quindi non ci sia stata alcuna influenza da parte della
Commissione, né a livello di Collegio né a livello di funzionari, di Capi di Gabinetto, Direzioni
UE
Generali, e così via...
AH
GR: Può darsi che questo mio buco di memoria sia un po’ una conferma di tutto questo, ma non
voglio forzare i ricordi. Quando ho avuto rapporti di lavoro con Davignon, non ero più
U
nell’ambito dei Gabinetti, ero, assieme ad altre cose, nella gestione del piano di ristrutturazione
HA
E
dell’acciaio [n.r.: in qualità di Capo Divisione alla DG Concorrenza], poiché ero a capo delle
forze di ispezione nelle imprese. Ero quindi un po’ il braccio "armato" di Davignon, pur non
militando nella sua Direzione Generale: però i poteri di ispezione alla Concorrenza erano
necessari al controllo della disciplina delle imprese siderurgiche. Quindi io su Davignon ricordo
particolarmente questo periodo, anche se allora lui non era il mio Commissario di riferimento.
[Breve pausa] Beh, ci sono state critiche su Davignon, e bisogna magari dire che tante cose fatte
non erano in fondo molto rispettose nei confronti della pura dottrina antitrust. Però la
ristrutturazione dell'acciaio andò avanti, anche se con grandi problemi. [Breve pausa] Bisognava
uscire dagli egoismi nazionali, con la volontà di devolvere da uno Stato ad un altro intere
produzioni, magari in cambio di altre. Invece... Lo stesso è avvenuto nei cantieri navali: nei
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cantieri navali per esempio l’Europa in quanto entità potrebbe oggi operare, visto il mercato
mondiale, potrebbe operare con tre o quattro cantieri navali: no, ogni Stato mantiene il suo o i
suoi cantieri navali. Certo, ha fatto o farà delle ristrutturazioni grazie alle pressioni – quello che
vi dicevo – imposte dalla disciplina sugli aiuti pubblici. Nella siderurgia l’impresa di Davignon è
comunque arrivata ad una importante ristrutturazione, con una una riduzione di capacità
produttive ed un conseguente aumento di competitività, anche se alla fine ogni Stato ha
mantenuto delle quote di produzione, perché nessuno era disposto a cedere settori interi. Faccio
AH
UE
un esempio di prodotto tra l’Italia e la Germania: in un’Europa ideale avremmo avuto una
situazione in cui la produzione del tondino per cemento armato veniva completamente assegnata
all’Italia, e l’Italia rinunciava alla produzione di acciai speciali perché negli acciai speciali i
tedeschi sono più bravi. No! Ognuno volle mantenere l'insieme della produzione. Devo dire,
U
l’abilità di Davignon – che lo ha portato certe volte a tessere arditi compromessi – è stata quella
HA
E
di conciliare da un lato le riduzioni di capacità che erano inevitabili, che erano dolorosissime ma
inevitabili, accontentando al tempo stesso gli interessi nazionali.
E’ così che arrivammo alle quote nazionali che, se vogliamo, erano in contraddizione con lo
spirito comunitario di concorrenza e di libera circolazione delle merci. Ma per andare avanti nella
UE
ristrutturazione, i compromessi con le regole del Trattato erano necessari. Voglio dire, io
mandavo degli ispettori a verificare il rispetto di comportamenti che oggi vengono considerati
AH
come l’infrazione più caratteristica alle regole antitrust, cioè io mandavo gli ispettori a
controllare che le imprese rispettassero prezzi uniformi, antitesi della libera concorrenza. Oggi
U
noi sanzioniamo con multe gigantesche le imprese che si sono messe d’accordo sui prezzi: io
HA
E
mandavo gli ispettori ad assicurarsi che il prezzo stabilito fosse rispettato da tutti. Perché?
Perché, io dico sempre, in fondo gestivamo un primo cartello di crisi europeo...Sul ruolo
collegiale di Davignon, ripeto, io ho scarsa memoria. Anche lì, è una questione di personalità:
Davignon era facilmente convincente in Commissione, come lo era Colonna. Ma questo,
Perissich ve l’avrà detto: la Commissione è un animale strano, in fondo, perché è un animale
politico e nello stesso tempo tecnocratico. I Commissari vanno in Commissione con il dossier,
con la noticina del collaboratore di turno, che gli spiega perché 2.5 è meglio di 2.8: e se poi
riescono a sviluppare con argomenti tecnico-economici precisi che 2.5 è meglio, il tutto è
approvato.
Davignon rappresentava – ecco perché lo collego un po' a Colonna – il mix di personalità direi
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ideale per un membro di Commissione: una forte visione politica assortita da una lunga
formazione tecnocratica. In Italia, a Palazzo Chigi, alle riunioni del nostro Consiglio, i Ministri
vanno con i giornali del mattino sotto il braccio e dibattono solo di grandi linee politiche...Qui no.
Io mi ricordo, in tutti i miei lunghi anni nei Gabinetti, l’ossessione settimanale era la preparazione
del dossier della Commissione, con tutto quello che comportava di note minuziose su ogni punto
previsto in discussione. Ripeto, Davignon riuniva queste due qualità, perché poteva discutere del
dettaglio tecnico insieme ad una visione e volontà di risultato, e quindi riusciva a trascinare
AH
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facilmente la Commissione sulle proprie linee.
Ancora una volta, non ricordo quanto lui abbia preso contatti con le parti sociali: però, dai settori
industriali, con i quali concludeva accordi e compromessi, era comunque visto molto
positivamente.
HA
E
U
Come ho detto, è una questione di personalità...
[Breve pausa]
UE
VS: Quando ha lavorato nel Gabinetto di Levi-Sandri si è occupato anche di questioni sociali?
GR: No, no, in quanto collaboravo con Levi-Sandri per la parte mercato interno e unione
AH
doganale. Posso solo dire – ma di questo qualcun altro gliene potrà parlare – che in quel periodo
si pensava molto allo sviluppo della formazione professionale, perché in un'Europa ancora
U
fondamentalmente agricola si assisteva ad un rapido incremento delle attività industriali. Il
HA
E
problema della formazione professionale divenne quindi una priorità. Però di più non le posso
dire, in quanto Levi-Sandri aveva il suo Gabinetto e la sua Direzione generale competenti per il
sociale.
VS: Mentre nel Gabinetto di Malfatti di che si occupava?
GR: Ah, [il periodo con] Malfatti è stato dei più gravosi.
VS: C’è stato soltanto un anno, poi, nel ‘70...
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GR: Neanche...Dunque, la cosa è semplice: arrivò Malfatti, in qualità di Presidente della
Commissione. E come vi ho detto, Renato Ruggiero fu designato come Capo Gabinetto...[breve
pausa] Mi ricordo una telefonata alle 7 del mattino di Renato che mi disse: “Senti, sei disposto ad
entrare nell’équipe di Malfatti, anche per seguire la Politica Industriale, la Concorrenza, il
Mercato Interno, per conto del Presidente?" E siccome tra l'altro io conoscevo già abbastanza
Renato Ruggiero, accettai l'offerta. Lei mi chiede: di che cosa si occupava? In effetti mi occupai
principalmente di protocollo... Malfatti sbarcò a Bruxelles con poca esperienza internazionale e
AH
UE
quindi dovetti seguire da vicino tutte le procedure e i contatti inerenti alla presa di funzione di un
nuovo Presidente della Commissione: vi assicuro che è un’esperienza unica, perché in tale
occasione è tutto il mondo che si muove, è tutto il mondo che chiede di essere visto dal
Presidente. Furono dei mesi particolarmente movimentati. Più in là si entrò ovviamente in regime
U
di crociera. Allora Lei dice: perché da Malfatti poi è andato da Spinelli? Nel frattempo erano stati
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distribuiti i portafogli, e a Spinelli fu assegnato il portafoglio di Colonna, cioè politica industriale,
unione doganale, diritto di stabilimento, armonizzazione delle legislazioni, eccetera. [Gli dissero]
“Ma c’è Rocca che ha già seguito con Colonna queste materie.” Allora iniziò un negoziato tra i
due Gabinetti e alla fine fui "venduto", insomma [risate], come un giocatore di squadra di calcio.
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Con una certa logica, Spinelli disse a Malfatti: “Senti, tu sei Presidente, ma io ho la responsabilità
specifica di questo settore, e se c’è qualcuno che l’ha già seguito con Colonna, sarà più utile a
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me". Ci fu un po’di tira e molla e io stavo lì in mezzo, ma alla fine fui contento di passare da
Spinelli. A Malfatti portai l'esperienza che già avevo nei precedenti Gabinetti, in particolare sugli
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aspetti istituzionali – all'epoca Renato Ruggiero veniva anch'egli da un mondo estraneo alla
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Commissione. Non ricordo bene, probabilmente per qualche mese seguii anche dei settori
specifici, ma collaborai soprattutto all’organizzazione, ai contatti con le Rappresentanze
permanenti, alle sistemazioni amministrative: insomma, la messa in piedi tecnica – protocollare,
non politica, certamente – di un Gabinetto di un Presidente. Ma, ripeto, dopo fui venduto all’altra
squadra [risate]
[Pausa]
MD: C’è questa questione che riguarda l’atteggiamento di Spinelli verso il rafforzamento
potenziale del Parlamento europeo: i ricercatori hanno notato che nei verbali del ’72 si è parlato
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di ampliare i poteri legislativi del Parlamento. Lei ha lavorato su questo argomento?
GR: Non direttamente. Ma i verbali confermano ancora una volta quello che vi dicevo prima sul
ruolo di Spinelli in quanto Commissario: ecco, questa è la riprova che pur essendo responsabile
degli affari industriali, egli rifletteva continuamente sugli aspetti istituzionali dell'Europa nei
quali il Parlamento e la Commissione dovevano mantenere un ruolo forte e decisivo. E' evidente
che l'idea di un'Europa federale di Spinelli passava necessariamente dalla definizione dei compiti
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delle istituzioni europee, dando per necessario un allargamento dei poteri del Parlamento e
conferendo tutta l'attività legislativa – come nella norma – a tale istituzione. Ricordo che diceva:
oggi il Parlamento non è un parlamento, è un parlatorio – [espressione] dove si organizzano
riunioni, dibattiti, ma poi non si decide nulla, lo diceva sempre, è un parlatorio. Il suo concetto di
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Europa federale, istituzionalmente forte, scosse le coscienze europeiste, anche se poi lui stesso
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era tenuto a un certo dovere di riserva in quanto Commissario europeo in carica. In effetti, a parte
forse qualche articolo, qualche discorso, qualche veemente dibattito in collegio, non poteva in
quanto membro della Commissione avanzare da solo proposte concrete. Ancora una volta – ma
Lei l'ha già detto – aveva del Parlamento dell'epoca una scarsa considerazione. Ma, ecco, erano
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giudizi che venivano da un sentimento amore-odio: vedere un'istituzione, che secondo lui doveva
essere il vero motore, il vero motore [con enfasi] dell'Europa, ridotta ad un ruolo secondario.
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Peraltro era ben cosciente, che la Commissione, in quanto esecutivo, deteneva una larga sfera di
potere, senza alcuna investitura popolare e reale controllo democratico. Insomma, poneva delle
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problematiche che sono ancora oggi di attualità. Concretamente egli pensava a un allargamento
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dei poteri del Parlamento su tutte le materie, non certo limitato alle questioni di bilancio. Cioè, il
vero motore e garante dell'integrazione europea doveva essere il Parlamento. Come abbia poi
portato avanti queste sue idee durante il suo mandato di Commissario, non lo ricordo molto bene:
certamente non perdeva occasione di esprimerle in discorsi, dibattiti, scritti, articoli, cose di
questo genere. Come già accennato, la vera sistematizzazione del suo pensiero avvenne nel
periodo del suo mandato di parlamentare europeo, con la finalizzazione del Rapporto Spinelli.
[Breve pausa]
VS: Riguardo al Gruppo Vedel: ha qualche testimonianza sul lavoro svolto dal Gruppo Vedel?
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GR: Il Gruppo Vedel? Adesso non realizzo di cosa Lei mi sta parlando...
VS: E’ un gruppo che è stato costituito dalla Commissione, composto da esperti indipendenti, e
aveva il compito di preparare appunto un rapporto sull’affermazione e il rafforzamento dei poteri
del Parlamento europeo...
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GR: Rientra in un buco di memoria...
VS: Non c’è problema...
GR: Per carità...Faccio una considerazione forse presuntuosa, però se mi sfugge non credo che le
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conclusioni di questo gruppo abbiano lasciato molte tracce...[risate]
VS: Non è l’unico a dirlo...
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GR: Vede...[risate]
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[Pausa]
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MD: E l’Allargamento, diciamo, come è stato visto, vissuto?
MD: Sì.
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GR: [Breve pausa] Il primo Allargamento?
GR: Ma, direi, se c’è stato un grande – lo sapete questo – se c’è stato un grande protagonista, nel
senso di remora politica, del primo Allargamento, questo è stato de Gaulle, è stata la Francia.
Però direi che paradossalmente, pur in presenza di profonde diversità franco-britanniche di
visione europea, questo Allargamento – da quello che percepii – fu visto con molto, molto meno
preoccupazione dei successivi. Anche lo stesso Spinelli – per riprendere lui come punto di
riferimento – anche lo stesso Spinelli, pur essendo un grande sostenitore di un'Europa federale,
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non ebbe delle riserve del genere: attenzione, con gli inglesi dentro non avremo più un'Europa
politica con istituzioni forti. No, lui considerava l'allargamento come il corso naturale della
formazione dell'Europa, mentre i francesi, con de Gaulle, temevano un cambio profondo nella
concezione politica della Comunità e soprattutto una diminuzione del loro ruolo. In un certo
senso talune cose poi si avverarono con la condotta della Thatcher. Ciò detto, questa è la risposta
che posso dare: nonostante tutto, il primo Allargamento fu una festa e una speranza per il divenire
dell'Europa. Poi naturalmente, quando si fa l’abitudine alle cose non si festeggia più tanto. Ma
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allora il Muro non era ancora caduto e il contesto politico internazionale era completamente
diverso: cioè, si ragionava in un quadro che dava per acquisito che l'Est non era affare nostro,
insomma, si trattava dell'"altra" Europa. Certo, il problema c'era e se ne discuteva: ma il Muro era
una realtà. Oggi è chiaro che le analisi, gli equilibri, le prospettive sono completamente cambiati.
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In proposito, quello che mi ha più colpito nella fase preparatoria dell'ultimo Allargamento sono
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state le grosse preoccupazioni, vedi le riserve espresse dai politici in privato – in un corridoio, in
una réception – sugli ultimi ingressi di nuovi Stati. Nelle sedi istituzionali invece tutti hanno poi
dichiarato il proprio accordo. Ecco, questo clima di dubbi – con riserva della posizione della
Francia – non era presente al primo Allargamento, anche perché tutti riconoscevano che le
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dimensioni geopolitiche non erano più proporzionate al progetto. Insomma, l'esperienza a Sei
cominciava ad apparire come un successo e la Comunità cominciava a sentirsi stretta. No, no, la
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prima adesione fu una festa. Poi ovviamente ognuno polemizzava e speculava: i francesi, Londra,
eccetera, con battute a distanza, con dichiarazioni e quello che si vuole. Ma alla fine la prima
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adesione rappresentò il raggiungimento di un grosso traguardo politico. Ripeto, lo stesso Spinelli,
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con le sue volontà e ambizioni di rafforzamento istituzionale europeo, avrebbe dovuto essere
allineato sui dubbi della Francia: non lo era affatto, anzi, appunto, quasi in maniera scaramantica
e dimostrativa, anticipò i tempi e assunse un Capo Gabinetto [ride] inglese prima ancora
dell'adesione ufficiale del Regno Unito.
VS: Provocando delle reazioni incredibili, immagino...
GR: No, non tante. Insomma, no, la cosa passò...la cosa passò abbastanza bene...E poi, con
l'ingresso del Regno Unito, ebbimo un Direttore Generale: il primo Direttore Generale inglese fu
designato proprio all'Industria. Le cose non andarono poi molto bene...[risate] Insomma, non
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restò molto, non più sei mesi...
[Pausa]
MD: Grazie tante.
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GR: Mi liberate? [risate]
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Conshist.com « Histoire interne de la Commission européenne 1958-1973
Entretien avec Gianfranco ROCCA (07.07.2004)