AlimentarEuropeo - Rivista di diritto alimentare
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AlimentarEuropeo Giurisprudenza della Corte di giustizia in materia alimentare a cura di Paolo Borghi e Laura Salvi Prodotti alcolici e nomenclatura combinata ai fini dell’applicazione della tariffa doganale comune. (Sentenza della Corte del 14 luglio 2011, causa C-196/10, Paderborner Brauerei Haus Cramer KG c. Hauptzollamt Bielefeld) La Corte di giustizia, pronunciandosi a definizione del caso C-196/10, è intervenuta a chiarire come debba essere classificato, ai fini dell’applicazione della tariffa doganale comune, un prodotto consistente in un liquido avente un titolo alcolometrico volumico del 14%, ottenuto da una birra sottoposta a processo di decantazione e ultrafiltrazione, e non destinato alla consumazione finale, bensì utilizzato quale prodotto intermedio per la produzione di una diversa bevanda. Il prodotto in questione, la «malt beer base», era stato acquistato nei Paesi bassi dalla Paderborner Brauerei, che si era vista applicare dall’ufficio doganale tedesco un’imposta sugli alcolici in linea con la classificazione di tale prodotto nella voce 2208 («Alcole etilico non denaturato con titolo alcolometrico volumico inferiore a 80% vol.») della NC - nomenclatura combinata della tariffa doganale comune - di cui all’allegato I del Regolamento (CE) n. 2658/1987. L’impresa - ritenendo che la «malt beer base» dovesse invece essere classificata sotto la voce 2203 della NC («Birra di malto») in quanto prodotto ottenuto per fermentazione e non mediante distillazione o aggiunta di varie sostanze aromatiche o zuccheri - aveva proposto ricorso davanti al giudice nazionale, che aveva deciso di chiedere alla Corte di giustizia di esprimersi sulla questione. I Giudici, dopo aver ricordato che il criterio decisivo per la classificazione doganale delle merci è da ricercarsi nelle loro caratteristiche e proprietà oggettive, quali definite nel testo della voce della NC, ha osservato che la «malt beer base» non presenta le caratteristiche e proprietà della birra di cui alla voce 2203 della NC, bensì quelle dell’alcole etilico di cui alla voce 2208; secondo la Corte, non pregiudicano la sua classificazione in tale voce né il fatto che la «malt beer base» abbia un odore alcolico e un sapore leggermente amaro (dato che non è richiesta un’assenza completa di sapore o di aroma affinché un prodotto possa essere classificato come alcole etilico), 1 né la circostanza che si tratti di prodotto intermedio, ricomprendendo la voce 2208 l’alcole etilico destinato sia all’alimentazione umana che ad usi industriali. In ogni caso, viene osservato, il prodotto in questione non è ottenuto mediante fermentazione pura e semplice, poiché ad essa segue una procedura di ultrafiltrazione che porta alla perdita delle caratteristiche e proprietà oggettive proprie della birra, con conseguente impossibilità di una sua classificazione come “birra” alla voce 2203 della NC. OGM e contaminazione di alimenti: la commercializzazione di miele contenente OGM deve essere previamente autorizzata ai sensi del Regolamento (CE) n. 1829/2003. (Sentenza della Corte del 6 Settembre 2011, causa C-442/09, Karl Heinz Bablok e a. c. Freistaat Bayern) E’ del 6 settembre 2011 la pronuncia della Corte di Giustizia resa a definizione del procedimento C-442/09, in cui i Giudici dell’Unione hanno affrontato la dibattuta questione della coesistenza tra colture geneticamente modificate e tradizionali. La vicenda all’origine della controversia riguarda la contaminazione accidentale di miele e altri prodotti apistici da parte di polline di mais geneticamente modificato MON 810. La Corte, sulle questioni pregiudiziali sottopostele dal Tribunale amministrativo del Land della Baviera, si è pronunciata in piena conformità con le conclusioni precedentemente rese dall’Avvocato generale Bot. Essa ha innanzitutto statuito che una sostanza, quale il polline di mais geneticamente modificato di cui trattasi nella causa, che abbia perso la sua capacità riproduttiva e non sia in grado, dunque, di trasferire il materiale genetico in esso contenuto, non può essere considerata come organismo geneticamente modificato ai sensi dell’art. 2, punto 5, del Reg. 1829/2003. Con riferimento poi alla questione - subordinata alla soluzione negativa della prima se la mera presenza di materiale proveniente da varietà vegetali geneticamente modificate (polline di mais MON 810) in un alimento quali miele e integratori a base di polline sia sufficiente per considerare quest’ultimo come «prodotto a partire da OGM», la Corte ha risposto in senso positivo. Il polline rientra, infatti, tra quelle sostanze considerate normali componenti del miele ai sensi dell’allegato II della direttiva 2001/110 e trattandosi, dunque, di una sostanza «utilizzata nella fabbricazione o nella preparazione di un prodotto alimentare ancora presente nel prodotto finito» esso deve essere qualificato come “ingrediente” del miele (e degli integratori alimentari a base di polline) ai sensi degli artt. 2, punto 13, del reg. 1829/2003 e 6, n. 4, lett. a), della direttiva 2000/13; il miele e gli integratori a base di polline contenenti polline di mais transgenico MON 810 sono quindi da considerarsi «alimenti che contengono ingredienti prodotti a partire da OGM» ai sensi dell’art. 3, n.1, lett. c) del Reg. 2 1829/2003, senza che rilevi il carattere intenzionale o accidentale della contaminazione, e devono perciò sottostare al regime di autorizzazione all’immissione in commercio, etichettatura e monitoraggio previsto dal Regolamento 1829/2003. I Giudici europei hanno altresì sancito che l’obbligo di autorizzazione, etichettatura e vigilanza per tali prodotti vige quale che sia l’entità del materiale geneticamente modificato in essi contenuto; applicare soglie di tolleranza, quali quella prevista in materia di etichettatura dallo stesso Regolamento, all’obbligo di autorizzazione e vigilanza priverebbe di utilità le disposizioni che lo prevedono e contrasterebbe, in definitiva, con lo scopo di garantire un «elevato livello di tutela della vita e della salute umana» su cui si fonda la normativa in questione. A seguito della qui sopra descritta sentenza dei Giudici europei, la Commissione ha chiesto ad EFSA di fornire assistenza scientifica in merito alla sicurezza del polline prodotto dal mais MON810 1 . Nella dichiarazione adottata dall’Autorità il 20 Ottobre 2011 2 , il gruppo scientifico GMO dell’EFSA è giunto alla seguente conclusione: «While the EFSA GMO Panel is not in a position to conclude on the safety of maize pollen in or as food in general, it concludes that the genetic modification in MON 810 maize does not constitute and additional health risk if MON810 maize does not constitute and additional health risk if MON 810 maize pollen were to replace maize pollen from non-GM maize in or as food». Base di partenza dell’analisi condotta dagli esperti del GMO panel è costituita dal risk assessment già compiuto con riferimento al mais MON810; in precedenza, infatti, nell’ambito della procedura di rinnovo dell’autorizzazione del prodotto, il GMO panel aveva concluso che il mais Gm MON810 è sicuro quanto il mais non geneticamente modificato 3 , non identificandosi alcun rischio in relazione alla presenza in esso della proteina Cry1Ab (determinante la resistenza agli insetti). Poiché la proteina Cry1Ab è presente nel polline di mais MON810 – peraltro a livelli minori rispetto alla quantità rinvenibile in altri parti della pianta – le valutazioni e le conclusioni relative alla (1) 4 October 2011, Ref. SANCO/E1/SP/mb Ares (2011) 1144054 (2) EFSA, Statement on the safety of MON810 maize pollen occurring in or as food, EFSA Journal 2011, 9(11): 2434, p. 7 ss. Available online: www.efsa.europa.eu/efsajournal (3) Scientific Opinion of the Panel on Genetically Modified Organisms on applications (EFSA-GMORXMON810) for the renewal of authorization for the continued marketing of (1) existing food and food ingredients produced from genetically modified insect resistant maize MON810; (2) feed consisting of and/or containing maize MON810, including the use of seed for cultivation; and of (3) food and feed additives, and feed materials produced from maize MON810, all under Regulation (EC) No 1829/2003 from Monsanto. The EFSA Journal (2009) 1149, 1-85, available on line: http://www.efsa.europa.eu/it/efsajournal/doc/1149.pdf 3 sicurezza della stessa sono state estese dal GMO panel anche con riguardo al polline di mais MON810: «As no concerns have been identified over the safety of MON810 maize relative to that of non-GM maize […], the EFSA GMO Panel considers it is unlikely that the replacement of non-GM maize pollen with MON810 maize pollen would raise additional safety issues». Nonostante, dunque, la scarsità di dati disponibili in merito alle caratteristiche di composizione e sicurezza del polline di mais in generale, e al polline di mais MON810 in particolare, gli esperti del panel OGM ne hanno affermato – in via inferenziale e in termini probabilistici – la non rischiosità. Legittimazione all’adozione di misure di emergenza da parte degli Stati membri nel settore degli Ogm: condizioni sostanziali e procedurali. (Sentenza della Corte di giustizia dell’8 settembre 2011, cause riunite da C-58/10 a C-68/10, Monsanto SAS e altri c. Ministre de l’Agriculture et de la Pêche) A distanza di pochi mesi dalle conclusioni dell’Avvocato generale Mengozzi è intervenuta la sentenza dei Giudici europei nel caso Monsanto SAS e altri, in cui la Corte, riprendendo sostanzialmente il contenuto delle suddette conclusioni, ha definito la base e la portata dell’esercizio del potere di adozione di misure d’urgenza da parte degli Stati membri, nel settore degli Ogm e anche, più in generale, nel settore alimentare ai sensi degli artt. 53 e 54 del regolamento 178/2002. Il ministero dell’agricoltura e della pesca francese, con successivi decreti, aveva disposto la sospensione della coltivazione delle sementi di mais Gm MON810; nel notificare il decreto ministeriale da ultimo emanato (del 13 febbraio 2008, intervenuto a modifica del precedente decreto del 7 febbraio), in particolare, le autorità francesi avevano indicato quale norma europea di riferimento l’art. 23 della dir. 2001/18, che prevede la possibilità da parte di uno Stato di limitare la vendita o l’uso sul proprio territorio di un Ogm per il quale si abbiano fondati motivi di ritenere che esso comporti rischi per la salute umana o per l’ambiente (clausola di salvaguardia). La Monsanto - che aveva ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio del mais MON810 sotto la vigenza della direttiva 90/220 ed aveva poi proceduto alla notifica alla Commissione dell’Ogm come “prodotto esistente” ex art. 20, n. 1, lett. a) del Reg. 1829/2003 - impugnava davanti al Conseil d’Etat il suddetto provvedimento statale facendo valere l’applicabilità delle sole disposizioni di quest’ultimo regolamento comunitario, posto che, peraltro, del medesimo prodotto era pendente il procedimento di rinnovo dell’autorizzazione. Il Giudice francese sospendeva il procedimento investendo la Corte di giustizia di diverse questioni pregiudiziali. 4 I Giudici europei, nell’affrontare la questione relativa al fondamento giuridico della misura di sospensione della coltivazione del mais MON810 stabilita dalle autorità francesi, precisano anzitutto l’applicabilità del sopra richiamato art. 20, n. 1, del reg. 1829/2003 anche a prodotti utilizzati in quanto sementi di Ogm (e non solo in quanto alimenti o mangimi); osservato poi come l’art. 20, n. 5, dello stesso Regolamento disponga l’applicabilità per analogia ai c.d. “prodotti esistenti” delle disposizioni di cui agli artt. 21, 22 e 34 dello stesso regolamento, la Corte afferma chiaramente l’applicabilità alla misura in questione dell’art. 34, relativo alle “misure d’emergenza”. Quanto alla portata di tale disposizione, viene precisato che essa si limita a definire le condizioni sostanziali dell’adozione di “misure di emergenza”, rinviando poi all’art. 54 del Reg. 178/2002 per quanto riguarda le condizioni procedurali da rispettare in siffatta adozione, condizioni che vanno interpretate nell’ottica dell’urgenza cui tale previsione (così come, in generale, gli artt. 53 ss. del regolamento) è ispirata, nonché alla luce dello scopo di tutela della salute perseguito dall’intera normativa, e la cui osservanza deve essere verificata dal giudice nazionale. Gli Stati, ai sensi dell’art. 54, devono in particolare informare la Commissione il più rapidamente possibile, comunque non oltre il momento dell’adozione delle misure urgenti; oltre all’urgenza, è necessario poi che lo Stato membro interessato dimostri la sussistenza di una situazione che possa portare ad un rischio serio e manifesto per la salute o l’ambiente, dovendo tali misure essere fondate su una valutazione dei rischi quanto più possibile completa e non essendo, invece, sufficiente un approccio puramente ipotetico del rischio. Conflitti tra marchi e prova del “serio utilizzo” nella Comunità del marchio anteriore. (Sentenza del Tribunale del 22 settembre 2011, causa T-250/09, Cesea Group Srl c. UAMI) La pronuncia del Tribunale del 22 settembre scorso arriva a definizione di una controversia nascente dal conflitto tra un marchio comunitario e un marchio anteriore usato con riferimento agli stessi beni e servizi, nella specie, prodotti agro-alimentari. In particolare, la Mangini Srl aveva chiesto che fosse dichiarata la nullità del marchio “Mangiami”, di proprietà della Cesea Group Srl, per via dell’esistenza dell’anteriore registrazione internazionale del marchio denominativo “MANGINI”. La camera di annullamento dell’UAMI aveva tuttavia respinto la domanda sulla base della motivazione per cui la richiedente non era riuscita a fornire prova dell’uso del marchio anteriore, con riferimento ai beni e ai servizi interessati, conformemente all’art. 56, nn. 2 e 3, del regolamento n. 40/94 (divenuto art. 57, nn. 2 e 3, del regolamento n. 207/2009). La Mangini srl impugnava la decisione davanti alla seconda 5 commissione di ricorso dell’UAMI, la quale, ritenendo che la documentazione prodotta dalla richiedente fosse tale da dimostrare l’uso serio del marchio anteriore e che il ragionamento che aveva condotto la divisione di annullamento a ritenerla invece insufficiente costituisse un elemento nuovo, accoglieva parzialmente la domanda di dichiarazione di nullità. La Cesea group Srl, titolare del marchio comunitario contestato, ha proposto impugnazione della suddetta decisione di fronte al Tribunale. Questo, pur rilevando come la regola di cui all’art. 22 del reg. 2868/95 relativa alla prova dell’utilizzazione non può essere interpretata nel senso di impedire la considerazione di ulteriori elementi di prova, anche se forniti dopo il termine fissato dall’UAMI, ha stabilito che il ragionamento che aveva condotto la divisione di annullamento a ritenere insufficienti le prove fornite dalla richiedente non poteva essere considerato come “elemento nuovo”, giustificante la presentazione di prove ulteriori per la prima volta dinanzi alla commissione di ricorso; questa, dunque, erroneamente aveva ritenuto ammissibili tale ulteriori prove e annullato parzialmente la registrazione del marchio comunitario. Alla luce di tali considerazioni il Tribunale ha annullato la decisione della commissione di ricorso dell’UAMI. La complessa vicenda dei marchi “Bud” e “Budweiser”: l’interpretazione degli artt. 4, n 1, lett. a) e 9, n. 1, della direttiva 89/104/CE. (Sentenza della Corte del 22 settembre 2011, causa C-289/09, Budějovický Budvar c. Anheuser-Busch Inc.) La vicenda oggetto della pronuncia in epigrafe ha origine dalla registrazione nel Regno Unito del marchio denominativo “budweiser” per i prodotti «birra, ale e porter» da parte di due imprese produttrici di birra, la Anheuser Busch, con sede negli Stati Uniti, e la Budvar, operante nella Repubblica ceca, e titolare nel Regno Unito anche del marchio “Bud”. I conflitti in merito alla registrazione del marchio “Budweiser” tra le due società sono culminati con l’impugnazione davanti alla Court of Appeal, da parte della Budvar, della decisione della High Court of Justice che aveva confermato la nullità della registrazione del marchio d’impresa “Budweiser” (domandata dalla stessa impresa nel gennaio del 1989) per via del rilevato conflitto con la precedente registrazione dello stesso marchio avvenuto in favore della Anheuser Busch. Il giudice inglese ha sospeso il procedimento sottoponendo alla Corte diverse questioni pregiudiziali attinenti l’interpretazione degli artt. 4 e 9 della direttiva 89/104 in materia di marchi d’impresa (oggi sostituita dalla direttiva 2008/95/CE). 6 Il giudice del rinvio ha chiesto anzitutto ai Giudici europei di chiarire quale sia il significato del termine “tollerato” di cui all’art. 9 della direttiva, e se esso, in particolare, possa considerarsi una nozione di diritto comunitario. L’articolo in questione – ricordiamolo – prevedeva l’impossibilità per Il titolare di un marchio di impresa anteriore (alla stregua del precedente art. 4, par. 2) di domandare la dichiarazione di nullità del marchio posteriore ed opporsi all’uso dello stesso se durante cinque anni consecutivi esso avesse coscientemente tollerato l’uso in uno Stato membro del marchio posteriore registrato in detto Stato. La Corte ha rilevato come il termine “tolleranza”, da qualificarsi come nozione del diritto dell’Unione, denoti un atteggiamento passivo di astensione dall’adozione di contromisure di cui si dispone per rimediare ad una situazione che, seppur conosciuta, può essere non desiderata; di qui, non può considerarsi “tollerato”, ex art. 9, dir. 89/104, da parte del titolare di un marchio anteriore, l’uso in buona fede consolidato e di lunga durata da parte di un terzo di un marchio posteriore identico a quello di tale titolare qualora quest’ultimo non abbia avuto alcuna possibilità di opporsi a tale uso. Con riferimento, poi, al profilo relativo al momento dal quale il suddetto termine di 5 anni decorre, la Corte ha precisato che la registrazione del marchio anteriore nello Stato membro interessato non costituisce una condizione necessaria per far decorrere il termine di preclusione per tolleranza sancito dall’art. 9, n. 1, della direttiva 89/104, dovendosi individuare tali condizioni nella registrazione del marchio posteriore nello Stato interessato, nell’avvenuto deposito di tale marchio in buona fede e nel suo uso da parte del titolare nello stato in cui è stato registrato e, infine, nella consapevolezza da parte del titolare del marchio anteriore della registrazione e dell’uso del marchio posteriore. Viene stabilito, infine, che l’art. 4, n.1, lett. a) della direttiva 89/104 deve essere interpretato nel senso che il titolare di un marchio anteriore non può ottenere l’annullamento di un marchio posteriore identico che designa prodotti identici in caso di uso simultaneo in buona fede e di lunga durata di tali due marchi d’impresa quando - come nel caso di specie - tale uso non pregiudica o non sia suscettibile di pregiudicare la funzione essenziale del marchio d’impresa, consistente nel garantire ai consumatori l’origine dei prodotti o dei servizi. Slogan pubblicitari e “carattere distintivo”. (Sentenza del Tribunale del 23 settembre 2011, causa T-251/08, Vion NV c. Office de l’harmonisation dans le marché intérieur (marques, dessins et modèles – OHMI) Un segno verbale che si traduca in uno slogan pubblicitario rivolto ad un certo target di consumatori indicando che i prodotti offerti sono di elevata qualità, e dunque si 7 concreti in niente più che un’informazione promozionale astratta, non può dirsi dotato di carattere distintivo e quindi essere qualificato come marchio ai sensi della normativa comunitaria. Questa è la conclusione cui è giunto, nel caso T-251/08, il Tribunale di primo grado, davanti al quale era stato proposto ricorso contro la decisione con cui la IV commissione di ricorso dell’UAMI aveva rigettato la domanda di registrazione come marchio comunitario del segno verbale «PASSION FOR BETTER FOOD» per le categorie di beni e servizi di cui alle classi 5, 29 e 30; la commissione dell’UAMI aveva infatti ritenuto che il suddetto segno verbale si limitasse a fornire indicazioni ai consumatori circa la qualità dei prodotti ai quali esso si riferiva, ma non informazioni sulla loro origine commerciale, risultando pertanto privo del «carattere distintivo» di cui all’art. 7, par.1, lett. b) del reg. 40/94. I Giudici, ricordando anzitutto che il carattere distintivo di un marchio deve essere oggetto di una valutazione globale, sia in relazione ai prodotti e servizi per i quali si chiede la registrazione, sia in relazione alla percezione che di essi hanno i consumatori, hanno rigettato il ricorso promosso dalla Vion NV avverso la suddetta decisione. Essi hanno affermato che il significato astratto dello slogan «PASSION FOR BETTER FOOD» - riferendosi esso alla qualità astratta di determinati prodotti non sarebbe tale da fornire l’indicazione della natura commerciale di tali prodotti al consumatore medio, il quale non sarebbe in grado di memorizzarlo facilmente e in via immediata quale marchio dei prodotti ai quali si riferisce. Di qui, secondo il Tribunale, la correttezza della valutazione dell’UAMI circa l’assenza di carattere distintivo del segno verbale in questione e la legittimità del rigetto della domanda di registrazione come marchio comunitario. “Rischio di confusione” ed “elemento dominante” nella valutazione sulla similitudine tra marchi. (Sentenza del Tribunale, 15 novembre 2011, causa T-276/10, El Coto De Rioja, SA c. Office de l’harmonisation dans le marché intérieur (marques, dessins et modèles - OHMI) Con la recente pronuncia del 15 novembre 2011, resa nel caso T-276/10, i Giudici europei sono intervenuti ancora una volta nella “vivace” materia dei marchi comunitari applicata ai prodotti agro-alimentari. La vicenda riguardava la registrazione come marchio della denominazione “COTO DE GOMARIZ”, per un prodotto classificato quale “vino”, registrazione che successivamente, su richiesta dell’impresa El Coto de Rioja, era stata annullata sulla base dell’esistenza di un rischio di confusione tra il suddetto marchio e gli anteriori 8 marchi comunitari, di proprietà della stessa impresa, “EL COTO” e “COTO DE IMAZ”, noti in Spagna come riferiti alla categoria dei vini. Tale decisione era stata a sua volta successivamente annullata dalla IV commissione di ricorso dell’UAMI (28 aprile 2010, R 1020/2008-4), secondo la quale i segni in conflitto, pur riferendosi ad identici prodotti, erano ben distinti sul piano visivo e fonetico, atteso, in particolare, che pur essendo il termine “coto” automaticamente associato dai consumatori spagnoli al generico prodotto vino, i termini “gomariz” e “imaz”, assumono un carattere fortemente distintivo, sì da escludere l’esistenza di qualsivoglia rischio di confusione. L’impresa titolare dei precedenti marchi “EL COTO” e “COTO DE IMAZ” ha impugnato tale decisione davanti al Tribunale di primo grado asserendo la violazione da parte dell’UAMI degli artt. 53, par. 1, 8, par. 1, lett. b) e 8, par. 5 del Regolamento 207/2009. Il Tribunale, richiamando la sua giurisprudenza sul punto, ha innanzitutto ricordato come il rischio di confusione debba essere valutato globalmente sulla base della percezione che il pubblico ha dei beni o servizi in questione e come l’elemento di un marchio complesso, seppur dotato di un basso valore distintivo, possa comunque assurgere ad elemento “dominante” nella valutazione della somiglianza tra marchi. I Giudici, sulla scorta di tali considerazioni, hanno osservato che il termine “coto” contrariamente a quanto ritenuto dalla camera di ricorso dell’UAMI - rappresenta un fattore di somiglianza significativo tra i marchi in conflitto, atto ad incidere rilevantemente nella percezione del pubblico rispetto a tali segni; erroneamente, dunque, la decisione impugnata aveva ritenuto sussistere delle differenze evidenti tra le espressioni «coto de imaz» e «coto de gomariz», non considerando il peso che il termine “coto” - quale elemento di similitudine - ha rispetto alla percezione dei consumatori. Ritenuto, dunque, l’errore di valutazione dell’UAMI nel negare l’esistenza di una somiglianza significativa sul piano fonetico, visivo e concettuale e, di conseguenza, la sussistenza di un rischio di confusione, tra i marchi in conflitto, il Tribunale ha accolto il ricorso e annullato la decisione dell’UAMI. 9