Esercizi di destabilizzazione

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Esercizi di destabilizzazione
TOPOGRAFIA DELL’ESTRANEO
a cura di
MAURO PONZI, VITTORIA BORSÒ
© Paravia Bruno Mondadori Editori
Milano 2006
Esercizi di destabilizzazione
Raffigurazioni dell’alterità in alcuni classici americani
di Ugo Rubeo
Nell’ambito dell’analisi più complessiva che ha come oggetto la sfera concettuale
dell’estraneità, questo mio intervento si propone di discutere le modalità della messa in
scena letteraria del topos dell’alterità, così come essa traspare dalle opere di alcuni
classici della narrativa americana dell’ottocento, quali E. A. Poe, H. Melville, Mark
Twain. Ciò che accomuna rispetto a questo terreno scrittori pure tanto diversi tra loro è
il modo in cui la figura dell’afroamericano –soggetto politico in larga parte rimosso
dalla narrativa della prima metà dell’ottocento– trova modo di emergere nei loro testi
come centro indiscusso, ancorché non esplicito, della rappresentazione. Una
contraddittorietà, questa, che è in larga parte dovuta alle dinamiche di “resistenza” in
virtù delle quali gli autori citati segnalano, nei modi ambigui propri del linguaggio
letterario, la loro distanza dagli assunti su cui si basa il consenso democratico nella
cultura statunitense a loro contemporanea, a cominciare dal profondo disagio più volte
espresso nei confronti dell’ideologia coloniale. Fortemente radicata nella prassi della
democrazia americana, quest’ultima di fatto fonda il proprio assetto sull’implicito
riconoscimento dell’inferiorità intellettuale dell’altro: certezza, questa, che gli autori in
oggetto troveranno modo di scardinare nelle loro opere, con una puntualità che non può
lasciare dubbi sull’intenzionalità, se non sull’esplicitezza, del loro intento. Per questo,
l’analisi dei testi prescelti1 tenderà a soffemarsi sulle modalità che di volta in volta
consentiranno alla scrittura di ricavarsi uno spazio critico nei confronti dei paradigmi
etnocentrici, mettendo in luce la loro inaffidabilità, il loro sostanziale fallimento in
quanto modelli ormai inadeguati a rappresentare rapporti di forza e dinamiche sociali in
forte mutamento.
Punto di emersione di questo schema è l’uso comune da parte degli scrittori
prescelti di un sistema di opposizioni binarie incentrato sull’antinomia bianco-nero e
sulla messa in scena di un conflitto tra queste due polarità, dal quale emerge la
palese inadeguatezza degli schemi interpretativi dell’ideologia dominante rispetto a
quella che fin lì era stata la conclamata inferiorità del nero. Ambiguità e reticenze,
scambi d’identità e dislocazioni di segno contribuiscono a intaccare l’affidabilità di
stereotipi e di schemi di valutazione eurocentrici che la cultura dominante, poco
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incline al relativismo, tende erroneamente a considerare universali: tanto che in queste
opere di fiction, pubblicate a cavallo della Guerra civile, la figura del nero anomico
tende a diventare un vero concentrato di instabilità, immagine inquietante in cui si
distilla il portato di nevrosi e paure –per lo più incoffessate– dell’establishment bianco.
Testimone diretto di quel primo momento di crisi del sistema democratico, l’artista
americano contribuisce da parte sua a rimescolare i connotati identitari dell’altro,
accrescendo l’oscura “mobilità” di quella già sfuggente natura, in virtù di una decisa
accentuazione della sua indole trasgressiva, della doppiezza di atteggiamenti e tratti,
dell’esibizione di una nota inquietante di non conformità rispetto alla rassicurante
staticità del ritratto dato fin lì per acquisito. Di queste oscillazioni che investono la
fisionomia del soggetto emergente della democrazia americana, non meno che i
paradossi dell’identità nazionale, la discussione che segue tende a ricostruire senso e
portata, affrontando una serie mirata di esempi testuali tratti da alcune tra le opere di
maggior rilievo dell’Ottocento americano. Ciò che le accomuna è l’insistenza con cui
esse ripropongono il nodo irrisolto dell’alterità nera come luogo nevralgico di una
ricerca artistica tesa a sondare i limiti della coscienza nazionale nel momento in cui essa
affronta il concetto, più ampio e controverso, di estraneità. L’uso ricorrente di strategie
di copertura di cui gli autori in questione si servono dice ad un tempo del
coinvolgimento e del disagio con cui essi partecipano a quel dibattito; così come
l’ipertrofia del discorso sottotestuale che carattizza le loro opere è indice dell’ambiguità
del linguaggio letterario che essi adottano nel trattare la complessità di un tema tanto
delicato sul piano artistico quanto ineludibile su quello etico-morale. Seppure nei
termini di costruzione finzionale che le sono propri, la scrittura registra questo
complesso incrocio di tensioni, trasponendolo in trame inusitate, o sullo sfondo di
scenari esotici che dovrebbero contribuire ad attenuarne la riconoscibilità. Nel far
questo, tuttavia, per altro verso essa inevitabilmente finisce per aumentare il
coinvolgimento del lettore, in virtù delle ambigue connessioni che legano la vicenda
narrata alla realtà, lasciando intendere che, nell’una come nell’altra, ciò che entra
definitivamente in crisi è l’immutabilità delle situazioni e dei ruoli. Nel riproporre la
programmatica illeggibilità del nero come riflesso di una sostanziale fragilità
dell’identità bianca, Poe, Melville e Twain si ritagliano uno spazio critico nei confronti
dell’assetto democratico americano contemporaneo, rivelando un inconfondibile tratto
di modernità in quella comune, forte rivendicazione di relativismo che è al tempo
stesso ispirazione e cifra delle loro opere.
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1. Gli incubi di Poe: tra metamorfosi e inversioni
Nel rimettere ripetutamente in gioco il nodo irrisolto dell’identità nera –e più in
generale quello della tenuta dell’ideologia egemone in un momento in cui la solidità del
sistema schiavista sta dando evidenti segnali di cedimento– Poe ricorre di frequente all’uso
dell’opposizione bianco / nero, servendosene sia in chiave eminentemente allusivosimbolica, per suggerire l’eventualità di possibili scambi, sia, su un piano meno astratto, per
la messa in scena di situazioni di aperto conflitto tra esponenti delle due razze. Nell’un caso
come nell’altro, l’uso di questo modello oppositivo rimane fondamentalmente ambiguo: al
rimescolamento tra le due entità cromatiche, o a quello tra i ruoli sociali dei personaggi, che
pure movimentano le trame dei suoi racconti, fa infatti riscontro, nella maggioranza dei casi,
una sostanziale restaurazione dello status quo. Nell’affrontare questo nodo, David
Leverenz2, ha parlato di una “caotica esplosione” del valore tradizionalmente inscritto
nell’opposizione bianco–nero, la cui conseguenza più rilevante nei confronti del lettore è
una sostanziale inversione dei meccanismi di rassicurazione che essa originariamente
implicava. E se le sue considerazioni circa il progressivo estremizzarsi di queste inversioni
di segno in alcuni dei racconti pubblicati da Poe negli anni quaranta –“The Gold Bug”,
“The Black Cat” e “Hop Frog” ne sono alcuni esempi– sono pienamente condivisibili,
meno lo è la tesi secondo cui questo andamento sarebbe imputabile a una perdita di
controllo dell’autore dovuta alle sue crisi di natura psicologica e alle tragiche contingenze
personali nel suo ultimo periodo. Se, come molte voci hanno confermato in anni recenti,
non c’è dubbio che Poe in quello stesso arco di tempo intensifichi la portata delle
opposizioni che strutturano il suo discorso, altrettanto vero è che la rappresentazione di quel
conflitto razziale e culturale aveva trovato modo di dispiegarsi in forma più estesa e
articolata già a partire dal suo unico romanzo, The Narrative of Arthur Gordon Pym,
apparso nel 1838. E tanto più necessario appararirà il riferimento a quel testo, dal momento
che è su una serie ininterrotta di “mutazioni” che in esso si costruisce un complesso
discorso sul tema delle metamorfosi, un motivo che, soprattutto in anni recenti, sembra
essere emerso come uno dei tratti più stimolanti della scrittura di Poe.
Una svolta clamorosa negli eventi, così come nell’assetto stesso del romanzo,
avviene nel momento in cui da racconto marino esso si trasforma in una storia di scoperta
terrestre; parallelamente, si assiste ad una serie di mutazioni che coinvolgono l’intero
scenario
naturale:
dall’acqua
dell’Oceano,
che
diventa
di
un
colore
“straordinariamente scuro”, alla stessa isola – spazio statutario della con-fusione e della
“ri-scrittura” di confini sociali e entropologici – le cui pietre, terra e vegetazione appaio101
no tutti del nero più intenso. Queste “mutazioni”, tuttavia, dicono anche che lo
stesso romanzo sta acquisendo un nuovo statuto, che sta virando decisamente
verso l’allegoria: la storia, in altre parole, si va stratificando su piani diversi,
assumendo da un lato i contorni dell’apologo, del racconto “esemplare”, nel
momento stesso in cui le ambiguità della narrazione di Pym si vanno
intensificando. Come ha scritto Harlod Beaver, la Narrative sta infatti
acquisendo una doppia dimensione, giacché Poe:
As a Virginian of the 1830s, was obsessed not only by Antarctic fantasies but racial fantasies,
not only by Polar expeditions but a black-white polarity that was riddling the whole nation with
tension.3
Quello del racconto di un viaggio verso il polo Sud è in realtà un espediente che
serve a Poe per parlare anche del Sud degli Stati Uniti, servendosi di una strategia di
copertura ben collaudata qual è quella della dislocazione della storia in un contesto
geografico immaginario e, nel caso specifico, remoto rispetto ai confini statunitensi.
Questa distanza “di garanzia” gli consentirà di rappresentare lo scontro tra gli
indigeni neri e l’equipaggio bianco della nave su cui è imbarcato Pym e al tempo
stesso di far emergere come i limiti della visione coloniale di cui i bianchi sono
portatori siano tra le cause dirette del loro annientamento. La limitatezza di questa
visione pregressa –che vuole i nativi dell’isola strutturalmente subalterni e incapaci,
al pari degli schiavi negli stati del Sud– impedisce loro di cogliere i segni della
nuova determinazione e della stessa scaltrezza che anima la popolazione indigena: e
questa sua nuova mobilità, questa inusitata anomia non può non mettere in crisi gli
schemi eurocentrici dei bianchi, non può non preludere a un sovvertimento dello
stato di subalternità degli abitanti dell’isola, che, secondo gli schemi inscritti nella
visione egemone non dovrebbe, viceversa, esser soggetto a mutamenti.
Chi vive allo stato di natura come i neri dell’isola di Tsalal, dunque, non
appare più “trasparente” e “leggibile” come i colonizzatori bianchi vorrebbero: un
dato che, seppure in termini non pienamente coscienti, Pym stesso aveva in
qualche modo registrato nel momento in cui, sottolineando la nuova, curiosa
“mobilità” dei nativi, aveva proposto un ritratto quanto mai ambiguo del loro
strisciante “meticciato”:
They were about the ordinary stature of Europeans, but of a more muscular and brawny frame,
their complexion a jet black, with thick and long woolly hair. They were clothed in skins of an
unknown black animal, shaggy and silky, and made to fit the body with some degree of skill, the
hair being inside, except where turned out about the neck, wrists, and ankles. Their arms
consisted principally of clubs, of a dark, and apparently very heavy wood. Some spears,
however, were observed among them, headed with flint, and a few slings.4
102
È l’immagine fortemente contraddittoria di una fisionomia che non rientra
appieno nel modello precostituito, un ibrido solo parzialmente riconoscibile, e dunque
solo parzialmente rassicurante, che anticipa una radicale alterazione dei ruoli,
immettendo nel testo un’area di dubbio circa la reale conformità della popolazione
nera ai modelli elaborati dalla visione coloniale. Sotto l’apparente aderenza allo
stereotipo, tutto in quei personaggi sembra celare al proprio interno il germe di una
potenziale mutazione, o di un’artata messinscena, anche se quest’ultima possibilità
stenta a rientrare nella logica che sostiene l’apparato ideologico di cui l’etnocentrismo
di Pym è diretta emanzazione. L’operazione di Poe tende dunque ad esporre la
fragilità di uno schema interpretativo ritenuto inattaccabile, proprio attraverso la
rappresentazione del clamoroso fallimento dei modelli semantici che ne costituiscono
la base: un modello, va aggiunto, la cui rigidità impedisce a Pym di interpretare i segni
di un mutamento di cui pure è stato diretto testimone. Ciò che colpisce nell’andamento
della vicenda –ma lo stesso si potrebbe dire per gli altri testi presi in considerazione–
è che nell’esporre il relativismo e dunque la fragilità del teorema costruito sulla
superiorità intellettuale del bianco, Poe rappresenta in un primo momento il crollo
dell’apparato ideologico in cui egli stesso si riconosce, per poi riproporre, in sede
conclusiva, e seppure in modo affrettato, l’iniziale superiorità del bianco e del suo
quadro di riferimento.
Ed è proprio per sottolineare la palese contraddittorietà di questo atteggiamento
che accomuna i tre scrittori di cui qui ci si occupa accentuando l’andamento fortemente
alterno della loro scrittura, che Toni Morrison si sofferma, in suo saggio famoso, nel
quale essa sottolinea come la presenza dell’afroamericano nel canone letterario bianco:
often provides a subtext that either sabotages the surface text’s expressed intentions or escapes
them through a language that mystifies what cannot bring itself to articulate but still attempts to
register.5
Sospeso com’è tra rimescolamento e “normalizzazione” dei parametri che regolano
il rapporto tra identità e alterità, di quella prassi Gordon Pym sembra offrire un
riscontro paradigmatico e probante, proponendosi di fatto come documento
esemplare dell’ambiguità che alona il discorso di Poe in tema di confronto
interrazziale. E ad accentuare la portata di questo tratto concorre tutta una serie di
racconti nei quali frequente è il ricorso a analoghe strategie di copertura che
immettono nei testi una rete di allusioni critiche su argomenti scottanti dell’epoca,
nel momento stesso in cui sempre ne dissilmulano sul nascere la reale natura. Un primo
esempio significativo di questo “métissage nel métissage”, caratteristico delle stra103
tegie narrative adottate dall’autore, compare ad esempio in “The Gold Bug”, nel
quale la relazione a chiasmo che interviene tra Monsiuer Legrand e il suo sevo nero
Jupiter, propone un’inversione delle rispettive connotazioni sociali, ipotizzando una
fluidità dei ruoli che è in aperta contraddizione con la situazione storica in cui il
racconto è ambientato. Il testo, in realtà, mette in scena una situazione per molti
aspetti paradossale: ed è appunto attraverso il linguaggio del paradosso che si
manifesta quella “mistificazione” in cui Toni Morrison individua la volontà autoriale
di proporre un quadro in cui i rapporti di forza più metabolizzati della società
americana vengono, ancorché parzialmente, destabilizzati. Anche in questo caso –
ma gli esempi si potrebbero moltiplicare– il rapporto tra identità egemone e alterità
subalterna verrà ricondotto entro le coordinate della “logica” e della storia, tornando
ad essere socialmente accettabile, perfettamente in linea con gli schemi dominanti:
quella che appariva come una potenziale operazione di sovvertimento viene poi
ambiguamente ricondotta nell’alveo di un contesto normativo che il senso del
racconto, in modo ancor più evidente di quanto non avvenga in Gordon Pym,
contribuisce a rafforzare. Quelli di Poe, insomma, tendono a configurarsi come
esercizi letterari di destabilizzazione, nel senso che sempre nelle parole di Morrison
essi esprimono:
quel disperato bisogno di questo autore … per le tecniche letterarie di “alterazione”, che è tanto
comune nella letteratura americana: linguaggio straniante, condensazione metaforica, strategie
feticistiche, economia dello stereotipo, anticipazione allegorica; stategie utilizzate per assicurarsi
l’identità dei suoi personaggi (e quella dei suoi lettori). Solo che si verificano dei lapsus
ingestibili. In “The Gold Bug” si dice che lo schiavo nero Jupiter frusti il padrone; e in “A
Blackwood Article” il servo nero Pompey se ne sta muto e riprovevole davanti alle bizzarrie
della sua padrona.6
In questa dinamica di contestazione e autocontestazione, si possono cogliere i
tratti di una scrittura che non rinuncia a cercare sbocchi originali, a proporre
appunto nuove topografie dell’estraneità, pur rimanendo, nella sua sostanziale
schizofrenia, veicolo del portato ideologico dominante. Come suggerisce Liliane
Weissberg 7, il corollario di questa operazione fondata sull’uso di opzioni
strategiche apertamente contorte e contraddittorie, consiste nel fatto che, se da un
lato Poe ri-stabilisce l’altro come oggetto di dominazione, al tempo stesso egli
definisce i limiti dell’autorità, presentandoci una situazione di implicita “ansietà
razziale”, dovuta proprio alla sua definizione di quella limitatezza.
In questo senso, mi pare significativo che in Hop-Frog, uno degli ultimi
racconti pubblicati da Poe, la rappresentazione delle inversioni tra bian104
co e nero – nella fattispecie connesse più esplicitamente che altrove al rapporto
padrone-schiavo – si proponga come conseguenza diretta di quella che è l’accresciuta
“instabilità” istituzionale: una implicita conferma del fatto che l’approssimarsi della fine
del decennio degli anni quaranta vede ormai estremamente ridotti gli spazi residui di
mediazione politica. Gli scambi di identità cui dà vita la lunga catena di travestimenti su
cui è incentrata la fabula non trovano in questo caso un correttivo finale e alla miopia
del monarca che detiene il potere non viene offerto, come nei casi precedenti, un riscatto
surrettizio; tanto che il racconto, pur se sempre “coperto” sotto la cifratura farsesca e il
tono dello scherzo, giunge ad una soluzione univoca e definitiva, che coincide con
l’annientamento della struttura di potere, la quale paga così per la sua incapacità, oltre
che per la sua evidente ingiustizia. “Mascherata” in modo da rimuoverla storicamente e
politicamente dalla realtà americana contemporanea –collocata com’è in un passato
remoto e in un contesto dominato dall’istituzione della monarchia– la parabola sul
potere dispiegata in “Hop Frog” si serve di tutta una serie di elementi (il nero della pece;
l’uso delle catene; l’affronto ai danni del servo e della sua compagna, presumibilmente
esuli da uno sconosciuto paese africano) che rimandano obliquamente alle pratiche del
sistema schiavista e alle logiche di sfruttamento operanti all’interno delle piantagioni.
Ma il dato più inquietante –al di là dell’irreversibilità degli scambi di identità che
porteranno il re e la sua corte a finire bruciati, travestiti da orang-outagans e incatenati
per gioco– sta, forse, proprio nell’atteggiamento di sussiego e nell’implicita
approvazione nei confronti del giustiziere con cui il narratore racconta le sue gesta. Il
tratto che più colpisce –e che dice di un mutato atteggiamento da parte dell’autore–
sembra essere il fatto che egli fa leva sulla particolare sensibilità dell’opinione pubblica
americana, storicamente schierata in difesa dell’autodeterminazione di quanti, a
cominciare dai loro progenitori del periodo coloniale, si sono battuti e si battono contro
i soprusi, per l’acquisizione di una giusta libertà. E non c’è dubbio che, in questa chiave,
“Hop Frog” rappresenti il monito più esplicito lanciato da Poe alla miopia della classe
dirigente americana e alla negligenza di una generazione di politici che avrebbe fatto
precipitare il paese, di lì a pochi anni, nel baratro della Guerra civile.
2. Melville: reticenze e omissioni in grigio
Alla strana isola popolata dagli indigeni mutanti di Poe, fa riscontro,
qualche anno più tardi, l’isola di Santa Maria, al largo delle coste cilene,
sfondo sfumato e impenetrabile di Benito Cereno, il romanzo breve la cui
azione Melville colloca sul finire del settecento. Anche in questo caso, dun105
que, si tratta di un racconto di mare, che, in modo ancora più radicale di quanto non
accada nel romanzo di Poe, il cronotopo prescelto dall’autore sembra “sottrarre” alla
possibilità di raffronti diretti con le contingenze storico-politiche che l’America del
1855 si trova a dover affrontare. Una rimozione, tuttavia, che nella sua sostanziale
ambiguità non sembra affatto casuale, dal momento che ruotando l’intero racconto
attorno alla rivolta degli schiavi neri a bordo di una nave spagnola, essa in realtà sembra
agire “al contrario”: accentuando –e non attenuando– la possibilità che il lettore coevo
trovi inquietanti coincidenze con un presente ormai interamente dominato dallo scontro
ideologico sul perdurare del sistema schiavista. E in questo senso, già il memorabile
incipit del racconto,
pervaso
dall’opprimente presenza del
grigio, esibisce
quell’ambigua fusione tra i due poli cromatici, il cui rimescolamento, agli occhi del
capitano yankee Amasa Delano –generosamente accorso in aiuto di un malconcio
galeone spagnolo– costituirà il nodo insolubile per l’intero racconto8:
Everything was mute and calm; everything grey. The sea … was sleaked at the surface like
waved lead that has cooled and set in the smelder’s mould. The sky seemed a grey mantle.
Flights of grey fowl, kith and kin with flights of troubled grey vapours among which they were
mixed … Shadows present, foreshadowing deeper shadows to come.9
All’interno di quella che fin dall’inizio appare come una perfetta struttura di
fraintendimento tessuta da un narratore esterno particolarmente subdolo, Melville
propone un quadro in cui, dunque, l’inversione dei segni ha già superato i limiti
della normalità; un quadro, è bene aggiungere, le cui caratteristiche sfuggono di
fatto all’interpretazione del capitano americano, come a quella del lettore
implicito, dal momento che entrambi ignorano gli eventi verificatisi a bordo della
Saint Dominick. La coperta della nave, lo spazio riservato all’esercizio del potere a
bordo, è letteralmente invasa da uno sciame di schiavi, i quali si mescolano ad una
sparuta minoranza di membri dell’equipaggio, in una promiscuità che, se solo la
nave non fosse un vecchio relitto della marineria spagnola –e in quanto tale, per
Delano, una emanazione del caos e del decadimento delle monarchie europee–
sarebbe del tutto impensabile. Quella pericolosa mescolanza, quelle ombre evocate
all’inizio che oscurano, fino a cancellarla del tutto, la trasparenza della struttura
gerarchica a bordo, si disegna agli occhi del capitano come uno “shadowy
tableaux”: una raffigurazione oscura, ai limiti dell’irrealtà, in cui l’illogica fluidità
dei segni, la mancanza di confini e partizioni, in una parola, la scomparsa dei
referenti culturali che rendono possibile il sistema di opposizioni binarie tra
bianchi e neri, lasciano Delano sbalordito. Paradossalmente, è proprio la ristrettez106
za del suo quadro ideologico, tuttavia, ad agire come ancora di salvataggio, dal momento che –
in modo analogo a quanto era avvenuto con Pym– anche in questo caso essa non lascia spazio
all’appercezione di una realtà che pure gli si offre in modo tangibile, sovrapponendosi ad essa e
comprimendola all’interno di schemi tanto strutturati da rendere di fatto inattaccabile la sua
visione pregressa e gli stereotipi di cui essa si alimenta. Quella sua “indole singolarmente
cordiale e fiduciosa” che lo rende “incapace … di cedere a intime paure che in qualche modo
implicassero la presenza del male operante nell’uomo”10, traccia il confine oltre il quale la
ragione di Amasa Delano non riesce a spingersi; da un lato, essa implicitamente gli impedisce di
dubitare che fare commercio di schiavi possa non essere un’attività moralmente accettabile;
dall’altro gli conferma che, malgrado la stranezza delle apparenze, il nero non può essere in
grado di sovvertire i rapporti di forza e al tempo stesso mostrarsi tanto abile da orchestrare la
recita del copione etnocentrico. Il segreto della nave, in altre parole, diventa tanto più
impenetrabile per il “buon capitano” quanto più l’ipotesi di un’alterità nera capace di esprimere
intelligenza e motivazioni pari a quelle che definiscono la sua identità è azzerata sul nascere
dalla sua visione intimamente razzista.
Ampliata a dismisura dall’insistita focalizzazione sul punto di vista
“innocente” di Delano, la rappresentazione di questo limite raggiunge il parossismo
nella scena in cui Babo –il capo dei rivoltosi che tiene in ostaggio il capitano spagnolo
Cereno, fingendosi suo servo devoto e costringendolo a recitare al suo fianco– impone
a quest’ultimo, presente Delano, di sottoporsi al rito quotidiano della “rasatura”. È nel
momento in cui, assitendo a questa vera e propria pantomima – nel corso della quale il
servo nero minaccia di tagliare la gola al padrone, mascherando la sua intenzione sotto
l’abile gestualità del barbiere– che il discorso sulle inversioni di ruolo e sui
rispecchiamenti raggiunge la massima espansione. E la funzionalità di questo ravvicinato,
perverso “play within the play”, sta nel fatto che esso si propone come mise en abîme del
senso stesso di quel convulso gioco di scambi che innerva per inetro il racconto, e dunque
come commento cifrato e autoriflessivo sui percorsi di significazione attivati dall’autore.
L’inversione dei ruoli tra servo e padrone avvenuta nei fatti con l’insurrezione di cui Babo è
a capo –ma che è stata occultata al lettore– viene qui riproposta al “negativo”: lo schiavo
interpreta quello che dovrebbe essere il suo ruolo subalterno, mentre in realtà, da padrone,
impone la sua volontà a Benito Cereno; quest’ultimo, a sua volta, interpreta la parte del
capitano, pur se in realtà destituito, sotto una minaccia di morte che è essa stessa camuffata
da gesto di servile premura. Tutto appare, indiscutibilmente, come il contrario di tutto; ogni
segno è investito di una mobilità innalzata a livello esponenziale; per rimanere nei
107
termini della cifratura simbolica proposta dall’autore, tutto è intensamente “grigio”.
Nell’avviare questa complessa strategia di autocontestazione, il testo stesso
finge
di
proporsi
“aperto”
a
ogni
possibile
interpretazione,
enunciando
ambiguamente la sua intransitività ermeneutica: chi è il padone e chi lo schiavo; chi
il nero e chi il bianco; chi è nel giusto e chi no? Ma anche in questo caso il racconto
è sottoposto a una “normalizzazione”, o, se si vuole, a un doppio giro di vite: dopo
un cruento scontro con gli insorti, la fabula vera e propria termina sulla conquista
della Saint Dominick da parte dell’equipaggio della nave americana e su quello che,
secondo il suo capitano Delano è il ristabilimento dell’ordine costituito. Solo che,
stando strettamente ai fatti, la scena conclusiva potrebbe essere interpretata anche
come l’abbordaggio e la cattura di una nave straniera da parte di un vascello
americano; ovvero come un atto di pirateria, suggellato dall’amichevole ma ferma
destituzione del capitano spagnolo Cereno, troppo turbato, a detta dello yankee
Delano, per preservare il comando di quella che, dopotutto, è la sua nave.
A questo dubbio ripristino della legalità, tuttavia, fa seguito una sezione
finale composta dai documenti ufficiali del processo celebrato nel Tribunale di
Lima; sezione che sembra finalmente far luce sulle tante reticenze del racconto,
ristabilendo una “verità”. Come scrive Anna Scacchi, in queste pagine si districa, a
livello testuale,
… quella confusione di colori delle prime pagine: quel grigio che ostacolava la visione, e
metteva ogni cosa in un ambiguo rapporto di contiguità, si dovrà riscomporre nelle tinte
originarie, il bianco e il nero, ben separate e assegnate ai loro spazi. Da una parte il bianco e
dall’altra il nero. Da una parte il bene e dall’altra il male. Da una parte il vero e dall’altra il
falso.11
Ma, anche qui, è davvero così? I documenti riportati, ci dice un breve
avvertimento, non sono che una parte degli atti processuali, essendo stati
selezionati tra le varie deposizioni, oltre che tradotti dallo spagnolo all’inglese; e
a questa manipolazione si aggiunge il fatto che il capo degli insorti, il nero Babo
–che verrà condannato a morte a fine processo– rifiuta di offrire la propria
testimonianza, la quale, presumibilmente, avrebbe potuto contenere una versione
dei fatti antitetica a quella di Cereno e dei sui marinai. Nel proporci una verità
solo parziale –quella dei bianchi– il racconto lascia dunque aperta tutta una serie
di interrogativi, a cominciare da quello, non secondario, che riguarda la funzione
ideologica eserciatata dall’autore: su questo punto, tuttavia, qualche certezza
sembra sussistere, proprio in virtù del fatto che le strategie di copertura utilizzate
da Melville funzionano in modo così perfetto nel “blindare” l’accesso al
108
senso ultimo del racconto. Impedire la soluzione definitiva dei quesiti di ordine politico
e morale che il testo ripetutamente solleva, implica la volontà da parte dell’autore di
segnalare al lettore bianco di metà ottocento, nella forma cifrata che gli è più
congeniale, la sua implicita incapacità di risolvere il nodo dell’alterità nera
condividendo l’ottica culturale del capitano Delano. L’indole “singolarmente cordiale e
fiduciosa” di quest’ultimo sembra suggerire, per estensione, quella tendenza della
borghesia americana a rimanere abbagliata dall’illusione di un’intrinseca superiorità dei
propri schemi mentali che spesso la porta, ipocritamente, ad assolversi. Specularmente,
il testo scioglie la metafora dell’indistinzione in un’apoteosi della non trasparenza, nella
“verità”, monca e parziale, dei documenti ufficiali.
3. Mark Twain: un destino cinico e baro
Molto diverso dai primi due, per concludere, è invece il caso di The Tragedy of
Puddn’head Wilson, il romanzo che Mark Twain pubblicò circa quarant’anni dopo la
conclusione della Guerra civile e che tuttavia, come il suo più celebre Huckleberry
Finn, è ambientato nel periodo in cui la schiavitù è ancora in pieno sviluppo. La
mobilità dei tratti che caratterizzano l’opposizione fondante tra bianco e nero, così come
quella delle partizioni sociali dell’ambiente che fa da sfondo al romanzo è in questo
caso ancora più radicale che non negli esempi precedenti, dal momento che innesco
della vicenda è l’avvenuto scambio di identità tra due neonati ad opera della schiava
mulatta Roxana, la quale tenta di sottrarre suo figlio Chambers al destino di schiavitù
che lo attende, sostituendolo in culla con Tom, erede della famiglia Driscoll presso la
quale ella vive. Sensibilmente diverse da quelle dei suoi predecessori sono anche le
precauzioni per “coprire” i possibili legami tra testo e contesto storico di cui Mark
Twain si avvale nel suo racconto, cui fa da sfondo riconoscibile “un paesotto schiavista”
situato sulle sponde del Mississippi, nello stato del Missouri. Differenze a parte,
tuttavia, i nodi problematici che il romanzo solleva non sembrano essere di minor peso
rispetto a quelli dei suoi predecessori, a cominciare dal fatto che l’ambiguità che nel testo
circonda il confronto tra identità e alterità –e di conseguenza anche quello tra potere e
subalternità– trova modo di ispessirsi, anziché, come forse sarebbe lecito attendersi da un
romanzo pubblicato a tanta distanza dalla conclusione della Guerra civile, di diradarsi12.
In realtà, il totale fallimento del disegno di Roxana su cui la trama si
conclude, la sua condanna presso il tribunale locale e la vendita di suo
figlio al mercato schiavista di New Orleans – l’avverarsi dell’evento per
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scongiurare il quale ella era ricorsa allo stratagemma iniziale dello scambio – segnano la fine
ingloriosa di qualunque ipotesi di cambiamento legato al rimescolamento dei segni che
connotano l’appartenenza razziale e la collocazione sociale. D’altro canto, va sottolineato come
attraverso la creazione di un narratore ironico ma partecipe e solidale con l’operato di Roxana,
Twain faccia di tutto perché il lettore solidarizzi con lei, salvo poi frustrarne il coinvolgimento
col finale traumatico e spiazzante di cui si è detto. Come ha notato Myra Jehlen, questo suo
atteggiamento spinge a interrogarsi sui possibili motivi che possono averlo spinto a creare un
racconto che “inizia come una sferzante satira del razzismo, solo per concludersi dimostrando
che perfino una parte infinitesimale di sangue nero può fare di un uomo un assassino”.13 E il
problema, in effetti, consiste nel fatto che Tom, il vero figlio di Roxy –a tutti gli effetti passato
per l’erede bianco della famiglia Driscoll– è, non ostante l’educazione nelle migliori scuole,
“geneticamente” un poco di buono, dal momento che quel trentaduesimo di sangue nero che gli
score nelle vene è più che sufficiente a comprometterne il destino. Se dunque questa è
l’angolatura, strettamente “biologica”, del punto di vista adottato da Twain, ne discende che ove
pure lo scambio fosse moralmente giustificabile, ove pure si riuscisse a forzare la rigidità delle
partizioni dando luogo ad un “ibrido” sociale, tutto si rivelerebbe inutile nel momento in cui la
genetica dovesse imporre i suoi diritti. E la conclusione più logica di fronte a tanto radicato
pessimismo non potrebbe essere che la rinuncia immediata e totale ad ogni tentativo di
alterazione degli equilibri esistenti.
Una seconda ambiguità, solo apparentemente in contraddizione con quella appena
discussa, ha a che vedere con l’identità di Chambers, il bambino bianco spodestato, il quale
viene “educato” dalla stessa Roxana, come se si trattasse realmente di suo figlio, tra il quartiere
dei neri e la cucina di casa Driscoll. Sottoposto nel corso della vicenda alle vessazioni del
giovane Tom –suo falso padrone– Chambers si dimostrerà sempre profondamente generoso,
solidale, sensibile, proponendosi in tutto come l’esatto contrario del suo più fortunato coetaneo,
a implicita dimostrazione del fatto che l’ambiente in cui egli è cresciuto è moralmente più sano
di quello, ben più esclusivo e aristocratico, frequentato da Tom. Tuttavia, non ostante gli anni in
cui Twain scrive il romanzo siano quelli in cui più forte si manifesta da parte degli intellettuali
americani l’adesione ai precetti sul condizionamento ambientale come parte integrante del
darwinismo sociale, l’ipotesi suggerita non sembra essere sufficientemente suffragata dal testo,
in quanto esso sembra difatto implicare un direto rapporto di causalità tra il codice genetico del
personaggio e il suo comportamento. Come dire che se Chambers si dimostra buono,
caritatevole e timorato di Dio è perché egli in realtà è bianco, mentre a rendere Tom un
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irredimibile villain, al contrario, sarà sufficiente un’unica particella di sangue nero.
Un’ultima considerazione, infine, ha a che vedere col ruolo determinante che in
tutta la vicenda svolge un quarto personaggio, Wilson “lo zuccone”, dal quale –a
conferma del fatto che non si tratta di una figura secondaria– il romanzo trae il titolo.
Wilson, in realtà, deve il suo soprannome alla singolare, assoluta mancanza di ironia che
caratterizza gli abitanti della cittadina, i quali, sempre pronti nel loro tetro perbenismo a
interpretare in senso strettamente letterale tutto ciò che viene detto, fraintendono
inspiegabilmente una sua battuta. Costretto a vivere ai margini di quella sperduta
comunità di provincia, egli interpreta perfettamente il ruolo dell’outcast, coltivando
nell’ombra peculiarità e stranezze che contribuiscono a farne il prototipo dello
scienziato eclettico e isolato. Proprio quelle sue capacità analitiche, anzi, gli
consentiranno di svelare la vera identità dei ragazzi a fine racconto, in virtù di un
complesso lavoro sulle impronte digitali prelevate loro in diverse occasioni e
opportunamente archiviate con cura maniacale. Questa, in sostanza, la prova che da un
lato darà la possibilità a Wilson di ricostruire con precisione scientifica l’operato di
Roxana e di rendere pubblico lo scambio tra i due a suo tempo operato e, dall’altro, di
guadagnarsi da un giorno all’altro la stima e la riconoscenza dell’intera cittadinanza.
Nel costruire il suo racconto, Twain affida dunque alla scienza il compito di
ristabilire la verità nel modo asettico e inoppugnabile che le è proprio; tuttavia, anche se il
risultato dell’indagine scientifica condotta da Wilson serve a fare giustizia sul piano
giuridico e a ristabilire una verità a lungo vilipesa, su un altro piano esso contribuisce anche
a eliminare definitivamente ogni traccia di mutamento in seno alla comunità e a ridividere il
mondo tra bianchi e neri, innocenti e colpevoli, proprietari e schiavi. In più, la sentenza
inappellabile che l’analisi scientifica ha legittimato finirà per fare di tutti i protagonisti della
vicenda degli infelici e dei disadattati, imponendo loro l’accettazione di un nuovo stile di
vita che, ironicamente, per ciascuno equivale a un vero e proprio contrappasso. Se Roxy è
psicologicamente distrutta per il fallimento del suo disegno e per il destino toccato in sorte a
suo figlio Tom, condannato a essere venduto come schiavo, quest’ultimo viene salvato dalla
pena capitale che in prima istanza gli era stata inflitta, unicamente perché viene riconosciuto
ai suoi creditori il diritto ad essere risarciti con i proventi di una vendita che una condanna a
morte secondo diritto avrebbe inevitabilmente vanificato. Non meno crudele, del resto, è il
risarcimento che la legge prescrive per Chambers, ufficialmente ripristinato nel ruolo
sociale che gli era stato usurpato, salvo esser costretto anche lui a vivere “in una
situazione estremamente imbarazzante” che il narratore così continua a dettagliare: “Non
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sapeva leggere né scrivere e il suo modo di parlare era il più degradato dialetto del
quartiere nero. Il poveretto non riusciva a sopportare il terrore del salotto dei bianchi, né
a sentirsi a casa sua, se non nella cucina”. Il gesto di Wilson, insomma, fnisce per
dislocare irreparabilmente i protagonisti della vicenda, per fare di tutti e tre degli
infelici, per sancire un trionfo della giustizia che, imparzialmente, riuscirà a scontentare
tutti.
La nota di cinismo intenso su cui Twain conclude il suo romanzo –e che peraltro
è tipica della sua fase finale– consente forse un ultimo commento per raccordare il
discorso sulla specificità dell’apporto della cultura americana al tema generale
dell’estraneità che si sta qui affrontando. Twain, è bene ricordarlo, scrive a grande
distanza dalla guerra civile e anche dal periodo cosiddetto della “Ricostruzione”, in cui
il tentativo di integrazione politica dei circa quattro milioni di ex-schiavi si conclude col
generale fallimento dell’ipotesi di una seria eguaglianza sociale, tanto che in ogni stato
del sud verrà sancita a livello legislativo la pratica della segregazione. Di fronte a questa
situazione, egli non può che prendere atto delle enormi resistenze che la democrazia
americana oppone alla ridefinizione di una topografia culturale che accolga al proprio
interno, su basi realmente paritarie, un soggetto che, come l’afroamericano, continua a
scatenare al proprio interno paura, repulsione, a volte aperto odio. L’estraneità del nero,
cavallo di battaglia dei peggiori rigurgiti razzisti cui il paese ha dato vita ancora per
gran parte del novecento, è stata ed è infine rivendicata a più riprese dagli stessi
afroamericani, proprio a sottolineare la loro diversità da quegli schemi che a tutt’oggi
trovano un loro spazio all’interno della cultura dominante. Le strategie adottate dagli
autori qui presi in considerazione sono il segno, nel loro insieme, non meno che nella
loro fondamentale ambiguità, delle difficoltà che l’intellettuale americano dell’ottocento
incontra nel comunicare un disagio di cui condivide il peso, in un contesto che tende a
respingere, su questo piano, aperture e cambiamenti. Per questo, l’amara ironia di una
delle epigrafi che lo strampalato scienziato del romanzo di Twain ama apporre al
proprio diario può servire da commento conclusivo al nostro discorso:
12 Ottobre. – La scoperta. – Scoprire l’America è stato meraviglioso; ancor più meraviglioso
sarebbe stato non scoprirla.
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Note
1
Ci si occupa, qui, di tre romanzi brevi e molto noti: The Narrati ve of Arthur
Gordon Pym, di E. A. Poe (1838); Benito Cereno, di H. Mel ville (1855) e di
TheTragedy of Pudd’nhead Wilson, di Mar k Twain (1894).
2
David Leverenz, “Spanking the Master: Mind-Body Crossings in Poe’s
Sensationalis m”. In Kennedy, J . Gerald, ed., A Historical Guide to Edgar
Allan Poe, Oxford, New Yor k: Oxford U. P., 2001, p.97.
3
Harold Beaver, “Int roduction”, The Narr ative of Arthur Gordon Pym of
Nantucket, by E. A. Poe, Har mondswoth, Penguin Books, 1975, p. 15; tr. it.:
“Come cittadino della Virginia degli anni 1830, (Poe) era osses sionato non
solo da fantasie antartiche, ma anche razziali, non solo da spedizioni polari,
ma da una polarità bianco-nero che stava riempiendo di tensione l’intero
paese”.
4
E. A. Poe, The Narrative of Arthur Gordon Pym, (163/64); tr. it. E.
Giachino, Le avventure di Gordon Pym, Roma, Editori Riuniti, 1981: “Alti
supper giù come gli europei, ma più muscolosi e solidi, avevano la pelle
completamente nera e capelli folti, lunghi e ricciuti. Vestivano pelli di uno
sconosciuto ani male nero, dai folti peli serici, adattate al corpo con una certa
abilità, la parte vellos a verso l’interno, tranne per i ris volti al collo, ai polsi e
alle caviglie. Le ar mi consistevano principalmente in mazze di un legno nero,
che sembrava molto pesante. Tuttavia, si potevano scor gere alcune lance, con
la punta di selce, e alcune fionde.”
5
Toni Morrison, Playing in the Dark, New Yor k, Random House, Inc., 1992,
p.66; tr. it.: “spesso pr opone un sottotesto
che sabota le intenzioni esplicite del testo di superficie oppure le sfugge in
virtù di una lingua che mistifica ciò che non riesce ad articolare, ma che tenta
comunque di registrare.”
6
Ibidem, p. 58 (corsivi miei).
7
Questa è la tesi s ostenuta da Liliane Weissberg nel suo “Black, White, and
Gold”, in Romancing t he Shadow: Poe and Race, a cura di J . Gerald Kennedy
e Liliane Weissberg, Oxfrod, New Yor k, Oxford U. P., 2001; pp.127-156.
8
Facendo leva sulla costruzione di una scena marina completament e dominata
dal gri gio, Melville aumenta il senso di
“indistinzione” che tende a
ricomporre l’opposi zi one cromatica dominante tra bianco e nero e a confondere di continuo l’intrpretazione del capitano Delano da cui in larga parte
dipende l’infor mazione del lettore.
9
“Tutto era muto e calmo, tutto era gri gio. Il mare … era lustro in superficie
come piombo ondulato, raffreddato e depositato nello stampo di fusione. Il
cielo sembrava un mantello gri gio. Stor mi di uccelli gri gi, irrequieti, parenti
stretti degli stormi di vaporti gri gi irrequieti ai quali erano mescolati …
Ombre presenti, adombranti più cupe ombre future.” H. Melville, Benito
Cereno, Daniel Or me, Billy Budd, a cura di M. Bacigalupo, Milano,
Mondadori, 1998, p.5; trad. it. M. Baci galupo.
10
Ibidem, p. 6.
11
Anna Scacchi, A una voce sola, Roma, Lozzi & Rossi Editore, 2000, p. 75.
12
L’ambi guità del testo di Twain sta soprattutto nel proporre una conclusione
in cui l’opera di nor malizzazione di fatto presuppone e implica una
predisposizione biologica del nero al mal e, nel momento stess o in cui la
costante ironia nei confronti dell’ipocrisia della borghesia bi anca sudista
113
sembrerebbe accredit are l’ipotesi di un sostanziale distacco dell’autore da
quella tesi.
13
M yra J ehlen, Readings at the Edge of Literature, Chicago, Chi cago U.P.,
2002, p. 3.
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