AlimentarEuropeo - Rivista di diritto alimentare

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AlimentarEuropeo - Rivista di diritto alimentare
AlimentarEuropeo
Giurisprudenza della Corte di giustizia
in materia alimentare
a cura di Paolo Borghi e Laura Salvi
Prodotti alcolici e nomenclatura combinata ai fini dell’applicazione della tariffa
doganale comune. (Sentenza della Corte del 14 luglio 2011, causa C-196/10,
Paderborner Brauerei Haus Cramer KG c. Hauptzollamt Bielefeld)
La Corte di giustizia, pronunciandosi a definizione del caso C-196/10, è intervenuta a
chiarire come debba essere classificato, ai fini dell’applicazione della tariffa doganale
comune, un prodotto consistente in un liquido avente un titolo alcolometrico volumico
del 14%, ottenuto da una birra sottoposta a processo di decantazione e
ultrafiltrazione, e non destinato alla consumazione finale, bensì utilizzato quale
prodotto intermedio per la produzione di una diversa bevanda. Il prodotto in questione,
la «malt beer base», era stato acquistato nei Paesi bassi dalla Paderborner Brauerei,
che si era vista applicare dall’ufficio doganale tedesco un’imposta sugli alcolici in linea
con la classificazione di tale prodotto nella voce 2208 («Alcole etilico non denaturato
con titolo alcolometrico volumico inferiore a 80% vol.») della NC - nomenclatura
combinata della tariffa doganale comune - di cui all’allegato I del Regolamento (CE) n.
2658/1987. L’impresa - ritenendo che la «malt beer base» dovesse invece essere
classificata sotto la voce 2203 della NC («Birra di malto») in quanto prodotto ottenuto
per fermentazione e non mediante distillazione o aggiunta di varie sostanze
aromatiche o zuccheri - aveva proposto ricorso davanti al giudice nazionale, che
aveva deciso di chiedere alla Corte di giustizia di esprimersi sulla questione.
I Giudici, dopo aver ricordato che il criterio decisivo per la classificazione doganale
delle merci è da ricercarsi nelle loro caratteristiche e proprietà oggettive, quali definite
nel testo della voce della NC, ha osservato che la «malt beer base» non presenta le
caratteristiche e proprietà della birra di cui alla voce 2203 della NC, bensì quelle
dell’alcole etilico di cui alla voce 2208; secondo la Corte, non pregiudicano la sua
classificazione in tale voce né il fatto che la «malt beer base» abbia un odore alcolico
e un sapore leggermente amaro (dato che non è richiesta un’assenza completa di
sapore o di aroma affinché un prodotto possa essere classificato come alcole etilico),
1
né la circostanza che si tratti di prodotto intermedio, ricomprendendo la voce 2208
l’alcole etilico destinato sia all’alimentazione umana che ad usi industriali. In ogni
caso, viene osservato, il prodotto in questione non è ottenuto mediante fermentazione
pura e semplice, poiché ad essa segue una procedura di ultrafiltrazione che porta alla
perdita delle caratteristiche e proprietà oggettive proprie della birra, con conseguente
impossibilità di una sua classificazione come “birra” alla voce 2203 della NC.
OGM e contaminazione di alimenti: la commercializzazione di miele contenente OGM
deve essere previamente autorizzata ai sensi del Regolamento (CE) n. 1829/2003.
(Sentenza della Corte del 6 Settembre 2011, causa C-442/09, Karl Heinz Bablok e a.
c. Freistaat Bayern)
E’ del 6 settembre 2011 la pronuncia della Corte di Giustizia resa a definizione del
procedimento C-442/09, in cui i Giudici dell’Unione hanno affrontato la dibattuta
questione della coesistenza tra colture geneticamente modificate e tradizionali. La
vicenda all’origine della controversia riguarda la contaminazione accidentale di miele e
altri prodotti apistici da parte di polline di mais geneticamente modificato MON 810.
La Corte, sulle questioni pregiudiziali sottopostele dal Tribunale amministrativo del
Land della Baviera, si è pronunciata in piena conformità con le conclusioni
precedentemente rese dall’Avvocato generale Bot. Essa ha innanzitutto statuito che
una sostanza, quale il polline di mais geneticamente modificato di cui trattasi nella
causa, che abbia perso la sua capacità riproduttiva e non sia in grado, dunque, di
trasferire il materiale genetico in esso contenuto, non può essere considerata come
organismo geneticamente modificato ai sensi dell’art. 2, punto 5, del Reg. 1829/2003.
Con riferimento poi alla questione - subordinata alla soluzione negativa della prima se la mera presenza di materiale proveniente da varietà vegetali geneticamente
modificate (polline di mais MON 810) in un alimento quali miele e integratori a base di
polline sia sufficiente per considerare quest’ultimo come «prodotto a partire da OGM»,
la Corte ha risposto in senso positivo. Il polline rientra, infatti, tra quelle sostanze
considerate normali componenti del miele ai sensi dell’allegato II della direttiva
2001/110 e trattandosi, dunque, di una sostanza «utilizzata nella fabbricazione o nella
preparazione di un prodotto alimentare ancora presente nel prodotto finito» esso deve
essere qualificato come “ingrediente” del miele (e degli integratori alimentari a base di
polline) ai sensi degli artt. 2, punto 13, del reg. 1829/2003 e 6, n. 4, lett. a), della
direttiva 2000/13; il miele e gli integratori a base di polline contenenti polline di mais
transgenico MON 810 sono quindi da considerarsi «alimenti che contengono
ingredienti prodotti a partire da OGM» ai sensi dell’art. 3, n.1, lett. c) del Reg.
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1829/2003, senza che rilevi il carattere intenzionale o accidentale della
contaminazione, e devono perciò sottostare al regime di autorizzazione all’immissione
in commercio, etichettatura e monitoraggio previsto dal Regolamento 1829/2003. I
Giudici europei hanno altresì sancito che l’obbligo di autorizzazione, etichettatura e
vigilanza per tali prodotti vige quale che sia l’entità del materiale geneticamente
modificato in essi contenuto; applicare soglie di tolleranza, quali quella prevista in
materia di etichettatura dallo stesso Regolamento, all’obbligo di autorizzazione e
vigilanza priverebbe di utilità le disposizioni che lo prevedono e contrasterebbe, in
definitiva, con lo scopo di garantire un «elevato livello di tutela della vita e della salute
umana» su cui si fonda la normativa in questione.
A seguito della qui sopra descritta sentenza dei Giudici europei, la Commissione ha
chiesto ad EFSA di fornire assistenza scientifica in merito alla sicurezza del polline
prodotto dal mais MON810 1 .
Nella dichiarazione adottata dall’Autorità il 20 Ottobre 2011 2 , il gruppo scientifico GMO
dell’EFSA è giunto alla seguente conclusione: «While the EFSA GMO Panel is not in a
position to conclude on the safety of maize pollen in or as food in general, it concludes
that the genetic modification in MON 810 maize does not constitute and additional
health risk if MON810 maize does not constitute and additional health risk if MON 810
maize pollen were to replace maize pollen from non-GM maize in or as food».
Base di partenza dell’analisi condotta dagli esperti del GMO panel è costituita dal risk
assessment già compiuto con riferimento al mais MON810; in precedenza, infatti,
nell’ambito della procedura di rinnovo dell’autorizzazione del prodotto, il GMO panel
aveva concluso che il mais Gm MON810 è sicuro quanto il mais non geneticamente
modificato 3 , non identificandosi alcun rischio in relazione alla presenza in esso della
proteina Cry1Ab (determinante la resistenza agli insetti). Poiché la proteina Cry1Ab è
presente nel polline di mais MON810 – peraltro a livelli minori rispetto alla quantità
rinvenibile in altri parti della pianta – le valutazioni e le conclusioni relative alla
(1) 4 October 2011, Ref. SANCO/E1/SP/mb Ares (2011) 1144054
(2) EFSA, Statement on the safety of MON810 maize pollen occurring in or as food, EFSA Journal
2011, 9(11): 2434, p. 7 ss. Available online: www.efsa.europa.eu/efsajournal
(3) Scientific Opinion of the Panel on Genetically Modified Organisms on applications (EFSA-GMORXMON810) for the renewal of authorization for the continued marketing of (1) existing food and food
ingredients produced from genetically modified insect resistant maize MON810; (2) feed consisting of
and/or containing maize MON810, including the use of seed for cultivation; and of (3) food and feed
additives, and feed materials produced from maize MON810, all under Regulation (EC) No 1829/2003
from
Monsanto.
The
EFSA
Journal
(2009)
1149,
1-85,
available
on
line:
http://www.efsa.europa.eu/it/efsajournal/doc/1149.pdf
3
sicurezza della stessa sono state estese dal GMO panel anche con riguardo al polline
di mais MON810: «As no concerns have been identified over the safety of MON810
maize relative to that of non-GM maize […], the EFSA GMO Panel considers it is
unlikely that the replacement of non-GM maize pollen with MON810 maize pollen
would raise additional safety issues».
Nonostante, dunque, la scarsità di dati disponibili in merito alle caratteristiche di
composizione e sicurezza del polline di mais in generale, e al polline di mais MON810
in particolare, gli esperti del panel OGM ne hanno affermato – in via inferenziale e in
termini probabilistici – la non rischiosità.
Legittimazione all’adozione di misure di emergenza da parte degli Stati membri nel
settore degli Ogm: condizioni sostanziali e procedurali. (Sentenza della Corte di
giustizia dell’8 settembre 2011, cause riunite da C-58/10 a C-68/10, Monsanto SAS e
altri c. Ministre de l’Agriculture et de la Pêche)
A distanza di pochi mesi dalle conclusioni dell’Avvocato generale Mengozzi è
intervenuta la sentenza dei Giudici europei nel caso Monsanto SAS e altri, in cui la
Corte, riprendendo sostanzialmente il contenuto delle suddette conclusioni, ha definito
la base e la portata dell’esercizio del potere di adozione di misure d’urgenza da parte
degli Stati membri, nel settore degli Ogm e anche, più in generale, nel settore
alimentare ai sensi degli artt. 53 e 54 del regolamento 178/2002.
Il ministero dell’agricoltura e della pesca francese, con successivi decreti, aveva
disposto la sospensione della coltivazione delle sementi di mais Gm MON810; nel
notificare il decreto ministeriale da ultimo emanato (del 13 febbraio 2008, intervenuto a
modifica del precedente decreto del 7 febbraio), in particolare, le autorità francesi
avevano indicato quale norma europea di riferimento l’art. 23 della dir. 2001/18, che
prevede la possibilità da parte di uno Stato di limitare la vendita o l’uso sul proprio
territorio di un Ogm per il quale si abbiano fondati motivi di ritenere che esso comporti
rischi per la salute umana o per l’ambiente (clausola di salvaguardia).
La Monsanto - che aveva ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio del
mais MON810 sotto la vigenza della direttiva 90/220 ed aveva poi proceduto alla
notifica alla Commissione dell’Ogm come “prodotto esistente” ex art. 20, n. 1, lett. a)
del Reg. 1829/2003 - impugnava davanti al Conseil d’Etat il suddetto provvedimento
statale facendo valere l’applicabilità delle sole disposizioni di quest’ultimo regolamento
comunitario, posto che, peraltro, del medesimo prodotto era pendente il procedimento
di rinnovo dell’autorizzazione. Il Giudice francese sospendeva il procedimento
investendo la Corte di giustizia di diverse questioni pregiudiziali.
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I Giudici europei, nell’affrontare la questione relativa al fondamento giuridico della
misura di sospensione della coltivazione del mais MON810 stabilita dalle autorità
francesi, precisano anzitutto l’applicabilità del sopra richiamato art. 20, n. 1, del reg.
1829/2003 anche a prodotti utilizzati in quanto sementi di Ogm (e non solo in quanto
alimenti o mangimi); osservato poi come l’art. 20, n. 5, dello stesso Regolamento
disponga l’applicabilità per analogia ai c.d. “prodotti esistenti” delle disposizioni di cui
agli artt. 21, 22 e 34 dello stesso regolamento, la Corte afferma chiaramente
l’applicabilità alla misura in questione dell’art. 34, relativo alle “misure d’emergenza”.
Quanto alla portata di tale disposizione, viene precisato che essa si limita a definire le
condizioni sostanziali dell’adozione di “misure di emergenza”, rinviando poi all’art. 54
del Reg. 178/2002 per quanto riguarda le condizioni procedurali da rispettare in siffatta
adozione, condizioni che vanno interpretate nell’ottica dell’urgenza cui tale previsione
(così come, in generale, gli artt. 53 ss. del regolamento) è ispirata, nonché alla luce
dello scopo di tutela della salute perseguito dall’intera normativa, e la cui osservanza
deve essere verificata dal giudice nazionale. Gli Stati, ai sensi dell’art. 54, devono in
particolare informare la Commissione il più rapidamente possibile, comunque non oltre
il momento dell’adozione delle misure urgenti; oltre all’urgenza, è necessario poi che
lo Stato membro interessato dimostri la sussistenza di una situazione che possa
portare ad un rischio serio e manifesto per la salute o l’ambiente, dovendo tali misure
essere fondate su una valutazione dei rischi quanto più possibile completa e non
essendo, invece, sufficiente un approccio puramente ipotetico del rischio.
Conflitti tra marchi e prova del “serio utilizzo” nella Comunità del marchio anteriore.
(Sentenza del Tribunale del 22 settembre 2011, causa T-250/09, Cesea Group Srl c.
UAMI)
La pronuncia del Tribunale del 22 settembre scorso arriva a definizione di una
controversia nascente dal conflitto tra un marchio comunitario e un marchio anteriore
usato con riferimento agli stessi beni e servizi, nella specie, prodotti agro-alimentari.
In particolare, la Mangini Srl aveva chiesto che fosse dichiarata la nullità del marchio
“Mangiami”, di proprietà della Cesea Group Srl, per via dell’esistenza dell’anteriore
registrazione internazionale del marchio denominativo “MANGINI”. La camera di
annullamento dell’UAMI aveva tuttavia respinto la domanda sulla base della
motivazione per cui la richiedente non era riuscita a fornire prova dell’uso del marchio
anteriore, con riferimento ai beni e ai servizi interessati, conformemente all’art. 56,
nn. 2 e 3, del regolamento n. 40/94 (divenuto art. 57, nn. 2 e 3, del regolamento
n. 207/2009). La Mangini srl impugnava la decisione davanti alla seconda
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commissione di ricorso dell’UAMI, la quale, ritenendo che la documentazione prodotta
dalla richiedente fosse tale da dimostrare l’uso serio del marchio anteriore e che il
ragionamento che aveva condotto la divisione di annullamento a ritenerla invece
insufficiente costituisse un elemento nuovo, accoglieva parzialmente la domanda di
dichiarazione di nullità.
La Cesea group Srl, titolare del marchio comunitario contestato, ha proposto
impugnazione della suddetta decisione di fronte al Tribunale. Questo, pur rilevando
come la regola di cui all’art. 22 del reg. 2868/95 relativa alla prova dell’utilizzazione
non può essere interpretata nel senso di impedire la considerazione di ulteriori
elementi di prova, anche se forniti dopo il termine fissato dall’UAMI, ha stabilito che il
ragionamento che aveva condotto la divisione di annullamento a ritenere insufficienti
le prove fornite dalla richiedente non poteva essere considerato come “elemento
nuovo”, giustificante la presentazione di prove ulteriori per la prima volta dinanzi alla
commissione di ricorso; questa, dunque, erroneamente aveva ritenuto ammissibili tale
ulteriori prove e annullato parzialmente la registrazione del marchio comunitario.
Alla luce di tali considerazioni il Tribunale ha annullato la decisione della commissione
di ricorso dell’UAMI.
La complessa vicenda dei marchi “Bud” e “Budweiser”: l’interpretazione degli artt. 4, n
1, lett. a) e 9, n. 1, della direttiva 89/104/CE. (Sentenza della Corte del 22 settembre
2011, causa C-289/09, Budějovický Budvar c. Anheuser-Busch Inc.)
La vicenda oggetto della pronuncia in epigrafe ha origine dalla registrazione nel
Regno Unito del marchio denominativo “budweiser” per i prodotti «birra, ale e porter»
da parte di due imprese produttrici di birra, la Anheuser Busch, con sede negli Stati
Uniti, e la Budvar, operante nella Repubblica ceca, e titolare nel Regno Unito anche
del marchio “Bud”.
I conflitti in merito alla registrazione del marchio “Budweiser” tra le due società sono
culminati con l’impugnazione davanti alla Court of Appeal, da parte della Budvar, della
decisione della High Court of Justice che aveva confermato la nullità della
registrazione del marchio d’impresa “Budweiser” (domandata dalla stessa impresa nel
gennaio del 1989) per via del rilevato conflitto con la precedente registrazione dello
stesso marchio avvenuto in favore della Anheuser Busch. Il giudice inglese ha
sospeso il procedimento sottoponendo alla Corte diverse questioni pregiudiziali
attinenti l’interpretazione degli artt. 4 e 9 della direttiva 89/104 in materia di marchi
d’impresa (oggi sostituita dalla direttiva 2008/95/CE).
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Il giudice del rinvio ha chiesto anzitutto ai Giudici europei di chiarire quale sia il
significato del termine “tollerato” di cui all’art. 9 della direttiva, e se esso, in particolare,
possa considerarsi una nozione di diritto comunitario. L’articolo in questione –
ricordiamolo – prevedeva l’impossibilità per Il titolare di un marchio di impresa
anteriore (alla stregua del precedente art. 4, par. 2) di domandare la dichiarazione di
nullità del marchio posteriore ed opporsi all’uso dello stesso se durante cinque anni
consecutivi esso avesse coscientemente tollerato l’uso in uno Stato membro del
marchio posteriore registrato in detto Stato.
La Corte ha rilevato come il termine “tolleranza”, da qualificarsi come nozione del
diritto dell’Unione, denoti un atteggiamento passivo di astensione dall’adozione di
contromisure di cui si dispone per rimediare ad una situazione che, seppur conosciuta,
può essere non desiderata; di qui, non può considerarsi “tollerato”, ex art. 9, dir.
89/104, da parte del titolare di un marchio anteriore, l’uso in buona fede consolidato e
di lunga durata da parte di un terzo di un marchio posteriore identico a quello di tale
titolare qualora quest’ultimo non abbia avuto alcuna possibilità di opporsi a tale uso.
Con riferimento, poi, al profilo relativo al momento dal quale il suddetto termine di 5
anni decorre, la Corte ha precisato che la registrazione del marchio anteriore nello
Stato membro interessato non costituisce una condizione necessaria per far decorrere
il termine di preclusione per tolleranza sancito dall’art. 9, n. 1, della direttiva 89/104,
dovendosi individuare tali condizioni nella registrazione del marchio posteriore nello
Stato interessato, nell’avvenuto deposito di tale marchio in buona fede e nel suo uso
da parte del titolare nello stato in cui è stato registrato e, infine, nella consapevolezza
da parte del titolare del marchio anteriore della registrazione e dell’uso del marchio
posteriore. Viene stabilito, infine, che l’art. 4, n.1, lett. a) della direttiva 89/104 deve
essere interpretato nel senso che il titolare di un marchio anteriore non può ottenere
l’annullamento di un marchio posteriore identico che designa prodotti identici in caso
di uso simultaneo in buona fede e di lunga durata di tali due marchi d’impresa quando
- come nel caso di specie - tale uso non pregiudica o non sia suscettibile di
pregiudicare la funzione essenziale del marchio d’impresa, consistente nel garantire ai
consumatori l’origine dei prodotti o dei servizi.
Slogan pubblicitari e “carattere distintivo”. (Sentenza del Tribunale del 23 settembre
2011, causa T-251/08, Vion NV c. Office de l’harmonisation dans le marché intérieur
(marques, dessins et modèles – OHMI)
Un segno verbale che si traduca in uno slogan pubblicitario rivolto ad un certo target di
consumatori indicando che i prodotti offerti sono di elevata qualità, e dunque si
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concreti in niente più che un’informazione promozionale astratta, non può dirsi dotato
di carattere distintivo e quindi essere qualificato come marchio ai sensi della normativa
comunitaria.
Questa è la conclusione cui è giunto, nel caso T-251/08, il Tribunale di primo grado,
davanti al quale era stato proposto ricorso contro la decisione con cui la IV
commissione di ricorso dell’UAMI aveva rigettato la domanda di registrazione come
marchio comunitario del segno verbale «PASSION FOR BETTER FOOD» per le
categorie di beni e servizi di cui alle classi 5, 29 e 30; la commissione dell’UAMI aveva
infatti ritenuto che il suddetto segno verbale si limitasse a fornire indicazioni ai
consumatori circa la qualità dei prodotti ai quali esso si riferiva, ma non informazioni
sulla loro origine commerciale, risultando pertanto privo del «carattere distintivo» di cui
all’art. 7, par.1, lett. b) del reg. 40/94.
I Giudici, ricordando anzitutto che il carattere distintivo di un marchio deve essere
oggetto di una valutazione globale, sia in relazione ai prodotti e servizi per i quali si
chiede la registrazione, sia in relazione alla percezione che di essi hanno i
consumatori, hanno rigettato il ricorso promosso dalla Vion NV avverso la suddetta
decisione. Essi hanno affermato che il significato astratto dello slogan «PASSION
FOR BETTER FOOD» - riferendosi esso alla qualità astratta di determinati prodotti non sarebbe tale da fornire l’indicazione della natura commerciale di tali prodotti al
consumatore medio, il quale non sarebbe in grado di memorizzarlo facilmente e in via
immediata quale marchio dei prodotti ai quali si riferisce. Di qui, secondo il Tribunale,
la correttezza della valutazione dell’UAMI circa l’assenza di carattere distintivo del
segno verbale in questione e la legittimità del rigetto della domanda di registrazione
come marchio comunitario.
“Rischio di confusione” ed “elemento dominante” nella valutazione sulla similitudine tra
marchi. (Sentenza del Tribunale, 15 novembre 2011, causa T-276/10, El Coto De
Rioja, SA c. Office de l’harmonisation dans le marché intérieur (marques, dessins et
modèles - OHMI)
Con la recente pronuncia del 15 novembre 2011, resa nel caso T-276/10, i Giudici
europei sono intervenuti ancora una volta nella “vivace” materia dei marchi comunitari
applicata ai prodotti agro-alimentari.
La vicenda riguardava la registrazione come marchio della denominazione “COTO DE
GOMARIZ”, per un prodotto classificato quale “vino”, registrazione che
successivamente, su richiesta dell’impresa El Coto de Rioja, era stata annullata sulla
base dell’esistenza di un rischio di confusione tra il suddetto marchio e gli anteriori
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marchi comunitari, di proprietà della stessa impresa, “EL COTO” e “COTO DE IMAZ”,
noti in Spagna come riferiti alla categoria dei vini.
Tale decisione era stata a sua volta successivamente annullata dalla IV commissione
di ricorso dell’UAMI (28 aprile 2010, R 1020/2008-4), secondo la quale i segni in
conflitto, pur riferendosi ad identici prodotti, erano ben distinti sul piano visivo e
fonetico, atteso, in particolare, che pur essendo il termine “coto” automaticamente
associato dai consumatori spagnoli al generico prodotto vino, i termini “gomariz” e
“imaz”, assumono un carattere fortemente distintivo, sì da escludere l’esistenza di
qualsivoglia rischio di confusione.
L’impresa titolare dei precedenti marchi “EL COTO” e “COTO DE IMAZ” ha impugnato
tale decisione davanti al Tribunale di primo grado asserendo la violazione da parte
dell’UAMI degli artt. 53, par. 1, 8, par. 1, lett. b) e 8, par. 5 del Regolamento 207/2009.
Il Tribunale, richiamando la sua giurisprudenza sul punto, ha innanzitutto ricordato
come il rischio di confusione debba essere valutato globalmente sulla base della
percezione che il pubblico ha dei beni o servizi in questione e come l’elemento di un
marchio complesso, seppur dotato di un basso valore distintivo, possa comunque
assurgere ad elemento “dominante” nella valutazione della somiglianza tra marchi. I
Giudici, sulla scorta di tali considerazioni, hanno osservato che il termine “coto” contrariamente a quanto ritenuto dalla camera di ricorso dell’UAMI - rappresenta un
fattore di somiglianza significativo tra i marchi in conflitto, atto ad incidere
rilevantemente nella percezione del pubblico rispetto a tali segni; erroneamente,
dunque, la decisione impugnata aveva ritenuto sussistere delle differenze evidenti tra
le espressioni «coto de imaz» e «coto de gomariz», non considerando il peso che il
termine “coto” - quale elemento di similitudine - ha rispetto alla percezione dei
consumatori.
Ritenuto, dunque, l’errore di valutazione dell’UAMI nel negare l’esistenza di una
somiglianza significativa sul piano fonetico, visivo e concettuale e, di conseguenza, la
sussistenza di un rischio di confusione, tra i marchi in conflitto, il Tribunale ha accolto il
ricorso e annullato la decisione dell’UAMI.
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