Testo Otto Simboli Mongoli maggio 2004

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Testo Otto Simboli Mongoli maggio 2004
OTTO SIMBOLI MONGOLI
Capitolo VI
“Una sala da tè a Almaty”
La sala da tè o shaykana (in kazako) era quasi deserta. Sulla
piattaforma simile a una sorta di ottomana, a gambe incrociate e
senza scarpe, l’uomo sedeva in posizione quasi ieratica.
Un vento leggero muoveva le foglie dell’acero rosso che ombreggiava
la sala all’aperto dove risuonava il fruscio di un torrente sgorgato da
una sorgente vicina.
Alim Muratbek stava leggendo un libro di Abay Kunanbaev, del quale
era appassionato discepolo benché il grande scrittore, considerato
padre della patria e della letteratura kazaka, fosse sempre stato
decisamente filo russo. Ma Alim, per amore della cultura del suo
Kazakistan, gli aveva perdonato quella “colpevole simpatia” per lo
straniero invasore.
Alzò gli occhi dal libro per guardare chi entrava, ma non si trattava
della persona attesa.
Il suo viso aveva tutte le caratteristiche dell’etnia uighuri: pelle e
capelli scuri già brizzolati e abbastanza lunghi, occhi tirati verso le
tempie. Dimostrava una quarantina d’anni piuttosto sofferti: occhiaia
accentuate dalle lunghe veglie sui libri e una magrezza congenita
dovuta alle privazioni alimentari dell’adolescenza. Il suo corpo troppo
asciutto era coperto da una logora giacca nera, lunga fino a mezza
coscia.
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All’Università di Almaty, dove insegnava storia, Alim era conosciuto
per la sua tempra di studioso e il carattere riflessivo. Quel carattere
riflessivo non gli aveva impedito di nutrire un acceso nazionalismo e
l’avversione per tutti i paesi stranieri che guardavano con bramosia al
Kazakistan e alle sue ricchezze naturali.
Accanto a lui si materializzò l’alta figura di un suo discepolo.
“ Il primo carico è arrivato: dieci contenitori sono sistemati a dovere
alla vecchia fabbrica”, disse il nuovo arrivato, sedendosi davanti al
professore dopo essersi inchinato con la mano destra sul cuore.
“ Avete controllato che le misure di sicurezza siano state
scrupolosamente osservate?”
“ Tutto secondo i tuoi ordini. Riguardo all’uranio, aspettiamo le
disposizioni da parte degli emissari del governo del Brunei”, rispose il
giovane intellettuale con tono rispettoso mentre sorbiva la sua tazza di
tè verde.
In quell’oasi di vegetazione, la vitalità prorompente di Almaty non si
udiva. Della sua città, Alim detestava l’impronta sovietica così difficile
da cancellare. Però il cuore pulsante di Almaty poneva la piccola
metropoli al centro dei più importanti traffici commerciali e finanziari
del Kazakistan.
Un’orda di cinesi, uzbeki, russi e turchi, affaristi di prima classe,
diplomatici e operatori economici occidentali e asiatici, affollava
regolarmente gli alberghi e aveva trasformato nel giro di pochi anni un
avamposto di provincia dell’URSS nella città più cosmopolita dell’Asia
centrale.
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Il nuovo capitalismo imperversava con i suoi negozi, i ristoranti, i
grandi
alberghi
e
casinò,
e
un
aeroporto
internazionale
efficientissimo: di certo il più importante dell’Asia centrale.
Alim Muratbek aveva da tempo previsto quell’incredibile sviluppo
stimolato della bramosia dei grandi gruppi di potere.
Ecco perché aveva riunito nel Movimento di Resistenza e di
Indipendenza una grande compagine di patrioti che volevano
appartenere all’emisfero asiatico senza l’asservimento alla cultura e ai
poteri occidentali.
L’MRI ormai era una spina nel fianco del Governo di Astana, divenuta
capitale nel 1997 in base alla strategia presidenziale per lo sviluppo
economico. Il Presidente Narzarbaev, alla guida della nazione dal
1990, politico molto astuto, aveva stabilito che nel 2030 ci sarebbe
stato il raggiungimento della prosperità economica, intanto lui era già
nella lista degli uomini più ricchi del pianeta.
Alim, che era allergico anche alla nuova Federazione Russa, temeva
molto un’alleanza tra il governo di Astana e quello di Mosca. Sapeva
che il suo Movimento, alle prossime elezioni presidenziali del 2006, lo
avrebbe candidato e che, per la prima volta dal 1990, Nursultan
Nazarbaev si sarebbe trovato davanti un avversario pericoloso.
Soltanto prendendo la guida della nazione, Alim avrebbe potuto
realizzare il programma dell’MRI: difendere il Kazakistan, isola
flottante
in
una
laguna
di
petrolio,
da
selvagge
oligarchie
accaparratrici. Come era accaduto in Russia dopo la disgregazione
dell’Unione Sovietica.
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------------------------------------------------------------Arrivarono all’Accademia delle Scienze, vicino alla Dostyk Prospektisi,
in anticipo sull’orario fissato per la conferenza sull’ultimo periodo
storico del Kazakistan che il professor Muratbek teneva ogni
settimana.
L’aula che la
Sovrintendenza teneva a disposizione dei docenti
universitari era stipata di studenti di ogni Facoltà, insegnanti delle
scuole secondarie, funzionari statali che per un’ora avevano disertato
l’ufficio, ragazzi dei licei, giovani soldati in libera uscita e molte donne
del popolo che assiepavano disciplinatamente banchi e scalinate.
Olzhas, l’assistente universitario di Muratbek, sedette di fronte alla
cattedra infilandosi fra due soldati.
Alim rimase in piedi e guardò il suo pubblico soffermandosi sui visi
attenti che gli si rivolgevano. Nel silenzio assoluto incominciò a
parlare.
“ Oggi sono qui per ricordarvi un passato storico insanguinato da
centinaia di migliaia di vittime kazake. Un periodo terribile che ridusse
di due milioni di persone la nostra popolazione. Questo passato deve
insegnarci a non permettere mai più allo straniero di invadere la
nostra terra con la giustificazione di iniziative economiche senza alcun
vantaggio per la nostra gente.
Ricordiamo le deportazioni di massa dei gruppi seminomadi che, negli
anni Venti, rifiutarono di consegnare le loro mandrie al controllo
statale del PCK ( Partito Comunista del Kazakistan). E il famoso
programma delle “ Terre Vergini” che Nikita Krusciov decise di mettere
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in atto facendo dissodare 250.000 km quadrati della steppa
settentrionale per coltivare il grano che doveva nutrire tutta l’Unione
Sovietica. Un grano mescolato con il sangue dei nostri compatrioti
durante i conflitti con gli immigrati russi.
Dopo la denomadizzazione del nostro popolo e lo sconvolgimento
delle nostre antiche etnie, durante il periodo della guerra fredda,
Breznev ritenne il Kazakistan sufficientemente “deserto” e “isolato” per
essere utilizzato come territorio di sperimentazione nucleare e come
centro sovietico per i lanci spaziali. Tra il 1949 e il 1989, circa 470
bombe atomiche furono fatte esplodere al “ Poligono”, così era
chiamato il centro sperimentale presso Semey, senza tenere conto
che la zona circostante non era disabitata. Soltanto la pressione del
“Movimento Nevada Semey” riuscì a interrompere i test nucleari. Oltre
al poligono, il Kazakistan indipendente ha ereditato 1400 testate
nucleari che non sono ancora state smantellate.”
Alim prese fiato e bevve un bicchier d’acqua prima di ricominciare a
parlare.
“ Oggi dobbiamo preoccuparci anche dell’equilibrio ecologico del Mar
Caspio. Lo sfruttamento petrolifero del giacimento di Teghiz, uno dei
dieci maggiori giacimenti al mondo, sta incominciando e si dovrà
decidere la costruzione dell’oleodotto per trasportare il greggio.
In conclusione, noi dobbiamo prepararci ad amministrare la maggiore
ricchezza pro capite del mondo in modo da condurre serie politiche di
sviluppo allo scopo di distribuire questa ricchezza fra tutta la
popolazione. Siamo un paese pieno di ogni risorsa e anche quelle
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agricole sono pari a un terzo della produzione totale dell’ex Unione
Sovietica. Questo enorme potenziale deve far diventare il Kazakistan
una nazione potentissima: soltanto allora potremo considerarci
davvero “indipendenti”.
Non dimentichiamo dunque la terribile lezione del passato: lo
sfruttamento selvaggio che ha semi distrutto il nostro paese, reso
possibile da una colpevole acquiescenza passiva da parte del popolo.
Dobbiamo riscattarci dimostrando di essere capaci di opporci a
colonizzazioni e spartizioni future con lo scopo di depauperare
nuovamente il nostro territorio.
Noi vogliamo stare al passo con il progresso e lo sviluppo. E non
siamo contrari all’intervento dall’estero per potenziare questo sviluppo.
Però vogliamo anche un risorgimento interno della supremazia etnica
kazaka. Non vogliamo che l’Occidente si ingerisca nella nostra
economia fino a farci perdere la nostra identità. Noi apparteniamo
all’Asia da sempre e, liberi di seguire le credenze religiose dei nostri
clan, dobbiamo restare asiatici.”
Un applauso scrosciante della durata di alcuni minuti scoppiò dopo le
ultime parole di Alim. Il quale, dopo aver salutato portando più volte la
destra sul cuore, uscì nel tramonto che insinuava lame di luce dorata
nell’ombra dei vasti parchi di Almaty.
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