[nazionale - iv] tuttolibri/08 29/04/06

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[nazionale - iv] tuttolibri/08 29/04/06
IV
SPECIALE FIERA
ttL tuttoLibri
SABATO 29 APRILE 2006 LA STAMPA
UN G I O R N A L I S MO C A N C EL L AT O
Mimmo Cándito
G
LI alberi che tentano di tirarsi su dalla monotonia piatta della Patagonia,
un paio di miglia dal lago Tar,
hanno la chioma spettinata, allungata verso Nord ma tenuta
schiacciata, parallela al terreno;
foglie e rami non ce la fanno a
puntare l'alto, nel cielo. Il vento
che soffia dalla Terra del Fuoco,
e arriva rabbioso, libero da ogni
ostacolo, tiene bassi quei rami e
li modella travolti dentro un
gigantesco phon di furore vergine. La natura si piega, parrucchiere è il Padreterno.
Nella strada che dalla sbarra
di frontiera del Ruanda si spinge
dentro il Congo gli Hutu andavano a piedi nudi, erano 1 milione,
più delle mosche che s'appiccicavano alle loro labbra e volevano
frugare l'umido degli occhi. La
terra ballava sotto quel popolo
di piedi nudi, gli Hutu scappavano dalla paura della morte e
pregavano, biascicando orazioni; un qualche Padreterno viaggiava dietro quella litania.
Quel giorno di settembre,
dentro le casupole diroccate di
Sabra e Shatyla l'unica vita
erano le mosche che succhiavano i 2.000 cadaveri di palestinesi ammassati sugli impiantiti
di terra battuta, sotto i muri
sbrecciati dai colpi. Il silenzio
faceva sentire lo scricchiolio
polveroso delle scarpe, sembrava un cimitero da dove il
Padreterno fosse fuggito via.
Il mestiere dell'inviato speciale era fatto di viaggi, naturalmente, e di scoperte. Un Padreterno
c'era sempre, ma un Padreterno
laico, il riflesso d'un ordine all'apparenza caotico, misterioso,
sfuggente a ogni religione, a ogni
schema mentale, e però affascinante da scoprire ogni volta,
perché quei viaggi seguivano
storie perdute dentro il filo sottile che separa la vita dalla morte;
e in ogni orizzonte - non importa
quale - uomini e alberi e continenti fanno un unico paesaggio,
con un'identità da trovare e rivelare. Il mestiere creava una memoria del tempo, ma una memoria vissuta lungo una frontiera
dove le contaminazioni di territori spesso asincroni - la conoscenza, la fantasia, la realtà, la
curiosità dovuta - intrecciavano
percorsi aspri, raramente felici.
Il mestiere dell'inviato era
l'elogio della lentezza. Oggi quel
mestiere non c'è più. La bulimia
rapida, e indifferente, delle tecnologie elettroniche, e i voli charter, ne hanno affossato le ragioni, hanno cancellato il progetto,
spento la tensione. Oggi la velocizzazione della comunicazione
è indifferente alla qualità del
"messaggio"; quello che conta è
comunicare, non ciò che si comunica. Il giornalista-viaggiatore si
perde dentro la distesa piatta
della Patagonia, si ferma a osservare quegli strani alberi figli del
vento; ma, intanto, è passato un
minuto, e oggi un minuto vale
un millennio. Lui se ne resta col
naso in aria, e intanto il tempo se
n'è ormai volato via dentro un
orizzonte subito irraggiungibile.
L'avventura non era soltanto
la tensione della scoperta, era il
tuffo lungo all'interno d'un universo sconosciuto, era il viaggio
senza bussola ma con il dovere
del racconto da inventarsi. Ci
voleva cultura, ci volevano letture, mente aperta, disponibilità a
misurarsi con flussi ignoti di
realtà. Era troppo per il giornalismo d'oggi, e l'inviato speciale è
C’era una volta l’inviato speciale
sul fronte tra la vita e la morte
stato cancellato. Cancellato dal
contratto nazionale dei giornalisti (che, senza nemmeno rendersi conto dell'eutanasia culturale
che questo comportava per l'intero mestiere, hanno accettato
di sopprimerlo dalle figure professionali), ma cancellato anche
da un giornalismo ch'è stato
travolto dall'egemonia del modello comunicativo della televisione, della Rete, dei blog, e
ancora non se n'è ripreso. L'avventura ora sta tutta dentro le
tasche di Indiana Jones.
Certo, nell'esercizio di quel
vecchio mestiere c'era anche
approssimazione, talvolta, e anche la retorica hemingwayana.
L'eroe di Inviato speciale, satira
di Waugh su Fleet Stret, confessa: «Quando debuttati nel giornalismo, ero persuaso che gli
inviati parlassero tutte le lin-
Il mio libro
d’avventure
ISABELLA SANTACROCE
Considero Il diario di
Nijinsky di Vaslav
Nijinsky, un fantastico e
avventuroso viaggio nella
mente di questo uomo
sublime, niente di simile
ho mai letto. Nessun altro
libro d’avventura mi ha
entusiasmato e coinvolto
tanto, nessun altro libro
mi ha portato così via da
me stessa, lontano dalla
terra in cui vivo, altrove, in
spazi sconosciuti,
bellissimi e spaventosi, che
certo riesco a riconoscere
come miei, ma da cui
abilmente mantengo
distanza. Può essere
stravagante considerare
questo diario un libro
d’avventura, ma per me la
vera avventura è la sfida
che compie il coraggio
quando decide di entrare
in azione. Ci vuole
coraggio per entrare
dentro la vita di Nijinskj, il
«Dieu de la dance», che
non è potuto sfuggire con
la sua natura incorporea e
sensibile al destino di tutti
i più grandi spiriti
umanitari: al sacrificio.
Art Stories
Il mio libro
d’avventure
GINEVRA BOMPIANI
gue esistenti e passassero la
loro vita a studiare le condizioni dei vari Paesi. Tutte balle!».
Forse, non tutte balle; ma molte, certamente sì.
Il vecchio Barzini in partenza
per raccontare sul Corriere della
Sera le guerra dei Boxer si ritrae
così: «Marzialmente vestito di
un'uniforme kaki da lanciere
inglese (comprata bell'e fatta
sulla Strand di Londra), la vita
stretta in un lucido cinturone da
cui pendeva, chiusa nella sua
fondina di cuoio, una rivoltella
da cavalleria lunga come una
carabina, le gambe avvolte da
quelle fasce elicoidali che erano
allora una novità per guerrieri
alla moda, il capo avvolto nell'
ombra di un esorbitante casco di
sughero, binocolo e macchina
fotografica a tracolla, sbarcavo
con una compagnia di marinai
destinata a marciare su Pechino». Oggi il reporter che va ad
affrontare l'avventura della
guerra ha computer, telefono
satellitare, giubbotto antiproiettile, e un "badge" del comando
militare che lo tiene sempre
sotto controllo. Barzini con il
suo casco ombroso e il suo binocolo era più libero, il tempo lo
accompagnava e lo proteggeva;
il reporter d'oggi - che non legge
più, che non ne ha lo spazio né
l'abitudine - il tempo lo uccide,
gli chiude la porta dell'avventura, lo confina a comunicare soltanto una cornice di significati
prestrutturati.
Celli, quand'era ancora direttore generale della Rai, in un
convegno pubblico disse esultando: «Evviva, è arrivato Internet. Possiamo fare a meno dei
giornalisti». Aveva ragione. Ma
dietro il palco dal quale lui
parlava
stava
acquattato
Yanez, fumava l'ennesima sigaretta. Yanez non è iscritto all'Albo dei reporter, Celli forse lo
salva. E oggi Yanez fa i suoi
viaggi dentro le coordinate invisibili della Rete, nuovo orizzonte dell'avventura. Ha con sé il
computer, il telefono satellitare, forse anche il giubbotto
antiproiettile; e racconta un
mondo dove nessuno conosce
alberi con la chioma spettinata.
Il libro d’avventure che ho più
amato da bambina è un
romanzo della Scala d’Oro: I
cavalieri della tavola
rotonda. Raccontava le gesta
dei cavalieri di Artù, la ricerca
del sacro Graal, gli amori di
Ginevra e Lancillotto, quel ciclo
meraviglioso che si trova
sparso in tante opere diverse,
ma in particolare nei romanzi
di Chrétien de Troyes (presenti
in numerose edizioni italiane).
Forse ero predisposta a
prediligere Lancillotto. Ma con
gli anni restò il mio eroe
preferito: uno strano eroe,
turbato nel dire il suo nome,
non vive per dimostrare il suo
valore ma per compiere
imprese d’amore. Non ha
nemmeno bisogno del
coraggio: per raggiungere
l’amata, non sente le lame
fendergli le mani quando si
appende al ponte di spade e
non prova vergogna quando
accetta un passaggio sulla
carretta dei condannati;
distratto, smagato, impuro,
Lancillotto non conquisterà il
Graal, con tutta la sua
prodezza conquista solo una
donna.
Illustrazione
di Ilaria Urbinati
L A R I C E R C A D EL L A NO T I Z I A
Ieri la suola delle scarpe, oggi la Rete
Alberto Papuzzi
N
EGLI Anni Settanta
due giornalisti del
Philadelphia Inquirer - Donald Barlett
e Jim Steele - studiarono al computer oltre mille crimini compiuti nella città in un anno. Classificando e confrontando i tempi e i
luoghi di ogni delitto, i nomi delle
vittime, quelli dei poliziotti, la
natura delle imputazioni, i verdetti delle giurie, poterono dimostrare che bianchi e neri avevano
ricevuto un diverso trattamento.
E offrirono un ritratto della magistratura americana, da cui risul-
tava che i giudici repubblicani
emettevano condanne più lunghe
dei colleghi democratici e che i
giudici già assistenti del procuratore pronunciavano sentenze più
dure. In generale, i magistrati ne
uscivano male. L'inchiesta fu giudicata potente come la prima
immagine terrestre trasmessa da
un satellite.
A differenza della celebre coppia di reporter Carl Bernstein e
Bob Woodward, che negli stessi
anni, consumando la suola delle
scarpe alla caccia di indizi e
testimoni, scopriva la pentola del
Watergate costringendo alle dimissioni Nixon, Barlett e Steele
praticamente non si mossero dal-
la loro scrivania e vissero una
grande avventura giornalistica
davanti a un monitor, sfruttando
i nuovi mezzi informatici. In
trent'anni, questo canale si è
ampliato fino a diventare l'orizzonte numero uno dell'inchiesta
giornalistica, soprattutto dopo
l'esplosione di Internet e la diffusione dei Blog. Ne è scaturito
persino un principio deontologico: date le enormi risorse web, il
reporter non s'accontenta della
sua verità, bensì ha il dovere di
dare «the vhole story», l'intera
storia.
Nella mitologia del giornalismo, l'avventura è fatta di viaggi
e pericoli, di luoghi ignoti e scene
di violenza, dal raid barziniano
Pechino-Parigi ai cronisti che si
travestono da immigrati clandestini. Ma oggi migliaia di giornalisti, sparsi in tutto il mondo,
affrontano un nuovo genere di
avventura cliccando su un sito
web, entrando in un forum o in
una chat, o aprendo un Blog. In
realtà siamo solo all'inizio, le
potenzialità della rete sono sfruttate in misura marginale, il reporter alle prese con Internet è
l'autista della domenica su una
Ferrari. Ma giornalismo oggi è,
sempre di più, il redattore di
esteri che naviga sul web per
capire il futuro di Cina e India, o
il cronista cittadino che attraver-
so la rete esplora il funzionamento delle istituzioni pubbliche.
In realtà, l'avventura è insita
nel Dna del buon giornalismo, nel
senso che è avventuroso il processo che da un evento origina la
notizia. Perché un fatto diventa
notizia e un altro no? Perché un
giornalista si tuffa in quell'avventura che è scoprire la notiziabilità di un evento. L'avventura è
smascherare quel quid per cui la
notizia ci cambia la realtà, e dopo
niente è più percepito come prima. Vale per grandi e piccoli casi:
per Pansa e Scardocchia che sul
Corriere della Sera scoprono i
responsabili dello scandalo
Lockheed prima dei giudici, così
come per Marco Belpoliti che sul
nostro giornale per primo nota
un minimo ma sintomatico cambiamento di costume: come, cioè,
l'uso dei telefoni cellulari abbia
fatto del pollice il nostro dito più
importante.
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