primo capitolo

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RICK RIORDAN
traduzione di Loredana Baldinucci
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A tutti i miei amici bibliotecari, paladini dei libri,
autentici maghi della Casa della Vita.
Senza di voi il sottoscritto sarebbe perso nella Duat.
Tutti i geroglifici presenti negli interni sono su licenza di Shutterstock.com;
ad eccezione di quelli a pagina 94, 103, 104 e 291:
© 2012 Michelle Gengaro-Kokmen.
I serpenti presenti nel logo e nel fregio di inizio capitolo sono su licenza
di Shutterstock.com: © 2012 Seamartini graphics. Rielaborazione grafica
di Stefano Moro.
www.ragazzi.mondadori.it
© 2010 Rick Riordan
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l’edizione italiana
Pubblicato per accordo con Nancy Gallt Literary Agency
Titolo dell’opera originale The Kane Chronicles – The Red Pyramid
Prima edizione ottobre 2012
Stampato presso Mondadori Printing S.p.A.
Stabilimento N.S.M., Cles (TN)
Printed in Italy
ISBN 978-88-04-62203-1
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ATTENZIONE!
I
l testo che state per leggere è la trascrizione di una
registrazione digitale. In certi punti la qualità audio
era scarsa, perciò alcune parole e frasi rappresentano le
migliori ipotesi dell’autore. Dove possibile, sono state
aggiunte illustrazioni di importanti simboli menzionati nella registrazione. Rumori di fondo come di colluttazioni, colpi e imprecazioni non sono stati trascritti.
L’autore non dà garanzie sull’autenticità della registrazione. Sembra impossibile che i due giovani narratori stiano dicendo il vero, ma tu, lettore, dovrai deciderlo da solo.
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CARTA
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CARTA: Creamy - PROFILO DI STAMPA: Nessuna conv. colore - DIMENSIONE: 140x215 mm - cartonato fresato
CARTER
Morte all’Obelisco
A
bbiamo solo poche ore, perciò fai attenzione.
Se stai ascoltando questa storia, sei già in pericolo. Io e Sadie potremmo essere la tua unica possibilità.
Vai a scuola. Trova l’armadietto.
Non ti dirò quale scuola e quale armadietto, perché
se sei la persona giusta lo scoprirai. La combinazione è
13/32/33. Quando avrai finito di ascoltare, saprai cosa
significano questi numeri. Ricorda solo che la storia che
stiamo per raccontarti non è ancora conclusa. Come andrà a finire, dipenderà da te.
La cosa più importante: quando avrai aperto il pacco
e avrai scoperto quello che c’è dentro, non tenerlo per
più di una settimana. Certo, la tentazione ci sarà. Insomma, ti conferirà un potere quasi illimitato. Ma se
lo possiedi troppo a lungo, ti consumerà. Impara i suoi
segreti alla svelta e rimettilo in circolazione. Nascondilo per chi verrà dopo di te, come abbiamo fatto io e
Sadie. Poi preparati, perché la tua vita diventerà molto interessante.
Sadie mi sta dicendo di piantarla e di andare avanti con la storia. Okay. Tutto è cominciato a Londra, la
sera in cui nostro padre fece saltare in aria il British
Museum.
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la piramide rossa
Mi chiamo Carter Kane. Ho quattordici anni e la mia
casa è una valigia.
Pensi che stia scherzando? È da quando avevo otto anni
che io e papà andiamo in giro per il mondo. Sono nato a
Los Angeles, ma mio padre è archeologo, perciò il suo lavoro lo porta un po’ ovunque. Per lo più andiamo in Egitto, perché è questa la sua specialità. Vai in una libreria e
cerca un libro sull’Antico Egitto: ci sono ottime probabilità che l’abbia scritto il dottor Julius Kane. Vuoi sapere
come fecero gli egizi a estrarre il cervello dalle mummie,
a costruire le piramidi o a maledire la tomba di Tutankhamon? Papà è l’uomo che fa per te. Naturalmente ci sono
anche altre ragioni per cui viaggia così tanto, ma allora
non conoscevo il suo segreto.
Non sono mai andato a scuola. Mio padre mi fa lezione
a casa, per così dire, considerato che non abbiamo una
casa. Diciamo che mi ha insegnato lui tutto quello che
ritiene importante, quindi so un sacco di cose sull’Egitto,
sulle statistiche del basket e sui suoi musicisti preferiti.
Leggo parecchio – praticamente tutto quello su cui riesco
a mettere le mani, dai libri di storia di papà ai fantasy –
perché passo diverso tempo seduto fra alberghi, aeroporti e scavi in Paesi stranieri dove non conosco nessuno.
Papà mi ha sempre detto di mettere giù il libro e andarmi a fare due tiri a canestro. Ma tu hai mai provato a cercare qualcuno disposto a farsi una partita per le strade di
Assuan, in Egitto? Non è facile.
Comunque, papà mi ha insegnato presto a comprimere tutti i miei averi in una sola valigia, di quelle adatte agli scomparti del bagaglio a mano di un aereo. Anche lui viaggia leggero, ma è autorizzato a portarsi una
borsa extra per i suoi attrezzi da archeologo. Regola numero uno: vietato guardare dentro quella borsa. Una regola che non avevo mai infranto fino al giorno dell’esplo‑
sione.
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Successe la vigilia di Natale. Eravamo a Londra per il
giorno di visita a mia sorella, Sadie.
Papà può vederla solo due giorni all’anno – uno d’estate e uno d’inverno – perché i nostri nonni materni lo
odiano. Dopo la morte della mamma c’è stata una grossa battaglia legale tra loro e papà. Dopo sei avvocati, due
scazzottate e un’aggressione quasi fatale con una spatola (non chiedermi niente), i nonni hanno ottenuto il diritto di far vivere Sadie con loro in Inghilterra. All’epoca lei aveva solo sei anni, due meno di me, e i nonni non
potevano prenderci entrambi – o almeno questa è la scusa che hanno accampato per non tenermi. Insomma, Sadie è cresciuta come una brava scolaretta inglese, mentre io ho girato il mondo con nostro padre. La vedevamo
solo due volte l’anno, e a me andava bene così.
[Piantala, Sadie. Sì… ci sto arrivando.]
Allora, io e papà eravamo appena atterrati a Heathrow,
dopo un paio di ritardi. Era un pomeriggio freddo e piovigginoso. Prendemmo un taxi, e per tutta la durata della
corsa papà mi sembrò un po’ agitato.
Ora, mio padre è un uomo ben piazzato. Uno non direbbe mai che qualcosa possa metterlo in agitazione. Ha
la pelle scura come la mia, gli occhi castani e penetranti,
la testa calva e il pizzetto. In pratica, somiglia alla versione palestrata di uno scienziato malvagio. Quel pomeriggio indossava il cappotto di cachemire e il completo
elegante di lana marrone, quello che usava per le conferenze. Di solito emana una tale sicurezza da dominare
subito ogni platea, ma alle volte – come quel pomeriggio
– vedevo un altro lato di lui che non capivo bene. Continuava a guardarsi alle spalle, come se qualcuno ci stesse dando la caccia.
— Papà? — dissi mentre uscivamo dalla A-40. — C’è
qualcosa che non va?
— Non si vedono da nessuna parte — borbottò. Poi do9
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vette essersi accorto di aver parlato a voce alta, perché
mi guardò un po’ allarmato. — Non è niente, Carter. Va
tutto bene.
Allora mi preoccupai sul serio, perché mio padre è un
pessimo bugiardo. Sapevo sempre quando mi nascondeva qualcosa, ma sapevo anche che era inutile insistere:
non gli avrei mai cavato la verità di bocca. Probabilmente stava cercando di proteggermi, anche se non sapevo da
cosa. A volte mi chiedevo se non ci fosse un oscuro segreto nel suo passato, un vecchio nemico che lo perseguitava, forse; ma l’idea sembrava ridicola. Papà era solo
un archeologo.
L’altra cosa che mi preoccupava: mio padre stringeva
energicamente la borsa degli attrezzi. Di solito quando
fa così significa che siamo in pericolo. Come quella volta in cui dei criminali presero d’assalto il nostro albergo
al Cairo. Avevo udito degli spari nell’atrio ed ero corso al
piano di sotto per accertarmi che papà stesse bene. Quando arrivai giù, lui stava chiudendo in tutta calma la cerniera della borsa, mentre tre criminali svenuti penzolavano a testa in giù dal lampadario, le tuniche calate sopra la
testa e i boxer in bella vista. Papà disse che non aveva visto nulla, e alla fine la polizia diede la colpa a un improbabile guasto del lampadario.
Un’altra volta, a Parigi, restammo coinvolti in una
sommossa. Papà trovò la prima macchina parcheggiata
disponibile, mi spinse sul sedile posteriore e mi ordinò
di stare giù. Io mi schiacciai sul pavimento e tenni gli
occhi stretti. Lo sentivo borbottare e frugare nella borsa appoggiata sul sedile davanti, mentre fuori la folla
gridava e distruggeva tutto. Pochi minuti dopo, mi disse che potevo alzarmi. Tutte le altre macchine del quartiere erano rovesciate e in fiamme. La nostra era lavata
e lucidata di fresco, e c’erano diverse banconote da venti euro infilate sotto i tergicristalli.
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Avevo imparato a rispettare quella borsa. Era il nostro
portafortuna. Ma quando papà la stringeva forte, significava che presto avremmo avuto bisogno di fortuna.
Attraversammo il centro diretti a est, verso casa dei nonni. Superammo i cancelli dorati di Buckingham Palace, poi
la grande colonna di pietra di Trafalgar Square. Londra è
un posto stupendo, ma dopo che hai viaggiato molto, tutte le città cominciano a confondersi. Gli altri ragazzi che
incontro ogni tanto dicono: “Cavolo, sei fortunato a viaggiare così tanto”. Ma non è che passiamo il tempo a fare i
turisti o che abbiamo abbastanza soldi per muoverci con
classe. Abbiamo alloggiato anche in posti piuttosto malandati, e non ci fermiamo mai più di qualche giorno. La maggior parte del tempo sembriamo più fuggiaschi che turisti.
Lo so, non diresti mai che il lavoro di mio padre è pericoloso. Tiene conferenze su argomenti tipo “La magia egizia è davvero in grado di uccidere?” o “Le pene più diffuse nell’oltretomba egizio” e su altra roba che alla maggior
parte della gente non interessa granché. Ma come ho detto, c’è quell’altro lato di lui. È sempre molto cauto. Controlla ogni stanza d’albergo prima di lasciarmi entrare. Si
precipita dentro un museo per vedere alcuni reperti, prende qualche appunto e corre di nuovo fuori come se avesse paura di farsi beccare dalle telecamere di sorveglianza.
Una volta, quando ero piccolo, dopo che avevamo attraversato di corsa l’aeroporto Charles de Gaulle per prendere un volo all’ultimo minuto, e dopo che papà non si era
rilassato fino al decollo, di punto in bianco gli chiesi da
cosa stesse scappando e lui mi guardò come se avessi appena tirato la linguetta di una bomba a mano. Per un secondo ebbi perfino paura che mi dicesse la verità. Poi rispose: — Non è niente, Carter. — Come se “niente” fosse
la cosa più terribile del mondo.
Dopo di allora, decisi che forse era meglio non fare
domande.
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I miei nonni, i Faust, vivono in una nuova aerea urbana dalle parti di Canary Wharf, sulle rive del Tamigi. Il
taxi ci lasciò sul marciapiede e papà chiese all’autista di
aspettare.
Eravamo a metà vialetto quando papà si fermò all’improvviso. Si voltò e guardò alle nostre spalle.
— Che c’è? — chiesi.
Poi vidi l’uomo con l’impermeabile. Era dall’altra parte della strada, appoggiato a un grosso albero morto. Era
massiccio, con il petto largo e la pelle color caffè tostato.
Portava un completo nero gessato, dall’aria costosa come
l’impermeabile. I capelli erano pettinati in lunghe treccine e indossava un borsalino nero calato sugli occhiali,
scuri e rotondi. Mi ricordava un musicista jazz, di quelli
che avevo visto ai concerti a cui papà mi trascinava sempre. Gli occhi non si vedevano ma ebbi l’impressione che
ci stesse guardando. Forse era un vecchio amico o un collega di papà. Ovunque andassimo, papà si imbatteva sempre in qualcuno che conosceva. Però era strano che quel
tizio fosse proprio lì, ad aspettare fuori dalla casa dei nonni. E non sembrava contento.
— Carter — disse papà — tu vai avanti.
— Ma…
— Vai a prendere tua sorella. Ci vediamo al taxi.
Attraversò la strada spedito, puntando verso l’uomo con
l’impermeabile, e mi lasciò con due possibilità: seguirlo e vedere cosa succedeva o fare come mi aveva detto.
Scelsi la strada un po’ meno pericolosa. Andai a recuperare mia sorella.
Prima ancora che riuscissi a bussare, Sadie aprì la porta.
— In ritardo come al solito — commentò.
Teneva in braccio la sua gatta, Muffin, un regalo d’addio che papà le aveva fatto sei anni prima. Muffin sembrava non crescere e non invecchiare mai. Aveva il pelo
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crespo, giallo e nero come un leopardo in miniatura, due
occhi gialli e vigili e le orecchie a punta, troppo alte rispetto alla testa. Un ciondolo egizio d’argento le pendeva
dal collare. Non somigliava per niente a un muffin, ma
Sadie era piccola quando aveva scelto quel nome, perciò
direi che possiamo passarci sopra.
Sadie non era cambiata molto dall’estate prima.
[È qui accanto a me e, a giudicare dal suo sguardo,
sarà meglio che la descriva come si deve.]
Non si direbbe proprio che è mia sorella. Innanzitutto, vive in Inghilterra da così tanto tempo che ormai parla con accento inglese, anziché americano. Secondo, ha
preso dalla mamma, che era bianca, perciò la sua pelle è
molto più chiara della mia. Ha i capelli lisci color caramello, non proprio biondi ma nemmeno castani, e di solito li
tinge con qualche striscia colorata. Quel giorno aveva alcune ciocche rosse sul lato sinistro. Ha gli occhi azzurri.
Dico sul serio. Azzurri come quelli di nostra madre. Ha
solo dodici anni, ma è già alta come me, il che mi scoccia
non poco. Masticava una gomma, come al solito, e per la
sua giornata con papà si era messa un paio di jeans scoloriti, un giubbotto di pelle e gli anfibi, neanche dovesse
andare a pestare qualcuno a un concerto. Aveva le cuffie
al collo, nel caso l’avessimo annoiata.
[Okay, non mi ha picchiato, perciò immagino di averla descritta come si deve.]
— Il volo era in ritardo — ribattei.
Lei fece un palloncino con la gomma, accarezzò Muffin sulla testa e la lanciò in casa. — Nonna, esco!
Dentro, da qualche parte, nonna Faust rispose qualcosa
che non capii. Probabilmente “Non farli entrare!”.
Sadie chiuse la porta e mi squadrò come se fossi un
topo morto appena abbandonato dalla sua gatta. — E così
eccoti qui.
— Già.
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— Andiamo, allora — sospirò. — Diamoci una mossa.
Ecco com’era lei. Niente: “Ciao, come te la sei passata negli ultimi sei mesi? Sono così felice di vederti!” o
roba del genere. Comunque, a me andava benissimo così.
Quando ti incontri solo due volte l’anno, più che fratelli
è come essere cugini alla lontana. Non avevamo assolutamente nulla in comune, a parte i genitori.
Scendemmo le scale senza entusiasmo. Stavo pensando che mia sorella sapeva di casa di vecchi e gomma da
masticare, quando lei si fermò, così all’improvviso che
andai a sbatterle contro.
— Quello chi è? — chiese.
Mi ero quasi dimenticato del tizio con l’impermeabile. Lui e mio padre erano in piedi accanto al grosso albero dall’altra parte della strada, nel bel mezzo di quella che sembrava una vera e propria lite. Papà ci dava la
schiena, perciò non riuscivo a vederlo in viso, ma gesticolava come fa quando è agitato. L’altro aveva la faccia
scura e scuoteva la testa.
— Non lo so — risposi. — Era già qui quando abbiamo
accostato.
— Ha un’aria familiare. — Sadie aggrottò la fronte come
per sforzarsi di ricordare. — Andiamo.
— Papà ha detto di aspettarlo in taxi — protestai, anche
se sapevo che era inutile. Sadie si era già avviata.
Anziché attraversare direttamente la strada, corse lungo il marciapiede per metà dell’isolato, con la testa china
al riparo delle macchine, poi attraversò e si accovacciò
dietro a un muretto di pietra. Cominciò ad avvicinarsi a
nostro padre, furtiva. Non mi rimase che seguirla, anche
se mi sentivo un po’ stupido.
— Sei anni in Inghilterra — borbottai — e crede di essere James Bond.
Sadie mi mollò una botta senza neanche voltarsi e continuò ad avanzare acquattata.
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Pochi passi e fummo proprio dietro l’albero. Riuscii a
sentire papà dall’altra parte che diceva: — … devo farlo,
Amos. Lo sai che è la cosa giusta.
— No — replicò l’altro, che doveva essere Amos. Aveva una voce profonda e monocorde, tono perentorio e accento americano. — Se non ti fermo io, Julius, lo faranno loro. La Per Ankh ti sta alle costole.
Sadie si voltò verso di me e sillabò muta: — La Per che?
Io scossi la testa, perplesso quanto lei. — Andiamo via
— bisbigliai, perché mi aspettavo che ci beccassero da un
secondo all’altro. Sarebbero stati guai seri. Sadie, naturalmente, mi ignorò.
— Loro non sanno nulla del mio piano — stava dicendo mio padre. — Per quando l’avranno capito…
— E i ragazzi? — chiese Amos. Mi si drizzarono i capelli sulla nuca. — A loro non pensi?
— Ho già disposto per la loro protezione — rispose papà.
— E poi, se non faccio quello che sto per fare, siamo tutti in pericolo. Ora, fatti indietro.
— Non posso, Julius.
— Allora vuoi un duello? — Il tono di papà divenne serissimo. — Non sei mai riuscito a battermi, Amos.
Non avevo mai visto papà diventare violento, dopo il
Grande Incidente della Spatola, e non ci tenevo ad assistere
a una replica, ma quei due sembravano vicini a una rissa.
Prima che potessi reagire, mia sorella saltò fuori e gridò: — Papà!
Papà rimase sorpreso quando Sadie gli gettò le braccia
al collo, ma mai quanto l’altro tizio, Amos. Arretrò così
in fretta da inciampare sull’impermeabile.
Si era tolto gli occhiali. Non potei fare a meno di pensare che Sadie avesse ragione: aveva un’aria familiare…
come un ricordo molto lontano.
— Io… io devo andare — disse. Raddrizzò il borsalino
e si allontanò con passo pesante.
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