il fanzinaro - Iannozzi Giuseppe
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IL FANZINARO Aperiodico di racconti, poesie e fumetti de IL FOGLIO LETTERARIO Tornando a casa di Gordiano Lupi – www.infol.it Tornando da Milano rivaluto la mia bistrattata Piombino, piccola città di mare abbandonata tra sentore d’acciaio e profumo di scogliere. Percorro senza sosta vecchie strade, alla ricerca del mare, quel mare che tanto mi manca nella distanza e che do per scontato quando lo trovo a portata di mano, d’olfatto, di vista. Rivedo angoli di tetti sporgenti tra scogliere, cadenti ricordi d’archeologia industriale, pinete che protendono rami nel cielo, braccia ritorte piangendo preghiere. Sogno un bambino che corre tra prati d’illusione, memoria del passato che si fa ricordo, mentre intorno fiorisce una labile primavera. Penso che fino a ieri tutto era neve e dolore, ghiaccio e disperazione, freddo e timore. Scorgo il volo d’un gabbiano. Mi è capitato d’odiare la sua altera presenza, ma adesso mi reca un senso di pace, mi conforta vederlo, mi basta quel profilo imponente sul tetto d’una casa di mare, ché solo a Piombino ho visto condomini sulle scogliere, unica città al mondo edificata a misura d’operaio. Rivedo lo chalet sul mare, il bar nella piazza ai caduti, dove al mattino giardinieri svogliati compongono la scritta Salivoli con piante grasse. È il bar dove ho bevuto l’ultimo caffè con mio padre, prima che se ne andasse, il bar dove ogni tanto lo rivedo sorridente davanti alla tazzina di caffè. E poi dicono che non esistono i fantasmi. Non vi fate ingannare. Certo che esistono, invece. Sono dentro di noi, accompagnano una vita raminga, provvisoria, sono la nostra guida, per noi che non siamo Dante ma non possiamo restare orfani di Virgilio. Il vento di scirocco mi penetra i sensi impregnato di salmastro. D’un tratto comprendo l’angoscia di Cabrera Infante, le ultime ore in un letto d’ospedale, lontano dalla sua terra, al termine d’un esilio che supera i confini della vita. Povero Guillermo, che quando scriveva di cinema si faceva chiamare Caín, quanta tristezza morire a Londra sognando il lungomare dell’Avana, i ragazzini bagnati dagli schizzi dell’oceano, i venditori di rum, i froci, le puttane, le case cadenti, i cabaret sulle scogliere, gli alberghi di undici piani che scoprono un cielo stellato. Quanta tristezza. Tropico di Nicolás Guillén Tropico, il tuo intenso falò indora le alte nubi e il cielo profondo fasciato dalla volta del Mezzogiorno. Tu secchi nella pelle degli alberi l'angoscia della lucertola. Tu ingrassi le ruote dei venti per spaventare le palme. Tu attraversi con una gran freccia rossa il cuore delle selve e la carne dei fiumi. Ti vedo venire per sentieri ardenti, Tropico, con la tua cesta di manghi, le tue canne elemosiniere e i tuoi caimitos (1) , violacei come il sesso delle nere. Ti vedo le mani rudi spezzare barbaramente i semi e da loro estrarre l'albero opulento, albero neonato, ma idoneo per gettarsi a correre dentro boschi straordinari. Qui, in mezzo al mare, folleggiando nelle acque con le mie Antille nude, io ti saluto, Tropico. Saluto sportivo, primaverile, che mi sfugge dal polmone salato tra queste isole tue figlie scandalose. (Dice Giamaica che lei è contenta d'esser nera, e Cuba già sa d'esser mulatta!) Ah, che ansia di aspirare il fumo del tuo incendio e sentire in due pozzi amari le ascelle! Le ascelle, oh Tropico, con i loro peli torti e ritorti nelle tue fiamme. Pugni che mi dai per spaccare i cocchi come un piccolo dio collerico; occhi che mi dai per illuminare l'ombra delle mie tigri; udito che mi dai per ascoltare sulla terra gli zoccoli lontani. Ti devo il corpo scuro, le gambe agili e la testa crespa, il mio amore per le femmine semplici, e questo sangue incancellabile. Ti devo i giorni grandi, nella cui tela azzurra sono attaccati soli rotondi e ridenti; ti devo le labbra umide, la coda del giaguaro e la saliva dei serpenti; ti devo lo stagno dove bevono le fiere assetate; ti devo, Tropico, questo entusiasmo fanciullesco di correre nella pista del tuo profondo cinturone pieno di rose gialle ridendo sopra le montagne e le nubi, mentre un cielo marittimo si frantuma in interminabili onde di stelle ai miei piedi. (1) - i caimitos sono frutti tropicali di colore violaceo (da West Indies, ltd – 1934) La cicala e la formica di Guillermo Cabrera Infante da Exorcismos de esti(l)o La formica lavorava come un elefante aspettando l’inverno, e siccome gli elefanti non hanno alcun motivo per attendere l’inverno il suo lavoro (quello della formica) era perfettamente inutile. La cicala, chiamata Josefina, cantava a ogni ora del giorno, non lavorava mai e la sua unica attività consisteva nel perfezionare le corde vocali. Cantava sempre, persino la domenica, quando si esibiva in un coro, e siccome era molto pulita tutti i giorni si faceva la doccia. Di notte non cantava però russava in maniera melodiosa, secondo la sua opinione, mentre la sua vicina, la formica, riteneva che facesse soltanto un rumore odioso. Un giorno passò davanti a casa della cicala un agente dell’imperialismo che dopo averla sentita cantare decise di trasformarsi in agente artistico. Offrì un lungo contratto alla cicala, che (peggio per lei) accettò incantata. Tutto il resto fu opera della cicala, mentre l’agente riscuoteva il dieci per cento. Quando giunse l’inverno per la cicala fu il tempo della stagione artistica invernale, mentre per la formica arrivarono le piogge. La poveretta vide la sua dispensa travolta dalle acque. Disperata, andò a chiedere aiuto alla cicala, che non era più sua vicina di casa ma viveva nella miglior zona residenziale della città. La cicala, vanitosa e spinta da compassione, nominò la sua amica formica addetto stampa esclusivo. Oggi la formica lavora ancora come un elefante, ma non deve aspettare l’inverno e visto che non attende non si dispera. La cicala continua a cantare, ha un grande successo artistico ma è sfortunata in amore, si è sposata tre volte e ha divorziando sei. In quanto all’agente, continua a riscuotere il suo dieci per cento, ancora per non fare niente. Morale della favola: Il crimine non paga, ma l’ozio dà diritto a un dieci per cento. Non sempre, a volte pure a un quindici per cento. Traduzione di Gordiano Lupi www.infol.it/lupi Una visione di Fellini Di Guillermo Cabrera Infante da Cine o sardina (Santillana, 1997) Una citazione da Del amor si trasformò nel mio primo incontro con il cinema di Federico Fellini e la metamorfosi di Stendhal: La strada è uno specchio che si percorre durante un cammino. La pellicola nacque semplicemente da una visione di Fellini. Un giorno indugiò in una strada e vide allontanarsi un carro in un fascio di luce. Fellini entrò nel bosco e vide accanto al carro una coppia di gitani. Vicini a un fuoco i gitani, un uomo e una donna, mangiavano accovacciati e silenziosi. Finito di mangiare, la donna mise a posto le stoviglie. In tutto quel tempo non avevano detto una parola. I critici una volta disserro che Fellini era un regista che non aveva niente da dire. Il cinema è proprio l’arte di chi non ha niente da dire. Per questo ha una grande influenza sul romanzo moderno. Cosa ha da dire, per esempio, La corazzata Potemkin? Alcuni marinai russi si rendono conto che le loro razioni, rancide, sanno di formaggio di Lussemburgo e ci sono persino alcuni vermi bianchi. Per protesta si ammutinano e chiedono un menù migliore. La conseguenza della protesta fa sì che altre corazzate, forse rifornite con cibo migliore, restaurano l’ordine zarista a cannonate. Il risultato visibile è che, come narra Borges, tre leoni di marmo soffrono mentre vanno in mille pezzi. Ci sono molti altri esempi illustri, ma perché continuare? Il cinema è composto dalla banalità di altre arti e la maggior parte delle pellicole non si possono raccontare. Proprio questa è la grandezza del cinema americano, dell’espressionismo tedesco e, - perché non dirlo? -, delle pellicole di Fellini, persino quelle basate su testi canonici come Satyricon e Le avventure di Giacomo Casanova. Otto e mezzo, per esempio, è pura forma e al tempo stesso un’esperienza garrula in un contesto assolutamente visivo. Ma è la miglior pellicola italiana degli ultimi trent’anni. I critici, ancora una volta, condannarono Fellini per aver fatto cinema autobiografico. Ma che cos’è Il cittadino Kane? Fellini seppe ampliare la sua biografia a biografia artistica, con elementi che provengono dalla sua vita e si trasformano in autobiografia. Narrano che Fellini da piccolo scappò di casa per unirsi a un circo. Quel circo, di sicuro, è il cinema. Come Noè, il cineasta ha popolato la sua arca con diversi animali. Fellini è stato definito un blasfemo (dalla Chiesa), un reazionario (dai comunisti, da Parigi a Mosca), un misogino (dalle femministe) e alcuni maschilisti l’hanno accusato persino di omofobia per la sua versione del Satyricon. Nessuno ha mai detto, invece, che la sua visione cinematografica della vita ha soltanto due rivali: Orson Welles e Alfred Hitchcock. Il cinema moderno sarebbe diverso se non fosse esistito Fellini e la sua raccolta di grottesco visto attraverso una macchina da presa amabile e amorosa. Pellicole così diverse come All that Jazz e Radio Days, per non menzionare un quasi plagio dello stesso Woody Allen, Stardust Memories, o il finale del mediocre Honeymoon in Vegas, sono viste con la visione di Fellini. Bob Fosse morì per tempo, ma non è possibile pensare un Woody Allen senza Fellini. Sarebbe il giudeo errante alla ricerca di Bergman. Fellini fu pigro per passione, caricaturista di professione e correttore di bozze. L’ultimo impiego gli permise di dipingere con precisione gli schiavi delle galere del Satyricon. Un bombardamento alleato gli tolse la possibilità di essere soldato del Duce (per forza), ma lo portò in quello stesso anno a sposarsi con Giulietta Masina, attrice. Il raid alleato impedì che Fellini fosse un fascista, come furono tutti i grandi registi del cinema italiano del dopoguerra. Forse è questo il motivo per cui Roberto Rossellini contattò Fellini per scrivere la sceneggiatura di Roma città aperta, pellicola dichiaratamente antifascista. La Roma reale permise a Fellini di entrare nella Roma cinematografica. Il suo cinema, a partire dalla prima pellicola diretta in coppia (con Alberto Lattuada, ndt), Luci del varietà, è personale e passionale, oltre a possiedere un grande gusto per la caricatura. Lo sceicco bianco fu la prima pellicola di Fellini, un omaggio ai fumetti (in italiano nel testo, ndt), il vero cinema popolare dell’epoca anche se le immagini non si muovevano. Erano noti come i comistrippa (da noi fotoromanzi, ndt) una sorta di Corin Tellado (una Liala ispanica, ndt) avant la lettre. Ne Lo sceicco bianco, tra fantasie erotiche, discorsi sociali e sessuali, incontriamo per la prima volta il vero Fellini, il vero vate (in italiano nel testo, ndt). Dopo arrivò, nel 1953, il grande successo commerciale, I vitelloni, il suo memorabile incontro con Alberto Sordi che con un panino in bocca grida a squarciagola: “Lavoratori” e subito dopo emette una pernacchia che si sente ovunque. È un peccato che a causa della sua vanità (Fellini si riteneva un bel ragazzo) Sordi non fu mai il suo alter ego. Ruolo che fu del giovane e affascinante Marcello Mastroianni ne La dolce vita, la pellicola che regalò una frase al secolo e un nome, papparazzo (in italiano nel testo, con l’errore, in realtà è paparazzo, ndt), a una professione: fotografi, giornalisti pettegoli quello che sarebbe stato il destino di Fellini se non fosse esistito il cinema. È forse questa la mia pellicola preferita di Fellini? Anche se c’è un Cristo di cemento che lievita grazie a un elicottero e un mambo, Patrizia, che fu come un inno ai seni immensi di Anita Ekberg, La dolce risente del tempo passato e non regge una visione contemporanea. Le sue pellicole che preferisco sono Otto e mezzo, Amarcord (Proust all’italiana) e La nave va, una pellicola che è una visione dell’opera cantata da un rinoceronte. Fellini è l’ultimo dei grandi registi del cinema italiano, forse il più grande, per lo meno il più divertente e diverso. A Fellini dobbiamo rivolgere adesso il saluto di Anna Magnani, quando apre e chiude la porta nera, come nel finale di Roma: “Ciao Federico”. Traduzione di Gordiano Lupi www.infol.it/lupi HIGHABANA di Orlando Luis Pardo Lazo http://vocescubanas.com/boringhomeutopics/ L’Avana libera è più leggera dell’aria. La città concreta e crudele a volo d’uccello svanisce, diventa un’altra, rinasce o forse torna al passato che una volta abortì. Le nubi sono pezze di sollievo contro i fendenti fiammeggianti del sole. L’Avana appare respirabile nei cieli, quando la sua atmosfera finge d’essere meno claustrofobica ma ugualmente criminale. L’Avana da un elicottero o almeno da una gronda è un magnifico trampolino per chiudere gli occhi e masticare l’abisso. Città non gravida, incongruente, inusuale. Paesaggio scenografico, cinematografia di gente geniale come tutti noi prima. Posto perfetto per planare in una scheggia d’aria. Terreno dove infine cadere in picchiata, fino a infrangersi contro le onde morte dell’asfalto o la tavola solida del mare. Un giorno lo faremo tu e io, senza dubbio né delirio, non per retorica ma nella realtà più rara e reale. Di fatto, tutti lo faremo un giorno o, meglio, una di queste notti senza fine quando la luna gocciola troppo vicino alla nostra corteccia cerebrale. Tic… Tac… Non è un augurio né una minaccia, è la certezza cronica di un invito. Tu e io, ripeto. Tutti, ma non insieme. La violenza del volo deve essere un’arte per separati. Una comunione di tutti contro tutti. Una complicità della quale nessuno si renderà conto in tempo. Traduzione di Gordiano Lupi www.infol.it/lupi BURLE YOANISANCHESCHE di Pedro Pongo Perculeggén La blogger del Caribe Ora parlo del Costarica che la cosa s'è avvizzita e de Cuba me so rotta quand'è cruda quand'è cotta. Son la blogger di gran moda con la testa molto soda se mi gira vo' in Polonia compro l'acqua di colonia. Un mio libro vuoi comprare? Quanti dollari pagare? Io ti scrivo anche sul muro basta un reddito sicuro. Pure il Nobel mi puoi dare ma non so che cazzo fare son la blogger del Caribe se tu paghi te fo' ride. Che aggressione! Come sono preoccupata in casa m'han bloccata, nel giorno dei diritti umani accadon fatti strani. Un fedele poliziotto ha creato un bel casotto: a mio marito l'ascensore ha bloccato a tutte l'ore. E io telefono a Miami perché mica siamo scemi, il mio diario digitale vien trattato troppo male! Che violenza e che aggressione mio marito è nel portone! E se il riso poi mi scuoce a Reinaldo chi lo dice? Ingiustizie a profusione son la mia disperazione, questa volta la stampella me la compro un po' più bella. Yoani senti cosa fo’ (parodia da E allora senti cosa fo’ di Stefano Rosso) Cuba grigia Cuba blu ma intanto tu dove sei tu? Se va avanti così puoi ammazzarti giovedì. Tutto il giorno sto così pensando alle cazzate che dirai la speranza è sempre lì… che tu non ne dica mai. E mentre un fesso scrive, tu da che parte stai… A dire il vero non l’ho capito mai. Yoani senti cosa fo’, soddisfazione non ti do, divento castrista, comunista o radicale e quand’è carnevale sto sul Malecón Sicuro che l’indipendenza non ce l’hai, non ricordo manco da sei mesi dove stai. A Miami, da Walesa e torni su, forse alla TV, a Miami e torni su, ma non sei tornata più. E mentre un fesso scrive tu da che parte stai… A dire il vero non l’ho capito mai Yoani senti cosa fo’, soddisfazione non ti do, divento comunista, mi vesto trasandato e quando a Cuba vado, a culo nudo sto. Cuba grigia Cuba blu ma intanto tu dove sei tu? Se va avanti così puoi ammazzarti giovedì. Porca zozza ma lo sai qui la stampa cosa fa? Quando scrivo ride e fa: c’ha creduto quello là. E tu.. tu brutta strega si può sapere con chi stai? A dire il vero non l’ho capito mai… E allora senti cosa fo’ soddisfazione non ti do divento comunista, non pago più le tasse e giuro mi cascasse se dopo non lo fo’. Non siamo più bambini che credono alle novelle, ma io con te ho creduto a tutte le tue balle … (Parlato) Si va be’… mo’ che faccio? Traduco traduco che quella lotta pe' la libertà de’ Cuba… quella ‘n lotta manco pe’ la libertà sua… Quasi quasi scrivo un romanzo, mi metto in proprio!… “Il romanzo è mio e me lo gestisco da me!” Meno male che c’è la sessoautonomia che è come i Blue Jeans… non passa mai de’ moda. RACCONTINO PULP Vino di merda Voglio bere vino di merda come un tempo. Un gotto di vino di merda servito in fiaschi impagliati al Gatto nero, al Bar Nedo, alla fiaschetteria di Toni Fidenzio. Magari nero. Vorrei vino di merda, please. Pane e salame, persino mortadella - che a Piombino tutti chiamano melone - dopo una partita a calcetto. Vino di merda e discussioni calcistiche che non portano a niente, come questa vita. Non questo Gwerstraminer da fighette che non c’entra un cazzo con la mia vita. Vino di merda e sedie impagliate. Osterie puzzolenti al posto di Burger King e Mac Donald. Baruffe politiche di vecchi operai siderurgici, magari bestemmie, e non discorsi del cazzo paratelevisivi contro extracomunitari che sbarcano. Siamo in maremma, cazzo. Mica in Padania. (Gordiano Lupi)