devi stare lontano da me

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devi stare lontano da me
Katia Anelli
DEVI STARE LONTANO DA ME
Titolo originale: Devi stare lontano da me
Copyright © 2016 Katia Anelli
Copertina: © Sherazade’s Graphics
Questa è un’opera di fantasia.
Nomi, persone, luoghi ed eventi narrati sono frutto della fantasia dell’autrice.
Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti
è da ritenersi puramente casuale.
Questo e-book contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato,
noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad
eccezione di quanto autorizzato dall’autrice, ai termini e alle condizioni alle quali è
stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge
633/1941)
Ti voglio bene…
… quando ti prendo in braccio e ti chiedo se sei troppo cresciuta per i baci e gli
abbracci e tu mi sorridi, mi butti le braccia al collo e mi dici: no, mai.
… quando sei in ansia ed inizi a passarmi ripetutamente le mani nei capelli, io ti
guardo di traverso e tu, colpevole, sottolinei che ormai dovrei saperlo che è il tuo
modo per rilassarti. E considerando che hai iniziato a farlo quando avevi pochi
mesi ed ora hai quasi undici anni, penso che in fondo hai ragione: dovrei già
essermi rassegnata.
… quando t’intestardisci e mi fai arrabbiare: urliamo, litighiamo, mi pianti il muso
e poi facciamo la pace perché non riusciamo a stare lontane.
… quando c’è un problema, ti confidi, ne parliamo e cerchiamo una soluzione.
… quando, dopo che abbiamo passato la serata a studiare, il giorno dopo mi corri
incontro felice, mi stringi forte e insieme esultiamo per i tuoi brillanti risultati.
… quando non trovi qualcosa ed io ti prendo in giro, dando la colpa al troppo
ordine che ti circonda.
… quando piangi o sei triste, ed io, nel mio piccolo, cerco di farti vedere le cose da
un’altra prospettiva o quando stai male e mi cerchi per le coccole o, ancora,
quando ci abbracciamo senza motivo: semplicemente perché ci va di farlo.
… quando ti sbagli e mi chiami “mamma” prima di correggerti, facendomi
emozionare perché, se un giorno avrò la fortuna d’avere una bambina, io la vorrei
proprio tale e quale a te, amore.
CAPITOLO 1
Mi sembra ancora di sentirli, i miei genitori: litigavano per questioni di discutibile
rilevanza, mentre restavano muti ed ignoravano fatti che avrebbero meritato un
grande interesse.
In famiglia avevamo un ospite fisso in casa: l’apparenza.
Nessuna manifestazione di ansia, rabbia, malumori, insoddisfazione o disagio.
Non importava cosa stesse accadendo o quali fossero le situazioni: l’apparenza
andava sempre salvaguardata.
Era la regola fondamentale della casa.
È diventata la regola fondamentale della mia vita.
«Stefano! Sbrigati, amorino! Si può sapere cosa fai lì impalato? Siamo già in
ritardo di dieci minuti; tua madre starà già dando fuori di matto», mi distoglie dalle
mie elucubrazioni Emilia, la mia fidanzata.
«Arrivo», le dico, raggiungendola sulle scale che conducono alla porta d’ingresso
di casa dei miei genitori.
Odio partecipare a queste cene e, per contro, lei sembra adorarle.
«Potresti almeno cercare di sorridere. C’è bisogno che ti ricordi che alla cena di
questa sera, organizzata dai tuoi genitori, sarà presente tutta la Torino che conta e
anche diversi fotografi? Vorrei evitare di finire sulle prime pagine delle riviste a
causa della tua faccia da funerale!», bisbiglia acida.
«Immagino che tutte le attenzioni dei fotografi saranno rivolte a te, quindi non
credo che mi dovrò preoccupare più di tanto della mia mimica facciale», la supero
ed entro per primo.
«Stefano, evitiamo di dar vita a fastidiosi chiacchiericci una settimana prima delle
sfilate della moda milanesi, per favore! Non ho alcuna voglia di passare le mie
interviste a smentire voci di crisi o di rottura del nostro rapporto», insiste
sprezzante, guadagnandosi un’occhiataccia una volta che riesce a raggiungermi.
Entriamo insieme nel grande salone da ricevimento di casa dei miei che questa sera
è, come nelle migliori occasioni, gremito di gente. Vecchi e nuovi collaboratori
d’affari di mio padre che negli anni ho imparato a conoscere sempre di più e ad
apprezzare sempre meno, soprattutto da quando sono stato eletto Presidente della
squadra di calcio di proprietà della mia famiglia: LaRocca.
Squadra approdata da un paio di anni in serie A e quest’anno, con me al comando,
in corsa per lo scudetto e in lizza per entrare nella Champions. Un risultato di cui
vado veramente orgoglioso.
Dopo aver conseguito una laurea all’Harvard Business School, ho esordito nel
mondo degli affari, facendo diverse esperienze lavorative all’estero in importanti
aziende, leader mondiali nel loro campo. Ad oggi, sono Amministratore Delegato
della Empire Jewels e Presidente de LaRocca.
A trentadue anni, nel fiore della mia giovinezza, non mi manca niente: sono uno
degli uomini più ricchi e più influenti del mio paese e sono fidanzato con una
modella, considerata tra le più sexy e desiderabili del pianeta.
Tutto procede nel verso giusto.
Il che, diciamocelo, non è un caso, ma frutto di una studiata e attenta pianificazione
della mia vita.
«Oh, Emilia, cara, siete arrivati», ci viene incontro mia madre, elegantissima nel
suo long dress, e saluta con eleganza e con due baci sulla guancia, appena
accennati, la mia fidanzata.
«Buonasera, Signora Bianca», ricambia Emilia, «ci perdoni per il ritardo,
ovviamente la riunione di suo figlio è andata per le lunghe», commenta acida.
«Cara, sono sua madre e sono sposata con un uomo che condivide i suoi geni ed è
sempre altrettanto impegnato: nessuno può capirti meglio di me».
«Non mi sembra che nessuno vi tenga al guinzaglio», intervengo.
«Oh, bene, vedo che stasera sei di buon umore», mi fa l’onore di parlarmi mia
madre.
Il nostro caloroso scambio di saluti viene interrotto dall’avvicinarsi di Zia Olivia:
una donnina esile, dalla voce squillante, raffinata quasi quanto mia madre e
impicciona all’inverosimile.
«Stefano! Come sono felice di vederti! Venivamo qui in macchina, con tuo zio, e
mi chiedevo… chissà se ci sarà anche mio nipote con la sua splendida fidanzata…
ho letto, ora non ricordo bene su quale rivista, che sto per diventare bis zia… si
dirà così poi? Chi lo sa? Allora? Devo darmi da fare con l’uncinetto?», strilla più
del dovuto e riesce ad attirare su di sé gli occhi di quasi tutti i presenti in sala, forse
non del consigliere comunale che, dal fondo del soggiorno, mi sembra più
interessato al cameriere che gli si avvicina… No, ok… sbagliavo: ora è interessato
anche lui.
Sfoggio il mio consueto, e ormai consumato, sorriso di circostanza ed abbraccio la
mia fastidiosissima e pettegola zia.
«Non dovresti dare retta a tutto quello che scrivono i giornali, zia, non lo sai che al
novantanove per cento sono tutte menzogne? Pensi che se fosse vero lo saprebbero
loro prima di te? Credi che potrei mai farti un torto del genere?».
Non che ci sarebbe molta differenza, se consideriamo il fatto che dirlo a te sarebbe
come fare un comunicato ANSA.
«No, ma infatti… e poi prima abbiamo un matrimonio da festeggiare: tutto a tempo
debito», mi sorride furba, prima di concentrarsi sulla mano spoglia di Emilia per
poi tornare a guardarmi con due occhi da civetta, «non dirmi che non le hai ancora
fatto la proposta!», strilla e spalanca la bocca allucinata.
Grazie zia Olivia per essere riuscita nell’impresa di rendere questa serata
un’incredibile catastrofe.
Credo di essere allergico al matrimonio, ogni volta che si nomina quel termine
inizio a sudare freddo: ora più che mai.
Sono mesi che Emilia, dopo quasi quattro anni che stiamo insieme, insiste sul fatto
che ci dovremmo sposare, mentre io perseguo nel fare lo gnorri, mettendo a tacere
la sua smania con qualche costoso regalo. Dopo il bracciale in diamanti, il
weekend a Parigi e l’iscrizione al prestigioso Lion’s Club, temo d’aver esaurito
tutta la mia fantasia, proprio ora che ne ho bisogno più che mai. Devo farle
completamente dimenticare sia il matrimonio che un ipotetico bambino. Ecco,
questo è proprio un argomento tabù: i bambini macchiano, sporcano, fanno i
capricci, rovinano la privacy e i rapporti di coppia e, per mia somma fortuna, io ed
Emilia su questo punto, fino a qualche mese fa, facevamo fronte comune. Non
oggi.
La mia modella d’intimo, che con il suo corpo guadagna cifre da capogiro, ha
deciso che è arrivato il momento di mettere su famiglia, continuando a trovarmi,
ovviamente, del tutto contrario.
Mi sento gli occhi di tutti i presenti in sala puntati contro; l’unica nota positiva è
che non sono ancora arrivati i fotografi.
Un flash mi acceca.
Ecco, appunto…
Mia madre, donna austera, mi salva dall’impasse, prendendo sotto braccio Emilia,
che mi trafigge il costato di saette che partono dalle sue verdi iridi, e mi lascia solo
a vedermela con zia Olivia.
«Presto zia, vedrai che accadrà presto… non rovinarmi tutto», le faccio un audace
occhiolino, «vorrei che fosse una sorpresa», mento.
«Oh, scusa», mi dice mortificata, «non avevo idea. Non è che ho rovinato
qualcosa? Sarà stasera? Le farai stasera la proposta?».
«No, ma presto zia. Molto presto», la bacio sulla guancia e mi allontano afferrando
al volo, dal vassoio di un cameriere, una flûte di champagne.
Ho come l’impressione che l’attenzione di tutti sia concentrata su di me.
«Stefano, eccoti finalmente!», mi saluta mio padre Pietro, colpendomi con una
pacca sulla spalla, prima di chinarsi e sussurrarmi a denti stretti: «La finisci di dare
spettacolo? Questa è una serata importante, gradirei la tua collaborazione!».
Eh già, perché credo d’essermi dimenticato di dirvelo: stasera mio padre annuncerà
la propria candidatura come primo cittadino di Torino.
«Sono venuto. Più collaborativo di così…», commento sarcastico, scolandomi lo
champagne.
«Non essere insolente, Stefano! Vorrei tanto sapere quando inizierai a prenderti le
tue responsabilità…».
«Lo faccio da sempre, papà».
«Sono quattro mesi che ti ho dato l’anello di tua madre, affinché lo mettessi al dito
di Emilia e ancora non l’hai fatto! È questa la tua idea di prendersi delle
responsabilità? Non lo sai che la figlia dei Ferrante non ti aspetterà per sempre?».
«Oh, i Ferrante, giusto. Sono loro non è vero, papà, che ti preoccupano? Temi di
non avere l’appoggio della famiglia di Emilia alle elezioni? È per questo che vuoi
che mi sbrighi a portarla all’altare? Perché è sempre stato così: noi siamo tutti
pedine di un tuo gioco e tu ci muovi a tuo piacere, in base a come ti fa più
comodo!».
«Sappiamo tutti e due che prima o poi sposerai quella ragazza. Perché devi sempre
rendere tutto così difficile? Hai trentadue anni e ti comporti ancora come un
bambino!».
«Meglio essere un trentaduenne capriccioso che un sessantenne come te che si
scopa le ragazzine!».
«Bada a come cazzo parli!», mi bisbiglia mio padre, avvicinandosi furente.
«Tranquillo papà, non ti agitare», reagisco, sistemandogli la giacca, docile come un
agnello, «è la tua grande serata: non vorrai che gli ospiti abbiano di che
spettegolare? Rilassati e fai un bel sorriso: del salvare le apparenze ne hai fatto
un’arte. Non vorrai deludermi proprio stasera? Altrimenti, più che un matrimonio ti
ci vorrebbe un miracolo, per accaparrarti la nomina di sindaco», lo prendo in giro.
«Una bella foto padre e figlio? La facciamo?», interrompe il nostro speciale
momento d’intimità un fotografo che si avvicina a noi, ignaro della tensione che
aleggia nell’aria.
«Ovviamente!», gli risponde cordiale mio padre che, sorridente, mi stringe a lui,
circondandomi le spalle.
«Dalle quell’anello, Stefano, ed inizia l’organizzazione del matrimonio prima della
fine dell’anno!», mi dice sottovoce, mentre il fotografo immortala questo suo
comando.
Passo il resto della sera a tenermi lontano dai residui della mia famiglia anche se,
quando mio padre dà il meglio di sé con un accattivante discorso da gran figlio di
puttana, quale certamente è, sono obbligato a fare quello che a questa famiglia
riesce meglio: mentire. Con un sorriso di facciata, mi avvicino ai miei genitori e
dichiaro a lui e a tutti i presenti il mio sostegno e il mio orgoglio nell’essere stato
cresciuto in una famiglia così solida.
Questo lato del mio essere devo averlo ereditato da mio padre: se solo volessi,
saprei vendere uno specchio ad un cieco, convincendolo che sia di fondamentale
aiuto nella sua vita.
Immagino che ora abbiate capito perché occupo posizioni professionali di così
grande prestigio. Non grazie al caso, di sicuro.
«Odio dovermi sempre giustificare con tutti! Odio dover fare continuamente buon
viso a cattivo gioco! Odio la tua perenne indecisione! Stefano! Mi vuoi ascoltare?
Odio quando m’ignori!».
Emilia strilla più o meno da mezzora, da quando abbiamo lasciato casa dei miei.
Ho cercato di ignorarla per tutto il viaggio in macchina.
«Ti lascio a casa tua?», sono le uniche parole che mi sono uscite dalla bocca e che
hanno avuto come unico risultato l’incremento dell’inquinamento acustico
nell’abitacolo.
La verità, signore, è che un uomo deve valutare con estrema calma e freddezza
quali sono le battaglie da combattere e, dopo un’attenta analisi, questa sera ho
deciso di non mettere piede sul campo di guerra. Sono troppo stanco e la giornata
di domani si preannuncia piuttosto impegnativa. Decido di continuare ad ignorare
la sua invettiva e la parcheggio in tempo record davanti alla porta di casa della sua
famiglia.
«Stefano, per quando tornerò da Milano, dovrai aver preso una decisione. Non ho
più intenzione di aspettarti in eterno: o ci sposiamo oppure ci lasciamo», prova a
darmi un aut aut.
«Emilia stai cercando di mettere spalle al muro l’uomo sbagliato, lo sai che non mi
piacciono questi giochetti. Ti ho forse mai detto che non ci sposeremo? Puoi
evitare di inscenare una tragedia solo perché qualche chiacchierona, a cui nella vita
è rimasto solo del gran buon tempo, ti ha messo questo tarlo del matrimonio in
testa?».
«Il matrimonio è quello che la mia famiglia si aspetta da me e tu non fai altro che
tergiversare, posticipare e dissimulare l’argomento!».
«Fai buon viaggio, domani. Ti auguro un buon lavoro», la congedo, chinandomi a
sfiorarle le labbra.
«Sei impossibile, Stefano, impossibile!», cerca invano di respingermi.
Le afferro la nuca, spingo il suo viso contro il mio, insinuo la lingua nella sua
bocca e finalmente riesco nell’impresa di distrarla e farla stare zitta. Avrei dovuto
pensarci prima.
L’unico modo per mettere a freno la lingua di una donna è tenergliela occupata e,
in effetti, durante il viaggio, invece di farmi venire il mal di testa, avrei dovuto
tenerla con la testa china in mezzo alle mie gambe.
La bocca di Emilia è sicuramente da inserire nella lista dei pro per questo
matrimonio.
«Chiamami quando arrivi e fai la brava», le dico scostandomi.
«Amorino, mi mancherai da morire le prossime settimane. Non vedo l’ora di essere
di nuovo qui tra le tue braccia», mi dice prima di scendere.
Vorrei poterle dire che è quello che provo anch’io, ma non ci riesco.
«Senti Orazio, se hai il coraggio di ripetermi ancora una volta quanto tu sia dolente
di questo disguido, giuro che non più tardi di stasera ti ritroverai una lettera di
licenziamento sulla scrivania del tuo ufficio! Sono stato abbastanza chiaro?».
«Ma Stefano… devi credermi, non ho la minima idea di come tutto ciò si sia
potuto verificare, sfuggendo all’attenta analisi delle mie collaboratrici, tu lo sai…».
«Orazio, l’unica cosa che so con certezza è che, se tra meno di cinque minuti non
avrai trovato una soluzione a questa tua ennesima falla organizzativa, sarà meglio
che non ti disturbi a richiamarmi!», gli dico furioso, prima di riagganciargli il
telefono in faccia.
Incredibile!
Sono bloccato alla stazione Porta Nuova di Torino e tra meno di un’ora ho un
meeting decisivo con un dirigente di un’importante squadra di calcio spagnola per
discutere di calcio mercato.
Ma porca puttana! Proprio oggi doveva esserci lo sciopero nazionale dei taxi?
Ennesimo appunto mentale: mai farsi organizzare gli spostamenti da Orazio. Mai!
Non basta che mi fissi l’appuntamento lo stesso giorno in cui devo passare la
mattinata ad Alessandria a discutere con degli asiatici la nuova collezione di
gioielli da lanciare sul mercato a nome del marchio Empire, ma lo fa male e finisce
con il farmi restare senza mezzo di trasporto alla stazione ferroviaria.
Dannazione! Dannazione!
Orazio Ghigliani, l’Amministratore Delegato della mia squadra, è un sessantenne
casinista, un confuso, un disorganizzato cronico, che in teoria dovrebbe essere
abile nel semplificarmi la vita, mentre in pratica riesce sempre e solo a
complicarmela. Non ho idea di quante volte abbia già minacciato di licenziarlo, ma
alla fine non riesco mai ad andare fino in fondo.
Orazio è il padre che non ho mai avuto.
Ricordo la sua povera moglie, Adua, morta poco più di vent’anni fa e il profumo
dei suoi dolci appena sfornati. Quando in casa nostra la situazione diventava
insostenibile, io e mia sorella ci rifugiavamo da loro che erano amici intimi dei
nostri genitori, non avevano figli e ci trattavano come se fossimo la loro famiglia.
Quando sua moglie è morta di cancro, Orazio ha iniziato a bere e a giocare a soldi,
bruciandosi tutta la ricchezza accumulata negli anni dalla sua famiglia e perdendo
anche la sua azienda.
In quell’occasione, ho visto mio padre fare l’unico gesto nobile della sua vita,
aiutando il suo amico a rimettersi in piedi e offrendogli la carica di Amministratore
Delegato de LaRocca, la nostra squadra. Vent’anni dopo Orazio riesce ancora ad
imbrogliare tutto!
Mi sento un babbeo bloccato nel bel mezzo della stazione a guardarmi intorno
smarrito con la ventiquattrore in mano. Io! Proprio io che organizzo ogni piccolo
dettaglio della mia vita in modo quasi maniacale e odio incredibilmente gli
imprevisti.
Ho l’armadio sistemato per stagioni e cromature. Ogni settimana programmo il
menù delle cene, non dei pranzi, ma solo perché sono sempre fuori. Io che decido
con un anno d’anticipo dove passerò le prossime vacanze.
A me certi inconvenienti non succedono mai!
Dannazione! Dannazione!
Mi metterei a sbattere i piedi a terra. Mi ferma solo lo squillo del mio cellulare.
«Allora, Orazio? Qual è la soluzione? Hai una macchina da mandarmi? Ne hai
noleggiata una a mio nome? Mandami i dettagli per e-mail», gli chiedo rianimato,
mentre inizio a muovermi svelto verso l’uscita della stazione.
«Ehm… Stefano… purtroppo…», chiudo gli occhi ed inspiro rumorosamente,
mentre cerco di prepararmi al peggio, «le nostre macchine sono tutte impegnate e
anche un paio di ditte di noleggio che abbiamo contattato non hanno potuto darci
alcuna disponibilità a causa dello sciopero dei taxi», lo licenzio, giuro che questa
volta lo licenzio! Non è possibile!
«Orazio! E io come diavolo ci arrivo al meeting con Gonzàles? Volando?», sbraito
al cellulare.
«Ecco, tranquillo! Ho già pensato a tutto!», alzo gli occhi al cielo. Oh, Signore!
«Esci dalla stazione e dirigiti sullo spiazzo che si trova alla tua sinistra: vi troverai
diversi autobus», mi spiega.
«Vuoi che noleggi un autobus?», gli chiedo allucinato.
«Ma no! Voglio che compri un biglietto e prendi l’autobus che si trova nello spazio
C3. Nancy dice che lo prende tutti i giorni sua nonna per andare a giocare al
burraco».
Sono esterrefatto, mentre lui continua: «Prendi quello e scendi alla quinta
fermata».
«Orazio!», tremo di rabbia e strillo, «mi devo incontrare con Gonzàles per
discutere dell’acquisto di un giocatore, non andare a giocare a carte con dei
vecchi!».
«Appunto! La quinta fermata è posta proprio di fronte allo States, l’hotel dove devi
incontrarti con lo spagnolo tra circa un’ora. È perfetto! Sbrigati a fare il biglietto e
sali su quel mezzo».
«È perfetto?», urlo correndo in direzione della stazione degli autobus. «Ma che…»,
mi guardo intorno spaesato, «Orazio, ma qui ci saranno venti pullman e delle code
infinite davanti alla biglietteria, ma poi come funziona? Non ho mai preso un
autobus in vita mia…».
«Stefano, mi duole dirtelo, ma è la tua unica possibilità: se non ti presenterai
all’incontro, Gonzàles non ti concederà un secondo appuntamento ed i dirigenti del
Manchester sono già in contatto con lui per comprare Ovieda».
Cazzo! Odio le rare volte in cui veste seriamente i panni dell’Amministratore
Delegato e diventa la voce della mia coscienza.
«Orazio, se ciò si verificherà, sentiti pure libero d’iniziare a visualizzarmi mentre ti
firmo il licenziamento!», gli dico nero, riagganciando.
«Ok, mezzi pubblici», sussurro slacciandomi i primi bottoni della camicia,
«veniamo a noi!».
CAPITOLO 2
È incredibile quanto certi cani assomiglino ai loro padroni. O forse sarebbe meglio
dire il contrario? Chissà se sono i cani a prendere i vezzi del padrone oppure i
padroni quelli del proprio cane.
Mi fa sempre sorridere la somiglianza.
Il barboncino della signora che ho davanti, in fila alla biglietteria, deve certamente
farsi acconciare nello stesso salone di bellezza della sua padrona.
Quanto è carino! Piacerebbe anche a…
«Ehi! Ma che modi!», reagisco, quando vengo spintonata di colpo da una forza tale
che quasi finisco faccia a terra.
«Signorina, sta bene?», mi chiede un vecchietto gentile alle mie spalle, mentre
cerco di riprendermi.
«Sì, sì, grazie», ansimo ancora sbalordita.
«Ma lo guardi! Poi dicono che in Italia le cose vanno male… ma per forza! Finché
ci saranno persone arroganti come quello che si credono di poter ottenere tutto con
i soldi…», commenta il signore.
«Di maleducati purtroppo è pieno il mondo!», interviene un’altra signora.
«Mia nonna sosteneva sempre che la madre dei cretini è sempre incinta», precisa la
padrona del barboncino.
«Avrebbe anche potuto chiederci il permesso di passare, non spintonarci come se
fossimo degli inetti!».
«La nuova generazione. Vogliono qualcosa, non fanno sacrifici e se la prendono a
dispetto di tutto e tutti!», continua il signore alle mie spalle.
«Non è la nuova generazione, è che quel tipo ha proprio l’aria del riccone che non
deve chiedere mai! Eppure ha una faccia che ho già visto…», dice la signora del
barboncino.
Mentre i signori vicino a me danno vita alle solite chiacchiere da sala d’attesa, fatte
di luoghi comuni, osservo il tornado che mi ha travolto gesticolare con il primo
signore della fila a cui è passato davanti e che non l’ha presa affatto bene e che, nel
medesimo tempo, ingraziarsi la signorina della biglietteria per fargli rapidamente il
biglietto.
Lo guardo allontanarsi di corsa in direzione degli autobus e scuoto la testa, quando
m’accorgo che si blocca quasi in mezzo alla piazza e si guarda intorno spaesato.
Tutta questa fatica, tutti questi insulti e poi non sa neanche dove deve andare!
Tanto valeva che facesse la fila e ne approfittasse per chiedere informazioni.
Cinque minuti più tardi salgo sull’autobus, oblitero il mio abbonamento mensile,
poi scorgo un posto a sedere vuoto e mi ci precipito prima che arrivi la ressa.
Non mi lamento del mio nuovo lavoro. Fare quello che per cui ho sempre studiato,
nelle mie condizioni, è impossibile; dunque, sto cercando di adattarmi. Ammetto
che non sia facile. Il mio ruolo è la stiratura a mano. Non è particolarmente
impegnativo, ma si deve stare in piedi tante ore e quando finisco il mio turno non
vedo l’ora di sedermi per riposare un po’.
Oggi, però, sono particolarmente fortunata a trovare un posto vuoto sull’autobus,
soprattutto se si considera la moltitudine di gente che ha deciso di spostarsi con i
mezzi pubblici.
In effetti se non ricordo male anche l’oroscopo era positivo questa mattina.
Sorrido felice.
Sento che si sistemerà tutto. La vita a volte chiude una porta per aprirti un portone.
Non per niente sono un Sagittario: ottimista e piena di fiducia, nonostante tutto.
«Scusi, è libero questo…», oddio il riccone di prima, «posto?», concludo.
«Lei cosa ne dice? Vede seduto qualcuno?», mi domanda sarcastico.
In effetti… ma è comunque sempre buona educazione chiedere, credo.
Mi sfilo la borsa dal braccio e mi siedo, mentre il tizio si scosta, arriccia il naso e
sbuffa, appiccicandosi al finestrino.
Mi chino ad annusarmi: non mi sembra di puzzare, al massimo mi si possono
essere impregnati i vestiti del profumo dell’ammorbidente. Mah. Poi quella con i
problemi sarei io.
L’autobus si riempie e parte. Pesco dalla mia enorme borsa tutta colorata e fiorita,
simile a quella di Mary Poppins sia come estetica che per dimensioni, ma anche
probabilmente per lo svariato tipo di contenuto, il libro che sto leggendo e nel farlo
mi cade un pacchetto di fazzoletti che finisce proprio sotto le gambe del mio vicino
di posto, ora è impegnato in una conversazione telefonica.
Muovo la gamba e cerco, con nonchalance, aiutandomi con la punta del piede, di
spingere nella mia direzione il pacchetto. Niente da fare, non so come, ma finisco
con il farlo allontanare ancora di più.
Accidenti!
Proprio quel pacchetto doveva cadermi?
Alzo gli occhi al cielo.
Non posso fare altro che chinarmi, allungare un braccio sotto alle gambe del
riccone e provare a recuperare, a tastoni, il pacchetto di fazzoletti. Il tipo ha la
malaugurata idea di muoversi, così urta di nuovo anche me e mi ritrovo con il naso
all’altezza del suo addome.
«Ma che… ma…», borbotta lui, sollevandosi per scostarmi proprio nel momento in
cui io, concentrata, quasi riesco a prendere il pacchetto di fazzoletti.
L’autista ci mette del suo e con un beffardo tempismo frena di colpo, così prima
sbatto il capo contro lo schienale del sedile davanti e poi, di riflesso, affondo il viso
contro il suo inguine e… bè sì, ecco, giuro che non ho idea di come tutto ciò possa
accadere, ma lo mordo.
Finisco con l’afferrare con la mano il pacchetto di fazzoletti, ma anche
qualcos’altro con i denti.
Il riccone impreca e mi toglie di dosso. Io desidero morire qui, seduta stante, per
l’imbarazzo.
«Ma è completamente impazzita!», urla tastandosi, e riesce ad attirare l’attenzione
di tutti i passeggeri.
«Mi scusi, io non… le giuro che…», comincio mortificata, rossa come un
pomodoro, «volevo solo recuperare i miei fazzoletti, mi creda, è stato un
incidente», continuo agitata. «Oddio, sta bene? Posso fare qualcosa per aiutarla?»,
gli chiedo e nel frattempo appoggio, costernata, una mano sul suo braccio.
«Mi levi le mani di dosso!», grida e si scosta con rabbia. «Non crede d’aver già
combinato abbastanza guai?».
«Mi scusi io…», e poi mi arrabbio, «se lei non si fosse mosso tutto ciò non si
sarebbe verificato! Stavo già per prendere il pacchetto! È colpa sua!», gli dico
alzando il mento.
Noto che è esterrefatto.
«Prego? Colpa mia? Lei non sta affatto bene! Ha mai pensato di farsi visitare da
uno bravo?».
«Oh, lei è.... oh, sì, lei è davvero un gran maleducato!», sentenzio a corto di
pazienza. Poi, però, mi pento subito del mio atteggiamento. Devo avergli fatto
piuttosto male: «Mi scusi… spero che sì, ecco…», inizio a roteare la mano e
balbetto a disagio, «insomma… spero di non aver fatto un grosso danno».
Il riccone mi fissa, poi distoglie lo sguardo, prima di tornare a guardarmi di nuovo.
«Credo di no, ma le sarei grato se si tenesse alla larga. Mi sembra pericolosa»,
afferma serio.
Antipatico!
Lo guardo con indifferenza.
L’autobus si ferma e si svuota un po’ cosicché riesco ad intercettare un posto
vuoto, davanti al mio, nella fila a fianco. Mi alzo e lo occupo subito. Mi sembra
quasi di sentirgli tirare un sospiro di sollievo, quando appoggia la ventiquattrore
sul sedile che fino a quel momento avevo occupato.
Non fosse così altezzoso ed antipatico sarebbe anche un bell’uomo: occhi nocciola,
capelli castano chiaro più corti ai lati e un po’ più lunghi nella parte alta,
un’affascinante bocca, all’apparenza un bel fisico e decisamente una succulenta
virilità. Scoppio a ridere da sola per i miei pensieri sconci e per quello che gli ho
fatto.
Sono proprio matta da legare!
L’autobus procede la sua corsa. Visi che ormai mi sono diventati più familiari si
alternano a facce nuove. Mi accorgo, con la coda dell’occhio, che una ragazza
occupa il posto libero vicino al riccone, quello in cui prima sedevo io, ma lui
questa volta non mi sembra altrettanto infastidito. La osservo, poi mi volto e
visualizzo la mia immagine riflessa nel vetro. Ok, i capelli non piacciono molto
neanche a me, inizia già a notarsi la ricrescita bionda, ma per il resto? Cos’ho che
non va? Questa gonna arancione è splendida, tanto quanto il mio pullover azzurro,
senza contare il fatto che sono certa di non puzzare!
Giorgio, il mio controllore preferito, sale alla terza fermata ed inizia a controllare i
biglietti di tutti i passeggeri, dando la precedenza a chi deve scendere. Quando le
porte si chiudono e l’autobus riparte è praticamente mezzo vuoto così, in un
battibaleno, me lo ritrovo vicino.
«Buongiorno, Monica! Tutto bene oggi?», mi chiede gentile.
«Tutto al solito», gli dico, mentre gli passo l’abbonamento che lui neanche
controlla.
«Tranquilla, tanto lo so che è tutto in regola», mi fa l’occhiolino, «Dio mio, oggi
con lo sciopero nazionale dei taxi è il caos in città», commenta.
«Ah, ecco spiegata la bolgia umana che mi sono trovata ad affrontare», sorrido.
«Ah, Monica! Sei così bella quando sorridi, sei il raggio di sole di questa tratta…
anzi di ogni tratta e oggi più che mai», afferma, alludendo alla mia gonna.
«Sono convinta che un po’ di colore renda la giornata più allegra», sollevo le
spalle.
«Non cambiare mai, dolcezza!» e intanto avanza e chiede il biglietto all’unico
passeggero che ormai è rimasto alle mie spalle: il riccone.
Mi piace il signor Giorgio: è sempre così cordiale, così galante; sono sicura che da
giovane ha fatto strage di cuori.
«Mi spiace, ma devo farle la multa», sento che dice al riccone.
Aggrotto la fronte.
Ma se ha fatto il diavolo a quattro per prendere il biglietto?!?
Mi volto curiosa.
«Senta», si passa ripetutamente la mano tra i capelli, «guardi che non è giornata!
Non ci si metta anche lei!», s’arrabbia il tipo.
«Non m’interessano i suoi problemi, lei non ha convalidato il biglietto ed io sono
tenuto a fare il mio lavoro», gli spiega Giorgio.
«Non ho fatto cosa? Mi sta prendendo in giro? Lei non mi può fare la multa dal
momento che io le presento il biglietto! Su quale base mi sanziona? Per aver
violato quale legge?», diventa sempre più furioso il riccone.
«Non si metta a fare il sapientone con me che faccio questo lavoro da trent’anni e
di furbi come lei ne ho visti a bizzeffe. Se lei non oblitera il biglietto, questo non è
valido, per me è come se viaggiasse senza e, quindi, io sono obbligato a multarla.
Sia collaborativo, mi dia i documenti e la smetta di farmi perdere tempo».
Il riccone guarda Giorgio e corruga la fronte.
Sbuffo.
«Dovevi timbrare il biglietto», m’intrometto, «se non lo timbri è come se volessi
imbrogliare e tenertelo per la prossima corsa».
«Quale corsa? Cosa c’entra adesso fare jogging?», mi chiede allucinato.
Mi alzo dal sedile e mi avvicino ai due.
«Stai lontana da me», mi punta contro un dito e sibila.
«Mamma mia che antipatico!», sbotto. «La corsa sarebbe il viaggio».
«Senti giovanotto, porta rispetto alla signorina!», gli dice Giorgio. «E sbrigati a
darmi i documenti. La fai tanto lunga per una multa che, ad occhio e croce,
probabilmente vale meno delle mutande che indossi».
«Si tratta di una questione di principio, non di soldi! Io il biglietto ce l’ho!».
«Giorgio è proprio necessario fargli la multa? Non credo che avesse intenzione di
imbrogliare nessuno o che ci ricapiterà di vederlo da queste parti», lo guardo, «per
fortuna», commento, e mi guadagno un’occhiataccia.
«Monica, lo conosci?», mi chiede Giorgio sorpreso.
«No, assolutamente…», risponde il riccone.
«Sì!», annuisco a Giorgio.
«Monica, ma se ti ha appena minacciato di stargli lontano», sottolinea il
controllore.
«Ehm… e dai Giorgio… non potresti chiudere un occhio per me?», gli sorrido
dolce.
Lui mi guarda per qualche secondo, poi rimette via la penna.
«Giovanotto, credo che tu debba ringraziare questa signorina. Non so per quale
ragione, ma ha voluto aiutarti», dice Giorgio al riccone, che mi osserva a corto di
parole. Io ringrazio il mio controllore preferito e mi scosto per farlo passare.
«Grazie, non ho fatto apposta a non timbrare il biglietto. Solo non avevo idea che
funzionasse così», afferma il riccone.
Annuisco.
«Scusa, ecco… sì, scusa per come ti ho trattata è solo che è una giornataccia».
«Non c’è problema. Te lo dovevo, sai per…», indico impacciata le sue cosce.
L’autobus rallenta ed io mi volto a guardare dove siamo. È la mia fermata.
«Devo scendere!», afferro trafelata la mia borsa, prima di spostarmi davanti alle
porte. «Buon pomeriggio», lo saluto e lui ricambia, «ciao Giorgio!», grido al mio
simpatico controllore, intento a chiacchierare con l’autista.
Scendo e, mentre ripenso alla figuraccia che ho fatto con il riccone sconosciuto,
rido e mi avvio a piedi verso casa.
Vivo in un condominio decisamente non moderno, anche se dispone di tutti i
principali comfort e tutto sommato a me inizia anche a piacere.
Entro dal portone, attraverso il cortile e salgo di corsa le scale.
Il mio appartamento si trova al secondo piano, quindi non è neanche così scomodo
e almeno, poiché il mio ritmo di vita m’impedisce di frequentare una palestra,
faccio un po’ di movimento fisico.
Entro nel mio piccolo trilocale, lancio le chiavi sul tavolo e mi sbrigo a scaldare la
pasta, avanzata da ieri sera a cena.
La mangio in piedi, nel pentolino, mentre contemplo il mio nuovo paio di tende.
Sono davvero carine. Di color rosso fuoco, ravvivano l’ambiente e sono simili al
copridivano colorato che avevo comprato a metà prezzo lo scorso mese.
Mi piace come sta diventando questa piccola casa.
Sorrido.
È sempre più accogliente.
La porta del salotto si apre.
«Mami! Mami!», mi corre tra le braccia il mio pirata.
«Ciao, amore mio!», lo prendo in braccio, «ti sei comportato bene con la signora
Rosa? Non è che hai fatto i capricci come ieri, vero?», lo guardo nell’occhio per
capire se mente.
«Ma no, mami. Io sono stato blavo pelò mi sei mancata tanto», mi dice, facendo il
mescolo con le labbra.
Non resisto e me lo coccolo: lo riempio di baci.
Nel frattempo arriva anche la nostra vicina, Rosa, una signora colombiana tanto
simpatica con cui Nicola, quando esce da scuola, mentre io sono al lavoro, sta
sempre volentieri.
«Come si è comportato oggi?», le chiedo.
«Muy bien! Este chico es muy tranquillo! Non ti devi preoccupare! E la tua
giornata?», s’informa.
«Il solito. Ho la schiena a pezzi».
«Eh, mi hija, tu fai un lavoro troppo pesante. Possibile che una bella ragazza come
te non riesca a trovare niente di meglio?».
«Per il momento mi trovo bene così, davvero, e poi non dev’essere per forza per
sempre», le dico.
«Oh, qué lindo esto color!», si complimenta, indicando le tende, «stanno davvero
bene vicino a questa cucina color cremisi. Hai proprio buon gusto, Monica».
«Grazie, signora Rosa».
«Nicola, dammi un bacino che me ne vado», si avvicina e il mio ometto le stampa
un bacio sulla guancia, «ci vediamo domani! Fai il bravo con la mamma»,
commenta mentre esce.
«Allora? Cosa facciamo oggi?».
«Palco giochi, mami! Ti plego! Tu plomesso!», mi prega e mi lancia le braccia al
collo.
Lo bacio sulla guancia e appoggio la mia fronte contro la sua.
«Sei il mio amore, lo sai? Se ho te non mi serve nient’altro! Corri a fare la pipì.
Parco giochi sia», gli dico, mettendolo a terra.
Non avrei mai immaginato che sarei arrivata a vivere in funzione di un piccolo
esserino che ormai ha quasi quattro anni. Lui adesso è il mio mondo ed io vorrei
essere in grado regalargli un futuro fatto principalmente di cose buone.
«Fatto! Fatto! Fatto!», esce dal bagno e mi raggiunge sempre correndo.
Mio figlio è così: è nato di corsa e vive di corsa, ma è un bambino davvero
speciale. Ok. Sono leggermente di parte, ma imparerete a conoscerlo.
Nicola ha un occhietto più pigro dell’altro. Gli è stata diagnosticata un’ambliopia e
da allora porta gli occhiali e un occlusore sull’occhio sinistro per spingere i
muscoli dell’occhio destro a sforzarsi. Questo dovrebbe comportare un
miglioramento della vista. Non è nulla di grave ed i medici sono piuttosto positivi
però non è facile costringere un bambino ad indossare ogni giorno un occlusore
che lo rende speciale rispetto agli altri.
«Sono plonto, mami!», mi incita ad uscire.
«Ricordami che devo fermarmi a comprare il latte perché lo abbiamo finito», gli
dico, scendendo le scale.
«Sì, mami».
«Cos’hai fatto oggi con la signora Rosa?».
«Oh, abbiamo gualdato Il Segleto[1]. Pepa ha litigato con Donna Flancisca e Losa
si è messa ad ullare con la signola cattiva pelché poi voleva avvelenale Pepa!», mi
spiega tutto concentrato.
Devo ricordarmi di dire a Rosa di evitare di fargli vedere questa roba, anche se
devo ammettere che, dai suoi quotidiani riassunti, questa storia inizia a prendere
mentalmente anche me.
«Nicola, cos’hai mangiato oggi?».
«La calne con delle veldule tutte stlane», mi risponde con la faccia schifata.
«Stasera ti va se facciamo un po’ di minestrina?».
Alza le spalle.
Chiacchieriamo del più e del meno. Mio figlio spesso riesce a stupirmi con il suo
spirito intuitivo. Una volta arrivati al parco, mi siedo su una panchina e lo osservo
mentre corre a destra e a sinistra con alcuni bambini del quartiere, con i quali pian
piano inizia a fare amicizia, e a salire e scendere dai vari intrattenimenti.
Sulla strada del ritorno ci fermiamo al supermercato a comprare alcuni alimenti
che non ho in casa ed il mio amore si rende utile, aiutandomi in cassa.
A casa metto Nicola in ammollo nella vasca da bagno e butto in lavatrice il ricordo
dei suoi vestiti che ormai sono un blocco di fango.
Non sono una di quelle mamme che continua a redarguire il proprio figlio: sono
dell’idea che sia parte dell’essere bambino sporcarsi ed entrare in contatto con la
natura. Sarei quasi delusa se non lo facesse.
Sono convinta che debba avere i suoi momenti di svago.
Dopo cena e dopo avergli lavato i denti, lo metto a letto nella sua stanza e mi
distendo al suo fianco per raccontargli la favola di Pinocchio. Passano pochi minuti
ed è già crollato.
Gli bacio una guancia, mi alzo, vado a farmi una doccia veloce e poi entro in
camera per mettermi la camicia da notte.
Mi guardo allo specchio.
Questi capelli, così, non mi piacciono proprio. Non sembro davvero io, ma più che
altro uno spaventapasseri.
Ci credo che il riccone di oggi si sia allontanato.
Osservo le mie curve che ancora non sono niente male, ma che comunque sono
state addolcite dalla gravidanza.
Tutt’a un tratto mi sento stupida. Con tutti i problemi che ho, mi metto a pensare al
riccone antipatico di oggi e mi offendo un poco al pensiero che mi abbia schifata
tutto il tempo.
Diamine, ma io non sono normale sul serio!
Mi vesto e sto per mettermi a dormire quando dei leggeri scalpiccii attirano la mia
attenzione.
«Mami…», sussurra il mio amore con la voce colpevole, «mami…», ed io so già il
perché, «mami, mami…», piagnucola.
«Cosa c’è amore?».
«Mi sono ciucciato i pantaloni», abbassa gli occhietti e bisbiglia.
Ha di nuovo fatto la pipì a letto.
Scoppia a piangere.
«Non piangere, amore mio», lo tranquillizzo. Lo porto in bagno e lo cambio, poi
quando mi racconta del suo incubo gli dico di andare nel mio letto.
Stanotte dormiremo insieme.
Tolgo le lenzuola sporche e infilo anche quelle nella lavatrice che, a questo punto,
avvio.
Torno in camera e m’infilo sotto le coperte, stringendo a me il mio cucciolo.
«Ho paula, mami», sussurra.
«Shhh… c’è la mamma, va tutto bene», lo consolo ed inizio a canticchiargli una
canzoncina che so gli piace tanto, finché non m’accorgo che si è addormentato.
Appoggio il mento sulla sua testa e gli bacio i capelli.
Va tutto bene.
CAPITOLO 3
Arrivo alla sede dell’Empire Jewels e mi chiudo nel mio ufficio. Prendo un paio di
chiamate ed inoltro alcuni prospetti informativi alla mia segretaria.
Per tutto il tempo non riesco a smettere di pensare alla cartelletta medica che ho
trovato ieri sull’autobus e che ora è appoggiata sulla mia scrivania in attesa che
decida cosa farne.
È ovvio che appartenga a quella specie di topolino in multicolor.
Mi riecheggia in mente la diagnosi che ho letto: -Il soggetto è affetto da
sessodipendenza-.
Bè, che fosse mezza pazza non vi erano dubbi. Una bionda naturale che si tinge i
capelli di nero ed ignora l’evidente ricrescita, ma poi com’era vestita? Neanche a
Carnevale girerei conciato così!
E adesso mi ritrovo con questa bella cartelletta, ricca di informazioni mediche
strettamente riservate. Le uniche cose che conosco sul suo conto, e che mi sono
venute in mente a forza di pensare, riguardano la sua conversazione con il tizio che
controllava i biglietti: a quanto pare si chiama Monica e prende spesso
quell’autobus.
Sulla cartelletta non è neanche specificato il nome del medico che la segue. Questa
tipa dev’essere piuttosto disordinata anzi, se ripenso alla sua enorme e strapiena
borsa, non ho dubbi che lo sia.
Mannaggia a lei! Sta a vedere che mi tocca di nuovo averci a che fare!
Sarà meglio che la tenga lontana dai miei gioielli di famiglia. Dio mio!
Sono seriamente affezionato al mio arnese. Quella è talmente fuori che è capace di
staccarmelo a morsi. All’apparenza non ha proprio l’aria della ninfomane, ma
quella da pazza sì e, viste le prove, è pure una dipendente dal sesso. Oddio! Rido.
Potrebbe uscirne un pezzo da vendere ai giornali: la stalker assatanata di sesso
tenta di evirare il giovane e talentuoso Presidente de LaRocca mentre si trovava in
viaggio su un mezzo pubblico.
Oddio! Smetto subito di ridere.
Un attimo.
E se questa tizia spaurita fosse invece una bella furba? Se m’avesse riconosciuto e
volesse sfruttare la mia popolarità per fare soldi e m’accusasse di molestie? O di
altro?
Entro nel panico.
Devo assolutamente sbarazzarmi di questa cartelletta. Assolutamente!
Bussano alla porta e i miei pensieri vengono interrotti.
«Avanti», grido.
«Oh, Stefano! Passavo e sono venuto a complimentarmi per la buona riuscita della
festa a casa di tuo padre», esordisce Michele, il marito di mia sorella, ed entra nel
mio studio.
«Dì pure che sei venuto appositamente per prenderti gioco di me», ribatto e gli
faccio cenno di accomodarsi davanti alla mia scrivania.
«Giada era davvero molto dispiaciuta di non poter partecipare, ma sai con la
gravidanza agli sgoccioli…».
«Eh, certo! Puoi riferire a quella stronzetta di mia sorella che è in forte debito nei
miei confronti e che, può giurarci, troverò il modo di farmi ripagare?».
«Che c’è, non ti sei divertito? A proposito, congratulazioni! È passata a trovarci tua
madre ieri sera e a quanto pare stai per fare il grande passo. Ammetto che sono
rimasto piuttosto sorpreso… non ci avevi detto niente», sorride.
«Vaffanculo, Michele. Un’altra battuta sarcastica e ti faccio buttare fuori a calci»,
lo minaccio, puntandogli contro l’indice.
«Uh… come siamo permalosi questo pomeriggio! È la lontananza dalla tua futura
sposa a renderti così irascibile?», insiste, continuando a divertirsi.
Mi alzo in piedi, gli do le spalle e metto le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre
osservo dalla grande vetrata, che ho dietro la sedia della mia scrivania, buona parte
del centro di Torino.
«Cazzo!», impreco, «sono riuscito a farmi incastrare e a finire proprio in un bel
guaio».
«Avanti, non farla tanto difficile. Per un guaio alto un metro e settanta, con una
quarta di seno e un culo a mandolino, metterebbero tutti la firma», afferma.
«Ma davvero? Mi sembra di ricordare che anche la migliore amica di Emilia fosse
un tipo del genere, ma che tu le abbia preferito un’altra».
«Devi ammettere che anche tua sorella ha un gran bel culo, per non parlare di tutto
il resto».
Mi volto a guardarlo malissimo.
«Che c’è? È la verità. E comunque sposarmi con Carlotta non sarebbe stato un
guaio, ma un tragedia preannunciata: era una così totale rottura di palle! Per
fortuna il buon Gesù m’ha illuminato, riconducendomi sulla retta via», sospira.
«Non so cosa fare. Sul piano fisico Emilia mi piace, ma passarci insieme il resto
dei miei giorni? A volte, nelle rare occasioni in cui riusciamo a dormire insieme,
mi sveglio nel cuore della notte, la guardo e mi chiedo: è veramente lei la donna
con cui voglio passare il resto della mia vita?».
«E cosa ti rispondi?», mi chiede Michele.
Lo osservo in silenzio.
«Mi facevo la stessa domanda quando stavo con Carlotta. A letto era una furia
scatenata, ma fuori dal letto? Era insopportabile. In un paio di occasioni mi sono
ritrovato a fissarla e a sognare ad occhi aperti che un meteorite le cascasse in
testa!», lo guardo basito. «Giuro che non scherzo. Era soffocante», fa una faccia
terrificata, «tutti quei “tesorino”, “piccolino” in pubblico e poi nel privato era una
vipera. Una cosa non potevo farla, l’altra neppure, quell’altra neanche a parlarne.
Poi parlava, parlava… porca puttana! Era un disco rotto! Mi mandava fuori di
testa».
«Emilia non è da meno, però, quando le tengo occupata la bocca, è piuttosto brava
con quella lingua», ammicco.
«Carlotta non era un granché neanche in quello. A parte che questo tipo di
divertimento era raro», mi spiega.
«Se non la sposo, scoppierà il finimondo», sospiro.
Michele annuisce.
«Ma se la sposi potrebbe finire il tuo, di mondo. Dipende a cosa tieni di più, ma
sbrigati a deciderti: i tuoi genitori si stanno già dando da fare e danno per scontato
l’evento».
«Mio padre mi venderebbe al diavolo in persona, pur di riuscire ad indossare
quella fascia tricolore».
«Si tratta sempre della tua vita, Stefano, non puoi lasciare che decidano per te.
Comunque, ora ti saluto perché mi vedo con mia moglie per un giro in centro»,
annuncia e si alza.
«Quella che non può muoversi a causa delle sue condizioni?», gli chiedo ironico.
«Esatto, proprio quella», mi fa l’occhiolino, «le dirò che la saluti».
«Sì, certo».
«Pensaci bene, Stefano, ma pensaci in fretta».
«Non c’è molto a cui pensare. Le chiederò di sposarmi. Fine della storia. Su una
cosa ha ragione mio padre: bisogna prendersi le proprie responsabilità».
«Contento tu», alza le spalle Michele, mentre esce, «ma io ci rifletterei ancora».
«Ciao», lo saluto.
Resto da solo e sprofondo nella mia poltrona, poi mi passo ripetutamente le mani
sulla faccia.
La cartelletta della psicopatica attira di nuovo la mia attenzione.
Controllo l’orologio.
Ok. Se mi sbrigo forse riesco a trovarla alla stazione come ieri; da quello che ho
capito prende ogni giorno lo stesso autobus. Speriamo bene.
Mi alzo, afferro cartelletta e cellulare e mi precipito in corridoio.
«Stefano! Cercavo proprio te!», mi chiama il mio Amministratore Delegato,
venendo verso la mia direzione.
Fine dell'estratto Kindle.
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