Franklin e la nascita dell`ingegneria elettrica

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Franklin e la nascita dell`ingegneria elettrica
n.09 - 2006
Ricordando lo scienziato americano
Franklin e la nascita dell’ingegneria elettrica
dott. Andrea Albini*
I trecento anni che ci separano dalla nascita di Benjamin Franklin offrono lo spunto per alcune considerazioni
sulle nascita dell’ingegneria elettrica. Il celebre intellettuale, uomo politico e scienziato americano fu anche
l’inventore del parafulmine: la prima applicazione, per così dire, “di consumo” della nuova scienza elettrica
che andava sviluppandosi in quegli anni. Nella seconda metà del Settecento, dopo la scoperta della bottiglia
di Leida (antenata del moderno condensatore elettrico) e delle macchine elettrostatiche usate per caricarle,
gli apparecchi elettrici erano usati per esperimenti e dimostrazioni fisiche ed erano costruite, e vendute a caro
prezzo ai gabinetti scientifici che potevano permetterselo, da artigiani specializzati. Con il parafulmine, Franklin e i suoi collaboratori – che, naturalmente, erano appassionati di elettricità provenienti da altre professioni –
inventarono un sistema tecnologico che, pur nella sua semplicità, garantiva la protezione degli edifici pubblici
e delle abitazioni private dai dannosi effetti dirompenti del fulmine, e che poteva essere adottato su vasta
scala. In realtà Franklin, e buona parte degli “elettricisti” (con questo nome erano conosciuti gli studiosi dell’elettricità) che seguivano il suo pensiero, erano convinti erroneamente che il parafulmine fosse in grado di
scaricare gradualmente verso terra la carica elettrica accumulata nelle nubi temporalesche, svolgendo, in
questo modo, un effetto non solo “protettivo” ma anche “preventivo”. I loro avversari sostenevano invece che
i parafulmini erano dannosi perché attiravano le scariche atmosferiche mettendo a repentaglio gli edifici. A
complicare le cose, a quel tempo l’esatta natura dell’elettricità non era ancora chiara e alcuni sostenevano
che il “fuoco elettrico” fosse cosa diversa dal “fuoco fulmineo”; un celebre esperimento scientifico allestita nel
1752 a Mary-la-Ville, alla presenza del re di Francia servì a smentire questa ipotesi. Dopo un incidente mortale che causò la morte di un fisico svedese, colpito da una fulminazione diretta, gli “elettricisti” si resero sempre più conto della necessità di ottimizzare i sistemi di protezione dal fulmine, rendendoli robusti ed affidabili.
In mancanza di una teoria matematica dell’elettricità, questa messa a punto venne svolta in modo empirico,
raccogliendo dati provenienti dai casi di folgorazioni dirette per stabilire se la scarica seguiva di preferenza un
conduttore metallico e che dimensioni questo doveva avere per non danneggiarsi; già dal 1753 Franklin aveva pubblicato a questo scopo una “richiesta di informazioni” ai suoi concittadini sulla Pennsylvania Gazette.
Gli effetti più spaventosi del fulmine avvenivano quando ad essere colpita era una polveriera: nell’agosto del
1769, in una notte di temporale, esplose la torre della porta di San Nazzaro a Brescia causando molte vittime
e ingenti danni materiali. L’episodio ebbe eco in tutto il mondo e l’imperatrice Maria Teresa d’Austria ordinò di
far istallare parafulmini sopra tutti i magazzini di polvere da sparo e gli edifici che servivano da deposito di
materiali infiammabili dei territori sotto la sua giurisdizione, così come sulle chiese e le torri: che, per la loro
forma, erano i bersagli preferiti dei fulmini. Un provvedimento analogo fu adottato nel Granducato di Toscana
e a Venezia dove, nel 1778, il senato stabilì di istallare “spranghe elettriche” non solo ai depositi di polvere pirica della terraferma ma anche sulle navi. I primi progettisti di sistemi di protezione dai fulmini dovettero comprendere e risolvere una serie di problemi, come la necessità di assicurare una buona continuità elettrica lungo tutto l’edificio fino a terra. L’analisi di alcuni impianti che non avevano funzionato rivelò errori costruttivi. A
questo scopo lo studioso padovano Giuseppe Toaldo, suggeriva nel 1778 di usare un conduttore “di buon
ferro” della grossezza di un oncia e mezza; elevato di 10-12 piedi che doveva “terminare molto in acuto” ed
essere di rame negli ultimi 12 pollici; le parti della catena che costituiva la discesa dovevano essere ben uniti
“con viti e con placa di piombo in mezzo, sigillando le giunture col fuoco” e nella parte terminale verso il basso doveva essere chiusa in un pilastro o sigillata nel muro, “perché non venga strappata dagli uomini o da gli
animali”; il dispersore, infine, doveva essere un tubo di due o tre pollici di diametro, “perché meglio si conserva dalla ruggine”. I proto-ingegneri elettrici non riuscivano invece a trovare un consenso sulla necessità di
isolare o meno le discese dei conduttori di protezione; mentre, anche se tutti era d’accordo che il numero di
aste da istallare era funzione delle dimensioni dell’edificio da proteggere, le distanze erano differenti a secondo degli studiosi: in Italia, Toaldo prescriveva una punta ogni 40 piedi, mentre per lo scienziato lombardo
Marsilio Landriani bastavano cento piedi e per il piemontese Giovanni Battista Beccaria, era sufficiente un’asta ogni duecento piedi. Nel 1787, per ovviare agli incidenti causati da errori di progettazione e istallazione, il
senato di Venezia emanò, su invito di Giuseppe Toaldo, una Memoria Pratica sull’arte “di fare li conduttori” a
campanili, chiese e abitazioni, indirizzata “all’uso di fabbri, falegnami e muratori” che può essere considerata
un precursore dell’attuale normativa tecnica. Al di là degli aspetti applicativi la diffusione dei parafulmini, prima in America e poi in Europa, fu influenzata anche da motivazioni culturali: si parlava di fulmini e conduttori
elettrici anche nei salotti e sui giornale e mentre i detrattori ritenevano che i parafulmini fossero una moda
inutile e potenzialmente pericolosa, chi li adottava erano persone che conoscevano l’elettricità e che potevano permettersi i costi dell’istallazione. Le aste e dei conduttori di protezione sugli edifici rappresentavano inoltre uno status simbol ben visibile per i sostenitori delle nuove idee illuministiche. Bisognava diffondere l’uso
dei parafulmini – scriveva da Strasburgo l’erudito Barbier de Tinan, – e per far ciò era necessario “istruire i
magistrati e le persone incaricate dell’amministrazione, illuminare la gente del mondo, dissipar i pregiudizi del
popolo e rassicurarlo sui suoi timori”.
*Dipartimento di Ingegneria Elettrica Università di Pavia