Se Londra esce dal Continente

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Se Londra esce dal Continente
Se Londra esce dal Continente
di Luigi Zingales
Un mio collega ha una mappa del mondo visto dall'Australia: capovolta. Ho avuto la stessa sensazione
ascoltando i discorsi sull'Europa alla Prima Conferenza sulla Libertà in onore di Margaret Thatcher,
organizzata a Londra dal Center for Policy Studies. Per un italiano la visione inglese del "Continente" è
altrettanto difficile da capire della mappa vista dall'Australia. Per comprenderla, non bastano le ragioni
economiche: è necessario immergersi nella storia e nella cultura inglese.
A dividere la Gran Bretagna dall'Europa non c'è solo il Canale della Manica, ma quasi 500 anni di storia.
A ricordarlo è stato il marchese di Salisbury. Quando Enrico VIII voleva rompere con Roma (e
appropriarsi delle terre della Chiesa cattolica), i principali consiglieri erano contrari, preoccupati dalle
conseguenze che questa decisione poteva avere sul futuro della nazione. Enrico VIII procedette
comunque. Separandosi da Roma tagliò i legami del suo Paese con il Continente, spostando il centro di
interesse dell'Inghilterra verso il resto del mondo. Fu una scelta fortunata. Da lì nacque l'espansione
commerciale prima e coloniale poi. A quella decisione si deve la nascita dell'Impero Inglese.
Difficile non vedere le analogie con il presente. Bruxelles è la nuova Roma, da cui la Gran Bretagna si
sente oppressa. Il richiamo del mondo anglofono (Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Hong
Kong, Singapore, ed India) è forte, soprattutto in un momento in cui il Continente stenta a riprendersi
economicamente, mentre i "cugini" anglofoni sono in espansione. Con questi Paesi (e con la Cina),
l'Inghilterra vorrebbe firmare dei trattati di libero scambio. Ma non può farlo autonomamente. La
competenza spetta a Bruxelles, che su questo fronte si muove a passo di lumaca. Per gli inglesi è forte la
tentazione di tagliare gli ormeggi e di fare da soli, come fece Enrico VIII.
Ma a dividere la Gran Bretagna dall'Europa c'è anche l'ideologia sottostante al progetto europeo. L'idea
franco-tedesca di Europa è basata sul concetto di «un mercato, una legge». Si vuole un omogeneizzazione
forzata di regole e leggi, una uniformità totale dalla Finlandia a Malta. La cultura inglese, invece, crede
nella diversità, che promuove la sperimentazione ed il progresso. L'Europa che loro vorrebbero è un'area
di libero scambio dove ogni stato nazione si sceglie le proprie regole, regole che dovrebbero essere
automaticamente riconosciute dagli altri stati membri. L'unica condizione è che le regole non discrimino
contro i produttori degli altri Paesi. È un sistema che promuove la competizione tra giurisdizioni, nella
convinzione che questa competizione indurrà i governi alle regole migliori per i cittadini e non per la
casta al potere. Invece di un mercato di governi, l'Unione europea per gli inglesi è diventata un cartello di
governi, che colludono per imporre regole comuni. Ma in uno Stato multinazionale chi deciderà queste
regole comuni? La corporazione più politicamente influente, nel Paese più politicamente influente (leggi
Germania). L'Inghilterra, che ha sempre odiato i cartelli, e ha sempre diffidato dell'egemonia tedesca. Per
questo guarda con sospetto a questo modello di Europa.
Per finire, l'Inghilterra, patria della democrazia, guarda con scetticismo allo stato sopranazionale. Nella
visione inglese un sistema democratico si basa su un demos, un popolo. Senza un popolo, esiste solo il
cratos, l'esercizio del potere. Sono i valori condivisi che permettono ad un popolo di autogovernarsi. È in
nome di una comune identità che la minoranza accetta la regola della maggioranza. È l'identità comune
che rende accettabile di pagare le tasse per aiutare i propri concittadini. Ma questo popolo europeo non
esiste (almeno per il momento) e certamente gli inglesi non sentono di appartenervi. L'unica rivoluzione
in cui si riconoscono è quella inglese, la "gloriosa" rivoluzione del 1688. Per loro la Rivoluzione francese è
un atto sanguinario, un prodromo infausto di quella sovietica.
L'ironia è che gli inglesi vedono il rapporto tra stato nazione e guerre in modo capovolto rispetto al resto
d'Europa. L'ideologia europeista prevalente nel Continente ritiene che lo stato nazione sia la radice da
estirpare di un male che ha prodotto due guerre mondiali. Gli inglesi, invece, vedono nello Stato
nazionale la difesa contro pericolose ideologie internazionaliste che hanno devastato l'Europa per più di
due secoli: dal giacobinismo al comunismo, passando per il nazismo.
L'unico argomento antieuropeista non presente alla conferenza era la xenofobia a la Farange. Due ex
ministri anglofoni (un australiano e uno canadese) hanno lodato l'immigrazione, come una enorme fonte
di ricchezza e di sviluppo per i loro Paesi. Anche se hanno messo in evidenza l'importanza che
l'immigrazione avvenga in modo da rendere possibile l'integrazione. Lo stato nazionale può essere
multirazziale, ma non multiculturale: si basa su valori condivisi. Gli immigrati devono assorbire questi
valori e lo possono fare solo se l'immigrazione non è troppo concentrata temporalmente.
Anche se il sentimento prevalente alla conferenza era antieuropeista, non tutti i presenti erano a favore di
una uscita dalla Ue. Non tanto per un amore verso il progetto, ma per paura delle conseguenze che la
Gran Bretagna potrebbe trovarsi a dover fronteggiare. La convinzione è che Francia, Germania, Spagna
siano Paesi tendenzialmente protezionisti. Senza l'Unione europea, anche il Mercato comune rischierebbe
di disintegrarsi. Un rischio che molti inglesi non vogliono correre.
Speriamo che questi timori abbiano la meglio. L'uscita della Gran Bretagna indebolirebbe l'Europa non
solo economicamente, ma politicamente e culturalmente. Guardando il mondo dal basso in alto spesso si
notano degli aspetti che gli altri non vedono. Per quanto talora possa risultare fastidiosa, la diversità
culturale dell'Inghilterra è un grande valore. Senza di loro l'Europa sarebbe più povera.
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