Acca Cop_150 - Accademia Italiana della Cucina

Transcript

Acca Cop_150 - Accademia Italiana della Cucina
I
N
O
S
T
R
I
C
O
N
V
E
G
N
I
LE MOSTARDE DI CORTE
DI LAURO BENETTI
Delegato di Carpi-Correggio
“Non è un caso
se siamo in una città
dell’Emilia Romagna
dove convivono arte,
spettacolo, gastronomia.
Mostarda uguale a
mosto ardente,
ma c’è la mostarda fina,
la mostarda di frutta intera:
la mostarda è un pozzo
senza fine che comprende
anche un’interpretazione
come derivato dal mosto,
dal vino”.
uesto convegno, promosso e
organizzato a Carpi dalla
Delegazione dell’Accademia
e dedicato alle “Mostarde a corte”, si
è svolto nel Teatro comunale di Carpi alla presenza del Presidente dell’Accademia, Giuseppe Dell’Osso.
Numerose le autorità presenti, tra
cui Elisa Mei, vice-questore di Carpi;
Rolando Togni, vice-questore di Mirandola; il capitano Fabrizio Fratoni,
comandante la Compagnia dei Carabinieri di Carpi; Gian Fedele Ferrari,
presidente della Fondazione Cassa
di risparmio di Carpi; Luigi Verrini,
presidente della Cassa di risparmio;
Giulio Vezzani, presidente della Cantina sociale.
Una giornata all’insegna della cultura aperta da Lauro Benetti, Delegato di Carpi-Correggio-Mirandola, che
ha dato il benvenuto ai partecipanti.
Subito dopo il sindaco di Carpi, Demos Malavasi, ha dato a sua volta ai
convenuti il benvenuto della città.
Il Presidente Giuseppe Dell’Osso
ha così ringraziato il sindaco per le
sue belle parole: “In questa sede
prestigiosa e bella porto il saluto di
tutta l’Accademia. Per me è un momento di grossa soddisfazione soprattutto dopo le parole del sindaco,
in quale ha toccato dei punti che noi
Accademici perseguiamo e condividiamo. Salvaguardare le tradizioni è,
per noi, un impegno sociale; ne vanno riscoperte alcune che, nel tempo,
si sono purtroppo perse, proprio come va recuperata la tradizione della
civiltà contadina. È, questo, un discorso culturale ed è l’obiettivo dell’Accademia”.
Lauro Benetti ha poi presentato
l’assessore alle Politiche economiche del Comune di Carpi Alberto Allegretti, che ha detto tra l’altro:
“Questa è un’ulteriore tappa che
Q
l’amministrazione ha definito sul tema dell’enogastronomia. Sono convinto che l’Accademia continuerà
questo felice rapporto con l’amministrazione: abbiamo formato un
gruppo di lavoro di esperti e abbiamo scoperto le grandi potenzialità
di questo settore”.
La prima relazione ufficiale è stata
pronunciata da Giovanni Ballarini,
presidente del Centro Studi “Franco
Marenghi”. “Non è un caso - ha detto tra l’altro - se siamo qui, in un
teatro tipico delle cittadine dell’Emilia Romagna dove arte, spettacolo,
gastronomia vivevano insieme. Mostarda uguale a mosto ardente, ma
c’è la mostarda fina, la mostarda di
frutta intera e sull’argomento c’è
molto da dire. La mostarda è un
pozzo senza fine che comprende anche l’interpretazione di mostarda come derivante dal mosto, dal vino.
C’è una difficoltà ad affrontare il tema in un unico discorso: infatti la
cultura della mostarda si può vedere
da punti di vista diversi. In sintesi, di
qua e di là dal Po dove c’era il culto
del mosto (e dal mosto deriva anche
l’aceto balsamico)”.
Carla Bertinelli Spotti, Accademica
di Cremona, ha svolto il tema “1397,
anno di nascita della mostarda di
frutta intera”.
“Quello - ha esordito - è stato un
anno magico, anche se è un po’ azzardato definirlo l’anno della nascita
della mostarda di frutta intera. Di
certo è stato l’anno in cui si è rilevata la sua presenza. Ci sono almeno
tre ricette (Mantova, Carpi, Cremona) legate rispettivamente alle corti
dei Gonzaga, dei Pio, dei Visconti
Sforza. Dunque si può parlare della
mostarda come di un cibo regale. Si
gustava alla corte di Galeazzo Visconti e in quella di Bianca Maria e
C I V I L T À D E L L A TAV O L A 2 0 0 4 • N . 1 5 0 • PA G I N A 5 6
I
N
O
S
T
Francesco Sforza; nel Seicento era in
auge presso i principi vescovi di Liegi (molti mercanti cremonesi vivevano nelle Fiandre, ad Anversa). Nell’Ottocento è arrivata alle tavole dei
buongustai, poi di tutti noi.
Frutta candita - mele, pere, noci,
mandorle, limoncelli, cedri -, sciroppo zuccherino, senape, questa è la
mostarda, ma esistono anche ricette
di mostarda insaporite con chiodi di
garofano”.
“Parliamo di 1397 - ha proseguito perché esiste un documento datato 7
dicembre di quell’anno, reperito nell’archivio di Voghera: era una sorta
di ordine per le feste”.
È seguita la relazione di Luciana
Nora, responsabile del Centro etnografico del Museo civico di Carpi,
studiosa di antropologia culturale.
“La storia della nostra gente - ha
osservato - è impastata di vino, infatti la ricchezza maggiore veniva
dalla coltura della vite. I rituali connessi alla vite e alla vita sono tantissimi: un tempo, per esempio, la placenta del bambino appena nato veniva seppellita in cantina, sotto le
botti, oppure sotto una vite maritata
all’olmo. La mostarda, una volta, si
vendeva tra dicembre e gennaio,
massimo febbraio, durante il solstizio d’inverno, quando le energie di
tutta la natura vengono a vivificarsi.
Avere certe cose sul tavolo significava poter trarre buoni auspici per
l’avvenire, ed era così con il pane di
Natale, impastato con savor o saba.
Significava abbondanza e nella notte
della Vigilia se ne dava anche agli
animali nelle stalle. Veniamo a Carpi
e alla sua mostarda ritenuta sopraffina. Era utilizzata dai carpigiani nobili anche per conservare le buone relazioni con i nobili fuori dalla città.
Nel carteggio Foresti, per esempio,
risulta che ne viene mandata a Ercole I d’Este e al fratello duca. Ma la
mostarda serviva anche per perorare
cause, e sappiamo che ne era stata
inviata a giudici romani. Della mostarda parlano Alessandro Tassoni
nella “Secchia rapita”, il Guicciardini, contemporaneo di Alberto III
R
I
C
O
Pio; ne parlavano, ma nominavano
la mostarda, non gli elementi che la
compongono. Si sa che venivano
usati i pomi gagliardini e che li si faceva cuocere nell’acqua, e poco altro. La famiglia dei Sebellini, speziali
in Carpi, si tramandava la ricetta solo oralmente, ma la loro mostarda
non era l’unica anche se era quella
ritenuta migliore.
La mostarda appare nel ricettario
delle famiglie Gaddi, Foresti, Leoni,
ma le ricette erano differenti. C’era
chi usava le mele e chi no, le quantità variavano, dunque consistenze e
sapori dovevano essere differenti.
Qualcuno la metteva nei vasi “albarella”, altri nei fiaschi quasi come
fosse una saba, un sapore. La spezieria del “Pomo d’Oro” aveva una
certa ricetta, ma non basta leggere
una ricetta, bisogna vederla fare.
Adesso ci chiediamo se la mostarda
era fina per il suo gusto fino o per
cosa altro. Si può ipotizzare che la
mostarda fina di Carpi avesse analogie con quella di Mantova: mele,
buccia di cedro, scorze d’arancia essiccate con il miele per perdere l’amaro, ma c’era anche chi, il miele,
non l’utilizzava. Risperimentare la
mostarda oggi penso sia un’avventura estremamente avvincente; le ricette, credo, non ci debbono essere
negate”.
Il giornalista Renzo Dall’Ara ha
pronunciato il suo intervento dal titolo, solo apparentemente paradossale, “Mostarda mantovana: si fa perfino a Mantova”. “Le mostarde a corte - ha detto - sono il tema, l’argomento del convegno, ma vorrei usare la parola corte con l’iniziale minuscola: la corte che poi è la fattoria, la
masseria, la cascina, senza dimenticare la Corte con la maiuscola. Noblesse oblige. Nel 1328, grazie a un
golpe realizzato con i veronesi, a
Mantova andarono al potere i Gonzaga che ci rimasero fino al 1707:
quindi Mantova fu la capitale di uno
Stato per quattro secoli. La corte
mantovana faceva tendenza, soprattutto nel periodo di massimo fulgore, nel Rinascimento. Poi, nel 1581,
N
V
E
G
N
I
Vincenzo Gonzaga, noto sciupafemmine, fa servire mostarda «amabile»
al suo matrimonio con una Farnese.
Ma quella, ci chiediamo, era mostarda mantovana o di Piacenza? Possiamo rispondere, ma a un’altra questione, ed è che la senape, ingrediente della mostarda, era ritenuta
un’eccitante dei piaceri di Venere.
Della mostarda mantovana se ne
parla anche nella seconda metà del
Seicento con Stefani, cuoco dei Gonzaga che però osservava come la
mostarda «ornata di caramello e zucchero deve essere di Carpi», e lo
scrive nel 1662”.
Dopo essersi diffuso sulla storia
della mostrarda, Dall’Ara spezza una
lancia in favore dell’industria: “Possiamo dire che è stata l’industria a
garantire la sopravvivenza della mostarda che, nella Sinistra Po, è usata
nel ripieno dei tortelli di zucca,
mentre questo non accade nella Destra Po.
Ma la mostarda non ha più confini, infatti viene prodotta negli agriturismi. Solo nel Mantovano ce ne
sono 130, e più crescono più cala
la voglia di fare agricoltura. Ma si
possono addirittura trovare musei
della mostarda a Digione, ce n’è
uno anche nel Wisconsin. Di mostarda si parla anche in tutte le
scuole di cucina”.
Ballarini a questo punto ricorda
che “la senape è presente nella nostra cultura da 3.300 anni prima di
Cristo e che viene citata anche nel
«Vangelo», alimento considerato stimolante e digestivo, in grado di
esercitare attività antitumorali soprattutto per il grosso intestino e la vescica. Migliaia di anni di utilizzo giustificano il successo della senape”.
Sono seguiti numerosi interventi
tra i quali particolarmente significativi quelli di Sandro Bellei, Accademico di Modena, e di Vittorio Brandonisio, Accademico di Parma.
A molti quesiti avanzati dai partecipanti, ha risposto Luciana Nora:
“Credo che la mostarda fina lo fosse
per la finezza del sapore. Alla frutta
venivano «tolte le braghe», poi veni-
C I V I L T À D E L L A TAV O L A 2 0 0 4 • N . 1 5 0 • PA G I N A 5 7
I
N
O
S
T
va ridotta in quarti, immersa nell’acqua, ma c’è anche chi dice nel miele, però la grande invenzione di Carpi è la cottura in acqua. Noi riteniamo che le mele decime siano molto
simili di sapore alle mele gagliardie,
ma non possiamo affermarlo con
certezza, lo supponiamo perché non
è rimasto un albero di gagliardie.
La mostarda poteva essere solida e
liquida, di certo però sappiamo che
noi stiamo tentando in tutti i modi di
recuperare un prodotto sulla base di
ricette ritrovate”.
Ermanna Malvezzi interviene infor-
R
I
C
O
mando che, assieme alla figlia Mara
Giordano, ha fatto un’analisi storica
sulla mostarda: “La nostra conclusione - ha detto - è che la mostarda era
sopraffina, ma non si chiamava «fina»
per quello ma perché era fina, la pasta traslucida, rossa, perfetta per il
menu di Natale”.
Concludendo il convegno, il Delegato Lauro Benetti ha ringraziato relatori e presenti, e in modo particolare il signor Saetti, decano degli
spezieri carpigiani, e Carlo Rossini,
ma soprattutto Raffaele Baroncini e
Cinzia Ferretti.
N
V
E
G
N
È seguito un pranzo tradizionale e
piacevole, al termine del quale il
Presidente Dell’Osso, ricevendo un
ricordo dalle mani di Lauro Benetti,
ha detto: “Sono particolarmente orgoglioso di avere a Carpi un Delegato che ha saputo dar vita a un incontro di alto spessore culturale dimostrando come la puntigliosità, il
lavoro, la passione diano un senso
al nostro essere Accademici, specie
oggi che siamo nel novero dei più
eletti istituti di cultura”.
LAURO BENETTI
See International Summary page 78
LA SPONGATA: UN DOLCE DALLE MOLTE RADICI
La spongata arriva sulle nostre tavole preferibilmente
nel periodo natalizio, ma non solo, vista la lunga
conservazione di questo tipico dolce che intreccia
tradizioni locali diverse di qua e di là degli Appennini, dalla Bassa parmense e reggiana fin su e verso la
Lunigiana. Ma nessuno, a vederla così invitante e golosa, direbbe che questa “dolce signora” ha all’incirca duemila anni (sembra sia nata ai tempi dell’antica Roma).
Certamente i suoi anni se li porta bene, con le sue
forme rotondeggianti, lo zucchero a velo ben spolverizzato candido e soffice, che fa pensare a un amore
puro, appena sbocciato. C’è chi lo definisce addirittura “il dolce italiano più antico” e se ne ricercano le
radici nel “Satyricon” di Petronio Arbitro, nelle interpretazioni rivedute e corrette da diversi artisti del
Novecento (in testa il grande Federico Fellini). Nell’antico testo latino si descrive una sorta di torta che
avrebbe gli stessi ingredienti dell’attuale spongata,
già cugina di un “pan di spezie” d’origine greca. Ma
la vera paternità di questo dolce non sembra facilmente rintracciabile. Parliamo di Roma come possibile luogo d’origine, ma incontriamo poi diversi luoghi (Sarzana, La Spezia, Busseto, Corniglio, Brescello, Reggio Emilia, Parma, Modena) che ne rivendicano la paternità, ciascuno con una propria versione
definita “originale”. E ognuno di questi paesi ha una
storia propria e accattivante, un differente eppur simile punto di contatto con questo dolce che lascia gustare il sapore particolarissimo dei canditi, del miele,
del burro e, insieme, l’aroma della noce moscata e
della cannella (e anche delle mele cotogne nella
spongata di Sarzana).
Già a partire dagli ingredienti, variabili ma in maniera trascurabile a seconda della località, ci si ren-
I
de conto che la spongata non è soltanto un dolce,
bensì un incontro di sapori piacevolmente in contrasto tra loro. Infatti, la storia a volte dialoga con il palato: una storia fitta di culture diverse che s’incontrano e che tenta una pacificante sintesi attraverso una
ricetta.
A Modena, per esempio, la spongata era già, nel XVI
secolo, popolare (sia perché conosciuta, sia perché
apprezzata proprio dal popolo, nonostante fosse appannaggio quasi esclusivo dei ricchi), tanto che una
“grida” estense ne regolamentava la produzione. Spostandoci un poco, il primo documento che parla specificatamente della spongata “de Berselo” (Brescello,
sulla riva del Po), risale al 1454: ne sarebbe stata inviata una come gustoso dono al signore di Milano,
Francesco Sforza. Per quanto riguarda invece la
spongata di Reggio Emilia (e siamo ancora fra Quattrocento e Cinquecento), si sa che veniva offerta a
ospiti illustri e che, in periodi di carestia, se ne proibiva la confezione, troppo sfarzosa e quindi riservata
ai soli, e rari, momenti di abbondanza. Oggi, fortunatamente, chiunque può gustare una fetta di accattivante spongata. Confezionata, la si trova praticamente tutto l’anno anche negli scaffali dei supermercati ma anche, quelle di migliore qualità, nelle più
raffinate pasticcerie.
Una gita a Brescello, o a Corniglio, a Busseto o magari in Lunigiana consente di gustare e apprezzare
“in loco” questo dolce che sa esaltare al massimo sensazioni, profumi, colori. Oltre a luoghi caratteristici,
densi di storia e paesaggi unici nel loro genere, sarà
possibile incontrare la spongata preparata e servita
tutto l’anno, come frammento di cultura, tradizione
del luogo, piacere di condividere la tavola. (Antonio
Battei)
C I V I L T À D E L L A TAV O L A 2 0 0 4 • N . 1 5 0 • PA G I N A 5 8