Introduzione

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La colpa della crisi
Al centro del soffitto della Sistina, il Creatore stende il
braccio e punta l’indice sulla sua creatura, Adamo.
Durante la conferenza stampa che segue le decisioni sui
tassi di interesse Jean-Claude Trichet, Presidente della
Banca Centrale Europea, usa dare la parola a un giornalista o all’altro indicandolo col braccio teso e l’indice puntato. È un gesto che la televisione e la stampa riprendono
di frequente. Una volta la fotografia sulla prima pagina
del Financial Times fu particolarmente solenne. Secondo
Barbara Spinelli, anche per un gioco di riflessi di luce,
Trichet sembrava il Creatore, «col dito puntato sui tassi,
che forse si alzano e forse no; sul dito demiurgico pende
una lampada, che mima il sole acceso nella genesi. Fiat
Lux: questa l’immagine che abbiamo del superbanchiere
di Francoforte»1. Il gesto michelangiolesco mi è sempre
apparso più dolcemente potente e molto più sereno, ma
l’azzardato paragone mi è rimasto impresso.
Anche quando non si confondono con le divinità, i
banchieri centrali sono personaggi abbastanza rispettati,
pure dall’uomo della strada. Danno l’impressione di avere qualcosa di importante da fare, buone capacità tecni-
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l’acqua e la spugna
che, un impatto concreto sull’economia. La maggior parte della gente non sa però bene quali siano i loro compiti
e di quali strumenti e abilità si servano. Dall’estate del
2007 c’è la crisi finanziaria internazionale e l’opinione
pubblica pensa i banchieri centrali occupati soprattutto a
porvi rimedio.
È vero: la crisi è oggi la principale preoccupazione delle banche centrali. Devono contribuire all’acrobatica operazione di gestirla e curarla. Ma la crisi è anche colpa
loro, della loro politica monetaria. Hanno creato troppa
moneta e consentito che si formasse troppo credito, con
tassi di interesse troppo bassi, per troppo tempo. La conseguenza è che i mercati hanno fatto cattivo uso del credito sovrabbondante. La qualità dei prestiti e dei titoli si
è deteriorata, fino al moltiplicarsi delle insolvenze e allo
scoppio della crisi.
I banchieri centrali sanno di essere corresponsabili
della crisi. Non lo dicono quasi mai ad alta voce, ma sentono la macchia sulla coscienza. Ciò rende più amaro,
meno sicuro e autorevole, il loro faticoso impegno nella
gestione e nella cura del disastro.
Nemmeno gli altri – i politici, le banche, gli operatori
dei mercati finanziari, gli economisti, l’opinione pubblica
– insistono sul fatto che la politica monetaria è fra le cause della crisi. Non è un imputato importante. L’immagine
michelangiolesca del banchiere centrale che punta il dito
onnipotente è appannata. Ma a nasconderla è più la polvere del crollo economico-finanziario generale, la sensazione collettiva di impotenza, che il sovrapporsi dell’immagine rovesciata, nella direzione e nel significato, con
un dito, giudice anziché demiurgico, puntato in senso
opposto, per indicare il banchiere centrale fra i colpevoli.
Il tipico discorso sulle origini della crisi riconosce
subito che essa è scoppiata in un ambiente di credito
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troppo facile, di liquidità eccessiva e troppo a buon mercato, col ciclo economico e i prezzi delle case e delle azioni gonfiati da politiche troppo espansive. Ma subito dopo
il discorso sorvola su tutto ciò e non ci torna più. Passa a
individuare molti altri colpevoli che hanno contribuito al
disastro e su questi, solo su questi, si sofferma nel proporre le riforme per scongiurare nuove crisi.
I banchieri centrali riescono così a unirsi al coro che
addita le gravi colpe di chi ha fatto mancare le regole necessarie per tenere in ordine i mercati, di chi non ha vigilato
bene sul rispetto delle regole che c’erano. Alcune banche
centrali che, oltre alla politica monetaria, hanno responsabilità di regolamentazione e vigilanza, si trattengono un poco
nel cercare la colpa anche in questa direzione. Dove invece
il consenso generale non trova limiti è nel prendersela da un
lato col fantasma dell’«ideologia liberista», che avrebbe consentito la «sfrenata» indisciplina dei mercati finanziari, dall’altro con «l’ignoranza, l’avidità e la presunzione che solitamente caratterizzano gli operatori di mercato»2.
La caccia al colpevole è un esercizio futile se non serve
a capire meglio il da farsi per ridurre la probabilità che i
guai si ripetano. È in questa prospettiva che vale la pena
di fare emergere meglio le responsabilità delle politiche
monetarie nella crisi.
È quello che vuol fare questo breve libro, evidenziando anche alcune debolezze concettuali della teoria monetaria che oggi creano disorientamento sia fra le autorità
che fra gli economisti. Il problema risulta più chiaro se
collocato in una prospettiva storica. Viene perciò ricostruita sinteticamente la storia delle politiche monetarie e
delle idee di fondo che le hanno ispirate, dalla «grande
inflazione» degli anni Settanta a oggi. Una ricostruzione
che faccio volentieri, perché coincide col periodo trascorso da quando ho cominciato a lavorare all’università.
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Se errori e difetti di politica monetaria sono stati concausa della crisi, la loro correzione può aiutare a risolverla. L’ultima parte del libro riflette su come, finita la crisi,
perché la stabilità finanziaria torni e sia duratura, servirà
ripensare sia la teoria che la prassi delle politiche monetarie, adeguarle alla globalizzazione, rafforzarne l’indipendenza, collegarne la riforma con quella delle politiche di
regolamentazione e vigilanza finanziarie.
Purtroppo, prima di avere un «nuovo mondo», ben
riformato, così da evitare nuove crisi, va gestita quella in
corso. La gestione della crisi coincide solo in parte con
la sua cura, con l’intervento organico sui problemi di
fondo che l’hanno determinata. Gestire la crisi significa
soprattutto tamponarla, evitare che si avviti in forme
sempre più gravi, affrontare l’emergenza in modo pragmatico. Ma il pragmatismo risulta spesso disorganico e
contraddittorio. Trascina la politica monetaria in direzioni opposte a quelle che portano al «nuovo mondo»
ben riformato. La gestione della crisi diventa allora una
trappola, pericolosa e scoraggiante. Il libro parla anche
della trappola, senza poter sostenere che riusciremo a
uscirne.
Tempi duri per le banche centrali…
Per fronteggiare la crisi e lo stallo dei mercati finanziari,
per evitare il fallimento delle banche e di altri intermediari, la politica monetaria viene indotta a creare ancora
quantità enormi di liquidità, a riabbassare i tassi di interesse fino allo zero, ad ampliare tantissimo la dimensione
dell’attività e del bilancio delle banche centrali, fino a
snaturarne le funzioni e le responsabilità. La logica dell’emergenza, del salvataggio, sta disorientando ancor più i
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responsabili della politica monetaria, le cui insicurezze
erano già state fra i fattori della crisi.
Il disorientamento risalta soprattutto considerando
quello che prima della crisi sembrava il faro della politica
monetaria: il controllo dell’inflazione. L’obiettivo di stabilizzare il livello dei prezzi avrebbe dovuto dominare l’azione delle banche centrali. Erano quasi tutte concordi
nell’affermarlo, confermando quel che dicono i libri di
testo. In realtà, quando la crisi è iniziata, si è sovrapposta
proprio al problema dell’inflazione, che cominciava a far
paura. La crisi finanziaria e il rallentamento dell’economia sono di solito l’opposto dell’inflazione. Eppure, dall’estate del 2007, per circa un anno, i due guai contrari
erano entrambi minacciosi. Erano entrambi conseguenze,
più o meno dirette, dell’eccesso di liquidità che da tempo
inondava l’economia mondiale. Se è intuitivo che troppa
liquidità alimenta prestiti e investimenti sconsiderati,
anche chi non è esperto di economia sa che quando c’è
troppa moneta, per tanto tempo, salgono i prezzi dei
beni che con la moneta si comprano.
Da metà 2007 a metà 2008 l’aumento annuale dei
prezzi al consumo era passato da meno del 3 per cento a
più del 5 per cento negli Usa, da meno del 2 per cento a
più del 4 per cento nell’area dell’euro, dal 3 all’8 per cento in Cina. Il prezzo del petrolio era salito moltissimo,
come quelli di numerose materie prime, anche a causa
della speculazione che utilizzava la liquidità sovrabbondante e contava sul fatto che nel lungo periodo la crescita
dell’economia mondiale, favorita dalle politiche espansive, avrebbe continuato a premere sulla disponibilità di
risorse. Soprattutto, le aspettative di aumenti dei prezzi
cominciavano a influenzare i comportamenti dei consumatori, dei sindacati, delle imprese, dei risparmiatori e
delle autorità di finanza pubblica. Quando le attese d’in-
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flazione hanno questa influenza si può dire che si sta perdendo la «stabilità dei prezzi», secondo la bella definizione che ne dette 25 anni fa un banchiere centrale grande
nemico dell’inflazione3.
L’approssimarsi dell’autunno del 2008 trovava dunque
i banchieri centrali sballottati fra Scilla e Cariddi, fra l’inflazione e la crisi, incerti se ridurre la moneta per combattere la prima o continuare ad aumentarla per lenire la
seconda. Per loro erano cominciati tempi duri. Emergeva
il loro fallimento nel tutelare sia la «stabilità finanziaria»,
cioè la solvibilità delle banche e il buon funzionamento
dei mercati dei titoli, che la «stabilità monetaria», cioè
quella del livello dei prezzi. Oltre a rammaricarsi dei loro
peccati e trovare il modo di non tornare a sbagliare, dovevano affannarsi subito a rimediare.
Nel frattempo cercavano, per quanto possibile, di
discolparsi. Circa la crisi finanziaria, sottolineavano le gravi e incontrollabili imprudenze delle banche (non centrali) che avevano concesso i cattivi crediti, la scorrettezza
con cui avevano attirato clienti che non avrebbero potuto
rimborsare i prestiti ricevuti, nonché l’azzardo irrazionale
degli speculatori che avevano gonfiato i prezzi degli
immobili dal cui successivo brusco calo era nata la crisi.
Quanto all’inflazione, i banchieri centrali si discolpavano
additando soprattutto gli aumenti dei prezzi del petrolio e
delle materie prime, senza associarli alle politiche troppo
espansive. Era l’impennarsi spontaneo, temporaneo e speculativo del greggio che faceva crescere il livello generale
dei prezzi, indipendentemente dalla quantità di moneta in
circolazione. Prima o poi il petrolio e le materie prime si
sarebbero normalizzati e l’inflazione sarebbe riscesa.
In effetti successe presto così e i timori di inflazione
parvero dissiparsi. Nell’ultima parte del 2008 si ebbe un
rallentamento generale dei prezzi: l’inflazione dei prezzi
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al consumo cadde in pochi mesi da sopra al 4 per cento
all’1 per cento nell’area dell’euro, da più del 5 per cento a
zero in Usa, dall’8 per cento all’1 per cento in Cina; il
prezzo del barile di petrolio precipitò da 140 a 40 dollari.
La ragione fu che improvvisamente l’altro problema,
quello della crisi finanziaria, si ingigantì tanto da soffocare le pressioni inflazionistiche, soprattutto perché le difficoltà delle banche e dei mercati dei titoli divennero difficoltà delle imprese da loro finanziate, divennero minor
produzione, disoccupazione, diffusa carenza di domanda.
L’eccesso di liquidità rimase nel sistema, ma la sua circolazione si ingolfò del tutto, come acqua trattenuta da una
grande spugna. Non finanziava più l’economia ma non
alimentava nemmeno più l’inflazione.
Sulla scena rimase solo il tema della crisi, della recessione. Le previsioni del Fondo Monetario Internazionale
sulla crescita del Pil nell’anno 2009 peggiorarono violentemente: confrontando quelle formulate a fine luglio
2008 con quelle di fine gennaio 2009, si passa dal 4 per
cento allo 0.5 per cento per il mondo, dallo 0.8 per cento al –1.6 per cento per gli Usa, dall’1.2 per cento al –2
per cento per l’area dell’euro, dal 9.8 per cento al 6.7 per
cento per la Cina. Quanto al livello dei prezzi, si cominciò a prevederne addirittura la diminuzione. Alla politica
monetaria spettò solo di fronteggiare la Cariddi della
depressione, senza temere la Scilla dell’inflazione. Come
dire: se c’è bisogno di stampar moneta per far riprendere
l’economia, non è certo il timore di suscitare inflazione
che deve creare ostacoli. I tassi furono infatti ridotti precipitosamente, fino a sfiorare lo zero negli Usa, e tanta
nuova liquidità fu pompata nel sistema a dispetto della
spugna che la tratteneva.
Ma la crisi è continuata e la politica monetaria è risultata impotente. Impotente e disorientata: non è affatto
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chiaro il criterio con cui deve muoversi. Il compito di
stabilizzare i prezzi sembra aver perso senso. Eppure, in
una prospettiva di medio-lungo periodo, l’eccesso di
liquidità non può che essere benzina per l’inflazione.
Arriverà anche l’incendio, un grandissimo incendio?
Come pensare a un problema del genere mentre la liquidità è congelata in una spugna e c’è il ghiaccio della crisi
che fa mancare domanda di beni prodotti, di materie
prime, di lavoro?
In questo scenario, il disorientamento dei banchieri
centrali è condiviso dagli economisti, almeno da quelli
che non fanno finta di aver le idee chiare, ed è avvertito
dagli operatori economici, che osservano e cercano di
prevedere la politica monetaria. Le aspettative dei mercati sono incertissime, i loro andamenti sempre più instabili, la volatilità dei prezzi di borsa tanto grande da parere
assurda. Incertezza e instabilità riducono ancor più la
possibilità delle autorità di intervenire efficacemente per
ricostruire la stabilità finanziaria senza creare le condizioni per una grande inflazione.