diffusione di grossi veneziani in italia meridionale durante il

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DIFFUSIONE DI GROSSI VENEZIANI
IN ITALIA MERIDIONALE DURANTE
IL REGNO DI CARLO I D’ANGIÒ:
ALCUNE CONSIDERAZIONI
TRA ARCHEOLOGIA E ARCHEOMETRIA
di
ALFREDO MARIA SANTORO
1. IL CONTESTO STORICO-ECONOMICO
I contatti politici ed economici tra la Repubblica veneziana ed il Regno di Napoli, come noto, hanno sempre avuto come scopo il dominio del basso mar Adriatico
(NICOLINI 1926, pp. 60-62). La Repubblica di Venezia cerca
di realizzare una politica di avvicinamento a quella attuata
da Carlo I d’Angiò in Italia meridionale allo scopo di mantenere e di incrementare i suoi traffici commerciali nell’area
mediterranea orientale. Già nel 1261 i progetti della Repubblica subiscono un grave ridimensionamento allorquando l’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo riconquista Costantinopoli cosicché l’Impero bizantino può continuare a giocare un ruolo notevole sull’economia veneziana. La politica economica della Repubblica, in tal frangente, cerca una riconciliazione dei rapporti con Bisanzio, nell’attesa di poter partecipare agli ambiziosi progetti di restaurazione dell’Impero latino da parte di Carlo I, sovrano
dal 1266. Nel 1282 la Repubblica si schiera al fianco di re
Carlo firmando il trattato di Orvieto che prevedeva l’intervento di un’enorme flotta veneto-napoletana, di una cavalleria e di una fanteria (L ÉONARD 1954, pp. 134-135;
YVER 1903, pp. 248-249); ma con la perdita della Sicilia da
parte del Regno in seguito allo scoppio di lì a poco dei Vespri, i veneziani riprendono una politica accomodante nei
confronti dell’Impero bizantino (JACOBY 1995, p. 266).
Carlo I opera una politica filo-veneziana allo scopo di
allargare i propri domini verso oriente, a cominciare da un
inserimento economico (BORSARI 1956, pp. 334-341). Egli
rinsalda, attraverso l’istituzione di un consolato generale
veneto nella città di Trani, le franchigie già concesse in epoca
sveva in favore dei mercanti veneti per creare favorevoli
condizioni di sviluppo commerciale sulle coste pugliesi
(NICOLINI 1926, pp. 59-119; ZAMBLER, CARABELLESE 1898,
pp. 31-35; LÉONARD 1954, p. 102). I traffici commerciali
che vengono ad intensificarsi, riguardano prodotti come
l’olio, il vino, la lana, la carne salata, il legname, il formaggio, il sale, il ferro e soprattutto il frumento ed i cereali
(CARABELLESE 1911, pp. 143-149; YVER 1903, pp. 246).
In tale contesto si introdurranno alcune considerazioni
circa il ruolo svolto dalla moneta veneziana di grossi in Italia meridionale durante il regno di Carlo I.
La menzione nella documentazione scritta di ingenti
somme di grossi veneziani che approdano sulle coste pugliesi per i suddetti traffici suscita diverse interpretazioni
da parte degli studiosi a partire dai primi del Novecento. F.
Carabellese per primo segnala che «del grande corso che
aveva la moneta veneziana nella vita economica e commerciale del reame sono moltissime le prove». Re Carlo, secondo lo studioso, utilizza spesso per l’amministrazione del
Regno e per le paghe ed i rifornimenti della flotta monete
venete e ne autorizza l’acquisto dai vari mercanti fiorentini, veneti, amalfitani presenti nelle città di Barletta e Trani:
sovente le richieste dei Giustizieri sono tali da non poter
essere soddisfatte (CARABELLESE 1911, pp. 150-152).
N. Nicolini, in nota ad un documento riguardante l’acquisto di 30 libbre di grossi veneziani riportato nel Codice
diplomatico sui rapporti veneto-napoletani durante il regno di Carlo I d’Angiò, segnala che «gli ordini di compravendita di danari veneti apparivano nelle carte della Cancelleria angioina spessissimo» (NICOLINI 1965, doc. CCXIX,
p. 234). L’opinione dello studioso è che Carlo I, su consiglio dei maestri zecchieri pugliesi che non giudicano positivamente l’entrata entro i confini del Regno dei grossi veneziani e preoccupato per il corso della propria moneta legale, vieta la circolazione di moneta estera (NICOLINI 1971,
p. 335). Ed è proprio l’atteggiamento del re nei confronti
della moneta veneta e straniera in generale che ha aperto
negli ultimi anni un dibattito sulla circolazione, o per meglio dire sui livelli della circolazione di tali monete all’interno del regno angioino (TRAVAINI 1999b, pp. 123-125).
A. Stahl recentemente nell’affrontare il problema relativo alla circolazione medievale di moneta veneziana, è intervenuto sulla questione ricordando i ritrovamenti di grossi
veneziani in Italia meridionale, rimarcando la necessità per
l’amministrazione del Regno di utilizzare una moneta d’argento di buona qualità (STAHL 1999, p. 90) che il sovrano era
riuscito a coniare solo a partire dal 1279, anno della battitura
dei primi carlini d’argento. Utilizzate per pagare gli stipendi
della milizia (RCA, vol. XXV, pp. 112 e 167; Ibid.,
vol. XXVII, parte I, p. 110) ed accettate dall’amministrazione per il pagamento delle tasse, le monete straniere sono categoricamente proibite dal sovrano per le normali transazioni (TRAVAINI 1999b, pp. 123-125; STAHL 1999, p. 90).
Il primo provvedimento preso da Carlo I relativo a monete di provenienza estera è del mese di maggio 1266, quando in seguito al trasferimento della zecca da Manfredonia a
Brindisi il giustiziere di Terra di Bari ordina che alia moneta, preter aurum et moneta ipsam, quam ipsi in predicta
Sicla cudi facient, nullatenus expedatur; et quod aliquis
mercator argentum vel bulzonaliam de Regno extrahere non
presumat; et quod publice faciat voce preconiainhibere quod
nullus sit qui monetam aliam, et monetam cusam per eos
(siclarios) in Sicla predicta expendat; et quod mercator
aliquis argentum vel bulzonaliam de Regno extrahere non
presumat (RCA, vol. I, p. 20). Il documento non ricorda
alcun nominale ma non consente né la circolazione di moneta straniera, né la possibilità di fuoriuscita dai confini del
Regno di argento monetato o in pezzi.
Nel maggio del 1272 viene emesso un bando molto simile al precedente, di probabile scarsa efficacia, con esplicito riferimento a monete di provenienza estera: «Avendo i
Maestri della zecca di Brindisi esposto che nella città di
Napoli avevano corso molte monete straniere, quali i danari grossi, i veneti, i fiorini, i tornesi, i romanini ed altre, con
grave danno della moneta legale, ordina che sia pubblicato
un bando che vieti, sotto sanzione penale, il corso delle
monete di altri paesi» (Cfr. RCA, vol. VIII, p. 295).
Di notevole interesse sono, inoltre, le notizie relative al
circolante straniero nell’anno 1279, riportate nei Registri
della Cancelleria angioina che sottolineano una certa confusione nella circolazione monetaria del Regno: in data
25 gennaio «Re Carlo scrive a tutti i Giustizieri del Regno
che sono ivi in commercio gran numero di monete estere, il
cui valore si ignora dalla maggior parte dei regnicoli e perciò con loro danno le ricevono a più caro prezzo e poi le
vendono a prezzo inferiore della loro valuta effettiva e che
deve impedirsi tale sconcio. Ordina quindi ad essi Giustizieri di fare bandire ad alta voce per ogni città, terra, castello e luogo delle rispettive province esser proibito in commercio qualunque moneta di oro e di argento che non sia
battuta nelle zecche del Reame e ciò sotto pena della perdita delle monete stesse e delle merci comprate con quelle o
pattuite colle medesime. E chi poi lo facesse con malizia
avesse confiscati tutti i beni. Ordina altresì che tali pene si
eseguano tre giorni dopo il detto bando, che fiorini, le doppie ed ogni altra moneta di oro si comprino come ed al peso
di oro rotto e similmente le marche, le sterline, i veneti, i
migliaresi come argento rotto ed al peso di marche, alla ragione cioè: la marca di tarì 32, gli sterlini di tarì 31 per
marca, i veneti ed i migliaresi buoni di tarì 13 ½ per marca;
i fiorini d’oro interi e senza alcuna incisione alla ragione di
tarì 5 e grani 14; i fiorini non interi ed incisi per rate di
115
tarì 5 e grani 14; le doppie di oro buone, intere e non incise
a ragione di tarì 7 e grani 6, le incise per rate di tarì 7 e grani
6» (cfr. RCA, vol. XX, p. 81). Ed ancora, in data 30 gennaio del 1279, «Re Carlo emana un editto e ordina che nel
Regno si possano spendere, ricevere e negoziare in commercio le sole monete di carlini, tarì ed augustali, e che
tutte le altre monete debbansi comprare e valutare a peso,
come oro rotto, cioè la marca alla ragione di tarì 32, lo
sterlino alla ragione di tarì 31 per marca, i veneti ed i
migliaresi buoni di tarì 31 ½ per marca; i fiorini di oro
intero e senza alcuna tosatura alla ragione di tarì 5 e grani
14; le doppie di oro buono e intero e non tosate alla ragione di tarì 7 e grana 6, le tosate per rate di tarì 7 e grani 6»
(Cfr. RCA, vol. XX, p. 81-82). Le notizie appena menzionate vengono ribadite nel documento De inhibitione
monetarum del 1280 (cfr. RCA, vol. XXII, p. 29-31) già
riportato e commentato da L. Travaini (TRAVAINI 1999b, p.
124; GRIERSON, TRAVAINI 1998, p. 407) e che evidenzia la
volontà del re di accettare le monete straniere soprattutto
per scopi fiscali. Analizzando la documentazione scritta
si viene a conoscenza dei nominali esteri che giungono e
circolano all’interno del Regno e dell’intenzione di Carlo
I di riscuotere le monete estere sia tramite il pagamento
delle imposte che con l’acquisto a peso, pur di non lasciar
fuoriuscire metallo prezioso; esse sono bandite dalla pubblica circolazione: la documentazione riporta i valori di
acquisto per ogni nominale straniero d’oro e d’argento.
Nel 1279, i carlini, i tarì e gli augustali d’epoca sveva risultano le sole monete legali per le transazioni.
2. RITROVAMENTI DI GROSSI VENEZIANI IN ITALIA
MERIDIONALE
Fig. 1 – Carta di distribuzione dei ritrovamenti di grossi veneziani
in Italia meridionale.
I ritrovamenti di grossi veneziani sinora riguardano
soprattutto gruzzoli monetali. A. Sthal, di recente ha proposto una dislocazione dei ritrovamenti (STHAL 1999) che, per
ciò che attiene l’Italia meridionale, deve considerare i rinvenimenti monetali menzionati da E. Besly (BESLY 1985,
p. 401, n° 652 e 653), da P. Peduto (PEDUTO 1996) e quelli
Tav. I
116
Tav. II
recenti provenienti dallo scavo del cortile minore del castello di Lagopesole (Fig. 1). Poche le informazioni deducibili dall’elenco stilato da E. Besly, riguardanti un primo
rinvenimento portato alla luce nella città di Benevento nel
1960 che riporta la presenza di 9 grossi veneziani su un
totale di 518 monete di grossi d’argento. Il ripostiglio risulta occultato nel 1320-1330 circa e si completa di «245 grossi
aquilini di Merano, 199 grossi tirolini e 65 grossi aquilini
di Padova». Le indicazioni relative al secondo ritrovamento sono più vaghe: il tesoretto risulta occultato successivamente all’anno 1253 in un luogo imprecisato dell’Italia meridionale. Rinvenuto nel 1981, esso è composto da 103
monete d’argento e 6 d’oro. Si tratta di «Venice Matapani
di Pietro Ziani (1), Jacopo Tiepolo (14), Marino Morosini
(5) e Ramieri Zeno (83)» mentre le monete d’oro sono un
augustale e 5 tarì (cfr. BESLY 1985, p. 401).
Nel corso delle ultime fasi del restauro della villa Rufolo a
Ravello, è stato rinvenuto un gruzzolo monetale composto da
23 grossi veneziani del doge Ranieri Zeno. La scoperta fece
osservare a P. Peduto che si trattava del primo ritrovamento di
questa emissione in ambito tirrenico e che il buon argento contenuto nei grossi potesse essere impiegato nella coniazione dei
denari angioini (PEDUTO 1996, p. 112; PEDUTO 1997, p. 71). Il
gruzzolo sembra giunto a Ravello tramite i rapporti della famiglia Rufolo con la Puglia ed al riguardo va ricordato che la
provenienza ravellese e scalese di oltre il 50% dei funzionari
delle zecche angioine valeva anche per una parte cospicua dei
mercanti presenti nelle città commerciali della Puglia (SANTORO 2003; WIDEMANN 2000). Fra i personaggi che hanno potuto
rappresentare un tramite tra i Rufolo e l’area pugliese, in particolare ricordo il ravellese Giacomo Rufolo, maestro della zecca di brindisi nel 1271 ed unico della famiglia a ricoprire tali
funzioni (cfr. RCA, vol.VI, p. 220; WIDEMANN 1997).
In aggiunta ai ripostigli un dato di grande rilievo va assegnato al ritrovamento di 4 grossi veneziani emessi da Ranieri
Zeno presenti negli strati relativi alla discarica formatasi du-
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Grafico 1 – Spettro del raggio X (bassa energia) di un denaro di Carlo I d’Angiò (n. inv. 4555).
Grafico 2 – Spettro del raggio X (alta energia) di un denaro di Carlo I d’Angiò (n. inv. 4555).
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Fig. 2 – Schema del funzionamento di AGLAE (tratto da MENU, CALLIGARO et al. 1990, p. 611).
rante il primo regno angioino presente ai piedi del donjon del
castello di Lagopesole. I grossi sono stati ritrovati in strati di
XIII secolo contenenti, inoltre, qualche moneta di Manfredi
(10), Federico II (2), Corrado II (3) e, soprattutto, denari di
Carlo I (49) e Carlo II (11) d’Angiò. Il rinvenimento all’interno della residenza estiva preferita dei primi due sovrani angioini e della loro corte nobilita il ritrovamento ed evidenzia la
diffusione dei grossi anche ai livelli medi dei flussi monetali.
3. L’ANALISI PIXE SU ALCUNI GROSSI VENEZIANI
E DENARI ANGIOINI 1
N. 31 monete (30 denari emessi da Carlo I d’Angiò ed uno
da Carlo II d’Angiò) facenti parte del patrimonio numismatico
del Museo Provinciale di Salerno (Tav. I) e n. 11 (3 grossi
emessi dal doge veneziano Ranieri Zeno, 3 dal doge Lorenzo
Tiepolo, 3 dal doge Giovanni Dandolo, uno dal doge Jacopo
Contarini ed un carlino di Carlo II d’Angiò) acquistate dal
Dipartimento di Latinità e Medioevo dell’Università di Salerno presso la “Numismatica Milanese” di P. Gajani (Tav. II)
sono state sottoposte ad indagini archeometriche allo scopo di
ottenere alcune indicazioni sul titolo monetale. Le monete
sono state analizzate secondo il metodo d’analisi PIXE
(Particule Induced X-Ray Emission) (KALLITHRAKAS-KONTOS,
KATSANOS1998; GUERRA 2000) presso il C2RMF (Centre de
Recherche et Restauration des Musées de France). Il Centro
dispone di un acceleratore di particelle noto come AGLAE
(Accélérateur Grand Louvre d’Analyse Elémentaire) che permette un’accelerazione di protoni sino a 4 Me V (MENU et al.
1990) (Fig. 2).
Per le monete contenenti meno del 50% d’argento (Ag) si
è utilizzato un filtro di cobalto (Co) di 25 µ, piazzato innanzi al
rilevatore dell’alta energia, allo scopo di ridurre il segnale del
rame (Cu); per quelle contenenti più del 50% d’argento, invece, ci si è serviti di un filtro di 50 µ di Molibdeno (Mo) per
poter, quindi, osservare gli elementi maggiori ed in tracce (soprattutto Ag) contenuti in ogni moneta.
Il metodo d’analisi PIXE (Particule Induced X-Ray
Emission) interviene, in modo diretto, sulla struttura atomica dell’oggetto preso in esame, bombardandola con un fascio di protoni.
Il processo va così riassunto:
– Penetrando nell’oggetto sottoposto ad analisi, una particella del fascio di protoni emesso espelle un elettrone appartenente all’orbita più vicina al nucleo dell’atomo (Fig. 3).
– L’atomo, immediatamente, tende a riequilibrarsi ed il vuoto
lasciato è, spontaneamente, colmato da un elettrone proveniente dall’orbita più lontana (Fig. 3).
– L’atomo, in questa fase di riassetto, libera un raggio X per
disfarsi dell’energia in eccedenza. L’energia di questo raggio X è unica per ogni elemento chimico e, pertanto, è misurabile (Fig. 3).
I vantaggi dell’analisi PIXE sono:
– La non distruttività dei campioni;
– La rapidità (l’esperienza necessità di qualche minuto).
– La capacità di rilevare con precisione praticamente tutti
gli elementi contenuti in ogni moneta.
– La possibilità di analizzare oggetti estremamente piccoli.
Gli svantaggi maggiori sono:
– La possibilità di analizzare gli oggetti solo in superficie
così da poter generare errori interpretativi.
– Il costo elevato dell’indagine (un giorno di funzionamento dell’AGLAE costa circa 12000 euro).
I grossi veneziani acquistati ed analizzati sono quelli
emessi dai dogi che hanno governato nel periodo fra il 1253
ed il 1289 vale a dire durante il regno di Carlo I in Italia
meridionale prima della riforma monetaria del 1278. Non
sono riuscito ad analizzare nessun carlino emesso da Carlo
I mentre l’analisi ne ha potuto considerare soltanto uno di
Carlo II. I risultati scaturiti, dunque, fanno riferimento ad
119
Fig. 3 – Gli stati dell’atomo durante l’analisi PIXE (tratto da
DUBRANA 2001, p. 160).
Tab. 1
Tab. 2
Tab. 3
una eterogenea sia pur incompleta campionatura. Vorrei ricordare che ho cominciato ad effettuare l’analisi anche all’interno delle monete creando delle microfratture che hanno sostanzialmente confermato e validato i risultati ottenuti
analizzando la moneta in superficie. L’interno della moneta
mostra, in tal caso, una lieve diminuzione della percentuale
d’argento rispetto agli strati superficiali che ne risultano più
ricchi in quanto il metallo più nobile (in tal caso l’argento)
resta preservato dal meno nobile (Cu) che tende alla corrosione (corrosione galvanica) (cfr. GIARDINO 1998, p. 20).
Nella tabella 1 si riportano i dati riguardanti le concentrazioni in percentuale degli elementi maggiori ed in tracce
120
contenute nelle monete veneziane e nel carlino di Carlo II.
Le corrispondenze con le informazioni sulle monete sono
riportate nella Tab. 3.
Confrontando i dati relativi alle monete dei dogi veneziani (Tab. 1) con quelli scaturiti dalle analisi chimiche effettuate da M. De Ruiz (DE RUIZ 2001, pp. 163-165) si può
facilmente osservare la coerenza dei risultati e l’efficacia
di entrambi i metodi di indagine. Stando ai risultati ottenuti, le monete veneziane mantengono una percentuale costante di argento quasi puro compresa tra il 98% ed il 94,1%.
Il carlino emesso da Carlo II (Gajani 11) risulta composto
di argento al 97,1% confermandosi ad un titolo sostanzialmente simile a quello dei grossi veneziani.
Nella Tabella 2 sono presentati i risultati dell’analisi
PIXE relativi alle emessioni di Carlo I e Carlo II d’Angiò.
I denari coniati da Carlo I si confermano di pessima
qualità considerando che le analisi hanno dato per ogni moneta risultati in percentuale tanto vari da non poterli considerare sufficienti per una eventuale ulteriore sottoclassificazione
cronologica. Nessuna moneta raggiunge il 10% di fino e la
percentuale è compresa tra il 9,6% (3427) e lo 0,1% (5873).
Stando all’unico campione di Carlo II analizzato contenente oltre il 20% di fino, risulta evidente un miglioramento
qualitativo delle emissioni.
I ritrovamenti soprattutto di monete emesse dal doge
Ranieri Zeno confermano l’esigenza da parte di Carlo I, in
particolare durante i primi anni del suo regno, di servirsi dei
grossi veneziani anche se la documentazione scritta testimonia le limitazioni imposte dal re riguardo il loro impiego nelle transazioni e che, con tutta probabilità, non riuscì mai ad
evitare. Il metallo prezioso una volta entrato entro i confini
del Regno non può più uscirne legalmente, dato evidente della
penuria d’argento riscontrabile anche dalla pessima qualità
delle monete di denari emesse; ciò pone quesiti sull’origine
del metallo al tempo della riforma monetaria del 1278.
Ammettendo l’ipotesi della rifusione dei grossi veneziani per impiegarne l’argento allo scopo di coniare denari
in seguito forzatamente ridistribuiti, è statisticamente calcolato, partendo dai dati scaturiti dall’analisi PIXE (Tabb. 1
e 2), che da ogni grosso veneziano si possono ottenere fra
le 104 e le 110 monete di denari. L’analisi PIXE conferma,
dunque, che i denari di Carlo I d’Angiò sono da ritenere
qualitativamente tra le peggiori monete dell’Europa del tempo (cfr. GRIERSON 1957, p. 83).
NOTA
1
Ringrazio il Prof. P. Peduto, il Prof. F. Widemann e la Dott.ssa
M. Romito, direttrice dei Musei Provinciali del Salernitano, per
avermi dato la possibilità di effettuare le analisi archeometriche e
per i preziosi consigli. Inoltre sono grato al direttore J.-P. Mohen
ed al personale tecnico e ricercatore del C2RMF, J. Salomon, T.
Calligaro, P. Walter, B. Mille, M.F. Guerra, J.C. Dran, L. Pichon,
C. Thévenin, A. Leclaire, G. Tsoucaris.
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