IL DOCUMENTO ed altri nove racconti

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IL DOCUMENTO ed altri nove racconti
IL DOCUMENTO
ed altri nove
racconti
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IL DOCUMENTO
Perché non scrivere della disperazione. In altre parole, perché non raccontare
di quel particolare momento della vita dove infine non c’è più lo spazio per un
ripiego o per un ripensamento, oppure per un qualsiasi moto di volontà diretto a
forzare l’ineluttabile decorso degli anni. Però…
9 MAGGIO
No.
Sicuramente mai più crederò che una giornata splendida, in senso
meteorologico, debba anche essere foriera d’avvenimenti lieti.
In quel lontano giorno, il 9 maggio dell’anno…, spirava una piacevole brezza
tiepida e la temperatura era simile più a quella di un’estate incipiente che non a
quella di una primavera inoltrata.
Il sole illuminava la città rendendola nitida e precisa nei contorni delle sue vie,
dei palazzi e sopra a tutto c’era un cielo di un azzurro intenso, che quasi
diveniva blu quando era attraversato da alcune nuvole vagabonde che
ricordavano le isolette di un minuscolo arcipelago sperduto in chissà quale
mare.
Quel mattino mi svegliai prima di mia moglie Claudia.
Inspiegabilmente mi sentivo nervoso, inquieto. Provavo una specie di rancore,
di astio, di livore verso tutto e tutti.
In bagno, mi specchiai e notai con disappunto che il mio volto tradiva i suoi
quasi …ant’anni. D’altronde la mia carta d’identità parlava chiaro: Brivio Mario,
nato in…, il…, statura un metro e…, occhi e capelli colore…, segni particolari:
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“nessuno” se non, aggiunsi mentalmente, un’angosciosa insoddisfazione che
non si leggeva né sul viso né altrove, ma era incisa nell’anima.
Claudia era una bella donna dai capelli rossi, con grandi occhi scuri posti sopra
un naso ed una bocca regolari, racchiusi in un ovale perfetto su cui erano state
spruzzate alcune lentiggini sbiadite.
Il fisico si presentava asciutto, minuto e longilineo, quasi da adolescente, ma
mia moglie non lo era più da un bel pezzo.
Claudia, mentre mi seguiva in tutte le mie operazioni del mattino, aveva
avvertito il mio nervosismo e sembrava che anche lei lo sentisse perché si
mostrava tesa e rispondeva con monosillabi o con frasi brevissime pronunciate
sottovoce, quasi bruscamente, almeno così mi pareva, a certe domande banali
che distrattamente le rivolgevo.
Davvero non capivo più se ero io a trasmetterle quel misterioso quanto
fastidioso flusso elettrico, oppure se inconsciamente ero diventato la sua
vittima.
Quando uscii di casa la salutai con un “ciao” ed aggiunsi, mentre scendevo i
primi gradini della scala del condominio dove abitavamo, che l’avrei chiamata
più tardi e lei mi rispose che forse sarebbe uscita o probabilmente mi disse
qualcosa che non riuscii a cogliere, ma quasi sicuramente non parlò affatto, fui
io ad immaginarlo. Verosimilmente si limitò a contraccambiare il mio saluto con
un altro “ciao”.
Una volta che raggiunsi il corso, il mio umore non mutò.
Ogni cosa mi urtava: sia i saluti di alcuni conoscenti che incrociavo strada
facendo cui rispondevo con impercettibili cenni del capo, sia le solite frasi più o
meno spiritose del cameriere del bar sotto il mio ufficio, tant’è che per evitare di
sopportarlo anche per un solo minuto di più, bevvi il caffè bollente, amaro e non
attesi il resto.
Come giunsi in ufficio, trovai sulla mia scrivania un plico colore crema che
risaltava sul tavolo di legno scuro.
La mia segretaria, una donna sui quarant’anni, piuttosto robusta coi capelli
lunghi e lisci, che mi sembravano perennemente unti, mi fissava attraverso le
lenti dei suoi occhiali e, non appena colse il mio sguardo, mi disse che per
ordini superiori avrei dovuto aprire immediatamente quella busta che conteneva
un non meglio precisato documento. Quindi era necessario che io lo leggessi,
perché tra non molto i miei “capi” mi avrebbero telefonato, e la chiamata di
sicuro sarebbe stata pertinente al contenuto dei fogli racchiusi in quel fascicolo,
che ora un prepotente raggio di sole illuminava centrandolo in pieno.
Non risposi nulla e trovai Elena, la mia segretaria, più noiosa del solito.
Quante parole, pensai, su quello che dovevo e non dovevo fare.
Come smise di parlare, con gelida cortesia, la invitai ad uscire dalla mia stanza.
Invece di esaminare quell’incartamento, mi misi a contemplare quanto stava
accadendo lungo la strada.
Ma non sopportavo di vedere la gente che camminava, anche frettolosamente,
per andare chissà dove e quelle macchine che correvano, rallentavano di colpo,
sfioravano alcuni passanti che, a loro volta, in atteggiamenti goffi riuscivano ad
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evitare un investimento sicuro e poi reagivano con imprecazioni ed un
turpiloquio che con chiarezza leggevo sulle loro labbra.
Erano le nove passate, squillò il telefono e, prima che Elena alzasse la cornetta,
aprii la porta della mia stanza e con la mano le feci un cenno di diniego per
significarle che non c’ero per nessuno.
E così fece. Ma subito dopo si presentò di fronte alla mia scrivania e quasi mi
minacciò:
- Guardi, dottore, che cercavano proprio lei… Volevano sentirla… è per quel
dossier che lei ha di fronte… Per tutta risposta io continuai a guardare fuori della finestra ed infine, visto che
non potevo fare a meno di ignorare la fastidiosa presenza della donna che
restava lì in piedi nell’attesa che io dicessi o facessi qualcosa, le risposi con un
vago “va bene, va bene”.
Elena uscì e chiuse la porta dietro di sé.
Distolsi lo sguardo dalla strada ed iniziai a camminare su e giù scrutando la
moquette del pavimento del mio ufficio, come se stessi cercando qualcosa.
Dopo un poco smisi di andare “su e giù”, passai di fronte alla mia segretaria e le
borbottai:
- scendo a prendere un caffè. –
- Dottore, il documento… - Sì, sì… torno subito. –
Il bar era troppo affollato e pieno di fumo.
Quindi uscii immediatamente e mi limitai a fare due passi guardando le vetrine
dei negozi del corso.
Dopo un quarto d’ora, decisi che sarei ritornato al mio posto di lavoro.
Con un cenno del capo, stancamente salutai Elena e mi chiusi nella mia stanza.
Mi sedetti alla scrivania e di tanto in tanto sbirciavo il giornale ancora piegato
alla mia destra, non lo aprivo ma mi accontentavo di leggere come meglio
potevo i titoli che erano semi nascosti dalle piegature del quotidiano.
Il plico era al centro del tavolo.
Lo presi, lo aprii, misi la busta da una parte e cominciai a leggere il documento
che in essa era contenuto.
Mi sentivo distaccato e disgustato al tempo stesso. Voltavo le pagine con noia e
con un che di stizza, senza curarmi di sgualcirlo o no, anzi mi rendevo conto
che involontariamente lo maneggiavo senza alcun riguardo.
Quando distolsi dalla lettura la mia pigra attenzione, i fogli apparivano
spiegazzati e in disordine. Li lasciai cadere sopra il giornale, poi li ripresi di
scatto, quasi con violenza, per rileggere qua e là certe righe di alcune pagine
poste al centro dell’incartamento.
Feci una smorfia che rispecchiava il mio stato d’animo, che era tra l’annoiato e
lo spazientito.
Sfogliai a ritroso alcune pagine e, mentendo con me stesso, feci finta di voler
cogliere proprio fino in fondo il significato e la portata di quanto c’era scritto.
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Però, sin dall’inizio sapevo che, per motivi oscuri ed arcani, non mi sarebbe
interessato nulla di tutto ciò perché, inspiegabilmente, ritenevo che il contenuto
mi fosse noto già da lungo tempo.
Comunque inavvertitamente, esaminando una facciata sì e due no ed
interrompendo la lettura con brevi “su e giù” per l’ufficio, finii che lo rilessi per
intero.
Allora lo richiusi mettendolo al centro della scrivania, convenni con me stesso
che oramai ne sapevo fin troppo e che pertanto era giusto che mi concedessi
una pausa di riposo per scendere giù al bar a bere qualcosa.
Mi diressi verso la porta del mio ufficio, da lì mi girai e diedi un’occhiata alla
stanza per accertarmi che tutto fosse in ordine. Non potei fare a meno di notare
che l’incartamento era tutto sgualcito e stropicciato, davvero si mostrava in tutta
la sua sgradevolezza.
Sembrava una cosa consunta, troppo usata, simile ad un vecchio e logoro
elenco del telefono di un posto pubblico.
Ci volle tutta l’insistenza della mia segretaria perché mi accorgessi che ero
desiderato al telefono.
Alzai il ricevitore e udii la voce severa, seccata, mascolina di Elena che,
compresa sino in fondo nel suo ruolo, mi avvertì:
- Dottore, la vogliono sulla “uno”. –
- Va bene. –
- Ha letto il documento? – mi chiese una voce sconosciuta, metallica che
pareva che venisse da molto lontano, mentre con molta probabilità
proveniva dal piano di sopra.
- Sì. –
- Allora? –
- D’accordo. –
- Partirà oggi alle 18.30 dall’aeroporto di Bologna. –
- Va bene. –
- Buongiorno. –
- Buongiorno. –
Riattaccai ed accidentalmente mi specchiai nel vetro della finestra e mi resi
conto che avevo sempre la stessa espressione assente di prima, quella di
quando avevo preso in mano il fascicolo per leggerlo.
Rimasi per un attimo assorto nei miei pensieri, ero indeciso se telefonare o no a
Claudia.
Ma era inutile, pensai, che la chiamassi. Non m’aveva forse detto che sarebbe
uscita? Oppure no… boh…
Decisi che non avrei telefonato a nessuno.
Chiamai Elena.
- Mi prenoti un posto sul volo Bologna-Finisky delle 18.30… - Ho già provveduto, dottore. –
- Ah!… Beh, un lavoro in meno, Grazie. –
D’accordo, l’efficienza è una gran bella qualità, ma quando diventa qualcosa di
più, d’eccessivo, diventa una forma di presunzione inespressa, di pedanteria o
giù di lì ed allora tanto zelo mette anche su i nervi. Soffoca.
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Quella fu la mia reazione istintiva, ma solo pensata, alla condotta impeccabile
della mia segretaria.
Ma almeno era avvenente? Me lo chiesi come se fosse, come in effetti era, la
prima volta che prendevo in considerazione Elena sotto quest’aspetto.
Forse lo era, però si presentava troppo formosa per i miei gusti.
Così, senza accorgermene, mi stavo perdendo in simili futili riflessioni e non mi
rendevo conto che ora i miei interessi, i miei problemi erano ben più importanti
delle curve d’Elena.
Forse, mentalmente stavo vivendo la solita parte, trita e ritrita, del direttore che
insidia la segretaria.
Ma tutte le segretarie sono accondiscendenti col loro “capo” e questo è
sicuramente scritto, pensai con una punta d’ironia, da qualche parte: su un
libro, su un trattato, su un dossier… ah, il dossier! I miei pensieri tornarono a
bomba sul documento.
Lo piegai in quattro, me lo infilai nella tasca interna della giacca e presi la porta.
- Buongiorno Elena, per qualche giorno non ci vedremo!… - e così dicendo
avevo già varcata la soglia dell’ufficio, quando fui ripreso dalla signorina:
- Un momento, dottore… - mi corse dietro con un foglio in mano e
porgendomelo aggiunse:
- Questo è il biglietto per l’aereo. –
Per un attimo non riuscii a comprendere di che biglietto si trattasse, poi mi
ripresi e mormorai:
- Ah, grazie. Di nuovo. Buongiorno. –
- Buon viaggio, dottore. –
- Grazie. –
Il posto in cui lavoravo, era poco distante da largo Firenze e così dopo alcuni
metri di strada che percorsi a piedi, raggiunsi la mia auto che avevo
parcheggiata proprio in quella piazza.
Ora non mi restava altro da fare che andare a casa.
Vi giunsi e trovai Claudia tutta intenta a truccarsi.
La salutai e come risposta udii un “accidenti !” e ciò stava a significare che la
sorpresa del mio improvviso arrivo, le aveva fatto “sbavare” il maquillage.
Mi diressi nel soggiorno e, con una punta di malinconia, presi a mirare l’ormai
arcinoto panorama circostante.
Che giornata splendida, mi ripetei, il mare… un olio. E quella pineta con tutto il
verde dei suoi alberi che in un silenzio quasi religioso non si stancavano mai di
fornirci aria nuova, pulita, fresca… e proprio oggi sarei dovuto partire… avrei
dovuto fare a meno anche di loro…
Avrei potuto darmi per malato, quindi telefonare ed inventarmi qualcosa per
rinviare.
Ma nel mio intimo non ne avevo voglia. Mi veniva così difficile. Non lo volevo
fare.
A ripensarci, non m’interessava nemmeno più. Tanto i pini, insieme al mare,
sarebbero rimasti sempre là.
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Ma soprattutto c’era di mezzo il documento. Pensando ad esso, con la mano mi
sincerai che fosse ancora al suo posto dentro la tasca della giacca.
- Claudia ! – pronunciai quasi ad alta voce
- Adesso non posso, mi sto truccando… ma come mai sei già qui? –
- Vieni… e te lo spiegherò… è per via del lavoro… - Aspetta ancora un momento e sarò da te… Ah, scendi di nuovo a Ravenna?
Avrei bisogno di un passaggio… - Ah, credo proprio di sì… devo partire… - Che cosa? Partire? Beh, fammi finire qua e poi mi spiegherai. –
Le parole di Claudia rimbalzavano per la casa, mentre la mia voce vagava in
uno spazio particolare che comprendeva il mare, l’orizzonte, il cielo, i pini e la
mia intimità.
Chissà quei pini, mi domandai con curiosità, a quanti spettacoli avevano
assistito: belli, brutti, lieti, dolorosi, emozionanti, drammatici… Che bello che
sarebbe stato se io fossi nato “albero” ! Magari in un’altra vita, in un’altra
dimensione mi sarebbe piaciuto essere, anche per una sola volta, “un pino” per
assistere imperturbabile, senza tradire emozione alcuna, a tanti avvenimenti.
Che idee sciocche, mi rimproverai, che diamine!
Ma probabilmente non facevo altro che ricordare un sogno che pensavo d’avere
dimenticato, o forse era un sogno che avevo sempre desiderato di fare, oppure
una premonizione?
In ogni caso, non era ancora il momento giusto per vedermi in mezzo ad una
pineta con un improbabile soprabito addosso, immobile insieme con altri fratelli
pini. Ma col tempo…
- Mario – la voce di Claudia mi richiamò alla realtà – ho quasi finito. Sai, devo
andare a Ravenna dalla Pia e sono già in ritardo. Poi, tu che cosa farai? Mi
passerai a prendere e torneremo a casa insieme? –
Non dissi una parola giacché mi resi conto che non avrei potuto liquidarla con
un “sì” o con un “no”, ma avrei dovuto parlarle, dirle del mio viaggio, che mi era
stato consegnato un documento e che questo mi avrebbe obbligato ad una
trasferta lontano da lei e che… Ma forse, riflettei, stavo esagerando. Insomma
non era la prima volta che partivo, ed ora che cosa mi stava accadendo?
Perché tutte queste riflessioni, queste elucubrazioni, queste sgangherate
considerazioni che mi sembrava che celassero la voglia di prendere le distanze
da qualcosa o il desiderio di mettere le mani avanti in vista di un futuro ostile,
addirittura inevitabilmente negativo?
Così, mentre mi sentivo sempre più coinvolto da questa confusione di pensieri e
fantasie, continuai a restare in silenzio e i miei occhi fuggivano in pineta, vi
indugiavano un poco e poi si tuffavano nel mare.
- Mario! – Claudia mi si parò di fronte, completamente vestita e ben truccata.
– Beh? Perché non rispondi? –
Mi girai lentamente verso di lei e mi giustificai:
- Claudia, non posso strillare da una camera all’altra… - Guarda che mi sarebbe bastato che tu m’avessi detto un “sì” oppure un “no”!
–
- E va bene, no. –
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Claudia assunse un’espressione non solo interrogativa ma anche un po’ stupita,
quindi mi disse:
- allora chiamami un taxi… 33888… Distolsi lo sguardo dal mare, dalla pineta e mi avvicinai a mia moglie:
- Claudia, oggi io devo partire. Ho un posto prenotato sul volo che parte da
Bologna alle 18.30 ed è diretto a Finisky… - E dov’è? – m’interruppe
- Boh! Ah, no… sì che lo so… si trova ad est… sì è una regione dell’est. –
- E che cosa ci vai a fare? –
- Solito, lavoro. Dovrò leggere, discutere e cercare di sostenere le tesi
contenute in una relazione… ecco una relazione. –
- Relazione? –
- Ma sì, relazione… lavoro… Comunque non è che sia stato io a chiedere di
andare a "finire" a Finisky. E' andata così. Punto e fine. Che cosa vuoi che ti
dica… - Beh, non puoi rimandare, inventare una scusa? Dai, non mi piacciono le
partenze improvvise! Nascondono sempre un che di inquietante, di
angoscioso… - Certo, potrei anche rimandare. Ma ormai ho assicurato che andrò. Sai, mi è
stato consegnato un documento che presumo che sia importante e lo dovrò
studiare, poi lo sottoporrò all’attenzione di certe persone, quindi lo
discuteremo ed infine… ma… non lo so. Sarà che devo ancora prepararmi
ed esaminare queste benedette carte, tuttavia è un lavoro che potrò
comodamente fare durante il volo, o almeno iniziarlo. E’ strano, ma il
documento che mi è stato dato, in verità, mi ha colpito ma, e non prendermi
per matto, non riesco a comprenderne le ragioni. Mi pare che esso mi abbia
messo di fronte ad una situazione inevitabile e sento che devo andarle
incontro per conoscerla, per adattarla al mio passato che spesso mi pare
incomprensibile, e quindi vivere il futuro. O forse devo solo andare… Vedi?
Non so spiegarmi. Ma non guardarmi così! – le sorrisi – Dai, non sono mica
impazzito! –
- Me lo auguro – mi disse Claudia con tono sospettoso e severo al tempo
stesso. Quindi fece un sospiro e continuò:
- E se tu aspettasi, rimandassi la partenza di qualche giorno? Anche uno solo,
magari potremmo partire insieme… Claudia, nel pronunciare le ultime parole, divenne arrendevole, mite, dolce,
remissiva. Questo era il suo modo di apparire quando stava per capitolare. Mi
venne da ridere, ma non era certo questo il momento adatto ed allora continuai:
- Ma no, amore, non è il caso. E poi per te sarebbe barboso. Figurati un po’,
finirà che dovrai aspettarmi da sola per ore e ore mentre io sarò a discutere,
a lavorare su questo cavolo di documento. Facciamo un sacrificio, tesoro,
non è la prima volta che ci separiamo… l’abbiamo già fatto tante volte! –
- Fatto che? –
- No… scusa, mi sono spiegato male. Volevo solo ricordarti che spesso noi
due siamo partiti insieme col risultato che ti ho costretta ad interminabili
attese, a noiosi soggiorni perché io ero impegnato da una parte e dall’altra.
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Quindi, penso che anche tu infine sia d’accordo con me, cioè se si può
evitare… - Mario, mi adatterò… - Claudia, io ti capisco, però insisto perché tu lasci perdere. Non voglio che tu
patisca le conseguenze del mio lavoro. Basto io… accidenti a questa carta!
– e indicai la tasca interna della mia giacca – Già, questo documento… Ho
sempre creduto o forse intuito che esistesse, che si nascondesse da
qualche parte e sapevo pure, anche se non me lo sono mai riuscito a
spiegare, che prima o poi avrei avuto a che fare con questo… con questo
papiro, magari improvvisamente, in un momento in cui ormai non me lo sarei
aspettato più. Sarà che l’attendo da sempre… il redde rationem… - Ma che cosa dici? –
- Non vedi che scherzo? Il fatto è che stiamo discutendo su una circostanza
molto banale e, inconsciamente, chissà per darle importanza, ho tirato in
ballo il “documento”… Ma non la pensavo così, tuttavia Claudia stava per arrendersi.
- Ma! Se la pensi così… - Dopo tutto ne avrò solo per pochi giorni, una decina o anche meno. Una
decina di giorni, o giù di lì, per fare sempre le stesse cose. Piuttosto tu,
durante la mia assenza potresti fare una bella crociera fino a Zuluworld, che
te ne pare? –
- Eh? –
- Ascolta. Nell’agenzia di viaggi sotto il mio ufficio, ho visto che una certa
compagnia ha organizzato una splendida vacanza al sole di Zuluworld della
durata di dieci giorni, con partenza da Genova domani alle 17. Hai tutto il
tempo per organizzarti! –
- Ma tu sei matto! –
- Amore, il lavoro e questa scartoffia che mi hanno rifilata stamattina, nonché
il destino, ci obbligano a restare separati per un po’ ed allora perché non ne
approfitti? D’altronde sei stanca, stressata… - Ma no, non è il momento. Un’altra volta, così ci andremo insieme… - Tu lo sai meglio di me che a forza di rimandare, non concludiamo mai
niente. E poi ti ho sempre promesso una crociera ma poi, per un motivo o
per l’altro, non siamo mai riusciti a combinare… E mentre stavo pronunciando queste parole con l’entusiasmo e la convinzione
di un imbonitore, di un venditore di lenzuola, di viaggi, di crociere, di sogni,
m’interruppi come se lo slancio e l’eccitazione che avevano cominciato a
pervadermi, improvvisamente stessero sbiadendo, svanendo a causa di un
oggetto ben definito che emanava un qualcosa di simile ad una sinistra
radiazione, seccante, fastidiosa, irritante anche a livello epidermico.
Captai questa strana sensazione quando il mio corpo, i miei sensi, il mio tatto
avvertirono in modo rilevante la busta che avevo con me e questa mi richiamò
alla realtà, al riscontro di un’ineffabile situazione.
Claudia, senza accorgersi del mio mutamento, aveva nel frattempo assunto un
atteggiamento tra l’amareggiato e il sorpreso.
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Distrattamente mi passai una mano tra i capelli, mi toccai in tasca, mi sentivo
imbarazzato.
Abbandonai il campo e mi diressi in cucina.
- Mario – mi urlò dietro Claudia – ma è bello il Zuluworld? –
Senza girarmi e mentendo spudoratamente, visto che di questo paese non ne
sapevo proprio nulla, feci una smorfia sognante e con un tono della voce
atteggiato a cantilena, le risposi:
- Meraviglioso! –
- Sì… mi dici così per convincermi… Scommetto che non sai neanche dove
sia questo posto… Mi nascondi qualcosa? –
- Ma Claudia, se io ti nascondessi qualcosa, significherebbe che finalmente
ho capito un po’ della vita, perché avrei scoperto che in essa vi sono cose
che si possono manifestare ed altre che invece vanno tenute nascoste, vero
amore mio? –
- Ma… - Dai, finisci di prepararti… - Non vedi che sono già pronta? –
- Bene. Anziché andare dalla Pia, andremo in agenzia e concluderemo ogni
cosa. Quindi ti accompagnerò a casa, mi farai la valigia e partirò per
Bologna con destinazione Finisky, mentre tu… tu ti preparerai per la
crociera! –
Claudia cominciava a sorridere e quando rideva appena, era davvero bella.
Silenziosamente mi rammaricai con me stesso per tutte quelle volte che non
avevo saputo apprezzare, godere di certi momenti come quello che ora la sua
curiosa espressione mi stava facendo vivere, che altro non era che una timida
possibilità concessami, ma forse troppo in ritardo, per sfiorare la felicità.
Con gli occhi mi fece intendere che, tutto sommato, l’idea che le avevo
prospettato era attuabile. Che sì, indubbiamente, avrebbe preferito venire con
me a Finisky, ma che comunque…
Durante il tragitto in auto sino a Ravenna rimasi in silenzio. Ero rapito da un
vortice di pensieri tra loro distinti ma stranamente comuni a quello che con
insistenza occupava la mia mente, cioè il viaggio.
Di tanto in tanto, senza farmene accorgere, guardavo Claudia mentre, con una
specie di sorriso negli occhi, combatteva col mangianastri e al tempo stesso
cercava di comunicarmi in qualche modo la sue perplessità.
Si può dire che la mia macchina arrivò da sola nel parcheggio di largo Firenze e
in un attimo fummo in agenzia.
Lasciai Claudia con la titolare e mi appartai per fare alcune telefonate.
Dal mio angolino la vedevo leggere alcuni depliant e meravigliarsi di fronte a
delle foto stampate su di essi ed era particolarmente graziosa quando,
facendosi aiutare da un’impiegata particolarmente gentile, stringeva gli occhi
per leggere alcune parole, probabilmente scritte molto in piccolo, che
illustravano le singole vedute oppure enunciavano alcune clausole particolari
del contratto che regolava quella spensierata crociera.
Dopo un po’ Claudia mi si avvicinò. Mi sembrava convinta:
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- Ma sì, Mario, mi rilasserò. E tu? –
Quasi divertito ribattei:
- Anche la mia sarà una specie di vacanza! –
Senza accorgermene mi toccai in tasca ancora una volta per assicurarmi che il
documento fosse sempre lì, al suo posto.
Uscimmo dall’agenzia e mentre ci dirigevamo verso il parcheggio, Claudia non
smise un attimo di leggere certe carte su cui vi erano stampati diversi itinerari
con annessi orari e programmi, alcuni cartoncini che si aprivano a fisarmonica
mostrando spiagge assolate quasi incantate, palme, bazar, gente sorridente per
un mare celeste, trasparente sotto un cielo colore pastello.
In auto fu lo stesso, mentre i miei pensieri vagavano ora in Australia, poi in
Africa, quindi in America e avanti senza sosta come se fossero stati presi da
un’ossessione itinerante, ma io non ero un vacanziere, un turista intruppato o
“fai da te”, ero solo uno che doveva partire.
Giungemmo a casa che erano le una passate.
Claudia sembrava soddisfatta della crociera, o meglio del fatto di aver deciso di
andare in crociera e si mostrava addirittura serena, forse perché sapeva che,
alla fin fine, mi aveva accontentato. Così quella soddisfazione che si era dipinta
in volto e con cui cercava di attirare la mia attenzione, altro non era che un
mezzo per significarmi che comprendeva di aver fatto ancora una volta qualche
cosa che probabilmente avrebbe reso più lieve la mia ansia congenita, il mio
vivere perennemente in balìa di un’angoscia cronica. E ne era felice.
- Quindi – disse Claudia – dovrei essere di ritorno a Ravenna prima di te? –
- Sì, penso di uno o due giorni – le risposi.
- Beh, allora al tuo arrivo troverai un bel souvenir di Zuloworld! –
- Anch’io te ne porterò uno. –
Claudia apparecchiò la tavola, diede una sbirciata al giornale, poi cominciò a
prepararmi la valigia.
- Mario – mi chiese – dimmi un po’ quello che ti dovrò mettere dentro… per il
viaggio ti lasci gli abiti che hai addosso? –
- Sì – le replicai ed automaticamente mi accertai che il documento fosse
ancora lì in tasca. – Per il resto - continuai – fai tu, sai meglio di me quello
che mi potrà servire. –
- Va bene, va bene. Non dimenticarti di lasciarmi un tuo recapito telefonico.
Al che rovistai nelle mie tasche, quindi le porsi un bigliettino e lei lesse ad alta
voce quanto vi era scritto:
- Hotel Tivoli, via… Finisky. Toh, - osservò quasi soddisfatta – l’albergo ha un
nome italiano. –
- Già, si chiama così. Mi raccomando non perdere questo bigliettino e appena
troverai un po’ di tempo, - la incalzai con un tono da “presa in giro” –
siccome sarai in crociera, telefonami…- Ti venisse… - m’interruppe e scherzando accennò ad allungarmi uno
schiaffo.
- Anzi, no… - continuai – chiamerò io questa sera oppure domani mattina…
sul presto. –
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Il mio bagaglio era pronto.
Claudia ed io ci guardammo con quella stessa identica espressione che
assumevamo quando, per un qualsiasi motivo, dovevamo separarci per un po’
di tempo. I nostri occhi, come al solito, racchiudevano quel milione di domande
che poi finivamo per non farci, ma che comunque puntualmente, ad ogni
partenza, reclamavano invano una risposta.
Così, come era prevedibile, non ci dicemmo nulla ma ci fissammo per qualche
istante, quindi l’abbracciai borbottandole: “…ciao… riguardati… telefonami…”
Subito dopo mi ritrovai in strada diretto all’aeroporto di Bologna.
Durante il viaggio, pensai ad un’infinità di cose e al centro di tutto c’era Finisky.
Quella località per me era, oramai, una circostanza certa, determinata anche
dalla scelta che avevo preso quel mattino dopo aver sfogliato le pagine di un
fascicolo di cui, al momento, ricordavo vagamente il contenuto.
Ora andavo a Finisky e niente di più.
Comunque, più riflettevo sopra a quello che stavo facendo, e più mi rendevo
conto che la decisione che avevo adottato rientrava nella categoria delle
risoluzioni condizionate, cioè di quelle che non prendevo completamente in
modo autonomo.
Mi sentivo immerso dentro un’incredibile atmosfera pervasa di tensioni
misteriose che mi turbavano, mi incuriosivano, mi mutavano continuamente
l’umore.
Non ci capivo più niente, ma avvertivo che stavo andando incontro a qualcosa
di inevitabile.
Tuttavia, convenivo con me stesso che era inutile che io mi arrovellassi il
cervello cercando di paragonare quel che stavo vivendo ora ad altre situazioni
con cui, per forza, volevo trovare un nesso, un’affinità.
Era “così”. Punto e fine.
Ma “così” che cosa? Forse era “così” perché il tutto era confusamente
avvalorato dal documento.
Alle 16 sistemai l’auto nel parcheggio antistante l’aeroporto, dopodiché presi le
mie cose e mi avviai a sbrigare le formalità necessarie per l’imbarco.
Non c’era molta gente e così allo sportello non dovetti neanche fare la coda.
Dopo pochi minuti raggiunsi il mio cancello.
Dalla vetrata guardai il cielo che mi pareva che stesse divenendo sempre più
blu, mentre il sole sembrava deciso a non voler tramontare.
Faceva caldo, un caldo prematuro.
Mi sedetti su una di quelle poltrone scomode che si trovano nelle sale d’attesa e
presi a sfogliare una rivista specializzata in turismo, con articoli firmati da illustri
esperti del settore che raccontavano di fantastici soggiorni qui, là, giù, su, sino
in capo al mondo.
Ma quella lettura non era per me. Il turismo, a me, non interessava. Anzi, solo
l’idea mi suscitava una specie di panico che si trasformava in ansia, in
nervosismo.
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Alle 17 e 40 ero seduto in aereo al mio posto e, per ingannare il tempo
nell’attesa del decollo, iniziai a sbirciare il depliant che illustrava le operazioni
da eseguirsi qualora l’aereo fosse precipitato.
Naturalmente, pensai, che solo pochi fortunati avrebbero avuto la possibilità di
attenersi alle istruzioni che stavo leggendo e di verificarne, poi, l’utilità e
l’efficacia.
Ma forse stavo scivolando nel filone del più classico catastrofismo di stampo
holywoodiano. Quindi quanto avevo letto, più realisticamente, doveva ritenersi
valido solo in quei casi in cui i passeggeri si fossero trovati in una situazione
d’emergenza, dopo un ammaraggio. I miei pensieri ora, invero, oziavano, si
perdevano in bizantinismi.
Il personale di volo chiuse il portellone, poi col consueto tono della voce un po’
distaccato, ma velato di cortesia e simile alle comunicazioni di servizio che si
sentono nei supermercati, un’hostess invitò i passeggeri ad allacciarsi le cinture
di sicurezza e a non fumare.
Finalmente l’aeroplano cominciò a muoversi alla ricerca della pista per il
decollo. Piano piano prese velocità e la crescita d’intensità del rumore dei
motori mi fece capire che stavo per lasciare Bologna.
Ancora uno scossone ed infine ci librammo in volo, sospesi nell’aria.
9-10 MAGGIO
Claudia, quando si trovò in casa da sola, provò un senso di smarrimento e di
tristezza.
D’improvviso scoprì che non le piaceva assolutamente ritrovarsi senza nessuno
accanto.
Si sforzò di concludere che era sciocca ad essere vittima di questo inspiegabile
malessere e così, per rincuorarsi, cercò d’immaginare che tra sole
ventiquattr’ore si sarebbe imbarcata, per la prima volta in vita sua, su una nave
da crociera e che quindi, tutto sommato, aveva davanti a sé un bel
programmino…
Fece finta di esserne convinta.
Si scosse dal suo stato di quasi depressione e cominciò ad organizzarsi
scegliendo nel guardaroba gli abiti che si sarebbe portata con sé.
Quella sera cenò solo con alcuni biscotti.
Poi si mise a letto di fronte al televisore acceso.
Finalmente poteva guardare tutti quei programmi che a Mario non piacevano. In
verità non gli interessava mai nulla di quello che trasmetteva la tivù. Chissà,
continuò a pensare, se avrebbe telefonato.
Povero Mario, ma perché non era lì con lei a lagnarsi dei programmi televisivi,
lamentele che, tutto sommato, forse erano solo una scusa per distoglierla dal
video per fare l’amore.
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Lui lo voleva fare sempre… e questa sera con quanto trasporto l’avrebbe fatto
pure lei!
Ma Mario non c’era e Claudia trovava la circostanza strana, incredibile, irreale.
Le mancava tanto.
Con sgomento, confessò a se stessa che non riusciva ad immaginarsi un
futuro, una vita senza di lui.
La nostalgia ebbe ragione di lei e le fece ricordare gli anni trascorsi con suo
marito.
Il passato, quella sera, le parve come una lunga e bizzarra successione di
avvenimenti grandi e piccoli, interrotti di tanto in tanto da certi contrattempi i
quali, a volte, assumevano quasi le proporzioni di drammi che dall’esterno
prepotentemente invadevano la loro vita, s’impossessavano dei loro giorni,
violentavano la loro intimità.
Rivide Mario quando, nel pomeriggio, l’aveva salutato mentre si schermiva da
lei e cercava di celarle il volto abbracciandola, ma lei gli aveva colto la tristezza
del suo sguardo per quella separazione improvvisa.
Tutti i pensieri cominciarono a divenire decisamente tristi, ma Claudia si riprese
convenendo ancora una volta con se stessa che era sul punto di andare in
crociera perché suo marito aveva voluto esaudirle un desiderio che lei aveva
accarezzato da sempre.
Allora cercò d’infondersi un po’ più di vitalità, del resto non c’era proprio alcun
motivo d’essere così piagnucolosa.
Puntò la sveglia per le sette, giusto per arrivare in tempo alla stazione, quindi
cercò d’interessarsi al televisore.
Alle undici e mezzo passate, si rese conto che non aveva ancora ricevuto
nessuna telefonata e, per non peggiorare la situazione, preferì pensare che,
chissà, sarebbe potuta arrivare anche più tardi o addirittura domani mattina.
Quasi senza accorgersene, si addormentò nonostante il televisore e i consigli
per gli acquisti.
Alle sette si svegliò e comprese che Mario non aveva chiamato.
Provò a telefonargli, ma inutilmente: non c’era verso di prendere la linea.
Decise che ci avrebbe provato più tardi da Genova, diversamente avrebbe
perduto sia il treno che la crociera.
Quando arrivò in quella città, si fece condurre al porto da un taxi e da un
telefono pubblico chiamò l’hotel Tivoli di Finisky, certa che a quell’ora suo
marito sarebbe stato facilmente reperibile.
Impiegò una buona mezz’ora per riuscire a mettersi in contatto con l’albergo.
Il portiere, in buon italiano, le disse che il signor Brivio Mario non si era ancora
visto perché l’aereo, per motivi tecnici, aveva dovuto atterrare a Polsosky, un
centro vicino a Finisky e che quindi, a causa della malaugurata sopravvenienza
di altre complicazioni, il dottor Brivio avrebbe raggiunto la città di Finisky col
treno e che pertanto sarebbe arrivato in albergo nella nottata.
Claudia, nel sentire tali notizie, non poté fare a meno di iniziare a preoccuparsi
perché pensava che il portiere con quel racconto, in realtà, le nascondesse
qualcosa di ben più grave. Ma l’uomo, educatamente, le aggiunse ancora
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qualche altro particolare per convincerla del contrario ed infine riuscì a
tranquillizzarla.
Finalmente, ma con un po’ d’inquietudine in più, Claudia s’imbarcò sulla nave
da crociera ricevendo un caloroso e cortese saluto di benvenuto dall’equipaggio
e dal personale di bordo.
9 MAGGIO
Per qualche istante, dall’aereo scorsi uno splendido e suggestivo panorama di
Bologna e della campagna circostante: i raggi del sole rendevano ogni cosa
luccicante, dorata, simile al fantastico paesaggio toccato dal mitico re Mida e lo
spettacolo, unito ad una certa tensione emotiva, concorse ad infondermi un
fervore e un entusiasmo paragonabili a quelli di un bimbo al primo volo.
Poi, superata l’eccitazione, i miei pensieri volarono da Claudia. Sentivo, forse
anche perché mi trovavo in quella situazione precaria cioè sospeso nell’etere, il
bisogno la tenera voglia di vederla. Mi piaceva ricordarla sempre così sincera
quasi ingenua, così accondiscendente alle mie richieste da sembrare
pressoché indifesa.
Oppure rivedevo quel suo strano modo di apparire quando, nei nostri rari
momenti di attrito, ostentava una sorta di distaccata indifferenza per me e per
quanto gravitava attorno alla mia persona. Quello era il suo modo per
assicurarsi che io mi accorgessi che lei in quel momento era ostile proprio a
me. Ma un simile atteggiamento non le riusciva mai spontaneo, le veniva male,
buffo sicché, dopo un broncio che durava il breve spazio che intercorreva tra il
nostro imbarazzato silenzio e una mia battuta, ridendo ci trovavamo di nuovo
d’accordo, come se non fosse accaduto nulla.
Davvero ero sempre più innamorato di mia moglie e, nel ripetermelo, sentivo
dentro di me una punta di orgoglio, ma anche un’inesprimibile pena, paura,
colpa. Forse mi stavo pentendo di averla lasciata andare in crociera da sola.
D’altronde, mi rassicuravo, era una cosa che aveva sempre desiderato. Ma non
c’era niente da fare: non potevo mentire con me stesso e far finta di non sapere
che lei sicuramente avrebbe preferito che su quella nave ci fossi stato anch’io.
Ed era proprio così.
Ma io, invece, avevo dato retta a quel plico, a quel documento.
Tuttavia, quel fascicolo non era stato la sola causa del disagio che avvertivo,
c’entrava anche un certo “non so che” il quale mi aveva spinto ad agire così.
Ero più che mai convinto che nella mattinata mi fosse accaduto un qualcosa
che difficilmente avrei più potuto arrestare.
Mentre ero immerso in queste profonde quanto cupe considerazioni, udii
dall’altoparlante che, per certi motivi che non riuscii a comprendere, saremmo
atterrati a Polsosky e che tutti i viaggiatori diretti a Finisky avrebbero dovuto
proseguire il viaggio in treno, che peraltro era già pronto in stazione ad
attenderci.
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Con un gesto della mano manifestai il mio disappunto e così fece la maggior
parte, se non la totalità, dei passeggeri.
Comunque non me la presi più di tanto e, in ottemperanza ad un destino che mi
pareva di conoscere già per bizzarro, mi misi il cuore in pace e mi disposi ad
adeguarmi al cambiamento di programma.
Tutto sommato la circostanza non era poi tanto importante. Anziché telefonare
immediatamente dall’hotel Tivoli a Claudia, tra due giorni l’avrei chiamata a
Zuluworld city e l’idea di sentire prima o poi la voce di mia moglie, mi ripagava
di questo fastidioso contrattempo.
Da lì a poco l’aereo atterrò.
Con un pullman della compagnia aerea raggiungemmo la stazione di Polsosky
e lì salimmo su un treno appositamente preparato per raggiungere Finisky.
L’arrivo era previsto per le 23.
Tra un ritardo e l’altro, erano arrivate le 21 e, in fin dei conti, due ore di treno
potevano essere anche tollerabili.
Dopo circa un quarto d’ora partimmo.
Una volta che mi sistemai al mio posto, decisi di prendere nuovamente visione
del plico che era sempre nella tasca interna della mia giacca, ma all’ultimo
momento desistetti. Non ne avevo più voglia. Tanto in esso non avevo più nulla
da scoprire. Il suo contenuto, anche se l'avevo letto velocemente e con una
certa superficialità, in un certo senso mi era ormai noto.
Dovevo raggiungere Finisky, quindi avrei dovuto organizzarmi per concludere
quanto era indicato nel documento. E sino a qua, tutto mi era chiaro.
Dopo, invece, la mia fantasia sbiadiva le immagini. Ossia non riusciva più a
mettere a fuoco ciò che mi sarebbe successo quando avrei ricoperto il ruolo di
protagonista di un certo fatto il quale, in verità, già sin da ora esigeva la mia
presenza e non si curava assolutamente del mio stato d’animo incapace di
nascondere l’ansia, l’inquietudine per un “qualcosa” che era sul punto di
accadermi inesorabilmente.
Intanto il treno procedeva spedito in mezzo ad una campagna che, per
l’oscurità, potevo solo immaginare.
A quest’ora mi figurai Claudia che si stava domandando perché mai non
l’avessi voluta portare con me. Allontanai questa specie di rovello all’idea che
tra dieci o dodici giorni sarei tornato a casa e, chissà, forse non l’avrei lasciata
mai più da sola.
Dopo circa un’ora di viaggio, il treno si fermò ad una stazione.
Aprii un finestrino per guardarmi attorno e da un marciapiede scarsamente
illuminato, si levò una voce amplificata per annunciare che eravamo a Dozzov.
Chiusi subito il finestrino per ripararmi dalla pioggia poiché il tempo,
improvvisamente, si era guastato: ora pioveva a dirotto con lampi, tuoni e
violente raffiche di vento.
In verità non riuscivo a capire il motivo della fermata, che peraltro si stava
prolungando oltremodo, visto che il treno su cui eravamo stati fatti salire era un
piccolo convoglio speciale diretto a Finisky, riservato esclusivamente ai
viaggiatori del volo Bologna-Finisky, e pertanto mi domandavo che cosa
stessimo aspettando.
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La sosta oramai durava da più di un’ora e il treno non dava segni di voler
ripartire.
Mi unii agli altri compagni di viaggio ed insieme iniziammo a criticare questo,
quello, la disorganizzazione della compagnia aerea, nonché il maltempo ed
altre amenità del genere ma comunque inerenti alla nostra sosta forzata.
Finalmente arrivò un signore e cortesemente ci disse che, a causa
dell’improvvisa ondata di maltempo, la linea ferroviaria era interrotta fuori
Dozzov e che sarebbe stata riparata solo all’indomani. Quindi, ci informò che il
viaggio, per il momento, si fermava qui e che saremmo stati condotti, a spese
della compagnia (bontà loro!), all’albergo Forever dove avremmo pernottato.
Si udì un brusio molto confuso ma eloquente, reso vivo da alcune esclamazioni
irripetibili.
Qualcuno si avvicinò al portavoce per cercare di capire qualcosa di più e per
tentare di convincerlo a fare “qualcosa” perché il viaggio continuasse ma questi,
stringendosi nelle spalle ed allargando le braccia, educatamente eluse le
domande senza dare risposte precise o chiarimenti e, al tempo stesso, ci invitò
a scendere dal treno.
Ripetendo la scena di poche ore prima, ognuno prese il proprio bagaglio e
lasciò il treno, quindi si avviò verso il pullman che era parcheggiato nella piazza
della stazione.
La pioggia, che ci colpì in pieno per tutto il tempo che impiegammo a percorrere
a piedi i circa duecento metri del tratto di strada tra il treno e l’autobus, oltre che
a bagnarci completamente, ci rese tutti molto nervosi.
10 MAGGIO
Quella sera, lo spettacolo del mare era meraviglioso.
Claudia indugiò a lungo sul ponte per godersi quello straordinario panorama
poi, tirando un sospiro misto di angoscia e di tristezza, si avviò al ristorante per
la cena.
Ma i suoi pensieri la rendevano insicura, le impedivano di essere serena e in
modo assillante la riportavano alla conversazione che aveva avuto col portiere
dell’hotel Tivoli nella tarda mattinata.
Adesso Mario dov’era, si chiedeva, che cosa gli poteva essere accaduto?
Si rese conto di essere troppo apprensiva ed allora, per smetterla di continuare
a tormentarsi, entrò nel salone sforzandosi di assumere un contegno disinvolto,
da crocerista.
Le assegnarono un tavolo insieme ad una famiglia di Milano: marito e moglie
con un bimbetto di sette-otto anni.
Si presentarono. La signora, che era seduta di fronte a lei, esaurite le solite frasi
che si pronunciano in simili occasioni, s’interessò al fatto che era tutta sola e si
stupì per tale circostanza non senza malizia, notando la fede che Claudia
portava al dito.
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- Mio marito – rispose – mi ha voluto fare una sorpresa. Sapeva che da tempo
io desideravo andare in crociera e così mi ha fatto questo regalo. Lui è
sempre così occupato col suo lavoro…- Eh, noi mariti ci sacrifichiamo sempre! – intervenne il marito della signora e
tutti proruppero in una risata che però per Claudia fu solo di circostanza,
tant’erano la tristezza e l’ansia che in quel momento le serravano il cuore.
Tutta la sala la notò perché, oltre al fatto che era davvero una bella donna, era
pure sola e lei, con una punta d’imbarazzo, aveva notato che stava
polarizzando l’attenzione dei croceristi. Ma il suo atteggiamento, al tempo
stesso cortese e distaccato, fece subito intendere in modo inequivocabile che
con lei non c’era proprio niente da fare.
Comunque il fatto la innervosì ancora di più.
Come finì di cenare, s’inventò un improvviso mal di testa e, scusandosi con la
compagnia, si ritirò nella sua cabina.
L’alloggio era elegante ed ospitale, ma lei lo trovò freddo, non accogliente e si
sentì a disagio in mezzo a quell’arredamento ove risaltavano l’ottone e il legno
massiccio.
- Accidenti alla mia mania per la crociera! – rimuginò tra sé e sé – E’ davvero
un tormento, ed ho ancora di fronte dieci giorni. Che tortura! –
Abbandonò questi pensieri e s’infilò nella doccia, poi ingoiò una pastiglia per
dormire, ne aveva bisogno, ed attese che il sonno la traghettasse sino al giorno
dopo.
9 – 10 MAGGIO
L’albergo Forever era di uno squallore unico.
La hall era poco illuminata, il portiere aveva un modo di fare scorbutico e il resto
del personale era decisamente maleducato.
Mi sentivo stanco, provato e per giunta, a causa di quell’acquazzone, avvertivo
un fastidioso bruciore alla gola ed acuti dolori in tutte le parti del corpo.
Tra i miei compagni di sventura si era interrotto il dialogo improntato alla
protesta e alle lamentele in quanto ognuno di noi, ormai, si lasciava andare ad
imprecazioni solitarie, sempre più feroci ed irriverenti.
Sul bancone della portineria raccolsi un depliant illustrante la cittadina e i
dintorni di Dozzov ma subito, forse per stizza o per noia, lo gettai nel cestino dei
rifiuti.
Spossato, mi sedetti su una poltrona in attesa che mi fosse assegnata una
stanza.
Per fortuna, in aereo avevo mangiucchiato qualcosa e così mi rallegrai di avere
già risolto il problema della cena. La qual cosa, in verità, non poté fare a meno
di stupirmi in modo negativo e sinistro, data la banalità e pochezza dei miei
pensieri in un simile frangente.
Veramente, provavo un po’ di nausea e tutto si andava a sommare a quel
malessere che ora pativo in maniera sempre più acuta, forse avevo anche la
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febbre, infatti di tanto in tanto ero scosso da qualche brivido, avvertivo pure un
freddo glaciale che mi attraversava tutto il corpo e non mi si toglieva di dosso.
Infine furono consegnate le chiavi delle rispettive stanze. La mia era al primo
piano e, nonostante la mia incipiente infreddatura, speditamente la raggiunsi a
piedi.
Entrai nella camera e questa mi parve una specie di ripostiglio di mobili vecchi e
polverosi, in effetti l’arredamento era giusto quanto di più deprimente non
avessi mai visto in un albergo in vita mia.
Buttai il bagaglio sopra un tavolino, mi spogliai e tirai fuori dalla valigia
l’occorrente per lavarmi.
La sala da bagno era tetra come la stanza e la luce era ridotta al lumicino, ma
era sufficiente a farmi distinguere diversi capelli e peli sul piatto di ceramica
dove avrei dovuto poggiare i piedi per prendere la doccia.
Tuttavia decisi di soprassedere alle mie più che giustificate remore d’ordine
igienico ed aprii il rubinetto dell’acqua che scese calda ed abbondante.
Sotto l’acqua feci il punto della situazione e non potei fare a meno di prendermi
in giro per il fatto che la dipingevo troppo difficile, drammatica. In fin dei conti mi
trovavo di fronte ad alcuni contrattempi e niente di più. Anzi.
Così rincuorato decisi che, finita la doccia, avrei chiamato Claudia a casa. Ero
sicuro che mi aveva già cercato al Tivoli di Finisky e certamente, visto che
probabilmente era stata informata della mia assenza, ora si stava già
preoccupando.
Mi asciugai senza badare più all’arredo, alla luce, alla pulizia e ad altro. Quindi
chiesi al centralino la linea. Per tutta risposta, la voce che era dall’altra parte del
filo mi comunicò che, a causa delle note pessime condizioni del tempo, la linea
telefonica era isolata.
- Anche questa! – pensai – Pazienza. Domani, una volta che sarò partito da
questo posto desolato, la chiamerò. Le telefonerò mentre sarà già in
crociera. –
Dopodiché non mi restò che andare a dormire.
Per tutta la notte fui tormentato dal mal di gola e da quei brividi di freddo che
neppure la doccia calda era riuscita ad allontanare.
10 MAGGIO
A causa dei miei acciacchi, passai una notte bruttissima. Tuttavia, mi svegliai
presto e in un attimo fui pronto in quanto desideravo proprio bere un caffè
bollente.
Con le valigie in mano, pronto per ripartire, scesi nella hall dove qualcuno mi
indicò la sala ristorante.
Sala per modo di dire, era semplicemente uno stanzone dove erano
apparecchiati con tovaglie bianche, stropicciate e macchiate, vari tavoli
sgangherati con al centro di ognuno due piattini con burro e marmellata.
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Ero il primo e presi posto vicino ad un calorifero. Naturalmente, data la
stagione, non era in funzione, comunque considerato il tempaccio che fuori
tirava ancora, accanto a quella potenziale fonte di calore mi sentii un po’ più a
mio agio.
Ordinai solo del caffè e, nel frattempo, alla spicciolata sopraggiunsero tutti gli
altri miei compagni di viaggio.
Ci scambiammo il consueto “buongiorno”, ma tutti noi avevamo un viso così
lungo e tirato che non me la sentii di iniziare alcun discorso.
Ognuno badava ai fatti suoi e, silenziosamente, consumava la propria colazione
servita da un cameriere svogliato e maldestro.
Quindi l’atmosfera di gelo, dovuta anche ad un’istintiva diffidenza reciproca,
propria di persone che non si conoscono, si stemperò e si cominciò a parlare
del più e del meno: ciascuno diceva la sua sul tempo e sulle traversie del
viaggio.
Quando ormai eravamo divenuti tutti un po’ più gioviali, quasi di buon umore ed
impazienti di riprendere il viaggio, un nuovo portavoce della Compagnia aerea o
dell’albergo ovvero di chissà che cosa, si presentò e ci annunciò che la linea
ferroviaria era ancora interrotta, che la strada carrozzabile non era percorribile a
causa di una frana di notevoli proporzioni che l’aveva ostruita, e che quindi il
nostro soggiorno si sarebbe protratto per altre ventiquattr’ore ma sempre, ben
s’intende, a spese della Compagnia.
Dopo tale annuncio, scoppiò una bagarre e l’incolpevole annunciatore fu
coperto d’insulti più o meno velati, alcuni dei quali accompagnati pure da
sinistre minacce.
Questi non provò neppure a controbattere le nostre rimostranze, ma rimase lì
con un sorriso di circostanza dipinto sotto due occhi acquosi ed inespressivi,
rassegnato a far da bersaglio alle nostre vivaci lagnanze pressoché fondate.
Qualcuno gli fece notare che oramai non gli interessava più di raggiungere
Finisky in quanto, a causa di questo “disservizio” (disse proprio così), i suoi
affari erano sfumati e che pertanto voleva essere ricondotto a Polsosky per
rientrare in Italia.
Prontamente fu informato che una simile risoluzione era inattuabile perché la
linea ferroviaria era, come già detto, interrotta e che la strada con direzione
Polsosky si fermava a pochi chilometri fuori Dozzov a causa di un ponte che,
manco a farlo a posta, era crollato travolto dalla piena del fiume e che allora
bisognava aspettare quelli del “Genio” i quali, sicuramente, avrebbero
ripristinato la viabilità con un provvidenziale ponte di barche.
Spontaneamente ci riunimmo tutti nella hall e proseguimmo a commentare ad
alta voce la situazione. Qualcuno, poi, addirittura non poté fare a meno di
strillare la sua protesta quando fu comunicato che il telefono era isolato,
circostanza che io conoscevo già dalla sera precedente.
Convenimmo che eravamo davvero in una “bella situazione”, ossia senza
nessuna colpa ci trovavamo bloccati in un albergo che sembrava una
pensioncina della riviera romagnola, desolatamente aperta in un nebbioso
novembre, e fuori per giunta c’era un tempo da cani che ci inibiva di fare anche
una semplice passeggiata.
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Dopo un po’, visto che ad ogni modo non avevamo più nulla da dirci, anzi da
lamentarci, concludemmo che per ora non ci restava che tornare in camera e
da là attendere che gli eventi maturassero con qualche nuova sulla situazione
in generale e poi, tra l’altro, osservammo che avremmo potuto pazientare fino a
dopo avere consumato il pranzo. Quindi fissammo l’ultimatum del nostro atto di
protesta per quell’ora lì.
Tra un brontolio e l’altro, ci separammo tra coloro che tornarono nella loro
stanza e quelli, tra cui io, che rimasero in portineria col naso appiccicato alla
grande porta a vetri, ottimisticamente in attesa di qualche buona notizia.
11 MAGGIO
Il giorno dopo, Claudia decise che nonostante i suoi affanni e il suo stato
d’animo poco propenso alla vita di società, avrebbe cercato d’immergersi
nell’ambiente spensierato dei croceristi.
Così indossò uno splendido costume da bagno, si avvolse in un variopinto
pareo e si avviò verso la piscina dove erano già presenti diverse persone le
quali, sorseggiando coloratissimi beveroni e indugiando a spettegolare di quello
e di quella, erano impegnate ad abbronzarsi.
Claudia con un sorriso appena accennato, col capo salutò un po’ tutti, quindi si
distese al sole.
Dopo un poco si fecero avanti due signori, che paradossalmente sembravano
gli habitué di quella nave e, con un chiaro intento di corteggiarla, intavolarono i
più svariati e futili discorsi sul tempo, sulla gente che era in crociera, sulla
serietà della Compagnia di navigazione e via discorrendo.
La conversazione, comunque, rimase circoscritta a tali banalità in quanto
Claudia, in modo tanto educato quanto distaccato, si limitava a rispondere
vagamente e tagliava corto quando il dialogo accennava ad uscire dal
seminato. A torto o a ragione, riteneva d’avere ben altro a cui pensare e
badare.
I suoi ragionamenti andavano sempre a finire laggiù da Mario, alla telefonata
all’hotel Tivoli e ai successivi vari tentativi a cui aveva fatto ricorso, ma senza
successo, per mettersi in contatto con quella maledetta città di Finisky. Poi
pensava a Polsosky, insomma conveniva con se stessa che questi nomi
impronunziabili, fatta eccezione per “Tivoli”, finivano per darle un quadro tutto
particolare del paesaggio, dell’ambiente e del posto in cui doveva trovarsi suo
marito.
Per distrarsi e per allontanarsi dai suoi noiosi corteggiatori, decise di fare un
tuffo. Si avvicinò ai bordi della piscina, indugiò qualche istante, saggiò la
temperatura dell’acqua con un piede ed infine si tuffò.
Come si trovò sott’acqua, riemerse subito e con due bracciate uscì dalla grande
vasca immediatamente e in preda al panico si sedette, quasi si accasciò, a
terra. Le era parso, giusto nel momento in cui aveva toccato l’acqua, che era
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schizzata abbondante per la veloce immersione, di avere sentito il rumore
secco ed improvviso di un misterioso schianto, forse di un’esplosione.
Era sconvolta.
Noncurante delle espressioni interrogative dei presenti, li abbandonò e fece
ritorno in cabina dove non poté fare a meno di buttarsi sul letto singhiozzando.
Non poteva continuare così, doveva reagire.
Riuscì solo a smettere di piangere. Il suo umore ormai era peggiorato a
dismisura e se prima era contraddistinto da un rapido susseguirsi di alti e di
bassi, ora il morale era disperatamente a terra.
La nave le sembrava un qualcosa di mostruosamente ingombrante, la causa
della perdita della sua serenità, o meglio del suo equilibrio peraltro sempre in
posizione precaria tant’è che sarebbe bastato così poco per comprometterlo.
Uscì nuovamente dal suo alloggio, tanto per incontrare qualcuno con cui
scambiare due parole, voleva distrarsi in qualche modo.
Ma tutto le sembrava inutile. Con una punta d’inquietudine si era resa conto che
non faceva altro che guardare l’orologio e domandarsi che giorno fosse.
Entrò nel bar, bevve qualcosa ma ne avanzò più della metà per correre a fare
una partita a flipper, giusto per scaricarsi un po’.
Però non c’era nulla da fare. Non aveva voglia di stare in mezzo alla gente,
tanto valeva ritirarsi nuovamente in cabina dove magari avrebbe fatto passare
un po’ di tempo scegliendo l’abito per la cena. Poi si sarebbe truccata e così,
chissà, sarebbe riuscita ad ingannare il tempo e questa particolare forma di
ansia.
Ma il tempo si lascia ingannare solo quando si distrae dal tormentarci, però
appena avverte che lo si sta prendendo in giro, si ripresenta ossessivo e
dominante, come sempre.
Claudia aveva capito anche questo particolare e la cosa contribuiva ad
angosciarla ancora di più.
La cena fu più sbrigativa di quella della sera precedente: quattro chiacchiere,
due sorrisi, qualche sì e qualche no ed infine, al momento del caffè, una
strategica emicrania, utile per eclissarsi dal salone senza tante storie, piantando
in asso quella famigliola che quasi cominciava a divenirle antipatica.
Poi si trovò di nuovo rinchiusa nel suo alloggio.
Anche questa sera avrebbe dovuto ricorrere alla solita pastiglia per dimenticare
la notte.
10/5 – 11/5
Avrei dato non so quanto per uscire da quell’albergaccio ed andare alla ricerca
di un ufficio, di qualcosa, di qualcuno che fosse in grado di ragguagliarmi in
modo esauriente su quanto stava accadendo.
Ma le condizioni del tempo erano davvero proibitive. Continuava a piovere a
dirotto, con un impeto tale che mi pareva d’essere in balìa di una forza
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misteriosa, in collera e che si manifestava con una violenza che in vita mia non
avevo mai visto. Sembrava che fosse scoppiato un vero e proprio novello
diluvio universale mentre il vento spazzava la strada con furore rabbioso,
fischiando ossessivamente attraverso le fessure degli infissi dell’hotel Forever.
Dalla vetrina della hall intravidi che di fronte a noi, dall’altra parte della strada,
c’era un edificio basso e sopra al suo portone sventolava una bandiera.
Dedussi che si trattasse di un posto di polizia. Subito mi venne in mente di
raggiungerlo sfidando la tempesta.
In realtà il mio proposito non era da considerarsi un’impresa di poco conto, visto
che oltre che andare incontro alla furia degli elementi, avrei pure dovuto
guadare, nel vero senso della parola, la strada che era divenuta un torrente in
piena che con forza trascinava via quanto incontrava.
Esposi la mia idea a quei pochi che erano rimasti con me nell’atrio:
- Chissà, – dissi loro – quella costruzione laggiù potrebbe essere una
stazione di polizia. Penso che là senz’altro sapranno dirci qualcosa di più di
quanto il solito portavoce sappia comunicarci con pedanteria e poi,
probabilmente, ci sarà un telefono funzionante… Insomma, forse parlando
con qualcuno, che so, con un pubblico ufficiale, ecco con un’autorità,
potremmo trovare lo spunto per organizzarci in qualche modo… E voi che
cosa ne pensate? –
La mia idea fu accolta con scarso entusiasmo. Si decise che comunque avrei
agito il giorno dopo, nella speranza che le condizioni atmosferiche e la
situazione in generale sarebbero mutate in meglio.
All’ora di pranzo ci riunimmo tutti nella sala da pranzo e ci sedemmo ai nostri
tavoli in modo da restare il più raggruppati possibile.
- Accidenti al tempo! – esordì un signore – Ormai la mia coincidenza da
Finisky per… è bella che saltata e così pure i miei impegni. Appena
possibile rientrerò in Italia. Tanto… - E’ davvero un paradosso! – intervenne un altro – Per un po’ di maltempo, si
è bloccato tutto, e poi ci lamentiamo dell’Italia! –
- E lei dottor… - mi chiese un tipo piuttosto attempato.
- Brivio – lo aiutai.
- Ah, ecco, lei dottor Brivio, come la vede? Cercherà di raggiungere Finisky
ugualmente? –
- Beh, sì – risposi – Già che sono arrivato sin qui. Poi sbrigherò quello che
devo fare e quindi, se Dio vuole, rientrerò in Italia! –
- Mah! Non ci sto. Anch’io, come il signore che ha parlato poco fa, rinuncio ai
miei affari. Al diavolo ogni cosa! E’ tutto inutile… - sbottò un tale con una
giacca a quadrettoni.
- Come lei la pensiamo così un po’ tutti – continuò un giovanotto sulla
trentina- Gli affari, come il Cielo, possono attendere. Qui, è un miracolo se
torniamo in Italia! –
Tutti risero ed io lo incalzai ironicamente:
- Beati voi! Io non posso rinunciare, devo andare a Finisky anche se dovessi
impiegarci una vita. E’ una cosa che devo fare, forse è inevitabile… -
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- Beh, inevitabile… Io non conosco i suoi affari, però lei parla dei suoi impegni
come se si trovasse immerso in una situazione ineluttabile, determinata
magari da una legge fisica. O sbaglio? –
- Quasi – dissi con un sorriso.
Tutti interpretarono la mia risposta come una battuta di spirito e tra dubbi,
osservazioni e perplessità, finimmo di pranzare più o meno allegramente.
Di tanto in tanto guardavo fuori per vedere se le forze della natura si fossero
placate e per caso notai che un’estremità della busta che conteneva il
documento, spuntava di poco dalla mia tasca.
Il pomeriggio fu come la mattinata.
Anzi, ci fu un peggioramento dovuto all’abnorme intensità della pioggia il cui
livello sfiorava i primi scalini della scalinata d’accesso all’albergo.
Durante la cena non si parlò molto, eravamo tutti in attesa del “portavoce”, ma
non arrivò nessuno.
Per cui, dopo che ci fummo alzati da tavola, ci accalcammo attorno al bancone
del portiere per conoscere le ultime novità. Questi, con poca diplomazia, ci
liquidò con quattro parole dicendoci che non sapeva niente e che il telefono era
sempre isolato.
Colsi l’occasione per chiedergli se quel fabbricato dall’altra parte della strada
fosse un posto di polizia. Mi rispose di sì e poi, non so se me lo disse per
prendermi in giro o meno, mi precisò con un sorriso ambiguo che, qualora
avessi già deciso di raggiungerlo, là avrei fatto bene di chiedere di parlare col
sergente Spinowrsky, che era il responsabile di quella stazione di polizia.
Ci ritirammo tutti nelle nostre stanze.
Quando fui solo, non potei fare a meno di pensare a Claudia e mi stupii con me
stesso per il fatto che, senza accorgermene, ormai la focalizzassi nei miei
pensieri solamente come un caro ricordo. Scacciai da me questa idea tanto
bizzarra quanto inquietante che attribuii alla stanchezza, alla particolare
situazione in cui mi trovavo, alla suggestione dell’ambiente. Infine mi
addormentai.
Come al solito, al mattino fui il primo a scendere per la colazione e quasi
aggredii il portiere con una raffica di domande ed egli, laconicamente, mi indicò
la finestra per farmi capire che il tempo e tutto il resto, erano allo stesso punto
di ieri.
Anzi erano peggiorati.
12/5
Claudia si svegliò con un feroce mal di capo dovuto, con molta probabilità, al
fatto che aveva trascorso una notte pessima. Continuamente si era voltata e
rivoltata nel letto passando da un brutto sogno ad un incubo.
Erano le undici passate ed aveva voglia di un caffè. Come un automa si mise
sotto la doccia, fece un minimo di toilette e poi come in trance si diresse al bar.
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Il dolore alla testa non accennava a diminuire, ogni passo che faceva le pareva
che le procurasse una fitta al cervello.
Sul ponte non c’era molto movimento, dal che arguì che doveva essere
accaduto qualcosa. In effetti notò che molti passeggeri erano affacciati alle
balaustre dei ponti di passeggiata e guardavano verso un punto imprecisato nel
mare. Tuttavia Claudia non diede molta importanza al particolare ed entrò nel
bar.
- Un caffè – ordinò
- Subito, signora. Qualcosa non va? –
- No, no. Solo un po’ di mal di testa. –
- Eh, oggi tutto non va – commentò il barista.
- Ma… sarà la navigazione, o il caldo, oppure… - Non si preoccupi, signora, vedrà che passerà. Però il mio “tutto non va”,
voleva riferirsi anche alla nave che fa le “bizze”. –
- Bizze? –
- Sì. Non si è accorta che siamo quasi fermi? –
- No, beh ora che me lo dice, me ne rendo conto. Già, siamo fermi o… quasi.
Che cosa è successo? –
- Pare che ci siano delle noie in sala macchine, qualcosa non va al… al
motore, per intenderci. –
- Beh, poco male, qualcuno ci penserà – disse Claudia distrattamente.
- Speriamo signora, speriamo. Buona giornata. –
Claudia uscì e si unì agli altri viaggiatori per cercare di saperne di più. Tra loro
notò l’uomo che con la sua famiglia divideva il tavolo al ristorante con lei. Gli si
avvicinò e gli chiese che cosa stesse accadendo. L’uomo stizzito, quasi in
collera, le rispose:
- Una schifezza. Ecco che cos’è questa crociera: una porcheria. –
- Si calmi, per cortesia, mi spieghi, - C’è poco da spiegare, signora Brivio, la nave è in avaria e tra un po’
attraccheremo laggiù – e indicò una sottile striscia di terra all’orizzonte – e là
qualcuno riparerà questa bagnarola. –
- Ma dove siamo? –
- Non lo so. So che ci fermeremo in una località chiamata… chiamata… Duzù, ecco Du-zù. –
- E per quanto ne avremo? –
- Dio solo lo sa. Mi auguro per me e… – con l’indice della mano destra indicò
la nave – per “loro”, che si tratti di una sosta breve, molto breve. –
- Grazie, signor Toschi. Oggi è proprio una giornata “no”. –
- Di niente, signora, di niente. Si figuri. –
Claudia rimase sorpresa e colpita da questo contrattempo.
Ma in verità della nave, della crociera, dei Toschi, di Du-zù o come diavolo
aveva detto, non gliene importava niente. Le interessava solo che le passasse il
mal di testa. E dopo un po’ fu accontentata.
Quindi cercò di comprendere meglio la situazione e chiese conferma di quel
che le aveva appena riferito il signor Toschi ad altre persone, e da queste
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seppe che la nave, tra non molto, sarebbe arrivata a Du-zù dove una squadra di
tecnici avrebbe cercato di ripararla.
Quando infine Claudia si rese ben conto di quel che stava succedendo, si sentì
ancora più smarrita e meccanicamente i suoi pensieri volarono da Mario che
era sperduto chissà dove.
Per un momento fu presa dal panico e si domandava in quale imbroglio sia lei
che suo marito si fossero cacciati: lui in mezzo ad una landa sicuramente
desolata, lei in balìa di un mare scuro e sconosciuto.
Cominciava a non poterne più, per giunta i commenti concitati di tutti gli altri la
innervosivano ulteriormente. Si sentiva elettrica.
Così, senza pranzare, si barricò nella sua cabina per non vedere nessuno e per
non sentire nulla.
Dopo un po’ la nave si fermò completamente.
La donna uscì dal suo alloggio per conoscere e per seguire da vicino gli sviluppi
di tutta la faccenda e in lontananza vide una spiaggia, delle palme ed alcune
persone che si stavano dimenando, forse per salutare i passeggeri di
quest’accidente di nave.
- Bella crociera! – pensò – Speriamo che almeno i soccorsi arrivino
speditamente. Ora, non mi rimane che andare a prendere un po’ di sole. Se
mi chiudo in cabina va a finire che impazzisco. –
11/5
Mentre sorseggiavo un caffè, pensavo al da farsi.
Nel momento in cui stavo valutando i “pro” e i “contro” del mio personale
bilancio della situazione, arrivarono alcuni dei miei compagni che mi salutarono
e iniziarono a consumare la loro colazione.
- Io – mi rivolsi ad uno della comitiva – cerco di andare in quell’ufficio laggiù –
ed indicai il posto di polizia dall’altra parte della strada – Vuole
accompagnarmi? –
- Andare dalla polizia? Non è una cattiva idea. Certo che con questo tempo…
beh, è inutile andare in due: o va lei o vado io. –
- Ci andrò io. – Lo tranquillizzai. Poi mi rivolsi al portiere e gli chiesi che mi
prestasse un ombrello e, possibilmente, anche un paio di stivali di gomma.
- A disposizione, – mi rispose l’uomo porgendomi un ombrello – per gli stivali,
attenda un attimo che andrò nel ripostiglio a cercarli. –
Dopo un poco arrivò con le calzature che spolverò e poggiò sul pavimento
accanto al bancone.
- Bene, dottore. In ogni caso penso che si andrà a bagnare per niente, tra
l’altro le sarà impossibile aprire l’ombrello col vento che tira, e poi… - Ci proverò! – l’interruppi.
Mi avvicinai all’uscita e presi atto che di fuori la situazione era davvero brutta.
Nella strada l’acqua era alta e sicuramente mi sarebbe arrivata sino a metà
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gamba. Qua e là vi erano alcuni piccoli alberi divelti, diverse auto stazionavano
in mezzo alla strada, la corrente trasportava i tavolini dei bar e dei ristoranti del
corso insieme con altri mobili e agli oggetti più disparati. Fango, rottami,
macerie ovunque.
Ma non mi persi d’animo, ormai ero deciso. Tirai la maniglia dell’ingresso, ma
non si aprì.
- Giri la chiave, – mi suggerì il portiere – la porta è chiusa, diversamente il
vento la spalancherebbe. Così feci, ma la dovetti trattenere per evitare che si aprisse completamente con
violenza. Indugiai ancora e nel frattempo mi si avvicinò il portiere, che
chiaramente era lì pronto a chiudere l’uscio non appena fossi uscito.
Mi decisi e mi diressi verso la strada.
Immediatamente fui investito da furiose raffiche di vento e da copiosi scrosci di
pioggia.
Come previsto, era impossibile aprire l’ombrello.
Scesi alcuni scalini e mi trovai con l’acqua al ginocchio. Ormai ero in ballo e
dovevo ballare.
A fatica camminavo nell’acqua lottando contro il vento, la pioggia e quant’altro
era trasportato dalla corrente.
In verità ero quasi deciso a rientrare in albergo, ma desistetti da un simile
proposito solo per non vedere l’espressione del portiere, magari compiaciuta
per la mia indecorosa ritirata.
Ad un certo punto del mio tormentato cammino e nel momento in cui una sedia,
simile ad una tavola da surf, mi centrò un ginocchio provocandomi un dolore
lancinante, ebbi come l’impressione di vivere realmente un incubo che avevo
già sognato diverse volte. Inspiegabilmente mi trovavo in una strada
sconosciuta, all’improvviso scoppiava un temporale, anzi qualcosa di più di un
semplice acquazzone ed io, ignorando che a casa ero atteso dai miei cari, mi
guardavo in mezzo a quella bufera senza riconoscermi e con sgomento mi
chiedevo che cosa stessi facendo.
Fortunatamente, tanto per dire, un altro oggetto pesante sbatté contro di me
svegliandomi da quello stato di confusione, di torpore, di rapimento onirico.
Diversamente, forse, sarei annegato.
Inspirai profondamente, espirai con lentezza e con tutte le mie forze ripresi a
camminare.
Dopo parecchie soste e dopo aver incontrato alcune serie difficoltà, tali da farmi
dubitare circa la realizzabilità della mia impresa, giunsi di fronte al posto di
polizia.
Cercai di aprire il portone, ma questo era chiuso. Intorno non vi era traccia della
presenza di un campanello ed allora presi a bussare fragorosamente contro il
vetro di una finestra.
Oltre a questa intravidi un uomo in uniforme e, da un piccolo movimento del suo
capo, intesi che mi stesse chiedendo che cosa volessi. Per tutta risposta bussai
ancora più violentemente e gli urlai:
- Apri, accidenti! Non vedi che rischio di annegare? –
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Mi fu aperto e repentinamente riparai, con gran sorpresa del mio soccorritore,
nell’ingresso dell’ufficio scolando, nello stesso tempo, acqua da tutte le parti.
La guardia m’indicò uno straccio su cui avrei dovuto collocarmi per non bagnare
l’intero pavimento. Lo accontentai e al tempo stesso gli dissi, puntandogli
l’indice della mia mano destra:
- Spinowrsky? –
- No! – mi rispose con tono perentorio. Poi, drizzando a sua volta un dito
contro di me e gesticolando con l’altra mano, mi fece intendere che voleva
sapere chi io fossi.
Anche se non avevo capito e tanto meno gradito quel “no” gridatomi in faccia,
decisi lo stesso di collaborare e gli risposi:
- Italiano… albergo Forever… - e cercai di mostrargli l’hotel disappannando il
vetro della finestra - … Spinowrsky… L’uomo mi fissò per alcuni istanti, poi mi fece cenno di stare fermo lì, cioè
sull’attenti sopra lo straccio, quindi si allontanò.
Sentivo che i miei nervi erano a fior di pelle. Mi guardai in una specie di
specchio, che era parte di un misero attaccapanni, e mi resi conto che ero
ridotto proprio come il cencio su cui mi era stato ordinato di restare.
Passarono alcuni minuti e nel frattempo non si faceva vivo nessuno.
Finalmente l’uomo di prima tornò insieme con un altro, quest’ultimo mi guardò
con aria interrogativa e, usando un italiano discreto, mi rivolse la parola:
- E’ lei che cerca di me? Io sono il sergente Spinowrsky. –
- Ah, è lei? Bene, piacere… – E gli porsi la mano che però rimase sospesa
nell’aria, senza che per contro lui me la stringesse.
Il sergente rimase collo sguardo fisso nel vuoto, quindi improvvisamente mi
disse:
- Mi favorisca i documenti. –
Per un attimo pensai solamente al plico piegato in quattro che era nella tasca
della mia giacca. – Speriamo – pensai – che non si sia bagnato. – Poi mi
ripresi:
- Non li ho con me, li ho lasciati all’albergo Forever. Mi chiamo Brivio Mario…
- e mi girai per segnargli l’hotel di là della strada.
Spinowrsky, sempre impassibile, non si curò per niente delle mie goffe
indicazioni e borbottò qualcosa all’altro militare, poi si allontanò senza
giustificarsi e senza salutare.
L’uomo che restò con me, che era quello che mi aveva aperto, mi puntò gli
occhi addosso prestando molta attenzione ad ogni mio minimo movimento.
Invero rimasi molto sorpreso dall’accoglienza e senza fare o dire alcunché,
restai fermo sopra lo straccio assegnatomi, colando acqua e sudore da ogni
parte del corpo.
Dopo buoni dieci minuti, riapparve il sergente.
- Sì, – esordì senza staccare gli occhi da un foglietto – sì, dunque risulta che
lei, in realtà, è alloggiato all’hotel Forever. Non ci sono dubbi. – S’interruppe,
stracciò l’appunto che aveva in mano, lo buttò in un cestino e continuò –
Che cosa vuole da me? –
La domanda, formulata così bruscamente, non mi piacque.
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Avevo freddo, i panni che indossavo erano bagnati e mi mettevano a disagio,
mi sentivo ridicolo, mi vedevo impacciato e grottescamente costretto, anche se
nessuno me lo aveva espressamente ordinato, a restare fermo impalato su
quello straccio e poi, grazie a Spinowrsky e ai suoi colleghi, mi pareva pure di
essere immerso in un’atmosfera cupa ed ostile, sicché accadde che l’emozione
ebbe il sopravvento su di me e mi sentii veramente indifeso, un vinto, addirittura
incapace di proferire una parola qualsiasi. Tuttavia cercai di superare
rapidamente questo mio stato di profondo, particolare smarrimento e
balbettando azzardai:
- Ecco, sergente, io… io ed altri viaggiatori italiani del volo… - Sì, siamo al corrente. – m’interruppe – Venga al sodo. –
- Va bene. Vorrei che lei mi desse qualche spiegazione su che cosa sta
accadendo e, cortesemente, la prego di adoperarsi per farmi… per farci
uscire da questa situazione… disagevole. – Pensando poi al fatto che prima
l’uomo sicuramente si era messo in contatto con l’albergo per sapere chi io
fossi, con più coraggio insistetti – Lei, gentilmente, potrebbe telefonare a
qualcuno e… - Il telefono è isolato! – intervenne Spinowrsky sovrapponendo la sua voce
alla mia.
- Beh… ma non ha… - Io non ho nulla. Noi… - e alzando la voce sottolineò il pronome – noi
abbiamo una radio ed usiamo certe frequenze esclusivamente per finalità
militari o d’ordine pubblico… - Ebbene, qui ci troviamo di fronte ad un’emergenza! – osai intervenire.
- Signore, - Spinowrsky assunse un tono della voce tagliente, aguzzo, tra il
crudele e il malvagio, quasi ironico, certo sprezzante. – Signore, – ripeté –
lei è partito, non so da quale città, ma sicuramente dall’Italia per un motivo
ben definito, importante ed è arrivato sino a Dozzov. Non ha ancora
raggiunto la località desiderata per alcune circostanze che né io, né lei
abbiamo voluto. Ora è fermo qui a causa di certe concrete difficoltà che non
le permettono di continuare il viaggio, ostacoli su cui non mi pare il caso che
io mi dilunghi. E’ sufficiente guardare alla finestra. Ciò nonostante lei
desidera, anzi vuole, pretende che io interferisca su tale coincidenza di fatti,
di cui lei di sicuro si sente parte, senza spiegarmi peraltro come dovrei
intervenire. Si limita a dirmi: “chiami qualcuno”. Ma si rende conto
dell’assurdità? Io, secondo lei, dovrei inserirmi in un disegno di vaste
proporzioni i cui punti salienti sono già in atto, e lei lo sa perché li sta
toccando con mano, solo per soddisfare la sua ansia, il suo infantile
smarrimento, la sua sterile voglia di forzare gli eventi? –
- Ma che cosa sta dicendo? Quale “disegno in atto”? – sbottai
- Ah, non lo ha ancora compreso? Ma se è venuto da me, mentre poteva
limitarsi a tentare qualcosa coi suoi compagni di viaggio, per cercare di
risolvere… di dipanare… diciamo il punto critico, significa che lei ha già
intuito d’essere in un cul de sac e questo non le piace, quindi ci si accanisce
contro! –
- Io non capisco… -
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- Capirà… capirà… Lo ha già capito, ma mente e non solo con se stesso, ma
anche con chi ha davanti, e non alludo soltanto a me, e lo fa fingendo di non
aver compreso la realtà. Comunque non posso e non possiamo, – e così
dicendo indicò il suo subalterno, gli squallidi arredi della stanza e tutto il
locale – fare nulla. Torni in albergo: questo non è l’ufficio reclami, né un
consultorio per problemi psico-sociali e neppure un’agenzia di viaggi! –
- Ma… - provai ad insistere
- Il colloquio è finito. – Così dicendo mi additò l’uscita, quindi se ne andò. Il
suo commiato non fu un saluto, ma uno scatto di rabbia.
- Ma sergente… - come accennai a seguirlo, l’altra guardia subito mi si parò
davanti allargando le braccia e scrollò il capo perché capissi infine che
dovevo andarmene.
Non ebbi la forza di controbattere, di reagire e così mi buttai di nuovo in mezzo
alla tempesta, cercando di rimuovere il dialogo di prima.
Dopo un po’ e con tanta fatica, arrivai nell’atrio dell’albergo dove trovai i miei
compagni di viaggio che mi guardavano con un’espressione più che
interrogativa.
Con una mano feci loro un cenno che stava a significare: “dopo” e mi ritirai in
camera mia per fare una doccia e per cambiarmi.
Tornai giù pulito ed asciutto, pronto ad affrontare gli altri nella sala ristorante.
Mentre passavo davanti al portiere, mi parve di vedere con la coda dell’occhio,
un sorriso freddo e malizioso dipinto sul suo volto. Oramai, e chissà per quale
recondito motivo, ritenevo che fossimo diventati nemici.
Naturalmente tutti mi stavano aspettando con una certa impazienza e come
arrivai da loro, un tizio si alzò e mi fece accomodare al suo tavolo:
- Allora dottor Brivio, quali nuove? –
- Niente di niente, – dissi cercando di apparire il più tranquillo possibile – mi
hanno trattato come un cane. Comunque, sicuramente, hanno un telefono
funzionante perché il sergente che mi ha ricevuto, e che accoglienza!… Una
cosa vergognosa, assurda, incomprensibile… beh che, come dicevo… il
sergente che mi ha ricevuto, che mi ha così “dignitosamente” accolto, ha
chiamato qui in albergo per accertarsi della mia identità e della mia effettiva
presenza… - Sì, sì – intervenne un signore – proprio mentre lei, dottore, era laggiù, m’è
sembrato di udire alcuni trilli di telefono che provenivano dalla portineria,
però in realtà non ne sono sicuro…
- E’ vero, è vero – proruppero altri – così è parso pure a noi. –
- Quindi, - continuai – la nostra situazione, a dir poco, è paradossale e
grottesca. Siamo isolati dal resto del mondo e, verosimilmente, “qualcuno”
vuole che rimaniamo in questo stato. Tutto ciò che senso, che significato
ha? Perché non veniamo informati di quello che realmente sta accadendo?
–
La platea si zittì e il fatto coincise con una generale pausa di riflessione.
- Dottore, - il più anziano dei presenti, dopo un poco, ruppe il silenzio – la
situazione è quella che è, ossia è quella che conosciamo. Ma ora è inutile
che noi ci facciamo prendere dal nervosismo, dal panico, da strane forme di
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pseudo follia finora latente e che quindi finiamo per trasformare questa
circostanza avversa, certo disagevole ma riconducibile sempre a cause
naturali, in un rovello. In realtà non accade nulla di strano. Da una parte, c’è
una sinistra quanto disastrosa ondata di maltempo e, assurdamente, in
questo Paese le strutture per casi del genere non sono all’altezza. Dall’altra,
ci siamo noi che, purtroppo, abbiamo già perso e stiamo tuttora perdendo
del tempo prezioso. Tutto qui. Quindi, non dobbiamo sforzarci di capire
alcunché di quanto ci sta accadendo e, tanto meno, siamo obbligati ad
arrivare a Finisky a tutti i costi. Pertanto, appena possibile, rientreremo in
Italia.
Così abbiamo deciso tutti noi. –
Rimasi molto colpito dalla flemma e dalla calma del portavoce di quella specie
di pronunciamento.
Oramai erano tutti d’accordo. Sicuramente ne avevano già parlato tra loro ed
avevano concluso di lasciar perdere ogni cosa, di rinunciare ai loro programmi e
di tornare quindi a casa come se ciò fosse, tra l’altro, obiettivamente un ripiego
di facile attuazione. Probabilmente la parola “casa”, li spingeva a preferire un
rapido viaggio di ritorno a qualsiasi altra risoluzione.
Come potevo spiegare loro che io non potevo indietreggiare perché sentivo che
dovevo andare sino in fondo, in quanto ora più che mai capivo che nella vita
può accadere che alcuni fatti si parino di fronte a noi in modo tale da non poter
essere risolti facilmente, magari battendo semplicemente in ritirata come pavidi
personaggi, ma che bensì essi devono essere affrontati concretamente e con
risolutezza, anche se si è pressoché certi che non si concluderà nulla e che
infine ne usciremo pure sconfitti.
Ecco, io ero immerso in uno di questi frangenti e i miei compagni di viaggio
erano divenuti, o lo erano sempre stati, una parte inscindibile della mia attualità,
ed ora forse rappresentavano solo una mia esigenza estetica, però tanto
importante alla interezza di queste circostanze quasi magiche. Sentivo che
senza di loro la mia realtà non sarebbe mai stata la stessa, anzi sarebbe venuto
meno un qualcosa che avrebbe vanificato la globalità di ciò che stavo vivendo.
Ma non potevo pretendere che essi mi capissero perché, per forza di cose, mi
stavano accettando, interpretando per quello che al momento apparivo. Se
avessi esposto loro il mio tormento, sicuramente e desolatamente avrei preso
atto che, tutto sommato, a nessuno sarebbe interessato qualcosa della mia
vicenda.
Probabilmente solo io ero parte intelligente di un ineffabile disegno fatale contro
di cui stavo lottando. Unicamente a me, e in questa circostanza, la vita mi
faceva capire che mi era stato riservato questo ruolo e mi convincevo sempre di
più che il momento in cui ero stato investito di tale compito, fosse riconducibile
a quello di quando inquieto avevo preso in mano il documento che qualcuno
aveva posto sulla scrivania del mio ufficio, e che ora si trovava nella tasca
interna della mia giacca.
Mentre ero immerso in queste riflessioni, senza accorgermene mi estraniai
totalmente dai miei compagni e quasi non li sentivo neppure più, anzi i loro
discorsi erano diventati solo un brusio.
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Giusto nel momento in cui stavo inseguendo questi pensieri, mi sentii tirare per
la giacca.
- E allora, dottore, – mi richiamò alla realtà il probabile capo del
pronunciamento – lei che cosa ne pensa? –
- Di che cosa? –
- Ma come, di quello che abbiamo detto! Ossia di lasciar perdere tutto e di
tornare in Italia… ma non si sente bene? –
Stavo sudando abbondantemente e mi sentivo addosso un calore bruciante ma,
al tempo stesso, ero scosso da violenti brividi di freddo.
- Scusate signori… - balbettai – ma devo aver preso qualche malanno. Credo
di avere la febbre. Abbiate pazienza, però adesso desidero solo ritirarmi in
camera mia. – E abbandonai la sala.
Entrai in camera, mi buttai sul letto e mi addormentai profondamente.
12/5
Claudia era sdraiata al sole e da quella posizione seguiva i movimenti di quei
croceristi, in verità quasi tutti, che in modo agitato stavano andando su e giù
lungo i ponti della nave.
Si riunivano in gruppetti e commentavano ad alta voce la malaugurata
interruzione della crociera. Oppure formavano delle specie di commissioni cui
davano il delicato ed importantissimo compito di andare dal comandante, che
per inciso era irreperibile, per esternargli in modo deciso e risoluto le lagnanze,
le preoccupazioni e le minacce dei viaggiatori. Per giunta tali gruppetti, se
durante i loro conciliaboli itineranti, incrociavano qualcuno del personale di
bordo, lo investivano ferocemente con male parole ed arrivavano ad
un’esplicita, quanto poco educata, aggressione verbale individuale.
In effetti, di uomini colla divisa della compagnia di navigazione, in giro se ne
vedevano ben pochi in quanto, molto opportunamente, avevano provveduto ad
imboscarsi.
Infine dai vari altoparlanti dislocati a bordo della nave, fu diramato un
comunicato che, dopo numerose parole di convenienza e di scusa, rendeva
noto ai passeggeri che la navigazione, per chi non l’avesse ancora capito, era
momentaneamente sospesa per una banale avaria, per una sciocchezza e che
comunque entro la giornata, massimo all’indomani, tutto sarebbe stato
accomodato, quindi la voce amplificata concludeva con un generico invito
rivolto a tutte le signore e a tutti i signori, ad avere un “attimo di pazienza”.
Disse proprio così: “un attimo”.
Tutto sommato, del comunicato faceva paura, o meglio suscitava qualche
preoccupazione, quel “massimo all’indomani” – perché – così pensava Claudia
– da ciò si deducevano sia una certa ignoranza circa la ragione per cui la nave
si era fermata, sia una malcelata insicurezza sull’arrivo dei soccorsi. –
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La donna si sentiva strana, vagamente distaccata da ciò che la circondava. A
lei, alla fin fine, interessava solo avere notizie da Mario e tornare a casa. Tutto il
resto lo considerava come una cosa fallita in partenza, priva ormai di qualsiasi
finalità di divertimento o di relax, anzi era divenuta una fonte di tristezza e di
apprensione.
Fu avvicinata dal signor Toschi il quale le chiese che cosa ne pensasse di
quanto stava accadendo.
- Non vedo l’ora d’essere a casa mia. – rispose Claudia ostentando noia ed
indifferenza.
- Ma come, la crociera non le interessa più? – ribatté il signore.
- Forse non mi ha mai interessata. Era solo bella nella mia fantasia, quando
era soltanto un progetto. Ora che la vivo nella realtà, come al solito… - Ma signora, io non la capisco! Sarà che sia mia moglie che io è tutto l’anno
che l’aspettiamo ed ora… Che bel risultato! Speriamo che ci diano un
indennizzo e, se quei signori non riescono a risolvere nulla, che ci
restituiscano tutti i soldi che abbiamo sborsato! –
- Per me se li possono anche tenere! – osservò Claudia tediata – Purché mi
tolgano da questo posto in mezzo al mare e… e mi portino a casa. –
- Speriamo signora, speriamo. Ora mi scusi, vado a sentire se ci sono novità
e nel caso, tornerò a riferirgliele. Buongiorno. –
- Grazie e arrivederla.Claudia non andò neppure a pranzare perché, oltre a non avere appetito, non
voleva sentire nessuno visto che tutta la comitiva, col pretesto del pranzo di
mezzogiorno, si era riunita nella sala ristorante in seduta permanente.
Dopo un po’, verso le quindici, decise di andare a prendere un caffè, giusto
un’occasione per muoversi, per smettere di pensare.
Come entrò nella sala, udì un gran vociare. – Sintomo inequivocabile – dedusse
– di profonde ed importanti discussioni. –
La maggior parte dei presenti aveva il volto paonazzo, reso tale più dalla collera
che dal sole, e col tovagliolo ancora legato al collo, portava avanti le proprie tesi
e proposte.
Claudia uscì quasi subito onde evitare, soprattutto, che qualcuno le chiedesse il
suo parere. Non se la sentiva di dichiarare coram populo che non le interessava
niente di niente della nave, della crociera, dei soccorsi e così via. Sicuramente,
poi, qualcuno le avrebbe chiesto il “perché e il per come” del suo atteggiamento
e lei non aveva voglia di spiegare nulla, di giustificare il suo cronico
disinteresse.
Così, per distrarsi, decise di passeggiare all’aria aperta, ne aveva proprio
bisogno, ma una lacrima le spuntò dagli occhi, forse era dovuta alla malinconia
o al nervosismo che non riusciva più a dominare.
Guardò la spiaggia di fronte ed ancora intravide gente in festa che saltava, che
ballava, che salutava… - Che tristezza! – si disse – Accidenti a me e alla mia
voglia di andare in crociera. E Mario, perché non aveva provato a rimandare il
suo viaggio? Tutto così in fretta, senza la possibilità di riflettere, di ragionare, di
valutare l’opportunità o meno di partire. –
Non ci capiva più niente.
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Sembrava che il destino avesse già deciso per loro mettendo in moto tutti i
meccanismi più oscuri e misteriosi per tenerli lontani, separati. Claudia soffriva
anche per questo, ed era sicura che pure Mario stesse provando la stessa
pena, il medesimo malessere, l’identico dolore. Intanto, senza che lei se ne
accorgesse, si fece sera.
I compagni di viaggio erano ancora nel salone, oramai da là non li avrebbe
schiodati più nessuno e l’occasione della cena sarebbe stato un buon pretesto
per continuare nelle discussioni, nelle supposizioni, nelle critiche a questo e a
quello, nelle petizioni da redigere per poi farle sottoscrivere da tutti i croceristi, e
avanti così dissertando tra una vasta gamma di argomenti che, se lei fosse
stata di buon umore, li avrebbe trovati pure divertenti.
Per Claudia la misura era colma, come a mezzogiorno non se l’era sentita di
unirsi a loro, così per cena non avrebbe sopportato tutta quella baraonda,
giusto ora che si sentiva particolarmente nervosa, malinconica, nostalgica.
Pertanto si sarebbe ritirata in cabina e là avrebbe consumato la cena, sempre
che fosse stato possibile farsela servire, diversamente avrebbe cenato con un
panino da mangiare da sola sul ponte perché da lì, senza essere disturbata da
nessuno, poteva guardare la luna e le stelle.
La luna e le stelle, il mare no, ora lo odiava.
Le annunciarono che non era possibile portarle la cena in cabina in quanto,
chissà perché, l’avaria aveva provocato anche tutta una serie di disservizi.
Così Claudia si fece confezionare il sandwich, si sedette e contemplò quel cielo
infinito, misterioso che tutto aveva visto e che ora continuava ad assistere ad
altre storie di uomini prendendo atto, di tanto in tanto, della fine di qualcuna di
esse.
- Il cielo era il testimone di tutte queste sofferenze – osservò – e Mario?
Magari anche lui stava guardando lo stesso universo di stelle. –
Mentre era immersa in questi pensieri che, paradossalmente, per metà erano
angosciosi e per l’altra forse le suscitavano un qualcosa di malinconico che
assomigliava tanto alla rassegnazione, la comitiva dei croceristi uscì dal
ristorante parlando ad alta voce ed ora tutti si stavano lamentando che la
giornata, ormai, era trascorsa senza che però si fosse vista la benché minima
traccia di un qualcosa che assomigliasse ad un “soccorso”.
La donna, proprio per non inciampare o nel signor Toschi oppure in qualcun
altro, si ritirò nel suo alloggio e, nonostante le sue gocce, era sicura che
avrebbe passato un’altra notte insonne.
12/5
Mi svegliai madido di sudore.
Sicuramente durante la notte avevo avuto un bel febbrone.
Quel mattino, il mio primo pensiero volò da Claudia e mi chiesi che cosa mai,
ora, stesse facendo. D’accordo, sapevo che era in crociera, però non
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c’eravamo più sentiti. Ero preoccupato all’idea di non poter sapere, in nessun
modo, se stesse bene o male, se fosse serena o in pensiero.
Conoscendola, con molta probabilità stava attraversando una delle sue
consuete crisi d’ansia, di panico che poi si trasformavano in un malinconico e
tetro stato depressivo, una sorta di veglia cosciente tormentata dalla presenza
di certe brutte visioni che la ossessionavano durante quelle interminabili notti,
trascorse a combattere col sonno che non arrivava.
Accidenti a quel posto!
Alzai la cornetta e chiesi al portiere se la linea telefonica fosse stata ripristinata.
La risposta fu negativa.
Guardai fuori dalla finestra e costatai che le condizioni del tempo erano sempre
le stesse.
- Che razza di trappola! – pensai – Comunque bisognava che io agissi, che
facessi qualcosa perché, anche se ormai il tutto mi sembrava imbottigliato in
un vicolo cieco, si rendeva necessaria una mia reazione, la quale mi facesse
capire che ero ancora capace di affermarmi contro l’ineluttabilità di uno
sciocco divenire, che adesso non era più solo apparente.
Dopo che mi rimisi in sesto e appena, non senza notevoli sforzi, riuscii ad
imporre una tregua ai miei crucci, scesi per la colazione e, nonostante fossero
già le dieci passate, non v’era traccia alcuna della presenza dei miei compagni.
Chiesi di loro al portiere e questi mi rispose che erano ancora nelle loro camere.
- Novità ne abbiamo? – incalzai
- Per il momento, no. Tutta la regione è interessata e devastata da questa
terribile perturbazione… - E il telefono? –
- Sempre uguale. –
- La linea ferroviaria? –
- E’ bloccata e così pure la statale. –
- Accidenti! Possibile che non ci sia la maniera di rimettere in moto questo
Paese? –
- Caro signore, il tempo… il tempo… - alzò leggermente al voce – Non vede?
Guardi un po’… guardi un po’… guardi un po’ fuori. –
- Conosco già il panorama, però siamo nel terzo millennio!… - Sì, è vero. Ma il tempo… beh, in ogni modo, signore, non appena saremo in
grado di comunicarle qualche novità, non dubiti che baderemo a farlo
tempestivamente. –
- Ah, ne sono sicuro. Grazie, grazie. – Mi accomiatai da quel gelido e
incredibile portiere, ma non ero per niente soddisfatto.
Ogni cosa mi sembrava sinistra, come se mi fossi addentrato in una storia
assurda, in una situazione senza scampo.
Tutti gli elementi della mia vicenda si combinavano tra loro e mi mostravano un
allarmante quadro d’insieme, privo d’una via d’uscita.
Avevo l’impressione che ciò che mi restava da vedere e da vivere, obbediva ad
un automatismo che mi ero sempre illuso di avere dominato e forse
definitivamente vinto. Ma ora, visto che pareva che i giochi stessero per
concludersi, esso mi si manifestava di nuovo chiaramente, in modo
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provocatorio e nella mia fantasia prendeva le sembianze di un’ineffabile risata
beffarda.
Giunse l’ora di pranzo.
Tutti i miei compagni mi raggiunsero nel ristorante ove avevo già preso posto.
Ci scambiammo i soliti saluti ed ognuno si sedette al suo tavolo.
- Ha sentito dottor Brivio? Nessuna nuova… - mi disse ironicamente un tipo.
- Già - risposi distrattamente giocherellando con le posate.
- E’ un Paese davvero singolare… - insisté il signore “ironico” – Sarà il tempo,
la probabile inadeguatezza di strade, ferrovia, telefono oppure la sicura
incompetenza e disorganizzazione delle Autorità… però, tutto quello che
stiamo passando è davvero troppo, perdiana! –
- Ha ragione, geometra – intervenne un altro – Comunque non si può andare
avanti così. Appena possibile, ti saluto Finisky e… ma come si chiama
questo posto?… ah, Dozzov. Benone. Addio, addio Dozzov! –
- Ma io penso che questa specie di ritirata, - presi la parola – al momento sia
la strategia più adeguata solo apparentemente. Comunque, cari signori,
tutto mi sembra così strano.D’accordo, ripiegherete, però, badate bene, non dovete sottovalutare, anzi
non state assolutamente prendendo nella dovuta considerazione, un
particolare che vi sta appunto sfuggendo. In questa particolare situazione, in
quest’avventura che stiamo vivendo, i protagonisti sono i destini di ognuno
di noi e, nel frattempo, mentiremmo con noi stessi se ci nascondessimo che
quanto ci sta accadendo, pare che sia già stato designato, programmato.
Proprio questa sensazione m’ingenera delle perplessità, dei dubbi che mi
spingono a non accettare la veste di comparsa del mio futuro quotidiano,
così palpabile, così scontato.
Ovverosia, io non sono convinto che tutti noi, che fuor di dubbio abbiamo un
avvenire individuale con caratteristiche proprie, ora accettiamo che quanto è
di là da venire diventi un tutt’uno e che necessariamente sia uguale, simile,
insomma comune in modo indistinto, al destino di ognuno di noi… - Cosa dice, dottore? – m’interruppe il mio ultimo interlocutore guardandomi
con un’espressione sorpresa ed un po’ allarmata – Non riesco a seguirla… - Dico – e mi sforzai di riprendere il filo del discorso – che quel che crediamo
di decidere di dover fare, cioè di tornare in Italia e mi riferisco alla “ritirata”, a
parer mio ha solo il valore di un estremo ma intempestivo accomodamento
con noi stessi. Sono convinto che tale risoluzione, oltre ad essere irrilevante
ed inutile, non abbia più il contenuto di un atto di volontà, a meno che
ciascuno, o solo qualcuno di noi, cerchi di forzare queste circostanze
insidiose che ci stanno intrappolando. –
- Ma lei sta facendo certi ragionamenti oscuri e fuori luogo per un caso così…
così banale. – Queste furono le parole del signore di prima che prese la
parola alzando leggermente la voce e mostrandosi inquieto, turbato quasi
risentito – Dopo di tutto noi non decideremo nulla, ci faremo portare in Italia.
Punto e fine. –
- Riflettete, signori – insistetti anche se, veramente, neppure io capivo il
perché avessi tirato in ballo queste osservazioni davvero oscure, tuttavia
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aggiunsi con un tono della voce pressoché canzonatorio – Ecco… “ci
faremo portare in Italia!” –
- Rifletteremo, rifletteremo. Stia tranquillo dottore. - La voce del mio
contestatore ormai tradiva una vera e propria forma d’agitazione – Però lei
mi sembra troppo strano, quasi che provi piacere a turbare con parole
misteriose quest’atmosfera che già di per sé è pesante ed ossessiva. Mi
pare che lei sia ancora provato dalla giornata di ieri. Ora mangi con appetito,
vedrà che le tornerà il buon umore, l’ottimismo, l’entusiasmo ed infine si
riprenderà. –
- E’ vero, – mentii – mi sento ancora stanco, o meglio la febbre mi ha buttato
giù. –
Finimmo di pranzare e la conversazione di tanto in tanto andava a toccare
l’attualità, così c’era chi raccontava d’alcune sue esperienze personali con
l’intento di trovare la somiglianza tra queste e quanto stavamo passando, di
scorgere tra le due realtà un che di simile.
Io seguivo e non seguivo. Soprattutto riflettevo su quanto avevo appena detto e
più ci pensavo, più mi convincevo d’essere dalla parte della ragione, d’aver
centrato quel possibile disegno complesso della vita il quale, finalmente, era
prossimo ad essere svelato.
13/5
Finalmente venne l’alba e Claudia si rese conto d’avere passato la notte senza
dormire e solo ora cominciava a sentirsi intorpidita. Le prese freddo, così si
avviluppò nella coperta e s’addormentò.
Verso mezzogiorno fu svegliata dal consueto rumore di bordo, ossia udì la
gente che si chiamava, che parlava, che urlava, che sbatteva le porte delle
cabine ed altri suoni che ormai le erano divenuti fin troppo noti.
Guardò fuori e costatò che la nave era ancora ferma.
Decise che non si sarebbe mossa dal suo alloggio se non verso sera.
Non aveva voglia di sentire le solite discussioni e gli altoparlanti che
gracchiavano sempre lo stesso bollettino, che era quello d’avere pazienza, che i
soccorsi erano in arrivo, che ognuno a bordo doveva adoperarsi perché tutte le
cose fossero concluse nel migliore dei modi. Quest’ultimo, tout court, era un
invito a non seccare continuamente il personale con le solite domande e
lamentele.
Intorno alle 18 uscì e mentre si dirigeva verso il bar, vide che tutti i croceristi, o
almeno quelli che le riusciva di scorgere, stavano camminando speditamente,
anzi quasi correvano in direzione di un punto preciso.
Ciò stette a significare che erano arrivati i soccorsi.
Tra la calca intravide una squadra di uomini in tuta che salivano a bordo e che
erano accolti da alcuni marinai.
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- Era ora! – urlò qualcuno dei passeggeri con un tono della voce
eccessivamente ironico, che, in effetti, nascondeva il nervosismo e
l’esasperazione che serpeggiavano a bordo, tant’è che subito un altro
incalzò:
- Mascalzoni! –
- Poltroni! – un altro ancora
- Truffatori! –
E chi si lasciava andare a queste esclamazioni, che Claudia riteneva un po’
fuori luogo, a sua volta si girava verso colui che si trovava alle sue spalle per
leggergli nell’espressione degli occhi un tacito consenso e, presone atto,
prorompeva in un’infiammante concione per commentare con enfasi quanto
stava accadendo.
Toschi era tra quelli.
Claudia gli si avvicinò per chiedergli un aggiornamento della situazione.
- Buona sera signora. – Le rispose l’uomo leggermente su di giri – Ha visto?
Sono arrivati, finalmente… i signori! Ora speriamo che accomodino ogni
cosa e che si possa ripartire. Abbiamo già perso troppo tempo! – concluse la
frase alzando il tono della voce.
- Grazie, signor Toschi. Ora… ora io andrò al bar… - si schermì Claudia,
visibilmente imbarazzata e disturbata dallo stato d’agitazione del Toschi.
Il bar, i ponti, la piscina erano deserti. Tutti erano intenti a cercare di capire se i
lavori diretti alla riparazione del guasto stessero andando avanti.
Invero ognuno temeva, anche se non lo confessava apertamente, che gli
uomini in tuta non sortissero alcun esito positivo.
Claudia si fece preparare il solito panino. Si sentiva strana, incapace di
prendere qualsiasi iniziativa importante. Comunque non voleva tornare in
cabina, così decise che avrebbe assistito a tutte le operazioni, non tanto perché
le interessassero, bensì per il motivo che non voleva restare da sola.
Alle 22 i lavori non erano ancora stati ultimati ed alle 24 accadde l’irreparabile.
Il comandante, in modo freddo e distaccato, quasi che volesse apparire a tutti
un estraneo ai “lavori”, annunciò all’altoparlante che la crociera era, in poche
parole, bella che finita data l’impossibilità di riparare l’avaria. Che pertanto
domani tutti i viaggiatori sarebbero stati fatti sbarcare al villaggio di Dù-zu e da
là un servizio di pullman avrebbe garantito loro il trasferimento all’aeroporto
della città di Duzù da dove, infine, sarebbero stati rimpatriati. Concludendo il
comandante avvisò, quasi sbadigliando, che la compagnia di navigazione,
tramite il sottoscritto e tutto il personale, si scusava per lo spiacevole
contrattempo e che, quanto prima, ad ognuno sarebbe arrivato presso il
domicilio che aveva dichiarato, il rimborso del biglietto detratti, naturalmente, gli
oneri, le spese e le tasse.
Scoppiò il finimondo.
Dapprima e per qualche secondo, i presenti non si resero perfettamente conto
di ciò che quella voce lontana, gracchiante, metallica avesse loro appena
comunicato, quindi reciprocamente a gesti e a monosillabi s’interrogarono circa
il contenuto dell’annuncio. Poi, quando finalmente i più ne presero atto, ma più
precisamente intuirono quel che ormai era irrimediabilmente successo e quindi
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lo riferirono con modi spicci, ma espliciti, a chi era ancora inconsapevole
dell’accaduto, una sorta di frenesia s’impadronì del loro corpo e della loro
anima.
C’era chi mostrava i pugni contro un nemico invisibile, ignoto. Oppure taluni a
gruppetti di tre, quattro andavano velocemente su e giù per brevi tragitti e nei
loro occhi si leggevano propositi malvagi, rabbiosi, vendicativi, ovvero c’era chi
spingeva il petto all’infuori e con le palme tese mimava un pianto disperato.
In mezzo a questo scenario infernale, ove le parolacce e le bestemmie si
perdevano tra cielo e mare, Claudia in cuor suo si sentì inspiegabilmente felice
e si persuase che doveva ritenersi fortunata che tutto si fosse concluso in tal
modo
Allora, schivando crocchi di persone ferme a discutere e ad urlare, altre che
correvano senza una meta precisa, raggiunse la sua cabina.
Appoggiò le spalle contro la porta chiusa dietro di sé e scoppiò in una fragorosa
risata. Una risata innaturale, esagerata che stava ad indicare che il suo
nervosismo era arrivato all’apice, e fu anche un mezzo per scaricarsi di dosso
un poco della tensione accumulata in quei giorni, un modo infine per esternare
una parvenza d’improvvisa e ritrovata allegria.
12/5
Durante il pomeriggio restammo ancora tutti insieme.
Il tempo accennava ad un miglioramento, infatti, il vento s’era calmato e cadeva
solo una fitta pioggia insistente.
Non potevo fare a meno di pensare a tutte le cose che erano successe e alle
parole che mi erano state dette durante questi giorni ma, al tempo stesso, non
ero in grado di mettere a fuoco i singoli problemi.
Però i miei non erano più pensieri che avevano per oggetto semplicemente i
disagi contingenti, essi spaziavano ben oltre l’attualità, andavano più lontano.
Tra questi c’era Claudia la quale, con mio sgomento, mi pareva sempre più
irraggiungibile, invero non faceva più parte della mia realtà, del mio mondo,
delle cose che vedevo e che toccavo.
Sin da quel maledetto giorno in cui avevo deciso, ma lo avevo “deciso”
veramente?, di partire avevo presagito, ma già allora avevo temuto di
confessarmelo, che stavo vivendo le mie ultime ore con lei.
Ora mi trovavo in questa trappola ove confluivano i diversi destini di tutti i miei
compagni di viaggio che, a parer mio, non potevano necessariamente sfociare
in un’unica manifestazione di volontà assolutamente diretta ad accettare
l’inevitabilità d’una sorte che secondo me stava per concludersi in questo modo
solo in apparenza. Non era possibile, mi ripetevo, che tutti noi andassimo
incontro ad un medesimo epilogo, quando in realtà ciascuno aveva vissuto
un’esistenza propria e questa, naturalmente, aveva predisposto le cause per far
sortire un futuro individuale, senza dubbio differente da quello di tutti gli altri.
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Addirittura non accettavo neppure l’acuto dolore che stavo provando per mia
moglie, respingevo l’idea che la mia pena si sarebbe dilatata nel tempo, perché
il mio “io” voleva il contrario e non intendeva adeguarsi ad una realtà che era
divenuta tale sottostando a leggi meccaniche, senza lasciare lo spazio a scelte
deliberate.
Dovevo uscire dalle insidie, dall’accerchiamento posti in essere da chissà chi,
Claudia meritava qualcosa di più che una pura accettazione da parte di suo
marito di tutto quanto gli si accaniva addosso.
Certo dovevo agire, fare qualcosa, abbandonare questa confusione di storie
umane entro le quali sicuramente mi sarei perso se non avessi cercato in
qualche modo di lasciarle, di superarle con uno slancio di volontà.
Continuamente mi ripetevo che dovevo in ogni caso operare, perché dentro di
me sentivo che i giochi si stavano concludendo.
Mentre ero sprofondato in queste burrascose riflessioni che divenivano sempre
più inquietanti, fui avvicinato da un tale che era la prima volta che mi rivolgeva
la parola:
- Dottore, visto che il tempo accenna a qualche miglioramento, che ne
direbbe se provassimo nuovamente… anzi, perché cortesemente lei non
prova di nuovo a parlare con quel sergente di polizia? –
- Non vedo con quale utilità. – gli risposi – Ora che sembra che le condizioni
del tempo stiano migliorando, per lui sarà un argomento in più per invitarci a
restare quieti e tranquilli, ad aspettare che i nostri problemi vengano risolti…
risolti dall’“alto”. Mi capisce? –
- Può darsi. Grazie, dottore. Ora sentirò anche gli altri. –
Dopo un po’ capii che tutti erano d’accordo con me circa l’inutilità di conferire
nuovamente con Spinowrsky.
Veramente mi parve che i miei compagni di viaggio non avessero proprio
deciso di condividere la mia opinione in ordine all’opportunità o meno di recarsi
per la seconda volta in quel posto di polizia, bensì essi inconsciamente si erano
adeguati ad adottare quella condotta che, a prima vista, sembrava loro la più
rinunciataria.
Tuttavia ciò non significava che nel nostro gruppo non si parlasse o non si
discutesse ma, stranamente, tutto pareva che si fosse appiattito al livello di una
vile uniformità d’idee e questo, indubbiamente, era dovuto alla generale
mancanza di fantasia e di volontà.
Mi sentivo nervoso, come chi è alla vigilia di un avvenimento importante che lo
avrebbe visto nel ruolo di protagonista.
Cominciai a passeggiare nervosamente avanti e indietro dalla sala del
ristorante alla portineria, ed ogni volta che passavo di fronte ad essa,
l’impiegato da dietro il bancone mi fissava, seguendomi con lo sguardo finché
facevo dietro front.
Andai sino alla porta a vetri che dava sulla strada e costatai che il tempo era di
nuovo peggiorato e che quindi il miglioramento di qualche ora fa, era stato solo
una tregua, o forse non c’era stata alcun’attenuazione, ma così aveva creduto
di vedere chi sperava in una reale ripresa delle condizioni atmosferiche.
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Scrutai la via e con lo sguardo l’attraversai fino ad immaginare di trovarmi
nuovamente nell’ufficio di Spinowrsky, affannosamente tentavo di parlargli per
sapere, per conoscere, per capire. Mi pareva di vederlo di là dalla sua finestra
cogli occhi puntati verso di me.
Tornai dai miei compagni e notai che oramai mi guardavano con
un’espressione quasi divertita come se, tutto sommato, mi considerassero solo
un tipo un po’ originale e bizzarro, e questa, purtroppo, era l’unica cosa di
nuovo che avevo notato nel loro atteggiamento.
Per il resto continuavano a mantenere il comportamento di sempre: chiacchiere,
vaghi commenti sulla situazione e una disarmante apatia.
Di tanto in tanto qualcuno di loro andava in cerca di notizie dal portiere il quale,
di fatto, aveva preso il posto del portavoce ufficiale della compagnia che per la
precisione si era fatta viva sì e no una sola volta. Ebbene, questi
ossessivamente dava sempre lo stesso comunicato, ossia che per il momento
non c’erano novità, che bisognava aspettare e che non appena fossero
sopraggiunte delle nuove, sarebbe stata sua premura comunicarcele.
I miei compagni sorridevano, allargavano le braccia, si stringevano nelle spalle
fingendosi sfiduciati, poi si riunivano nella sala del ristorante e daccapo
riprendevano i soliti discorsi per trarne le medesime conclusioni.
Anche quella giornata impietosamente finì.
14/5
Come da copione, Claudia sbarcò a Dù-zu dove, fortunatamente, non trovò
nessuno ad accoglierla festosamente con canti e danze. Anzi i croceristi
scesero dalla nave nella più completa indifferenza delle poche persone che si
trovavano al porto e i viaggiatori stessi, forse perché stanchi e avviliti, avevano
certi visi lunghi e il loro tono, anche troppo vivace, polemico e rabbioso, aveva
lasciato il posto ad un mugugno sommesso, fatto di borbottii e d’espressioni del
volto deluse, scontente, seccate.
Da lì un pullman li portò all’aeroporto di Duzù dove tutta la comitiva salì su un
aereo diretto a Milano, quindi una volta là ognuno raggiunse la propria città di
provenienza.
Claudia arrivò alla stazione di Bologna felice di essersi lasciata alle spalle la
nave, la crociera, il signor Toschi con tutti quegli esaltati compagni di viaggio. In
quel posto provò a telefonare in ufficio da Mario, ma era tardi e non rispose
nessuno. Provò quindi a chiamare la città di Finisky, ma non ci fu verso di
prendere la linea.
Chiamò un taxi e si fece portare a Ravenna, da casa tentò ripetutamente, ma
invano, di mettersi in contatto telefonico con Mario ed infine dall’hotel Tivoli di
Finisky le risposero. Una voce estremamente cortese le disse che tuttora la
regione era investita e flagellata da una violenta ondata di maltempo, che il
dottor Brivio era ancora bloccato a Dozzov, che comunque stava bene, che la
41
situazione era sotto controllo, che tra non molto tutti i servizi sarebbero stati
ripristinati e che pertanto non c’era alcun motivo di preoccupazione.
Claudia non riuscì ad interrompere il suo interlocutore per chiedergli una
spiegazione, un chiarimento, un approfondimento qualsiasi, sicché quando le
parve che la comunicazione si fosse conclusa, salutò con un timido “grazie” e
chiamò l’hotel Forever di Dozzov in quanto questo era l’ultimo recapito
conosciuto di suo marito, almeno così le aveva riferito quel signore così gentile
con cui aveva appena finito di parlare.
Ma pareva che la città di Dozzov fosse veramente fuori del mondo, isolata,
irraggiungibile sia via terra sia via etere, infatti, non c’era verso di prendere in
alcun modo quella maledetta linea.
Claudia si lasciò cadere su una poltrona e la felicità di aver già terminato la
crociera, momentaneamente sovrastò l’apprensione per Mario. Ma era sicura
che il suo malumore sarebbe durato pochi momenti, solo alcuni minuti perché
tra non molto, esaurita l’euforia del ritorno a casa, sarebbe tornata a bomba in
quegli stessi pensieri che l’avevano tormentata sin da quando era partita.
Tuttavia avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo, cioè aspettare che nell’ufficio
di Mario arrivasse qualcuno.
Ora non c’era nulla da fare per il semplice fatto che con sorpresa si era resa
conto che non conosceva neppure l’indirizzo e il telefono di casa della
segretaria di suo marito.
13 – 14/5
Passai due giorni in completa solitudine.
Con sgomento e nervosismo, prendevo atto che non accadeva nulla.
Ogni cosa, sia fuori che dentro, restava immobile, inalterata; sembrava che tutti
stessero aspettando la fine di una commedia piuttosto noiosa e che fossero
pronti ad una completa ed incondizionata resa, ad un’indiscutibile rinuncia.
Ma io no, non accettavo questa situazione anche se intuivo che pure la mia
esistenza, disegnata da sempre, ormai stava per concludersi.
Invero non sapevo come reagire. Doveva pur esserci, pensavo, una soluzione
per evadere, per fare quello che volevo e che in fin dei conti consisteva nel
ribellarmi a quanto avevo già intuito.
Volevo vincere il destino per scrutare che cosa ci fosse di là delle regole, di
quello che, anche se a volte non abbiamo il coraggio di confessarcelo, infine si
sa.
Erano sei notti che dormivo in quell’albergo che il caso mi aveva destinato e mi
ero convinto che il giorno dopo avrei piegato l’apparente inganno in cui ero
caduto.
In un modo o nell’altro me ne sarei andato.
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15/5
Alle 8,30 in punto Claudia chiamò la segretaria di Mario al telefono dell’ufficio.
La donna si sorprese nel sentire che la moglie del dottore fosse già arrivata a
Ravenna in quanto, le disse, la immaginava ancora in crociera. Quindi, esauriti
alcuni preamboli sottesi di stupore e di meraviglia per l’improvviso rientro
anticipato, le confessò che anche lei era all’oscuro di dove fosse il dottore e di
che diavolo gli fosse accaduto. Infine, concludendo, raccomandò a Claudia di
non preoccuparsi e la rassicurò che s’impegnava a chiamarla a qualsiasi ora
nel caso che fosse venuta a conoscenza di qualche novità.
L’effetto che questa telefonata produsse su Claudia, fu quello di allarmarla
ancora di più.
Cercò di nuovo di mettersi in contatto con Dozzov, ma ogni tentativo risultò
inutile, mentre da Finisky le confermavano quello che le avevano detto il giorno
prima.
Insomma, le sembravano tutti d’accordo: centralinisti, portieri d’albergo e
impiegati. Ed intanto Mario era sperduto chissà dove.
Dozzov, anche il nome cominciava a suonarle sinistro, quasi un qualcosa
d’inquietante, di bieco e non semplicemente l’indicazione di una città. Per
Claudia, Dozzov significava solo dolore, ansia ed un salto nel vuoto, nel buio.
Un intenso avvilimento s’impadronì dei suoi pensieri, della sua volontà, come se
avvertisse la pena per qualche evento drammatico che era sul punto di
rovinarle addosso.
15/5 – Tardo pomeriggio –
Il settimo giorno della mia permanenza in terra straniera, mi sentii
particolarmente e stranamente risoluto a forzare ciò che mi stava trattenendo in
quell’albergo che ormai identificavo con una trappola.
Avevo alcune idee in testa e su di esse mi stavo arrovellando scartando quanto
mi sembrava inutile, volevo trattenere solo quello che mi pareva che avesse un
risvolto positivo.
Di sotto, nella sala da pranzo, trovai i miei compagni di viaggio ed essi mi
parvero che fossero sempre più indifferenti a ciò che stava accadendo, in modo
anonimo e silenzioso si erano preparati ad accettare quanto il destino stava loro
preparando.
Il maltempo non dava tregua.
Da sette giorni tutto era rimasto disperatamente uguale, compreso il portiere.
- Dottor Brivio… - mi chiamò qualcuno – sbaglio, o è un po’ che se ne sta
rintanato nella sua stanza? –
- Già, sono stato poco bene, ma… -
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- Eh, si vede… si vede. D’altronde nemmeno oggi mi pare che lei abbia una
bella cera! –
- Ma, a dire il vero, ora mi sento un po’ meglio. –
- Stia attento, comunque. Si riguardi, si riguardi! –
Pronunciò l’ultimo “si riguardi” con uno strano tono della voce, forse
canzonatorio.
Ormai tutta la compagnia, in modo paradossale, si era serenamente rassegnata
a restare rinchiusa in albergo.
Taluni, per ingannare il tempo, non avevano trovato altro di meglio da fare che
giocare a dama, altri a carte e i restanti ridevano divertiti impegnandosi nei
consueti disarmanti giochi di società.
Il portiere mi accolse con un freddo cenno di saluto e col capo mi fece un segno
di diniego, ossia voleva dirmi, anticipando la mia solita domanda, che non
c’erano novità.
Ma io, questa volta, non gli avevo chiesto un bel niente.
Tornai nel salone e mi sedetti in disparte sprofondandomi nei miei soliti
pensieri.
Poco dopo mi si avvicinò lo stesso signore di prima, cioè quello che mi aveva
invitato a badare alla mia salute e con una bonarietà mielosa, stucchevole, mi
riprese:
- Lei, dottore, se la prende troppo. Tutti noi siamo nella medesima situazione,
sulla stessa barca. Quindi, cerchi di pensarci meno perché… - Veda – lo interruppi – ha ragione quando mi fa osservare che me la prendo,
ma sicuramente sbaglia se pensa che la causa della mia apprensione sia
uguale alla sua o a quella degli altri. Il mio cruccio è un altro… - Mi dica., mi dica. Siamo qui per parlare. –
- Ma ciò che potrei confidarle non varia da quel che dissi a tutti alcuni giorni
fa, ossia io non accetto che il destino, così palesemente, disponga per me e
al tempo stesso non me la sento di chiedere ad ognuno di voi di agire in
qualche modo per fare sì che il nostro volere, anche se poi magari potrà
essere vinto, s’imponga autonomamente. E questo perché pure voi, ma più
di me in quanto non ve ne rendete conto, siete ingabbiati dal vostro futuro
individuale. Che aiuto potremmo mai darci se ormai siete certi che ogni cosa
sia stata come… per così dire… già decisa? Ecco. Comunque, ora come
ora, non vedo neppure nessuno che sia capace di una reazione particolare.
Questa è una considerazione molto sofferta… - Ma io – balbettò il signore – non credo a questa predestinazione, o meglio a
questa visione della vita. E se poi fosse così, perché dovremmo ribellarci? –
- Perché la vita infine non può sostanziarsi in quest’unica verità, cioè che il
gran finale, comunque esso sia, sarà sicuramente ineluttabile. Verità
comunemente accettata e che solo ora in questo frangente, e me ne
dispiace di non essermene accorto prima, vedo così viva, attuale, nitida nei
suoi confronti. Che ruolo avrebbe, allora, il nostro “io” nel percorrere
l’esistenza? –
- Ah… -
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- Non lo sa? Ebbene, glielo dirò io. Il suo compito dovrebbe essere quello di
lasciare un’impronta di sé per affermare la sua vivace presenza e il suo
deciso impegno a modificare quel che lo circonda, e con ciò comprendo
uomini animali cose, quando questo è sul punto di sopraffarlo, di
condizionarlo irrimediabilmente. –
Quando ebbi finito di parlare, rimasi per qualche secondo con lo sguardo fisso
nel vuoto per riflettere ancora un po’ su quanto avevo appena detto, quasi che
volessi ricordarmi di qualche cosa che mi era sfuggito.
Poi mi alzai e salutai la persona con cui avevo parlato, la quale mi stava
fissando con un’espressione che mi sembrava che mi volesse significare
diverse cose spazianti da un garbato invito a continuare la discussione, ad un
risentito disappunto per le mie idee.
Ma in realtà la mia impressione era solo il frutto delle mie vaghe congetture al
riguardo, infatti, il signore si limitò a ricambiare il mio saluto ed io mi avviai
verso la mia camera.
Piano piano, dissertando mentalmente con me stesso, conclusi che questo
destino forse non fosse prestabilito, ma che invece questa vita ci costringesse a
percorrere un’esistenza senza scampo che, pur essendo differente da tutte le
altre ma solo nello scorrere dei singoli accidenti individuali, fosse comunque
comune a tutti gli uomini. Questo misterioso interrogativo che da anni
rimuginavo dentro di me, in questi giorni era maturato fino a quest’estrema
considerazione.
Ecco che così si spiegava questa segreta, sfuggente ed incalzante
disperazione che da sempre mi accompagnava: ogni cosa apparentemente
muta in un finto divenire, però la vita non dà tregua, non lascia alcuna
possibilità di superare il tormento quotidiano cui forse ora si sarebbe potuto
dare una forma, un’espressione che avrebbero contribuito a capire, e a far
capire, questa ossessione.
Ma ormai era troppo tardi.
Il tutto avrebbe preso le sembianze di un manichino vestito con abiti fuori moda,
oppure sarebbe stato come interrogare chi pare che abbia intuito qualcosa, ma
che infine non ha più voglia di parlarne.
Quindi, in ultima analisi, non c’erano che due possibili conclusioni: o
soccombere, oppure reagire con un estremo urlo, con l’ultima protesta volta a
sconfiggere la vita, ossia il suicidio.
Così scelsi la seconda possibilità.
Mi preparai un cappio con la stessa attenta e determinata accortezza di chi
compie qualcosa di difficile, d’unico, qualcosa per emergere, per spuntarla, per
lasciare un segno tangibile di sé, un messaggio dettato purtroppo in ritardo, in
un momento storico e cronologico della propria vita ove ogni altro modo di
essere, di esistere, di divenire, di apparire sarebbero sembrati, con molta
probabilità, eccentrici, negativamente originali, incomprensibili.
Sulle prime avvertii un acuto dolore fisico, tale da farmi forse pentire per quanto
stavo facendo, ma resistetti e di colpo il mio “io” scese da quel corpo appeso e
lo guardai come se esso stesse a simboleggiare un passato qualsiasi e nello
stesso tempo un’ultima risposta possibile ad una successione di giorni senza
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via d’uscita, che però finalmente avevano trovato un’autonoma espressione
postuma.
15/5 – Tardo pomeriggio –
In quel preciso istante, un colpo di vento spalancò la finestra del salotto dove
Claudia stava gironzolando nervosamente.
La donna si affacciò al balcone, guardò la luna, pensò a Mario e si sentì
pervasa da un’arcana malinconica serenità.
(SILVIO)
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IN PUNTA DI
PIEDI
Era notte fonda quando un rumore insolito, lieve, mi svegliò di soprassalto. Accesi la
minuscola abat-jour posta sul comodino alla mia destra e con stupore mi resi conto che
nella mia stanza c'erano due signori intabarrati che, con una lanterna in mano, in punta
di piedi si stavano avvicinando sottobraccio al mio letto e, senza dire una parola, si
limitavano a scrutarmi.
Non ero spaventato, ma sorpreso e, mentre cercavo di assumere un'espressione naturale,
disinvolta, chiesi loro il motivo della visita. Non mi risposero, ma uno dei due con la
lampada illuminò uno scaffale della libreria dove, tutto impolverato e seminascosto,
c'era un modellino di capanna che tanti anni fa aveva fatto parte del consueto presepe
che ogni Natale preparavo insieme a mia madre.
D'improvviso un'angosciosa malinconia, un’indicibile ansia strinsero il mio cuore. La
casetta di legno e cartone mi ricordò il mio solito dolore, la puntuale paura che provavo
nell'imminenza del Natale. Timore e malessere che immancabilmente mi assalivano
perché in quei giorni ero ossessionato dal pensiero che il Natale sarebbe passato troppo
presto e mi avrebbe lasciato vuoto, demotivato, triste.
Mi ritrovai il lume puntato sul volto, quindi uno dei due personaggi illuminò lo specchio
dell'armadio ed io vi vidi riflessa Ornella, il mio grande amore di quand'ero studente. Le
sue lentiggini, i suoi capelli rossi mi rinverdirono tutta la gelosia di quei tempi. Mi sentii
un nodo in gola e la bocca divenne pastosa quando il mio sguardo cercò invano i suoi
occhi che, come al solito, non mi intrecciavano perché erano distratti da quelli di un
altro. Già, perché Ornella era sempre innamorata di un “altro".
I miei due ospiti tesero in avanti il braccio con cui tenevano la lanterna, come se
volessero indicarmi un qualcosa di molto lontano, remoto. Ed ecco una scuola, dei
bambini con il grembiulino nero, il colletto bianco e il fiocco azzurro. Era la mia prima
elementare e subito avvertii quel timore che mi paralizzava quando tutto mi sembrava
così difficile, così complicato, tant'è che disperato, come lo può essere un bambino,
concludevo che non gliel'avrei mai fatta…
Scrollai il capo in segno di diniego e mi scappò un "basta!"
I due si misero ai piedi del letto e sorrisero ironicamente, poi uno esordì:
- Allora, Lorenzo, davvero eri felice quando aspettavi con ansia il Natale? - E la prima elementare - incalzò l'altro - quanta felicità, quanta ingenuità, quanta
spensieratezza… ! Nessun cruccio, eh? - Ma… ma… - balbettai
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-
Lo sai che spesso, se non ogni giorno - m'interruppero - con rimpianto ripeti a te
stesso o a chi ti è accanto, che solo quando eri bambino o durante i giorni di Natale
di tanti anni fa oppure negli anni del liceo, eri felice? - Ma… - Dalla reazione che hai avuto nel vedere le tre scenette di poco fa, non si direbbe. E
allora? - Allora? - Cerca la felicità nella vita che ora stai vivendo e non ingannare te stesso con quelle
false felicità dei tempi passati. Non sei mai stato felice proprio perché hai sempre
avuto paura di affrontare il presente, in quanto temevi che ti deludesse, ed hai
sbagliato. Vivi la bellezza del quotidiano. Va', perché di sicuro ti sta ancora
aspettando. Non perdere altro tempo. E come i due visitatori notturni smisero di parlare, se ne andarono, sparirono.
Ho fatto tesoro dei loro consigli, ma non voglio indugiare ad illustrarne l'esito,
diversamente un domani potrei cadere vittima del mio antico errore…
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TRA IL DIRE, IL
VEDERE E IL
FARE…
Il professor Nebrasca, dopo lunghi anni di studi, di sperimentazioni e di laboriose
ricerche, era approdato infine a qualcosa di concreto, ossia la macchina, da lui
progettata e costruita, finalmente funzionava.
In verità, per il momento, lo faceva in modo imperfetto in quanto mancavano ancora
diverse cose che il professore riteneva indispensabili per raggiungere il risultato
desiderato, tuttavia in più di un'occasione ebbe modo di dichiararsi pressoché
soddisfatto del lavoro fin qui svolto insieme alla sua qualificata equipe di tecnici e
scienziati.
La sua invenzione, che denominò FF.A.TT. 2000 in concomitanza del nuovo millennio,
mentre il significato della sigla restò un mistero, trasformava, attraverso un complicato
sistema di elementi elettronici il cui segreto il buon professore si portò nella tomba, le
parole in immagini. Cioè, per esempio, due persone discorrevano tra di loro, che so, del
mare, ed ecco che sul monitor dell'apparecchio si visualizzavano le onde, la spiaggia, gli
ombrelloni eccetera eccetera. Insomma, tutto quanto Tizio diceva, da solo o con altri,
parlando ad un microfono sofisticatissimo ed esposto ai raggi di una luce speciale,
prendeva forma sul video della macchina.
Un bel giorno il professore, cedendo alle insistenze dei suoi collaboratori, convocò una
conferenza stampa per informare l'opinione pubblica della sua straordinaria invenzione.
I giornalisti giunsero numerosi al laboratorio e ordinatamente presero posto intorno a
Nebrasca che, da dietro una scrivania, si dispose a rispondere alle loro domande.
Tra i vari interventi, si distinse quello del rappresentante di un'emittente privata che gli
chiese, fra l'altro, a quale prezzo avrebbe immesso nel mercato la FF.AA.TT. 2000. Al
che lo scienziato gli diede una risposta piuttosto risentita che stava a significare, in
poche parole, che la macchina non era stata costruita con finalità di lucro. Il direttore del
quotidiano più diffuso del Paese, poi, volle sapere a che cosa, alla fin fine, servisse un
simile congegno. La domanda colse il professore impreparato e sulle prime tentennò a
rispondere quindi dichiarò, stupendo la platea, che l'attuale risultato rappresentava solo
una fase intermedia di un certo progetto che aveva obiettivi ben definiti. Quali fossero,
però, non ci fu verso di farglielo dire anche se gli venne richiesto tante volte, quasi
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ossessivamente sicché Nebrasca, dopo aver a lungo cercato di glissare sull'argomento, si
innervosì e finì per congedare frettolosamente i presenti.
Una volta che restò solo, andò nel suo laboratorio e si mise a lavorare attorno alla
FF.AA. TT. 2000. "D'accordo - pensò - Tizio e Caio, ovvero solo Tizio o solamente
Caio, con l'aiuto della FF.AA.TT. 2OOO rivivono la loro ultima settimana bianca non
solo parlandone ma addirittura visualizzandola, ma io sono vicino a rendere concreta e
tangibile l'immagine, cioè quanto verrà detto prima apparirà sul video quindi,
invertendo questo e quell'altro nonché amplificando qui e potenziando là, diverrà realtà
e in tal modo le parole si trasformeranno in fatti."
Il professore lavorò tutta la notte e al mattino, stremato dalla fatica, s'apprestò a
sperimentare la macchina così perfezionata.
Leggermente emozionato si fece allora investire dalla "luce speciale" e al microfono
disse: - Io sono un filantropo e darò un miliardo di lire in beneficenza. Immediatamente sul monitor vide se stesso che apriva la cassaforte, che era celata dietro
un quadro, per prelevare tutte le banconote che vi erano e… bum! Con un botto sparì
l'immagine ed apparve la scritta: "Operazione impossibile. Ripetere, per cortesia!" Il
professore sgranò gli occhi e gridò : - Accidenti, ci sono! In effetti l'unico limite
consiste nel fatto che, sfortunatamente, non possiedo mille milioni. - Immediatamente
tornò al microfono e ripeté la frase di prima modificandola solo nel quantum. - Io sono
un filantropo e darò centomila lire in beneficenza. - Nuovamente riapparì la sua
immagine sul video, ma questa volta si vide mentre si metteva una mano nella tasca
posteriore dei pantaloni, da lì estraeva il suo portafoglio e… biiip! Sbalordito si ritrovò
di fronte al monitor, che si illuminava con la scritta "O.K!", col denaro in una mano e il
borsellino nell'altra poi, obbedendo ad un impulso irrefrenabile, ripose la banconota in
una busta, la richiuse, su di essa scrisse l'indirizzo di un orfanotrofio, appiccicò un
francobollo e la mise nella posta in partenza.
Completamente cosciente di quanto gli era accaduto, ripeté l'esperimento altre due volte
mutando il proposito e puntualmente tutto funzionò.
Convenne con se stesso che non ne avrebbe parlato con nessuno dei suoi collaboratori,
perché temeva che non avrebbero colto l'importanza della FF.AA.TT. 2000, ma decise
che sarebbe andato subito al palazzo del governo in quanto pensava che i detentori del
potere fossero i naturali destinatari della sua invenzione e, detto fatto, si ritrovò a
quattr'occhi col primo ministro.
Questi l'ascoltò attentamente, poi lo fece accomodare in un salotto ed ordinò a due
commessi di non perderlo di vista, Quindi convocò i suoi consiglieri ai quali,
concitatamente, espose quanto gli aveva appena riferito l'illustre professor Nebrasca.
All'unanimità decisero di arrestare lo scienziato ed inviarono immediatamente quattro
loro scagnozzi al laboratorio ove era custodita la FF.AA.TT. 2000 perché, di nascosto,
distruggessero ogni cosa. E così fecero.
Del professore, sulle prime, non si seppe più nulla, poi si venne a sapere che, dal
dispiacere, era morto di crepacuore e che in quello stesso giorno i suoi aguzzini
brindarono allo scampato pericolo.
Costoro festeggiarono la morte dell'uomo che aveva osato costruire, e in tal modo a loro
avviso aveva messo in serio pericolo la sicurezza del Paese, un qualcosa capace di
tradurre in pratica le parole le quali, in ossequio alla ragion di Stato, sarebbero dovute
restare per sempre nell'ambito delle chiacchiere.
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MA IL MIO
MISTERO…
Felice abbozzò un sorriso di soddisfazione e di compiacimento quando si rese conto che
dall'altoparlante dell'autobus che, come ogni giorno, lo stava riportando a casa dal
lavoro, uscivano le note di una melodia a lui molto conosciuta.
Ora non aveva più dubbi.
Se prima, tra uno scossone ed una frenata del pullman, gli era parso di udire un vago
"… tu pure principessa…", adesso aveva colto distintamente e nitidamente l'arcinoto
"ma il mio mistero…"
- Bene - pensò - ora me la gusto tutta, Si accomodò meglio sul sedile, accavallò le gambe e cercò di concentrarsi al massimo
per non farsi sfuggire nessun passaggio della romanza.
In verità era un'impresa abbastanza difficile, atteso il posto in cui si trovava, tuttavia,
quasi immediatamente, riuscì ad estraniarsi dall'ambiente fino ad ignorare sia il traffico
stradale che tutti i rumori a ciò legati.
- Certo - osservò tra sé e sé - non mi soddisfa proprio quel "… ed il mio bacio…",
assolutamente no. Il tenore indugia troppo sui bassi, sembra un baritono… ecco: non
è un tenore, è un baritono. Ma… andiamo avanti! Mmm… - continuò - però nel
"dilegua notte" se l'è cavata bene, peccato… peccato che gli ottoni tendano a
sovrastarlo e che quindi "tramontate stelle" non si sia quasi sentito… Strano che il
direttore non se ne sia accorto. Beh, ora voglio sentire i "vincerò". - Felice socchiuse
gli occhi e, completamente assorto, ascoltò i fatidici "vincerò". Quindi fece una
smorfia e mentalmente continuò nelle sue riflessioni.
- A parer mio il cantante sbaglia il tempo, ha troppa fretta di prorompere nel trionfo
del terzo "vincerò". Troppa foga, troppa precipitazione e che diamine! D'accordo
che bisogna essere espressivi, però anche i primi due "vincerò" hanno un significato,
sono un preludio… E poi, adesso… ma senti questa orchestra, sta suonando "ma il
mio mistero" come se fosse una nenia, un refrain qualsiasi... No, non ci siamo. A
dire il vero, però, Puccini è sempre lo stesso: arie melodiche, orecchiabili al
massimo, ariette scontate… insomma c'è poca ispirazione… è musica popolare… E mentre Felice si stava lasciando andare a questa sorta di critica conclusiva e negativa,
notò che una signora, piuttosto belloccia, stava guardando con un'espressione per metà
ironica e per metà pietosa, il buco presente sulla suola della sua scarpa sinistra che egli,
dopo avere incrociato ed accavallato le gambe, involontariamente stava mostrando in
modo più che palese.
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L'uomo se ne accorse ed immediatamente si ricompose. La donna distolse lo sguardo
dalla scarpa senza mutare, però, l'espressione di prima.
Felice arrossì un poco, quindi rimuginò: - E questa? Ma che vuole? Alla sua età non si
vergogna di mettersi la minigonna? Ma! Non c'è più né creanza, né buon gusto. E poi
chissà… già, chissà che "lavoro" fa per conciarsi in questo modo… Sì, di sicuro "lo fa",
diversamente perché dovrebbe vestire così? Sì, sì lo è. Ma sì… però caro Felice - si
canzonò - sarà possibile che tu non perda mai l'occasione per esprimere giudizi? Prima
te la sei presa col tenore, poi coll'orchestra, quindi addirittura con Puccini ed infine con
questa donna… E' proprio vero - convenne con se stesso - ed è un gran brutto vizio. Ma
d'altronde, se non giudico mi pare di non esserci e mi sembra pure di non contare
niente… Se non criticassi orchestrali, cantante e Puccini, come farei a sentirmi
importante in una realtà tutta mia, vera solo dentro di me, ma che mi permette di
affrancarmi dalla monotonia della vita che sto conducendo, da questo lavoro che non mi
appaga, dal mondo che non si accorge di me. Così pure, come potrei difendermi da
questa donna che mi compatisce, se non la "etichettassi" con un qualcosa che forse non
le appartiene, ma che comunque mi fa sentire superiore? In fin dei conti anche lei mi sta
giudicando e lo fa perché probabilmente pure lei ha bisogno di affermarsi in qualche
modo… Già, forse è così, cioè è andata proprio così… Ma allora, se di punto in bianco
tutti insieme infine la smettessimo di giudicarci, ossia se sul lavoro trovassi un po'
d'amicizia, di considerazione, di collaborazione; se il mondo, poi, si accorgesse di me,
di quel che valgo, anche se è poco, forse non avrei più bisogno di criticare per sentirmi
vivo, per illudermi di essere anch'io qualcuno e questa signora si sarebbe risparmiata la
qualifica di… Una brusca frenata interruppe le serene, sagge e distese considerazioni di Felice, anzi lo
fece sobbalzare e, dalla sorpresa, urtò il capo contro un finestrino.
- Accidenti! - esclamò dentro di sé - Ma a questo autista chi ha dato la patente? Non è
il suo mestiere, non è capace, Di sicuro, per essere in questo posto, qualcuno deve
averlo raccomandato. Certo, è un "raccomandato", avrà anche preso la patente dietro
la spinta di una conoscenza, di una raccomandazione… E avanti, Felice…
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IL CIRCO
IMPAZZITO
Un lampo sinistro balenò negli occhi di Fritz quando la sua compagna Lola, alla fine
della terza giravolta nel vuoto, gli tese le mani per concludere il consueto numero al
trapezio con cui, oramai da tanto tempo, tutti e due si esibivano al circo "Edmondo".
Ma Fritz all'ultimo momento non offrì le sue forti braccia a Lola e questa, con un urlo
agghiacciante, precipitò nel vuoto.
Il pubblico si lasciò andare ad un corale ed aspirato "oooh".
Un proiettore illuminò la grande gabbia dove il domatore, con un pungolo aguzzo,
stuzzicava un vecchio leone stanco di ripetere le solite cose tant'è che l'animale,
ignorando la parte, ghermì il povero uomo, che per l'occasione era vestito come Tarzan,
e fece scempio del suo corpo.
I presenti, seduti sulle loro poltrone, tutti insieme chiusero gli occhi e in modo isterico
pronunciarono quel suono imprecisato con cui solitamente si manifesta di avvertire un
improvviso freddo pungente.
Le luci fecero risaltare la pista sulla destra perché era venuto il momento dei due clown,
un nano ed uno spilungone, che rumorosamente attrassero l'attenzione della platea.
Il più alto ripetutamente menava delle poderose martellate, naturalmente con un attrezzo
finto, all'altro che si difendeva come poteva, mimando i suoi sforzi con smorfie e
schiamazzi. Improvvisamente, però, quest'ultimo estrasse la pistola ad acqua con cui
annaffiava il partner e dalla canna, anziché uscire uno spruzzo d'acqua, partì un
micidiale proiettile che stecchì l'anima lunga.
Gli spettatori si lasciarono andare a vivaci e ripetuti "ohé", intercalati con aggettivi
come farabutto, mascalzone, delinquente e via di seguito.
Un fascio di luce bianca inquadrò un uomo vestito con una sfarzosa divisa da ufficiale
da operetta.
- Sono il direttore - esordì - Buona sera, signore e signori Il pubblico si ammutolì.
- Quanto avete appena visto, è il circo impazzito… - Soccorriamo quella povera donna - lo interruppe una voce tra la gente.
- Sì', sì - risposero altri indirizzando lo sguardo sul punto dove, presumibilmente, era
rovinata la sventurata Lola.
- E quel povero diavolo del domatore? - intervenne un signore cogli occhiali.
- Già - si unirono quelli che gli erano seduti dietro.
- Vediamo se possiamo fare ancora qualcosa. Qualcuno cerchi anche il leone. - Insisté
il signore.
53
-
Disarmiamo il pagliaccio! - Urlarono dalle ultime fila della platea.
Calma, calma… signori. - Intervenne il direttore - Non allarmatevi più di tanto, vi
prego! - Eeeh? - si udì
- Sì. Non allarmatevi, non agitatevi ho detto. Avete solo assistito ad una fiction.
Chiaro? - Con un ampio gesto del braccio destro indicò la scena - Ed ecco a voi i
favolosi "Fritz & Lola"!!! - ed un fascio di luce evidenziò gli smaglianti sorrisi dei
due trapezisti che, dall'apice del tendone, salutavano felici il pubblico sorpreso.
- Signori… il re della jungla… Andalù…!!! - al che ricomparve il domatore in
costume adamitico che, sottobraccio ad un tizio che indossava una pelle di leone, si
inchinò di fronte alla platea.
- Un applauso per i fantastici "Poldo & Poldino" - continuò lo spumeggiante direttore,
mentre i due pagliacci di prima, entrambi in buona salute, ridendo e spruzzandosi
dell'acqua, si inseguivano lungo il perimetro della pista.
Quindi il direttore, a differenza degli artisti, non abbandonò la scena e con tono
confidenziale si rivolse ai presenti:
- Avete appena visto il "circo impazzito" che altro non è che uno scorcio della vita,
dove però manca l'entusiasmo e la partecipazione che avete manifestati questa sera
in modo così toccante, così tempestivo, puntuale… Tutti i giorni assistete…
assistiamo a piccoli e a grandi drammi, però questi passano inosservati, cioè
nessuno, a differenza di come avete fatto poc'anzi, s'interessa per la sorte della
trapezista, del domatore, del clown. Nessuno si chiede che cosa si possa fare di
fronte a certi… a certi "accidenti" della vita. Vero? - Mmm? - si sentì dal pubblico
- E sapete perché? - Mmm? - ripeterono i presenti
- Perché non stiamo mai insieme. Questa sera vuoi per lo spettacolo, vuoi per i fatti in
sé e per sé, vuoi per… per chissà che cos'altro, eravamo tutti uniti, legati, senza
conoscerci ci parlavamo, ci stimolavamo, eravamo solidali perché eravamo
"insieme". Ed allora perché non ripetiamo questa esperienza? O meglio, perché non
troviamo il sistema di stare più spesso "assieme"? In verità, gli spettatori non capirono molto bene quanto quello strano direttore aveva
appena detto loro tuttavia, nel lasciare il tendone, alcuni si riunirono in gruppetti per
commentare i fatti, le parole di poco prima e, salutandosi, si riproposero che ne
avrebbero ancora parlato il giorno dopo.
Il fantasioso direttore giudicò questo fatto già un buon successo ed allora, insieme ai
suoi artisti, decise di smontare le tende, di spostare il circo.
In cuor suo sapeva che altre piazze lo stavano aspettando, che altri "spettatori" avevano
bisogno di lui.
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IL GRAN
FINALE
Il pranzo stava volgendo al termine.
Il titolare del ristorante, mentre illustrava ai commensali di una vivace tavolata le
caratteristiche, i pregi e le qualità dei formaggi esposti sul carrello, non perdeva
occasione per ripetere loro se si fossero trovati bene, se tutto fosse stato servito a
puntino e così di seguito. Tuttavia non si accorgeva che, nonostante la sua cortese
premura in verità un po' pedante, l'unanime e pigro coro di "sì" che riceveva come
risposta, in realtà mal celava una gran voglia di tagliare corto.
In effetti il gruppo di persone seduto a quel tavolo desiderava restare un po' in disparte,
nell'intimità della compagnia perché quel pranzo non era una banale colazione di lavoro,
e neanche un incontro casuale. Assolutamente no. I signori che stavano finendo di
mangiare erano vecchi amici, si conoscevano tutti sin da bambini e poi, a causa dei
soliti accidenti della vita, taluni di loro si erano persi di vista e così Benedetto, che
sedeva a capo tavola, spinto dalla nostalgia o da chissà che cosa, aveva ideato ed
organizzato questa bella rimpatriata incontrando, peraltro, la corale e felice
partecipazione di tutti quelli cui aveva rivolto l'invito.
Benedetto, però, pareva distratto, distaccato, quasi non interessato ai racconti dei suoi
compagni e, improvvisamente, disse che doveva andarsene.
- Ma come? - gli obiettò Mario, il suo più caro amico - Hai voluto a tutti i costi questo
pranzo ed ora che siamo sul più bello, ci lasci… Benedetto non gli rispose, si strinse nelle spalle e con un'espressione indefinibile, forse
allegra, forse malinconica, borbottò: - Adesso è giusto, è meglio che io vada. - Cosa? - gli urlò dietro Mario, ma Benedetto non gli badò e non si curò neppure degli
stupiti e concitati richiami di tutti gli altri amici.
Quando fu per strada, si ricordò che doveva passare dal geometra Carlo perché lo
aggiornasse sull'andamento di un certo progetto a cui era dietro da diversi anni.
Salì le scale del palazzo dove era ubicato lo studio del professionista, suonò alla porta e
il geometra in persona venne ad aprirgli.
- Proprio lei! E' tutta la mattina che la cerco… - Perché? - Ah! Ma prego, si accomodi… I due entrarono in una stanzetta dove il plastico di un complesso di villette immerse nel
verde, faceva bella mostra di sé. Il geometra Carlo, indicando a Benedetto il modellino,
prese la parola con toni entusiastici - Lo riconosce? -
55
-
Certo. E' il mio… il nostro progetto… Bravo! Ebbene è stato approvato! Sì? Certo. Tutto merito suo se… Ma no, lasci stare. Sono tanti anni che ci sto dietro ed ora finalmente ho ottenuto
qualcosa. - Qualcosa? Ma è fatta. Ora non resta che iniziare i lavori. - Già. Sì, i lavori… - E allora? Che c'è? - Ma… bene. La concessione c'è, vero? - Sì - Quindi il più è stato fatto. Ora prosegua da solo perché… - Ma come? E tutto il guadagno? - Faccia lei, faccia lei. Ora è giusto, è meglio che io vada. Il geometra Carlo restò impietrito, senza parole nel vedere che Benedetto, scrollando le
spalle, apriva la porta e spariva giù per le scale.
Si lasciò cadere su una poltrona e da quella posizione, mentre contemplava il plastico,
inavvertitamente continuò a ripetere a lungo "ma… ma… ma…"
A casa, Benedetto era atteso con impazienza da sua moglie e dai suoi due figli. Tutti e
tre erano ansiosi di comunicargli che finalmente erano arrivati i documenti per quel
famoso viaggio che Benedetto, da tanto tempo, aveva progettato in tutti i dettagli con
sua moglie Clara.
Non era un viaggio qualsiasi, ma era un "giro" intorno al mondo che l'uomo voleva
compiere con la sua adorata sposa e i loro bei figlioli.
Era un'idea che aveva fin da quando era fidanzato con Clara, la quale ancora oggi
sorridendo ricordava che, durante le loro romantiche passeggiate, immancabilmente
Benedetto le mostrava i suoi appunti illustranti i vari itinerari e i relativi depliant che
ritraevano le diverse località, e lei era felice di assecondarlo.
L'uomo entrò in casa e con un bel sorriso salutò la sua famiglia.
Clara per prima si fece avanti e gli comunicò la splendida notizia.
I bambini iniziarono a fare salti di gioia intorno a loro padre e questi prese ad esaminare
attentamente tutti gli incartamenti.
- E' tutto a posto - esordì - non ci resta che fissare la data, però… - Però? - intervenne Clara
- Però sarebbe meglio che ci andassi solo tu coi ragazzi. - Eh? Ma sei impazzito? - esclamò la donna
- Sì, è così - continuò il marito - ora… è giusto, è meglio che io vada… - Ma che cosa stai dicendo? - Clara lo interruppe allarmata - Ma dove devi andare? Benedetto guardò sia sua moglie che non riusciva a nascondere un nervoso disappunto,
sia i bambini che si erano ammutoliti assumendo un'espressione molto triste, quasi
disperata. Allora andò in camera da letto e da lì chiamò Clara. La donna con un cenno
della mano tranquillizzò i ragazzi, quindi raggiunse il marito.
- Mi vuoi spiegare che cosa ti sta accadendo? - lo aggredì
- Nulla. Proprio nulla. - rispose Benedetto con tutta calma.
- E allora? - Ebbene, penso solo che ora sia giusto, che sia meglio che io vada… -
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-
Ma dove? Ascoltami bene. Credo che non sia bello che io viva alcune esperienze sino in
fondo, cioè sino a quando si concluderanno nel bene o nel male. No. Sarebbe come
se volessi anticipare l'eterno, e ti spiego. Quando me ne dovrò "andare" davvero,
sicuramente anche in quel momento starò facendo qualcosa e certamente dopo,
quando sarò giocoforza separato dagli affanni terreni, saprò con certezza come "quel
qualcosa" sarà andato a finire. Ora, se io venissi con voi, rischierei di farmi un'idea
probabilmente sbagliata di certi esiti della vita, ed infine della vita medesima. No, è
meglio che io attenda perché così, poi, potrò magari addentrarmi in altre situazioni.
E così, tra un'esperienza e l'altra ma, bada bene, mai compiutamente vissute fino in
fondo, arriverà il "gran finale", che di sicuro sarà più esauriente, più completo e,
speriamo, più appagante di una rimpatriata o di un grande e gratificante progetto
edilizio tradotto in pratica o di una crociera ovvero di qualcos'altro ancora.Clara fissò suo marito con un'espressione più che interrogativa, che voleva significargli
incredulità e parimenti era un'accorata richiesta di spiegazioni, tuttavia la donna non
riuscì a spiccicare una parola.
Benedetto colse l'occasione di quell'attimo di smarrimento di sua moglie per scendere
sotto casa dove c'era un'agenzia di viaggi, e lì acquistò tre biglietti per il previsto giro
intorno al mondo.
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IL ROVELLO
Ormai albeggiava e Achille era ancora sveglio. Aveva trascorso un'intera notte a
pensare e a ripensare alla sua situazione complicata, ingarbugliata. Insomma stava
attraversando un momento denso di problemi che lo angosciavano e gli sembrava che
tutte le difficoltà si fossero coalizzate fino a divenire per lui un unico soverchio assillo.
In casa era rimasto da solo. Sua moglie e i due bambini erano già partiti per le vacanze,
lui li avrebbe raggiunti tra una quindicina di giorni.
E questo pensiero, ossia quello di dover lasciare il lavoro per la pausa feriale, con tutti
gli impegni che aveva ancora in sospeso, compresa la rilevante esposizione in banca,
per Achille era una preoccupazione di non poco conto. Se poi a ciò aggiungeva e il
mutuo della casa e la scuola per i ragazzi e una causa in tribunale contro certi fornitori
poco onesti e le scadenze di fine mese e quell'assegno postdatato per una cifra notevole
dato in garanzia, che sicuramente avrebbe dovuto rinnovare almeno in parte, e le analisi
che il medico gli aveva consigliato di fare ma che, non ne capiva il motivo, l'esito non
era ancora arrivato… basta!
Achille si ritrovò seduto sul letto tutto sudato e si sorprese a parlottare tra sé e sé con
un'espressione del volto, che vide riflessa sullo specchio dell'armadio, poco
raccomandabile. Si alzò e gli sfuggì un'imprecazione per un acuto dolore alla schiena
che lo colse non appena fu in posizione eretta. Strascicando i piedi si diresse in salotto e
già s'intravedevano i primi raggi di sole, quando Achille si affacciò alla finestra che
dava sul corso principale, una via che di giorno era così affollata, così rumorosa mentre
ora era immersa in un silenzio perfetto. Si sentivano solo gli impercettibili rumori di
Piero il netturbino, che da tantissimi anni, se non da sempre, a quell'ora spazzava la
strada.
Achille si grattò il capo arruffandosi i capelli, e nel frattempo si ripeteva che,
maledizione, non ne poteva più, che i pensieri lo stavano tormentando, che questo
rovello… Come pronunciò la parola "rovello", con le dita afferrò una ciocca di capelli
ed iniziò a tirarla, come se ad un tratto avesse realizzato che quel punto del capo fosse la
sede del suo tormento e con rabbia si tirava le chiome maledicendo questo e quello.
Tutto a un tratto, smise di torturarsi il cuoio capelluto in quanto sentì in strada un
rumore sordo che lo distrasse dai suoi pensieracci e nel contempo quel tonfo richiamò
l'attenzione di Piero, il quale d'istinto guardò verso le finestre prospicienti la via, ma non
si accorse dell’uomo affacciato con le mani tra i capelli.
Si avvicinò al punto da dove gli era parso che fosse venuto quel rumore cupo e brontolò
contro la gente che buttava tutto dalla finestra e che lo obbligava così a spazzare di
nuovo dove già l'aveva fatto. E in effetti raccattò ancora qualcosa che Achille, spinto
dalla curiosità, invano si sforzò di capire di che si trattasse
Dopodiché si allontanò dalla finestra, gettò lo sguardo sul netturbino che riponeva nel
bidone trasportato dal suo triciclo quanto aveva appena raccolto, e si sedette su una
poltrona. Si rilassò e subito sentì che i muscoli del suo viso si stavano distendendo e
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così pure quelli delle braccia, dell'addome, delle gambe. Il dolore alla schiena svanì ed
Achille assunse un'espressione addirittura gioconda.
Serenamente sorpreso, tornò alla finestra e sorridendo seguì Piero che lentamente stava
andando via in sella al suo mezzo. Cominciò a ridere senza capirne la ragione,
comunque se la sentiva di farlo e più ci pensava e più se la rideva.
Fischiettando andò in bagno per radersi e quando si specchiò, s'accorse che i suoi occhi
erano addirittura gioiosi e che le livide borse che da diversi giorni lo segnavano, erano
scomparse. Achille era felice, provò a pensare alla sua notte in bianco, ma non riuscì a
metterla a fuoco benché si sforzasse di ricordarla, ogni tentativo gli andò a vuoto. Ora
desiderava solamente fare colazione, fumare una sigaretta, leggere un quotidiano, ma no
quello forse no, era stanco di prendere atto delle solite brutte notizie. Quindi sarebbe
andato in ufficio, - beh, tutto sommato - pensò - per lavorare c'è sempre tempo. Potrò
farlo anche domani, o dopodomani… - Bene, allora si propose di fare una capatina in
banca, ma abbandonò subito l'idea, non aveva voglia di sentire tutte quelle chiacchiere
del direttore che avevano il sapore di una ramanzina. Meglio sarebbe stato andare, una
volta per tutte, al laboratorio di analisi a ritirare quei benedetti esami. Ma, in verità, una
simile prospettiva non lo trovò proprio entusiasta. - C'è sempre molta gente - convenne
con se stesso - non me la sento di stare laggiù in coda per ore… domani… domani…
Quasi quasi, prendo l'auto e raggiungo la mia famiglia al mare… Ma chi me lo fa fare? obiettò - Come arriverò dai miei, sono sicuro che subito verrò sottoposto ad una raffica
di domande e, come se non bastasse, di certo ci saranno dei problemi: mia moglie che
vuole questo, ai bambini è accaduto quello… No no, me ne resterò in città. Passò il rasoio sotto l'acqua, lo ripose e andò sotto la doccia.
Forse sarà stata l'acqua, in verità un po' fredda, ma Achille di punto in bianco, con una
punta di sorpresa, si rese conto, mentre si massaggiava i capelli con lo shampoo, che
assurdamente non si preoccupava più di alcunché. Ma che cosa gli stava accadendo?
Il sapone gli irritò gli occhi, quindi dovette risciacquarseli in tutta fretta e in quel
momento si ricordò di quel rumore sordo che aveva udito poco fa, quando si stava
disperando alla finestra mentre Piero spazzava giù nel corso. Ora si capacitava che quel
tonfo altro non era stato che l'urto che il suo rovello aveva prodotto sull’asfalto quando
inavvertitamente se l'era strappato dai capelli ed era finito in strada.
- Accidenti! - esclamò - D'accordo avere meno preoccupazioni, ma non averne per
niente, è un guaio. Ora rischio di infischiarmene di tutto. No no, così non va, devo
raggiungere Piero, perché il mio rovello è nel suo bidone. In un lampo si vestì e si precipitò all'inseguimento di Piero, il quale stava pedalando
tanto lentamente quanto svogliatamente, sicché col suo triciclo procedeva più piano di
un pedone.
- Piero, Piero - gli urlò dietro Achille dopo una breve corsa - Fermati! Ti prego,
fermati!
Il netturbino si girò e quando riconobbe chi lo stava chiamando, s'arrestò, quindi gli
andò incontro a piedi: - Mi dica, Achille - gli disse con un tono che palesava sorpresa e
curiosità
- Hai ancora tutto nel bidone? - gli rispose Achille
- Come? - ribatté Piero
- Sì… ecco…non importa… fammi vedere! - E con piglio autoritario si
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avvicinò al triciclo. Senza attendere alcun consenso, scoperchiò la pattumiera. Incurante
dei rifiuti che in essa erano contenuti, in modo incauto e precipitoso iniziò a rovistare
dentro, mentre Piero lo guardava colpito, meravigliato e di tanto in tanto timidamente si
limitava a dire: - Ha perso qualcosa? - Eccolo! - esultò Achille e Piero gli si avvicinò per vedere che cosa avesse infine
trovato. L'uomo a fatica tirò fuori un sacchetto piuttosto pesante, trasparente,
informe che lo spazzino riconobbe per essere l'ultima immondizia che aveva
raccolto. Achille la strinse tra le sue mani, quindi dall'involucro si sollevò un filo di
fumo che fece sparire il pacchetto medesimo, nello stesso tempo l'uomo fu percorso
da un breve ma violento tremito che gli fece esclamare: - Ah! Sì… ecco fatto! Piero indietreggiò sino a poggiarsi con la schiena ad un'auto parcheggiata e cogli occhi
sgranati non gli riuscì più di proferire alcuna parola. Achille si accorse del suo stato di
shock e cercò di rassicurarlo: - Non è successo nulla, Piero! Proprio nulla! Stai
tranquillo! - Poi girò i tacchi e s'incamminò verso casa, lasciando il povero operatore
ecologico pietrificato e con le spalle appiccicate alla macchina.
- Questa sì che è vita! - si ripeteva intanto Achille strada facendo - Ora andrò a quei
due appuntamenti, concluderò l'affare e col guadagno pagherò il mutuo, una parte la
verserò in banca così rientrerò di un tot, tanto per far tacere per un po' quel
rompiscatole d'un direttore e col resto onorerò le mie scadenze di fine mese. Poi, se
tutto mi andrà bene, lascerò che Tizio versi quell'assegno, tanto lo coprirò. Già che
vado in banca, passerò prima dall'avvocato, perché quella causa la devo, la voglio
vincere… Non mi devo dimenticare di passare anche alla "Salus" così conoscerò
l'esito delle mie analisi… ma sì, tanto non c'è niente, non ho nulla, tutto è a posto!
Infine riabbraccerò Camilla e i miei figli. Muoio dalla voglia di stare con loro! Che
strana che è la vita, se non esistessero le contrarietà, i fastidi, gli affanni,
sicuramente non avrei mai avuto modo di assaporare il piacere che provo quando,
stanco di lottare, mi rifugio per un po' in un posto sicuro, magari in famiglia, per
trovare un po' di pace, di calore, di intimità. E che gusto particolare, che sapore
speciale assume quella pace, quella tranquillità che è bella perché è sempre diversa,
temporanea, breve ma capace di prepararmi per altre avventure belle o, chissà,
brutte e fitte di vicissitudini… Ma come si fa a pensare di vivere senza almeno un
rovello? -
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MILLE STELLE
Il circo "Mille stelle" non era certo famoso per i suoi impianti faraonici, né per
l’importanza del suo serraglio. Niente di tutto ciò. Comunque per la gente del posto
andava bene così.
Oramai era divenuto un'abitudine perché da tanti anni Doblone, direttore e proprietario
del circo, montava e smontava il tendone nelle piazze dei paesi della regione e, tutto
sommato, riscuoteva quasi sempre un discreto successo, ogni volta era più o meno il
"tutto esaurito".
La principale attrazione dello spettacolo erano i "four stern", i quattro trapezisti celebri
per il loro intrepido coraggio. Ma soprattutto chi attirava il pubblico era lei, Luana:
l'étoile dei "four stern". Una donna bellissima il cui corpo sembrava modellato per le
evoluzioni nell'etere ed il trapezio pareva il giusto complemento dei suoi movimenti
flessuosi.
Il gruppo, oltre che da lei, era formato da suo marito Ruggero e da un'altra coppia: Lola
e il suo consorte Gordon che, segretamente, era l'amante di Luana.
Il circo "Mille stelle" dava spettacolo tre volte alla settimana, ossia al sabato sera e alla
domenica con due esibizioni: la matinée per i bambini e la consueta rappresentazione
serale.
Il numero dei "four stern" era presentato da uno sketch tra due pagliacci ove il nano
Torsolo e Tirteo vestito da donna, si scambiavano dei sonori schiaffoni quindi Torsolo,
appiattito ancora di più da una poderosa ombrellata assestatagli sul capo dal suo partner,
abbandonava la scena puntando, immancabilmente, gli occhi sul numero dei trapezisti,
ma invero la particolarità che lui guardasse insistentemente l'esibizione al trapezio, non
era prevista dal copione. Tuttavia il fatto era divenuto una consuetudine ed il pubblico
ridacchiava e si lasciava andare a battutacce, a volte di pessimo gusto, nel vedere che il
nano quasi si perdeva mentre contemplava la bellissima Luana la quale, finito il
numero, si copriva con un mantello punteggiato di paillette ed andava a trovare Torsolo
nella sua minuscola roulotte.
Naturalmente questa circostanza, che si ripeteva da diverso tempo, provocava la
legittima gelosia di Ruggero nonché il rancore, che per ovvi motivi doveva restare
celato, dell'amante Gordon, mentre la di lui moglie Lola se la rideva e in tal modo
compensava l'invidia che provava per Luana e per la sua bravura e, soprattutto, per la
sua indubbia bellezza. E c'era anche Doblone che era roso da un insano tormento
perché, di tanto in tanto, l'étoile dei "four stern" concedeva i suoi favori pure a lui.
Ad ogni modo Luana trovava sempre le parole adatte per tranquillizzarli o meglio per
scacciare ogni sospetto sulla sua onestà, ma lo faceva, da civetta quale era, in modo
ambiguo, criptico sicché suo marito e i suoi amanti restavano sempre nel dubbio se
Luana se l'intendesse o meno col Torsolo, rovello che infine si vergognavano di
palesare, dato il curioso aspetto fisico di chi, secondo loro, insidiava l'amata.
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Comunque Luana non faticava più di tanto a chetare gli animi dei contendenti in quanto
era ben consapevole di essere la reale attrazione dei "four stern" e del circo "Mille
stelle" e in effetti, quando le solite discussioni rischiavano di degenerare, interveniva
Doblone in persona, che per inciso era anche lui parte lesa, per calmare i "bollenti
spiriti" e per porgere a nome di tutti le scuse alla bella artista.
Ciò nonostante una sera, Ruggero da una parte, Gordon dall'altra e Doblone addirittura
sul tetto della piccola roulotte del nano, ma ciascuno all'insaputa dell'altro, non
resistettero più ed andarono a spiare Torsolo e Luana nel loro posto appartato. E là
assistettero a questa scena.
La donna era accomodata su una poltrona e il nano le stava seduto sulle sue ginocchia
con le braccia conserte, e intrattenevano il seguente dialogo che, verosimilmente,
doveva essere sempre stato lo stesso.
Luana, accarezzandogli la nuca, con un sorriso dipinto sulla sua splendida bocca gli
diceva:
- Sai, questa sera ne ho vista una nuova. - Ancora? - replicava Torsolo con un'espressione eccitata e felice - Descrivimela, dai!
E' uguale alle altre? - Oh sì, più o meno, ma questa è molto più luminosa ed è più… più chiacchierona, Sai
che cosa mi ha detto? - No… - Salutami il Torsolo e poi… beh, mi vergogno un po'… - Coraggio, dimmelo! - Veglia su di lui, raccontagli di noi. E il nano, estasiato, dolcemente si aggiustava meglio sulle lunghe gambe di Luana e
compiaciuto le raccomandava:
- Ringraziala e dille che prima o poi farò la sua conoscenza di persona, vero Luana? - Sì, prima o poi, ma ora non ti preoccupare, finché ci sarò io, ti terrò costantemente
informato. - Grazie, grazie. Sei davvero buona. - Su, Torsolo, per me è un piacere. E' l'unica soddisfazione che mi dà il trapezio. - E già, dev'essere davvero bello essere alti come te, e per giunta librarsi nel vuoto,
nell'aria… - Sì, è vero. - Così tu, tra un volteggio e l'altro, quando arrivi all'apice del tendone, vedi da vicino
le stelle… - Sono meravigliose! Così luminose, bianche, candide, pulite… - E parli con loro e poi sei così gentile e generosa da venirmi a riferire quanto vi dite.
- Ma anche loro lo desiderano! - Ebbene, io non mi stancherò mai di ringraziarti, perché a loro hai parlato anche di
me. - E beh… - No, non aggiungere altro. Te ne sarò sempre riconoscente. - Su, Torsolo… non dire così, altrimenti mi commuovo… - Io sono così piccolo, così infelice e se non ci fossi tu a farmi da tramite con le stelle,
che senso avrebbe la mia vita? -
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-
Dai, non farti prendere dalla malinconia! Cerchiamo di restare sereni e parliamo di
loro, fino a sabato prossimo non avrò più modo di vederle da vicino.- Già, oggi è domenica… E i due continuarono a parlare, mentre gli occhi di Luana divenivano sempre più dolci.
La donna non cessava di accarezzare Torsolo il quale assumeva di volta in volta
un'espressione stupita, allegra, felice.
Felice di ascoltare quelle storie che Luana gli raccontava così convinta da persuadere
chiunque e non solo lui che negli occhi della trapezista vedeva solo le stelle e tanta
bontà.
I tre spioni contemporaneamente lasciarono il loro posto di osservazione e, con un certo
imbarazzo, si accorsero l'uno dell'altro. Ma non si dissero nulla e, come se si fossero
messi d'accordo, insieme puntarono i loro nasi verso il cielo.
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IN ARTICULO
MORTIS
Alcuni anni fa, partii per la Toscana col mio carissimo amico Bernardo perché, sia lui
che io, volevamo trascorrere insieme un'intera settimana di caccia nella riserva di un
nostro comune conoscente.
All'alba lasciammo Roma e, mentre io guidavo, Bernardo m'intratteneva con divertenti
storie di caccia, accompagnando i punti salienti dei suoi racconti con fastidiose quanto
sonore pacche sulla mia gamba destra le quali, invero, mi innervosivano un po’ tuttavia
abbozzavo, perché temevo di turbare l'atmosfera festosa e l'entusiasmo del mio euforico
amico.
Erano trascorse circa due ore dacché avevamo lasciato la città, quando il nostro vivace
dialogo fu interrotto dal trillo del telefonino di Bernardo e questi, con un moto di
impazienza, si mise all'apparecchio.
- Pronto! - disse con un tono della voce quasi seccato - Come?… Ma chi
è?…Quando? - e la sua inflessione mutò dapprima in sorpresa ed infine in attonita
desolazione. - Ed ora dov'è?… Arriverò subito! Disattivò il telefonino e con lo sguardo fisso sulla strada, mi disse che sua madre, alla
quale sapevo che era profondamente attaccato, era mancata improvvisamente.
Mi misi immediatamente a sua disposizione e, vincendo una sua debole resistenza, mi
offrii di accompagnarlo dai suoi, a casa della sua povera mamma in un paesino al sud
del sud-Italia.
Durante quel triste viaggio, restammo pressoché muti e di tanto in tanto con la coda
dell'occhio guardavo il mio amico, la cui espressione era quella di chi stava percorrendo
a ritroso la propria esistenza.
Arrivammo a destinazione e mi diressi alla villa della famiglia di Bernardo.
Il cancello era spalancato e la facciata della grande casa mi parve più grigia e più severa
di come me la ricordavo; sicuramente, pensai, era divenuta ancora più livida per la
veglia funebre.
Parcheggiai l'auto, Bernardo ne discese e quando iniziò a salire la scalinata che dava
accesso alla villa, gli venne incontro una donna, che io riconobbi per sua sorella, la
quale singhiozzando scendeva gli scalini speditamente ed era seguita di poco da un
uomo che la chiamava ad alta voce. La coppia incrociò il loro familiare che si fermò per
qualche istante con una mano sollevata a mezz'aria per salutarli, ma quelli manco se ne
accorsero e quindi Bernardo, senza curarsene più di tanto, riprese il suo cammino. Gli
andai dietro mantenendo una discreta distanza predisponendomi, al tempo stesso, a fare
le mie condoglianze ai parenti.
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La cara estinta era stata sistemata in una camera vicino all'ingresso, la porta era aperta a
metà e dall'anticamera riuscivo a scorgere i dolenti attorno al letto, i quali erano quasi
tutti cogli occhi gonfi e parlottavano in modo sommesso tra di loro, tanto che quanto si
dicevano si confondeva colle preghiere di alcune pie donne.
Bernardo se ne stava là impalato e fissava il letto, quasi che volesse interrogare sua
madre per chiederle chissà che cosa.
Dal mio punto di osservazione, avvertivo uno sgradevole odore frammisto di fiori da
troppo tempo dentro i vasi, di lavande dozzinali e di cera. Per respirare nuovamente
l’aria pura, decisi di uscire non solo da quella stanza, ma anche dalla casa. Così feci e
mi misi a fumare in cima alla scalinata guardando il giardino circostante.
Il mio amico dopo un poco mi seguì, si fermò accanto a me ed io gli poggiai una mano
sulla spalla, poi l'abbracciai. Udii un suo sommesso "grazie, grazie" e subito si allontanò
perché, immaginai, voleva tenere per sé un pudico pianto.
Mentre lo guardavo scendere la grande scala, mi accorsi che dalla parte opposta stava
sopraggiungendo la coppia di prima, che curiosamente era sempre disposta come la vidi
al mio arrivo, ossia lei davanti in lacrime e lui dietro che la chiamava. Quando Bernardo
fu a metà percorso, incontrò i due.
- Ah, Bernardo, sei qui? - l'apostrofò la donna in atteggiamento tanto sorpreso quanto
visibilmente alterato.
- Sara… Sara… - intervenne il marito che finalmente era riuscito a raggiungerla.
- Ma com'è successo? - chiese Bernardo alla sorella.
- Com'è successo, eh? - urlò Sara singhiozzando - Anche tu fai finta di niente, siete
tutti uguali e colpevoli! - Sara… Sara… - insisteva Ugo, suo marito.
- Ma Sara, che cosa dici? Com'è successo? - ribatté Bernardo.
- L'hai uccisa tu. - Così sua sorella gli chiuse la bocca e corse su per le scale
inseguita da Ugo.
Bernardo tentò di trattenerla dicendole qualcosa che non compresi, poi anche lui
velocemente risalì le scale dietro Ugo. I tre arrivarono in cima uno dietro l'altro, ma
quasi contemporaneamente.
- Ora mi devi spiegare! - alzò la voce Bernardo.
- Su… su… - intervenne Ugo.
- No, no lascia… Sara… - insisté il mio amico.
- Ma che cosa vuoi? - gli si girò la donna in malo modo - La mamma è morta di
crepacuore, non voleva che tu vivessi così lontano e che conducessi un certo tipo di
vita... - Ma smettila, Sara! - cambiò tono Bernardo - Ti sembra questo il momento? - L'hai fatta morire tu… l'hai fatta morire tu… - Non fare la pazza, Sara! - Ma Bernardo… - osò Ugo.
- Ma stai zitto, Ugo, non sei neppure capace di importi a tua moglie! Io non c'entro!
Ogni settimana sentivo la mamma per telefono e lei mi diceva che soffriva per come
tu, Sara, la trattavi… - L'hai uccisa tu, Bernardo! Non fingere, non continuare a mentire! - diceva Sara
ormai in preda ad una crisi isterica.
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-
Sei una bugiarda! Se tu fossi stata accanto alla mamma, e tu sapevi quanto lo
desiderasse, non sarebbe successo quel che è successo
- Taci. Che cosa sei venuto a fare? Pensi d'essere il figliol prodigo? - Ma sì, trova pure un capro espiatorio per mascherare il tuo caratteraccio, il tuo
egoismo, la tua follia, i tuoi nervi sempre a fior di pelle che sono infine gli unici
responsabili della morte di mamma. - Bernardo, - finalmente intervenne Ugo - rispetta tua sorella, è più anziana di te. - Senti, Ugo - gli si rivolse Bernardo con un modo di fare sbrigativo - vedi di farti gli
affari tuoi e cerca di tenere ben presente che proprio tu hai iniziato a far morire la
mamma. Non ti ha mai sopportato perché eri, e sei, un fannullone, un buono a
niente. Hai sposato questa pazza solo per i soldi! - Sì, sì è vero! - gridò Sara - Lui non vive, vegeta. E' un parassita, un morto di fame.
La mamma si è lasciata morire perché sapeva che in casa c'era una sanguisuga, uno
sfruttatore… Ugo spalancò gli occhi e, indietreggiando di un passo, puntò l'indice della mano destra
prima verso sua moglie, poi contro suo cognato e quasi che li volesse maledire,
pronunciò le seguenti parole:
- Voi, sì voi, i due adorati figli di quella vecchia rompiscatole che solo all'idea di
continuare a vedervi ha rinunciato a vivere, tanto vi amava, voi due, i rampolli di
un'insigne stirpe di esauriti cronici e di nevrastenici, siete completamente pazzi. Tu,
che sei un perdigiorno, un delinquente in poche parole e tu una povera folle,
lunatica, depressa, in perenne crisi di nervi, siete riusciti infine ad assassinare vostra
madre… Per l'eredità forse? - Zitto, accattone!.. - lo interruppe Bernardo spintonandolo.
- Mezzo uomo, specie di impotente, depravato… - riprese ad urlare Sara.
- Razza di pazzi! - rispondeva Ugo, allungando le mani per difendersi dalle
spintonate.
- Cornuto! Nevrotica! - si udiva Bernardo.
- Idiota! Debosciato! - ed era la voce di Sara.
- Manicomio! Siete da manicomio! - strillava Ugo.
Sinceramente, la scena cominciava a nausearmi. Sicché rientrai nella casa e lasciai i tre
che continuavano ad insultarsi, a leggersi la vita, a rinfacciarsi questo e quello, mentre i
presenti, visibilmente imbarazzati ed infastiditi, commentavano che il fratello, la sorella
e il cognato non erano mai andati d'accordo, ma che comunque questo non era il
momento più adatto per litigare in maniera così plateale.
Scambiai alcune frasi banali con un tizio, sbirciai nella stanza dove c'era la mamma e di
nuovo avvertii l'acre odore di prima, così mi allontanai e di là dalla porta a vetri
dell'anticamera, guardai di fuori e vidi che Bernardo, Sara ed Ugo non cessavano di
accapigliarsi.
D'improvviso, forse per causa loro, la mia mente tornò indietro negli anni e focalizzai
quei pranzi di Natale di quando ero ancora bambino ove, senza comprendere fino in
fondo quello che mi stava accadendo attorno, restavo colpito da certi discorsi pervasi di
un rancore mai sopito che i parenti che erano stati invitati si scodellavano addosso,
noncuranti di essere seduti alla tavola apparecchiata in un giorno che per me era tanto
importante e, tra nenie di sottofondo, segretamente mi spaventavo per quello che si
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sputavano in faccia e angosciosamente mi stupivo che avessero il coraggio di litigare
proprio in una simile santa giornata.
Riemersi dai miei ricordi e tornai in quella casa tetra con la morte nella stanza di fianco
a me.
Con un sorriso, che non palesai ma che tenni per me, mi ricordai che una volta un tale
mi raccontò che, appena prima di morire, la nostra vita ci sarebbe passata davanti agli
occhi come la pellicola di un film.
Così dopo che rivissi quei brutti ricordi dell'infanzia, che probabilmente mi erano stati
richiamati alla memoria dalla baruffa scoppiata tra Bernardo e i suoi familiari, conclusi
che il fatto di rivedere il passato non accadesse solo nel momento precedente la
dipartita, bensì anche quando la morte altrui c'era accanto. Quasi che essa stesse a
significare quanto fosse sempre presente ed attuale, fino al punto di essere in grado di
provocare certe situazioni, come una lite, capaci di coinvolgere pure gli estranei col loro
passato…
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ANDATA E
RITORNO
Quando Raimondo entrò in casa, trovò sopra il tavolo del tinello, infilato sotto un
soprammobile a forma di ballerina, quanto mancava a dargli il colpo di grazia.
"Raimondo, - c'era scritto su un pezzo di carta - la nostra vita è divenuta un inferno.
Non sei mai riuscito a concludere nulla di buono. Tu sei un fallito e in un fallimento non
c'è posto per due. Ti lascio. Non cercarmi, Luisa."
Mentre leggeva quelle righe, si sentì morire. E dire che proprio quel giorno si era
affrettato a tornare a casa perché aveva sentito il bisogno di parlare, di sfogarsi, di
ricevere un po' d'affetto, di comprensione, di solidarietà in quanto stava attraversando
un brutto momento, in realtà questo "momento" stava già durando da un bel pezzo, tutto
gli era crollato addosso: un grave lutto in famiglia, il licenziamento, le conseguenti
difficoltà economiche, lo sfratto e Luisa, sua moglie, che gli pareva sempre più strana e
solo ora ne capiva il perché, il motivo di tanta freddezza.
Raimondo si accasciò sulla vecchia poltrona, incapace di una benché minima reazione.
Voleva riflettere, ma il suo cervello era investito da una tempesta di pensieri cupi e
s'immaginava Luisa nel momento in cui aveva compilato quelle quattro brutte righe, che
peraltro continuava ancora a leggere e a rileggere ossessivamente, e più precisamente se
la figurava quando aveva scritto la parola "fallito". Ma come, si interrogò, di punto in
bianco la devota Luisa aveva cambiato opinione su suo marito fino a definirlo un
"inconcludente"? Eppure ai bei tempi, sempre che ce ne fossero stati, gli ripeteva
continuamente che era in gamba, che aveva del talento, che avrebbe superato ogni
difficoltà e via discorrendo. Ma, chissà forse, concluse, avrà cambiato idea perché ha
conosciuto un altro… sì… sì… deve essere così.
L'uomo sobbalzò, accartocciò il foglio e lo buttò da una parte. Non riusciva a stare
fermo, girava da una camera all'altra della casa in preda ad un'agitazione incontenibile e
rimuginava sui suoi crucci ora girando gli occhi al cielo, ora lasciandosi andare a moti
di stizza che gli irrigidivano le braccia, le spalle. Insomma si sentiva uno straccio.
- Ora - piagnucolò - la faccio veramente finita. Basta con questa vita, con questo
mondo cinico, ingrato e Luisa… ah, Luisa…sarà per sempre tormentata dal
rimorso… ah, no! Detto fatto, uscì di casa, era già buio, salì sulla sua auto e prese la strada che portava in
collina. Proprio in cima c'era una rotonda da dove si poteva vedere uno splendido
panorama del paesaggio circostante. La terrazza era situata su uno strapiombo profondo
più di cento metri e da là si sarebbe buttato giù e al mattino l'avrebbero ritrovato
sfracellato sulle rocce.
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Quasi senza accorgersene, arrivò nel luogo fatale.
Sistemò l'auto, scrisse un messaggio di congedo formato da tre parole e la sua firma:
"addio per sempre. Raimondo", lo piazzò in bella evidenza sul cruscotto, scese dall'auto
e lasciò le portiere spalancate.
Con determinazione si diresse verso lo steccato che delimitava la rotonda e lo scavalcò.
Quindi si ritrovò sull'orlo del precipizio e, tenendosi con una mano alla balaustra
retrostante, contemplò il cielo aspirando l'aria della notte immersa in un silenzio
ineffabile. Non riuscì a trattenere due lacrimoni che gli sgorgarono non tanto per la
disperazione, ma per una specie di malinconia infinita che lo assalì quando si rese conto
di essere lì con una mano attaccata alla ringhiera pronto a lanciarsi nel vuoto, e nella
gola sentiva che si stavano soffocando tante parole che volevano esprimere rimpianto,
tristezza, nostalgia, resa incondizionata ad una vita implacabile, senza cuore.
Tirò su col naso, ormai era più che deciso al balzo senza ritorno, ma nello stesso
momento udì come un leggero rotolio di sassi, un fruscio. Si sorprese e pensò che quel
rumore non fosse reale, ma che se lo fosse immaginato, preso com'era dalla
drammaticità degli eventi. Scrollò il capo nervosamente, quindi chiuse gli occhi e stava
già per lasciare l'appiglio per il grande salto quando sentì, e questa volta chiaramente,
una voce umana ansimante, che pareva che si strozzasse per un intenso sforzo fisico,
dire: "oh… oooh… ooh… op là." Spalancò gli occhi e si spaurì, anzi quasi si seccò per
quell'ignota quanto inopportuna intrusione, poi con stupore ai suoi piedi vide due mani,
attaccate al bordo della cima del burrone, di un uomo o di una donna che si stava
arrampicando su quella roccia da cui lui avrebbe dovuto lanciarsi giù.
Un ultimo "oh… oooh… ooh… op là" e comparve la sagoma di un uomo stremato
dalla fatica che, sbuffando dopo l'ultimo sforzo, se ne stava seduto a terra.
Raimondo lo fissò, ma questi manco se ne accorse, tant'era spossato e sfinito. Dopo un
poco lo scalatore della notte si avvide di Raimondo, per la precisione sentì l'intensità dei
suoi occhi sgranati puntati su di lui e quindi, più incuriosito che sorpreso, gli disse:
- Beh? Ma che cosa sta facendo? - Io… io… - balbettò Raimondo - io sto per… Ma lei, piuttosto, da dove viene? - Da dove vuole che venga, da laggiù - e indicò il fondo del precipizio.
- Ma… ma… - Ma lei… - insisté l'uomo - …no… no… no, non mi dica…Anche lei? - Anche lei che cosa? - Ma sì, è indeciso se lanciarsi o meno nel vuoto. Glielo dico subito: non le conviene.
- Ma come? Che cosa dice? Raimondo era frastornato da quanto gli stava accadendo ma, al tempo stesso, qualcosa,
forse curiosità, lo tratteneva dal mettere comunque in atto il suo insano proposito.
Goffamente si sforzò di ostentare indifferenza, come se non fosse successo niente e
continuò:
- Che cosa dice? Sono qui perché… perché non ho sonno. Ecco, non riesco a dormire
e sono venuto sin qui per godermi in santa pace questa notte meravigliosa… - Ma mi faccia il piacere! - fu interrotto dall'uomo - Su, togliamoci di qua. Qui è un
po' pericoloso. A fatica si alzò in piedi, prese per una mano l'attonito Raimondo, insieme scavalcarono
lo steccato e si ritrovarono nello spiazzo della rotonda.
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-
Coraggio, si segga là - e indicò a Raimondo la pedana di un cannocchiale a monete,
posto lì per la gioia dei gitanti della domenica - Io mi sederò qua, per terra davanti a
lei.
Raimondo obbedì, quindi l'uomo continuò:
- Allora, voleva uccidersi, vero? Ah, mi scusi, mi chiamo Teodoro e lei? - Raimondo… I due si strinsero la mano.
- Bene Raimondo, diamoci del "tu". Ma perché? - Io… io… - Capisco. Beh, allora ti dirò una cosa. Se tu fossi arrivato una buona mezz'ora prima,
avresti trovato il posto occupato… - Eh? - Sì, occupato. Occupato da me perché anch'io, questa sera volevo uccidermi e l'ho
fatto, o meglio ho provato ma, come vedi, sono qui. - Ma… ma non capisco… - Allora ti spiegherò. Sono arrivato sin qui deciso di farla finita e mi sono buttato. Poi
non so che diavolo sia successo, forse gli alberi, la vegetazione, boh… e beh, per
farla breve, sono arrivato sino in fondo e non mi sono fatto nemmeno un graffio. E
una volta che mi sono trovato laggiù, ho capito che ero un fesso e sai perché? - No… no… - Perché per tornare su, dove tu ora mi vedi, ho dovuto sudare le proverbiali sette
camicie. Ed allora ho capito che conviene sempre affrontare le avversità della vita
guardandole in faccia, e non dal basso verso l'alto, da laggiù, per intenderci. - E
indicò il burrone al di là dello steccato - Credimi, poi è una faticaccia tornare su, nel
quotidiano. Vedi? Ho ancora il fiatone… - Ma a dire il vero… - No, ascoltami. Certo l'ebbrezza del vuoto, del salto, l'illusione di volare, ti fanno
credere di avere risolto definitivamente tutto, ma quando poi arrivi in fondo, caro
amico, ti ritrovi di nuovo nella dura e cruda realtà e, per di più, devi risalire la china.
Ma che fatica, credimi! Non esiste un problema che tu ed io non possiamo risolvere
e semmai ne trovassimo uno, vorrà dire che, per una volta, avrà avuto lui il
sopravvento su di noi. Punto e fine. Sì, punto e fine e palla al centro. Ah, ah, sì palla
al centro, ah, ah, ah! Uh! Uuuh! Ah, ah palla al centro! Ah, ah, ah. L'uomo scoppiò in una fragorosa risata mentre Raimondo lo guardava fisso, abbozzava
per timidezza, poi piano piano, come per simpatia, cominciò a sorridere, poi a ridere
appena ed infine lo fece anche lui a crepapelle.
I due continuarono ancora per qualche minuto dandosi, di tanto in tanto, delle pacche
sulle spalle accompagnandole con dei sussulti di ilarità.
Dopo un poco si chetarono, l'uomo si alzò e Raimondo lo seguì. Si diressero verso l'auto
di quest'ultimo e Raimondo vi salì. Quando fu seduto al posto di guida, non poté fare a
meno di scoppiare ancora a ridere nel vedere sul cruscotto il suo biglietto di addio. Lo
stracciò e lo buttò fuori dal finestrino mentre Teodoro lo guardava sorridente e
compiaciuto.
- Beh? - disse Raimondo - Non sali? Ti darò un passaggio. - No, grazie. Non ce n'è bisogno. -
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Ma come scenderai in città? Non c'è nessun'altra macchina al di fuori della mia.
Andrai a piedi? - Dai, non ti preoccupare, mi arrangerò. - Ma no… E mentre cercava di convincere l'uomo a dargli un passaggio, si distrasse per un attimo
in quanto l'auto si mise in moto da sola. Poi diresse di nuovo lo sguardo verso Teodoro,
ma non lo vide, era andato via. Di lui udì solo una vaga e lontana risata ed allora
stranamente capì che non era più il caso di cercarlo o di chiedersi alcunché. Si sentì
rincuorato, sereno.
Ingranò la prima e tornò indietro ai suoi crucci, ai suoi affanni, alla vita di tutti i giorni.
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