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1 1. INTRODUZIONE Le patologie cardiovascolari sono la principale causa di morte e di disabilità nel mondo occidentale e rappresentano il peso principale sul budget dei sistemi sanitari (1). La prevenzione cardiovascolare rappresenta uno degli strumenti essenziali per ridurre l’impatto sociale delle malattie cardiovascolari che attualmente rappresentano un problema economico e sanitario di proporzioni sempre maggiori. Il paziente che sopravvive ad attacco cardiaco diviene, infatti, un «malato cronico» e la malattia ne modifica la qualità di vita e l’attività lavorativa, comportando notevoli costi economici per la società. L’introduzione degli inibitori della 3‐idrossi‐3‐metilglutaril‐coenzima A (HMG‐ CoA) reduttasi, o statine, ha rivoluzionato il trattamento dell’ipercolesterolemia. Le statine rappresentano attualmente il farmaco più prescritto per la terapia delle dislipidemie in virtù della loro efficacia nel ridurre il colesterolo LDL (LDL‐C) e della loro tollerabilità e sicurezza. Numerose evidenze in letteratura, in particolare negli ultimi anni, hanno documentato altri potenziali effetti delle statine largamente indipendenti dai livelli basali di LDL, che potrebbero contribuire alla riduzione del rischio cardiovascolare (2,3). Tra questi effetti “pleiotropici” delle statine sono inclusi il miglioramento della disfunzione endoteliale, l’incremento della biodisponibilità di ossido nitrico, l’azione anti‐ossidante e anti‐infiammatoria e la stabilizzazione della placca aterosclerotica (4,5,6). Alcuni di questi effetti 2 pleiotropici delle statine potrebbero non essere correlati alle proprietà ipocolesterolemizzanti di questi farmaci o addirittura essere indipendenti dall’inibizione della HMG‐CoA reduttasi ed evidenziarsi anche a dosi farmacologiche molto basse. Queste considerazioni assumono un’importanza ancora maggiore nella terapia della dislipidemia in prevenzione primaria prendendo in considerazione pazienti senza malattia cardiovascolare ma con fattori di rischio cardiovascolari, in modo da ridurre drasticamente l’incidenza e la mortalità degli eventi coronarici e cerebrovascolari. Lo scopo globale della prevenzione primaria è quello di utilizzare tutti i provvedimenti a disposizione per evitare o ritardare il più possibile la comparsa delle manifestazioni cliniche della malattia aterosclerotica, favorendo la permanenza in una bassa classe di rischio dei soggetti che già lo sono e concentrando gli sforzi per ridurre il grado in coloro nei quali la patologia non si è ancora espressa clinicamente in modo conclamato. Sono stati condotti numerosi studi di popolazione che hanno dimostrato come l’uso delle statine nei pazienti in prevenzione primaria sia associato ad un incremento della sopravvivenza e ad una significativa riduzione del rischio dei maggiori eventi cardiovascolari. Una migliore comprensione dei meccanismi di azione e dei benefici associati alla terapia con statine, può quindi essere sicuramente di aiuto per una più efficace applicazione terapeutica. 3 2. CONSIDERAZIONI DI CARATTERE GENERALE SULLE STATINE 2.1 Meccanismo di azione delle statine Le statine sono inibitori competitivi dell’enzima HMG‐CoA reduttasi che interviene nella sintesi del mevalonato, punto di passaggio chiave nella catena di produzione del colesterolo (7). L’inibizione dell’enzima si associa pertanto a una riduzione della sintesi epatica del colesterolo e a una riduzione del pool intracellulare di colesterolo, con un aumento compensatorio dell’espressione dei recettori epatici per il LDL‐C e della sua clearence dal circolo ematico. Le statine possono inoltre inibire la sintesi epatica dell’apoliproteina B‐100 e ridurre la sintesi e la secrezione di lipoproteine ricche in trigliceridi (8). I farmaci attualmente disponibili sono numerosi e la scelta del farmaco dipende da diversi fattori: costo, efficacia a lungo termine, effetti collaterali, tipo di iperlipidemia diagnosticato, pertanto la terapia deve necessariamente essere individualizzata. 4 Figura 1. Acetil‐ CoA + Acetoacetil‐ CoA HMG‐ Co A statine Blocco Mevalonato Benefici precoci e tardivi (effetti pleiotropici) Importanti per la risposta vascolare cellulare Isopentanil PP Benefici più lenti e tardivi correlati alla diminuzione epatica di LDL Geranil PP Prenilazione Farnesil PP Squalene Geranil Geranil PP Rho Traslocato alla membrana cellulare Colesterolo Figura 1. Percorsi metabolici bloccati dalle statine Il meccanismo d’azione delle statine si fonda sull’inibizione dell’enzima HMG‐ CoA reduttasi con conseguente blocco della formazione di mevalonato e della formazione di colesterolo endogeno a livello epatico. 5 2.2 Effetti su lipidi e lipoproteine plasmatiche Studi di grandi dimensioni sulla prevenzione primaria delle patologie cardiovascolari hanno dimostrato che le statine riducono sostanzialmente la morbilità e la mortalità cardiovascolare. Inoltre le statine hanno dimostrato di rallentare la progressione e promuovere la regressione dell’aterosclerosi coronarica. Gli studi condotti sull’efficacia di questa classe di farmaci hanno dimostrato ottimi risultati sul controllo degli eventi coronarici e di altre complicanze aterosclerotiche come l’ictus e l’IMA, che risultano ridotte significativamente fino ad un terzo con il trattamento farmacologico. Le statine sono altamente efficaci nel ridurre il LDL‐C e moderatamente efficaci nell’aumentare il colesterolo HDL (HDL‐C). Complessivamente la riduzione massima di LDL‐C determinabile dalla terapia con statine varia dal 25 al 60% del valore sierico iniziale. Le attuali evidenze disponibili suggeriscono che il beneficio clinico è in gran parte indipendente dal tipo di statina utilizzata, mentre è in stretta correlazione con il grado di abbassamento di LDL‐C. Inoltre la curva dose‐risposta, a prescindere dal farmaco utilizzato, segue sempre un andamento curvilineo e in tal modo raddoppiare la dose al di sopra della soglia minima efficace comporta una riduzione ulteriore di LDL‐C di circa il 6% (9). Le statine, riducendo la sintesi epatica di apo B‐100 e di lipoproteine ricche in trigliceridi (VLDL), sono efficaci anche nella riduzione della trigliceridemia. 6 2.3 Elementi di farmacocinetica Valutare le caratteristiche farmacocinetiche di ciascuna statina può essere utile per definire i criteri di selezione dei singoli pazienti, contribuendo a determinare quale tipo di statina può essere più appropriata per ciascun paziente, in base alle loro caratteristiche individuali ed alla eventuale terapia farmacologica associata. Tutte le statine vengono somministrate nella forma attiva con l’anello aperto (b‐idrossiacido), tranne la lovastatina e la simvastatina che vengono somministrate come profarmaco nella forma lattonica e convertite a livello epatico al b‐idrossiacido corrispondente. Dopo somministrazione orale il picco di concentrazione plasmatica viene raggiunto in 1‐4 ore. L’atorvastatina è la molecola a più lunga emivita (11‐14 ore), mentre l’emivita delle altre statine varia da 1.2 a 3 ore. Quando si presenta una reazione avversa avere una lunga emivita può prolungare la durata dell’effetto collaterale. Il fegato biotrasforma tutte le statine, determinando una scarsa disponibilità sistemica dei composti originari (10). Tutte le statine subiscono un esteso metabolismo di primo passaggio epatico e meno del 5‐20% della dose somministrata raggiunge la circolazione sistemica. Le statine, con eccezione della pravastatina (50%) e della rosuvastatina (88%) sono legate più del 90% alle proteine plasmatiche, in particolare all’albumina plasmatica. Il minor legame di pravastatina e rosuvastatina alle proteine plasmatiche è da attribuirsi alla idrofilia di queste due molecole che limita la necessità di un loro trasporto attraverso il fegato. Un forte legame alle proteine plasmatiche può provocare occasionalmente 7 interazione con altri farmaci spiazzando le altre molecole fortemente legate alle proteine con il conseguente aumento del farmaco libero. Le statine sono soggette ad un metabolismo di fase I da parte degli enzimi epatici: i metaboliti sono eliminati attraverso i reni, ulteriormente metabolizzati e poi escreti. I più importanti enzimi di fase I sono quelli appartenenti alla superfamiglia del citocromo P450. Questi enzimi si trovano principalmente negli epatociti e in misura minore negli enterociti intestinali, reni, polmoni, cervello. Gli enzimi sono chiamati isoforme perché ognuno deriva da un gene diverso. Sono state identificate più di trenta isoforme umane, tuttavia i principali responsabili del metabolismo dei farmaci sono il CYP 3A4, 2C9, 1A2, 2D6. La pravastatina è trasformata in due metaboliti relativamente inattivi attraverso la catalisi indotta dalla sulfonil trasferasi nel citoplasma dell’epatocita e non enzimaticamente in ambiente acido, prima del suo assorbimento a livello gastrico. La rosuvastatina viene eliminata immodificata per via biliare e, in misura minore, dopo metabolizzazione attraverso la catalisi indotta dai citocromi P450 CYP2C9 e 2C19. Tutte le altre statine vengono metabolizzate a livello epatico attraverso la catalisi indotta dal CYP2C9 (fluvastatina) o dal CYP3A4 (simvastatina, lovastatina, atorvastatina). Solo due statine, pravastatina e rosuvastatina, probabilmente per le loro caratteristiche idrofiliche, vengono eliminate anche per via renale ma in percentuale modesta. L’attività del citocromo P450 è molto variabile da paziente a paziente, con una variabilità interindividuale documentata dell’attività del CYP 3A4 di almeno dieci volte. Queste differenze possono predisporre maggiormente ad una interazione farmacologica quei pazienti con un’attività scarsa o nulla di una determinata isoforma. Interazioni tra 8 farmaci clinicamente significative possono avvenire quando farmaci metabolizzati dalla stessa isoforma sono assunti contemporaneamente. L’inibizione del CYP 3A4 può produrre effetti tossici severi come il danno muscolare. Figura 2. Statine: strutture chimiche. 9 Tabella 1. Parametri Frazione assorbita T max (ore) Atorva Fluva Lova 30 98 98 2‐3 0.5‐1 C max (ng/ml) 27‐66 448 Biodisponibilità (%) 12 19‐29 Effetto del cibo sulla 13 15‐25 2‐4 10‐20 Prava Rosuva 30 50 0.9‐1.6 Simva 60‐80 3 1.3‐2.4 45‐55 37 10‐34 5 18 20 5 50 30 20 0 no no si 43‐55 88 Biodisponibilità (%) Lipofilia si Legame alle proteine (%) >98 Estrazione epatica (%) si si >99 >95 >70 >68 >70 46‐66 CYP 3A4 solfatazione 94‐98 63 78‐87 Metabolismo CYP 3A4 CYP 2C9 CYP 2CP, CYP 3A4 CYP 2C19 Metaboliti attivi inattivi Clearance 292 1132 attivi 303‐1166 inattivi attivi attivi 945 803 525 >400 226 sistemica (ml/min) Clearance renale T ½ (ore) Escrezione urinaria % Escrezione fecale % 15‐30 2 70 0.5‐2.3 2.9 1.3‐2.8 20.8 2‐3 6 10 20 10 13 90 83 71 90 58 Tabella 1. Proprietà farmacocinetiche delle statine. 10 2.4 Reazioni avverse legate all’uso delle statine Nella pratica clinica circa il 5‐10% dei pazienti trattati con statine sviluppa una miopatia: il rischio aumenta in base alla lipofilia, alla dose e alla potenza del farmaco somministrato. Atorvastatina e simvastatina hanno sviluppato nel complesso tassi più elevati di miotossicità. La manifestazione più frequente di miopatia è il dolore muscolare, di solito simmetrico che colpisce i muscoli prossimali, spesso senza o con un lieve rialzo delle CPK (creatinfosfochinasi). Pertanto i problemi muscolari dose‐dipendenti rappresentano le reazioni avverse più frequenti di questa classe di farmaci. Per facilitarne la classificazione le associazioni americane “American College of Cardiology” e “American Heart Association” definiscono le seguenti sindromi (11): 1. Mialgie: dolori muscolari e debolezza muscolare senza rialzo delle CPK. 2. Miosite: dolori muscolari con rialzo delle CPK sotto dieci volte il valore di riferimento. 3. Rabdomiolisi: dolori muscolari con rialzo delle CPK sopra dieci volte il valore normale con mioglobinuria e rischio associato di insufficienza renale. I sintomi si manifestano in genere entro le prime settimane fino a quattro mesi dopo l’inizio della terapia. Tuttavia possono presentarsi anche dopo un lungo trattamento, soprattutto nei casi in cui è stato aumentato il dosaggio oppure è stato aggiunto un nuovo farmaco che interagisce con la statina. Mialgie e dolori muscolari spariscono in genere nel giro di alcuni giorni dopo l’interruzione della terapia , parallelamente si normalizzano i valori di CPK. Particolarmente a rischio per rabdomiolisi sono i pazienti anziani, soprattutto 11 di sesso femminile, i pazienti con insufficienza renale o insufficienza epatica e i pazienti diabetici. Nel paziente anziano la rabbdomiolisi può manifestarsi solo come debolezza muscolare, senza dolore. La fluvastatina e la prava statina forse perché più deboli inibitori della HMG‐CoA reduttasi sembrano associati alla frequenza più bassa di rabdomiolisi. Dati forniti dalla FDA riportano un tasso di rabdomiolisi quattro volte più alto per la monoterapia con lovastatina, atorvastatina e simvastatina rispetto alla monoterapia con pravastatina e fluvastatina (12). Il meccanismo patogenetico con cui insorge la miopatia non è ancora stato chiarito ma sembra che tali farmaci siano in grado da una parte di ridurre i livelli circolanti di ubiquinone (coenzima Q10) determinando la comparsa di disfunzione endoteliale, e dall’altra di inibire non solo la sintesi del colesterolo ma anche la sintesi delle seleno‐proteine necessarie ai processi di riparazione delle cellule muscolari (13). Per quanto riguarda la tossicità epatica, le statine possono causare aumenti lievi di alanina aminotransferasi (ALT) nell’1‐3% dei pazienti trattati, soprattutto nei primi tre mesi di terapia. Tuttavia questi aumenti non si traducono mai in malattie epatiche clinicamente rilevabili e lo sviluppo di eventi avversi a livello epatico, che precludano l’utilizzo delle statine, sono molto rari. Poiché la maggior parte dei pazienti con sindrome metabolica hanno indicazioni per le statine, è necessario confrontarsi con la possibilità di prescrivere tali farmaci a pazienti con test di funzionalità epatica elevati. In uno studio condotto su 437 pazienti con un aumento moderato di base delle aminotransferasi, i pazienti trattati con statine hanno dimostrato di avere 12 con maggiori probabilità un calo delle aminotransferasi rispetto ai pazienti non trattati (14). Le linee guida del National Cholesterol Education Panel consigliano di effettuare un test di controllo dei parametri di funzionalità epatica a 12 settimane dall’inizio della terapia e poi un monitoraggio annuale. Per quanto riguarda il rischio di danno muscolare viene suggerito un dosaggio basale delle CPK, in considerazione del fatto che rialzi asintomatici delle CPK sono comuni e la conoscenza di una eventuale valutazione basale può aiutare nella valutazione successiva; il dosaggio routinario è di scarsa utilità in assenza di segni clinici o sintomi. E’ opportuno controllare anche il livello di TSH, in quanto l’ipotiroidismo predispone alla miopatia. Tutte le persone che iniziano la terapia con statine devono essere istruite a riferire immediatamente la comparsa di disturbi muscolari, debolezza muscolare o urine scure e in tal caso va richiesto il dosaggio delle CPK. Non è strettamente indicato il monitoraggio periodico di creatininemia e proteinuria anche se è utile effettuare un monitoraggio basale. Altri sintomi che possono essere considerati nei pazienti in trattamento con statine comprendono dispepsia e più raramente nausea, cefalea, malessere generale. I trials clinici solitamente evidenziano che tali effetti si manifestano con un’incidenza analoga a quella osservata nei pazienti trattati con placebo. Spesso la relazione causale di questi sintomi aspecifici con la terapia rimane poco chiara. Pertanto le statine si sono dimostrati farmaci sicuri nella grande maggioranza dei pazienti in cui sono utilizzati. Negli studi clinici sono stati osservati pochi effetti collaterali gravi, e le segnalazioni derivanti dalla farmacovigilanza sono 13 molto limitate considerando l’ampio numero di pazienti trattati. Tuttavia questi farmaci vanno comunque utilizzati in maniera appropriata e con giudizio clinico. Figura 3. Immagine istologica di una miopatia. 14 Tabella 2. Età avanzata (specialmente superiore agli 80 anni) Sesso (le donne presentano maggiori rischi) Ridotta massa corporea Patologie multisistemiche Insufficienza renale cronica Diabete mellito Ipotiroidismo Epatopatie Periodo post‐operatorio Traumi maggiori Ipotermia Alterazioni elettrolitiche Acidosi metabolica Infezioni virali Epstein Barr Influenza Coxsackie Infezioni batteriche Staphylococcus Alcolismo Assunzione di farmaci concomitanti Tabella 2. Principali fattori di rischio per le patologie muscolari associate all’uso delle statine. 15 2.5 Principali interazioni farmacologiche delle statine Nell’ambito della prevenzione primaria delle patologie cardiovascolari, le statine rappresentano i farmaci più efficaci e ampiamente prescritti per la riduzione del LDL‐C e la popolazione dei pazienti adatti per un trattamento a lungo termine è destinato ad aumentare. Una conoscenza delle potenziali interazioni tra farmaci consente di ridurre in maniera considerevole il rischio di eventi avversi. I dati della FDA sulla farmacovigilanza forniscono le associazioni più frequentemente ritenute responsabili di insorgenza di tossicità muscolare: tra le più comuni vi è quella rappresentata dall’associazione tra statine e fibrati. Per questo motivo molti preferiscono associare alla statina gli acidi grassi omega 3, sfruttando il loro effetto ipotrigliceridemizzante e di aumento del colesterolo HDL; tuttavia tale rischio è stato recentemente ridimensionato. In particolare la combinazione statina‐fenofibrato sembra particolarmente sicura sulla base di quanto riportato in letteratura. Infatti la frequenza di rabdomiolisi a seguito della combinazione statine‐fenofibrato è estremamente bassa (0.58/100.000). Altri farmaci che interagiscono con le statine sono gli inibitori del CYP 3A4: amiodarone, claritromicina, eritromicina, clopidogrel, colchicina, ciclosporina, donazolo, diltiazem, verapamil, acido fusidico, itraconazolo, antidepressivi triciclici. Altri farmaci che interagiscono con le statine, ma attraverso meccanismi diversi sono: digossina, ciproterone, esomeprazolo e warfarin. E’ particolarmente importante evitare l’uso concomitante di potenti inibitori del CYP 3A4 con alte dosi di lovastatina, simvastatina e 16 atorvastatina il cui metabolismo dipende da tale enzima, poiché elevate concentrazioni plasmatiche di statine lipofile, aumentano il rischio di tossicità muscolare. Inibitori deboli come il verapamil e il diltiazem possono essere assunti con basse dosi di queste statine. Le potenziali interazioni farmacologiche con la fluvastatina sono più rare perché è metabolizzata dal CYP 2C9; per quanto riguarda la pravastatina e la rosuvastatina, le interazioni sembrano ancora più rare poiché non sono metabolizzate dagli enzimi CYP, ma subiscono un processo di glucuronidazione (15). La dislipidemia, inoltre, rappresenta una delle principali anomalie mataboliche nei pazienti con HIV, sembra essere conseguente all’utilizzo degli inibitori delle proteasi a causa di una aumentata sintesi dei trigliceridi. Un’altra interazione rilevante è quella con l’immunosoppressore ciclosporina in grado di aumentare i livelli plasmatici di atorvastatina, lovastatina e simvastatina. Il meccanismo determinante tale interazione è rappresentato dalla competizione per il trasporto mediato da trasportatori proteici a livello epatico (OATP1B1: Organic Anion Trasporting Polypeptide) tra statine e ciclosporina che determina una captazione epatica ridotta delle statine con un aumento dei livelli sistemici e quindi della relativa tossicità (16). 17 Tabella 3. Inibitori/ substrati del CYP 3A4 Altri Amiodarone Digossina Ciclosporina Fibrati(gemfibrozil) Macrolidi (azitromocina, claritomicina, eritromicina) Niacina Antifungini azolici (itraconazolo, ketoconazolo, fluconazolo) Calcio‐ antagonisti (verapamil, diltiazem) Inibitori delle proteasi(saquinavir, ritonavir, indinavir) Warfarin, acenocumarolo Tabella 4. Selezione di farmaci che possono aumentare il rischio di miopatia quando utilizzati in associazione con le statine. 18 3. EFFETTI PLEIOTROPICI DELLE STATINE I primi dati che suggeriscono i possibili effetti benefici delle statine al di là dell’effetto ipocolesterolemizzante, derivano dallo studio HPS (Heart Protection Study), in cui la simvastatina ha ridotto la mortalità e la morbilità anche nei pazienti con normali livelli di colesterolo LDL (100 mg/dl). Una serie di numerosi piccoli studi ha messo in evidenza che le statine hanno la capacità di rallentare la progressione dell’ateroma e la frequenza degli eventi clinici associati, in una misura che non può essere attribuita unicamente alla riduzione di LDL‐C (17). Su questa linea, recenti trial hanno documentato come una parte dell’effetto favorevole delle statine appare legato al cosiddetto “effetto pleiotropico”, che è aggiuntivo rispetto a quello relativo alla ipercolesterolemia. Generalmente per effetti pleiotropici delle statine intendiamo una serie di azioni che includono effetti sul metabolismo delle lipoproteine plasmatiche, ma anche effetti anti‐infiammatori e anti‐trombotici (18). La maggior parte di queste proprietà sono mediate dall’inibizione della HMG‐CoA reduttasi e dalla ridotta sintesi di mevalonato; in questo modo infatti le statine, oltre a ridurre il LDL‐C, inibiscono la sintesi di intermedi degli isoprenoidi, a loro volta coinvolti in importanti funzioni biologiche a livello vascolare come l’attivazione della proteina Ras, l’up‐regulation della sintesi endoteliale di ossido nitrico (NO) e la down‐regulation della NADPH ossidasi con una riduzione della quantità di specie reattive ossidanti presenti nella circolazione. Un aumento anomalo delle specie reattive dell’ossigeno svolge 19 un ruolo centrale nella genesi e nella progressione delle malattie cardiovascolari: farmaci come le statine che possiedono indirettamente proprietà antiossidanti sono stati associati ad effetti positivi in studi clinici di grandi dimensioni (19). Markers infiammatori come la proteina C‐reattiva e il fattore nucleare‐kB hanno subito riduzione per effetto delle statine, tutto ciò porta ad ipotizzare che possiedano proprietà anti‐infiammatorie. Altri meccanismi proposti comprendono immunomodulazione, stabilizzazione della placca ateromasica, ridotta attivazione della cascata della coagulazione e l’inibizione dell’aggregazione piastrinica (20). 3.1 Effetti anti‐infiammatori Il sistema immunitario ha un ruolo centrale nell’aterogenesi. L’aterosclerosi è una malattia infiammatoria cronica a lenta evoluzione che coinvolge l’intima delle arterie di medio e grosso calibro e che viene avviato in risposta ad elevati livelli di lipidi plasmatici, soprattutto LDL (28). Un’analisi integrata dei risultati sperimentali e clinici sull’aterosclerosi suggerisce che le “strie lipidiche” rappresentino la lesione iniziale dell’aterosclerosi. La formazione di queste lesioni precoci dell’aterosclerosi sembra molto spesso derivare da accumuli locali di lipoproteine in alcune regioni dell’intima. L’accumulo di lipoproteine può non essere una semplice conseguenza dell’aumentata permeabilità o della presenza di fissurazioni nello strato endoteliale. Piuttosto, queste lipoproteine possono accumularsi nell’intima delle arterie 20 in quanto si legano ai costituenti della matrice extracellulare, prolungando la permanenza delle particelle ricche di lipidi nella parete delle arterie. Le lipoproteine che si accumulano nello spazio extracellulare dell’intima arteriosa spesso si associano a molecole di proteoglicani, costituenti della matrice extracellulare dell’arteria, e questa integrazione può promuovere la ritenzione di lipoproteine in quanto si creano legami che ne rallentano la fuoriuscita dalle lesioni in evoluzione. Le lipoproteine presenti nello spazio extracellulare dell’intima, in particolare quelle legate alle macromolecole della matrice, possono andare incontro ad alterazioni chimiche. Un numero sempre maggiore di evidenze sperimentali depone per un ruolo patogenetico, nel processo aterosclerotico, di tali modificazioni delle lipoproteine (29). Numerose evidenze in letteratura documentano come la terapia con statine possa effettivamente attenuare l’effetto dell’infiammazione sistemica sul rischio cardiovascolare (30). C’è una forte evidenza che la modificazione ossidativa delle LDL svolga un ruolo critico nel processo di aterogenesi e che le oxLDL possano profondamente influenzare la stabilità meccanica della placca aterosclerotica. Le statine hanno dimostrato un’azione anti‐ossidante diretta sulle oxLDL (31). Sia la porzione lipidica che quella proteica delle LDL possono andare incontro a processi ossidativi. Le modificazioni dei lipidi possono includere la formazione di idroperossidi, lipofosfolipidi, ossisteroli e prodotti aldeidici derivanti dalla rottura delle catene degli acidi grassi. Le statine riducono l’up‐ take di oxLDL, tramite specifici recettori quali LOX 1, il CD36, contribuendo probabilmente alla riduzione della formazione di cellule schiumose (32). 21 Il reclutamento dei leucociti rappresenta il secondo passaggio della formazione della stria lipidica. Le principali cellule ematiche che si ritrovano normalmente nell’ateroma sono di tipo mononucleato (monociti e linfociti). Al reclutamento dei leucociti nella stria lipidica partecipa verosimilmente un certo numero di molecole di adesione o di recettori per leucociti espressi sulla superficie di cellule endoteliali dell’arteria. Costituenti delle LDL modificate dall’ossidazione possono aumentare l’espressione delle molecole di adesione leucocitaria. Le citochine interleuchina IL (1) e il fattore di necrosi tumorale alfa (TNF α) inducono o aumentano l’espressione delle molecole di adesione per i leucociti sulle cellule endoteliali. Una volta insediatisi nella tonaca intima, i fagociti mononucleati si differenziano i macrofagi e successivamente in cellule schiumose ricche di lipidi. Le statine sembrano ridurre l’adesione di queste molecole, anche se i risultati in questo campo sono piuttosto inconsistenti. Il trasporto inverso del colesterolo mediato dalle lipoproteine ad alta densità (HDL), può rappresentare una via indipendente per la rimozione dei lipidi dall’ateroma. Questo trasporto inverso di colesterolo spiega in parte l’azione antiaterogena delle HDL. La maggior parte degli ateromi è asintomatica e molti non causano mai manifestazioni cliniche. Durante le fasi iniziali dello sviluppo dell’ateroma la placca solitamente cresce nella direzione opposta al lume. I vasi colpiti da aterogenesi tendono ad aumentare di diametro, un tipo di rimodellamento vasale noto come allargamento compensatorio. Fino a quando la placca non copre più del 40% circa della circonferenza della lamina elastica interna, essa 22 non inizia a invadere il lume dell’arteria. Dunque per la maggior parte della sua evoluzione, l’ateroma non determina una stenosi che possa limitare la perfusione tissutale (33). Nonostante il successo de trattamento con statine nel ridurre gli esiti clinici della malattia aterosclerotica, la malattia cardiovascolare rimane la causa maggiore di morbilità e mortalità nel mondo occidentalizzato. Una delle ragioni è probabilmente riconducibile al fatto che il trattamento con statine è introdotto quando le lesioni aterosclerotiche sono già in uno stadio avanzato. Clinicamente silente Clinicamente silente o asintomatica Crescita sostenuta da accumulo lipidico Dalla I decade Dalla III decade Lesione iniziale Stria lipidica Lesione media Ateroma Figura 4. Evoluzione dell’aterosclerosi. 23 Trombosi, ematoma Dalla IV decade Fibroateroma Ateromacomplesso 3.2 Effetti sulla disfunzione endoteliale. Il danno endoteliale rappresenta l’incipit del processo aterosclerotico. La terapia con statine ha di recente dimostrato di migliorare significativamente la disfunzione endoteliale periferica e coronarica. Le statine esercitano effetti vasoprotettivi attraverso l’inibizione di piccole proteine G: Rho, Ras e Rac che regolano negativamente l’ossido nitrico sintasi endoteliale. Rho media l’attivazione proinfiammatorio del coinvolto fattore di nell’adesione trascrizione dei nucleare monociti alle Nf‐kB cellule endoteliali, e riduce la produzione endoteliale di monossido d’azoto (NO). L’insieme di queste osservazioni permette di concludere che il trattamento con statine è in grado di modificare la composizione della placca aterosclerotica, favorendo la stabilizzazione delle lesioni nei pazienti con malattia aterosclerotica stabile (34). Il nesso biologico tra disfunzione endoteliale e ipercolestrolemia si può ricondurre ad una ridotta biodisponibilità di NO. In particolare alti livelli di LDL‐C sono in grado di determinare la down‐regulation della ossido nitrico sintetasi (eNOS), l’enzima che catalizza la formazione di NO dalla L‐arginina. Le statine sono in grado di stimolare direttamente l’attività di eNOS, incrementando la biodisponibilità di NO (35). La terapia con fluvastatina (80 mg/die) ha di recente dimostrato di migliorare la disfunzione endoteliale nei pazienti con ipertensione arteriosa e normali livelli di LDL‐C. Questi dati avvalorano l’utilità delle statine nei pazienti con ipertensione arteriosa, in assenza di ipercolesterolemia o di altri fattori di rischio aggiuntivi (36). 24 3.3 Effetti sulla prevenzione del tromboembolismo venoso. La condizione di ipercolesterolemia è caratterizzata da uno stato ipercoagulativo e da una condizione di iperattivazione piastrinica. I pazienti ipercolesterolemici hanno livelli maggiori di tronbossano B2 (uno dei metaboliti maggiori del trombossano A2) e b‐trombomodulina, che indicano come i livelli di LDL‐C elevati siano in grado di determinare perossidazione lipidica ed attivazione piastrinica. Le oxLDL inducono l’espressione di P‐ selectina sulla superficie di piastrine e cellule endoteliali con un aumento corrispondende dell’espressione di fattore tissutale (TF) da parte dei monociti. Il legame della P‐selectina ai monociti, presenti in un’area di danno vascolare, può dare il via a fenomeni trombotici, e sembra che tale molecola svolga un ruolo di notevole importanza nella deposizione di fibrina nel contesto del trombo. La riduzione dei livelli sierici di fibrinogeno collegata alla somministrazione delle statine contribuisce senza dubbio a inibire la formazione del trombo. Un recente studio retrospettivo di coorte, condotto su 1975 pazienti affetti da aterosclerosi, ha stabilito che l’utilizzo combinato di statine e terapia antiaggregante piastrinica, sia in grado di ridurre ulteriormente l’incidenza di TEV, con una risposta correlata alla dose di statine. Infatti tra gli utilizzatori, il 6.3% ha sviluppato tromboembolismo venoso, rispetto al 22,2% del gruppo non utilizzatore (37). Tuttavia ulteriori studi sono necessari per valutare i rischi e i benefici delle statine nella prevenzione del TEV. 25 4. STATINE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE 4.1 Studi di prevenzione primaria L’efficacia delle statine nel ridurre il rischio cardiovascolare è ben dimostrata da numerosi trials clinici anche in prevenzione primaria, ossia in pazienti con fattori di rischio ma non andati incontro ancora ad eventi cardiovascolari. Uno dei primi grandi studi clinici ad affrontare il tema dell’uso delle statine in prevenzione primaria è stato l’AFCAPS/TexCaPS, il quale dimostrò come la terapia con lovastatina 40 mg/die in pazienti con valori medi iniziali di LDL‐C pari a 150 mg/dl e bassi livelli di HDL‐C riducesse in maniera significativa (quasi il 40%) il numero di eventi cardiovascolari rispetto al placebo; lo studio confermò come la riduzione del LDL‐C fosse un punto cruciale nella prevenzione cardiovascolare ed evidenziò per la prima volta i bassi livelli di HDL‐C come ulteriore determinante del rischio. Rilevanti si dimostrarono anche i risultati del braccio “lipid lowering” dello studio ASCOT, in cui 10305 pazienti ipertesi con colesterolemia totale <250 mg/dl furono randomizzati ad atorvastatina 10 mg/die o placebo: lo studio fu interrotto dopo 3 anni per il notevole miglioramento, soprattutto nel primo anno di follow‐up, di tutti gli end‐points primari e secondari. Di recente sono stati pubblicati anche i risultati del follow‐up a dieci anni dello studio WOSCOPS (The West of Scotland Coronary Prevention Study) che hanno documentato come la terapia con pravastatina per cinque anni in pazienti senza precedenti cardiovascolari abbia comportato una riduzione significativa degli eventi per ulteriori dieci anni dal termine dello studio rispetto a coloro i quali avevano 26 assunto il placebo. Infine, un’ulteriore evidenza dell’efficacia delle statine in prevenzione primaria è stata recentemente fornita dallo studio JUPITER. Sulla base dello studio JUPITER, le autorità sanitarie europee hanno recentemente approvato l’utilizzo di rosuvastatina per ridurre gli eventi cardiovascolari maggiori nei pazienti in prevenzione primaria e con rischio cardiovascolare globale >20% secondo l’algoritmo Framingham, o ≥5% secondo la valutazione sistematica del rischio coronarico SCORE (Sistemic Coronary Risk Estimation). Lo studio JUPITER (The Justification for Use of statins in Prevention: an Intervention Trial Evaluating Rosuvastatin), randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, è stato disegnato per valutare l’efficacia delle statine, in particolare della rosuvastatina (20 mg/die), nella diminuzione degli eventi cardiovascolari maggiori. Nello studio Jupiter sono stati arruolati uomini apparentemente sani di età superiore ai 50 anni e donne dai 60 anni con un livello di LDL < 130 mg/dL, un livello di PCR ad alta sensibilità > 2 mg /L e nessuna precedente storia di malattia cardiovascolare o diabete. Il Framingham risk score era <20% in tutti i pazienti con esclusione dal protocollo dei pazienti con rischio cardiovascolare globale >20%. L’end point primario era rappresentato dalla combinazione di infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, angina instabile, tutti eventi che richiedono procedure di ospedalizzazione, rivascolarizzazione e un aumento della mortalità cardiovascolare (21). Il gruppo di studio era costituito da circa 18 000 pazienti, con soggetti di età media >65 anni, nel 38% di sesso femminile, con chiara prevalenza di pazienti con sindrome metabolica e in sovrappeso, in un quarto dei casi con pressione arteriosa sistolica >145 mmHg, con buona 27 rappresentazione di pazienti fumatori e con familiarità cardiovascolare precoce, tutte condizioni generalmente associate ad aumentati livelli di hs‐ PCR. I criteri di esclusione che sono stati adottati riguardavano l’uso di eventuali terapie ipolipemizzanti fino a sei settimane prima del controllo; l’uso corrente di terapia ormonale sostitutiva in post‐menopausa; evidenza di disfunzione epatica; creatinina sierica >177 micromol/L; diabete mellito; eventi precedenti cardiovascolari o cerebrovascolari; presenza di malattie infiammatorie croniche (artrite grave, lupus, malattia infiammatoria intestinale), o di altre condizioni mediche gravi che potrebbero compromettere la sicurezza e il completamento dello studio. Come riportato in precedenza, dopo un follow up mediano di 1,9 anni, l’utilizzo di rosuvastatina era associato ad una riduzione del 54% di infarto miocardico, del 48% di ictus, una riduzione del 46% di rivascolarizzazione, del 43% di tromboembolismo venoso, e una riduzione del 20% della mortalità totale. I pazienti selezionati come ad alto rischio erano quelli più anziani, più spesso maschi e più propensi a fumare, con ipertensione e bassi livelli di HDL‐C. In particolare la sindrome metabolica è più frequente tra i pazienti considerati ad alto rischio Framingham. In questi sottogruppi ad alto rischio, rosuvastatina ha abbassato il colesterolo LDL, trigliceridi, hs‐PCR, aumentato HDL‐C, in coerenza con gli effetti osservati nell’intero gruppo di studio. La riduzione degli eventi è risultata massima nei pazienti i cui livelli di colesterolo LDL e hs‐PCR sono stati abbassati rispettivamente a < 70 mg/dl e < 2 mg/L (22). Diversi dati indicano che la riduzione della hs‐PCR sia determinata almeno per il 90% dalla riduzione delle LDL ossidate e da vie intracellulari dipendenti dall’effetto sull’enzima HMG‐CoA‐reduttasi, e solo 28 per il 10% da un effetto diretto sulle molecole coinvolte nella modulazione dell’infiammazione. Lo studio è stato interrotto dopo meno di due anni a causa dell’evidente effetto benefico del trattamento farmacologico. I punti di forza di questa analisi comprendono la randomizzazione, la progettazione con un gruppo di controllo con placebo, un’ampia rappresentanza geografica, compreso un numero considerevole di cittadini europei e l’inclusione di un gran numero di donne. Una limitazione è rappresentata dalla precoce interruzione dello studio, inoltre la progettazione è limitata ai pazienti di età inferiore ai 65 anni, e né il punteggio Framingham, né lo SCORE prendono in considerazione la hs‐PCR come fattore di rischio cardiovascolare. Tuttavia molte sono le prove che sostengono un ruolo fondamentale della PCR come marker di rischio cardiovascolare. Una concentrazione plasmatica di PCR >10 mg/L è considerata indicativa di un’infiammazione clinicamente significativa, tuttavia aumenti modesti delle concentrazioni di PCR (> 3,0 mg/L) sono stati associati ad un incremento del rischio di coronaropatia (23). I livelli di PCR sono aumentati nella sindrome metabolica, ipertensione, fibrillazione atriale, e determinano in questi pazienti un aumentato rischio di eventi cardiovascolari; mentre l’esercizio fisico, la perdita di peso, la cessazione del fumo di sigaretta e trattamenti farmacologici che prevedono l’uso di statine e anti‐ipertensivi, sono associati ad una riduzione della PCR (24). Anche se questi dati supportano l’alta efficacia della terapia con statine, non va in alcun modo minimizzato il ruolo svolto da dieta, esercizio fisico, cessazione del fumo di sigaretta come gli interventi più importanti per la prevenzione primaria. Nonostante il beneficio che deriva dal trattamento 29 con rosuvastatina dei pazienti ad alto rischio, è necessario ricorrere con cautela ad un trattamento farmacologico nei confronti di pazienti privi di fattori di rischio cardiovascolari (). Nel complesso, i risultati dei trial JUPITER sono coerenti con il principio che il raggiungimento di livelli molto bassi di colesterolo LDL e di hs‐PCR sia determinante per ridurre gli eventi cardiovascolari nei soggetti con e senza sindrome metabolica e ipertensione (25). Secondo le ultime linee guida (26) la misurazione di hs‐PCR non è raccomandata per la valutazione del rischio negli adulti asintomatici che sono a basso rischio, mentre è ragionevole in quelli a rischio intermedio (rischio dal 10% al 20%). I dati dello studio Framingham Heart Study hanno dimostrato che le misurazioni di PCR migliorano la riclassificazione del rischio individuale (27). Inoltre occorre considerare che, come la maggior parte dei nuovi biomarcatori, la conoscenza dei livelli di PCR, può migliorare la motivazione dei pazienti ad aderire ad uno stile di vita più sano. 30 4.2 Definizione del rischio cardiovascolare globale Nella pratica clinica tutte le attuali linee guida sulla prevenzione cardiovascolare raccomandano la valutazione del rischio cardiovascolare totale perché, nella maggior parte dei casi, la malattia aterosclerotica è il prodotto di un certo numero di fattori di rischio. Si definisce “rischio cardiovascolare globale” la probabilità assoluta di incorrere in un intervallo di tempo definito (in genere dieci anni) in un evento clinico di natura cardiovascolare. Il rischio globale può essere stimato mediante l’utilizzo di opportuni algoritmi, o mediante la loro risoluzione grafica (carte del rischio), basandosi sul livello di alcuni fattori predittivi (fattori di rischio) e di alcune caratteristiche del soggetto. Per stimare il rischio cardiovascolare assoluto si ricorre all’uso di funzioni di rischio, ovvero equazioni che ci permettono di studiare la relazione esistente tra i fattori di rischio e lo sviluppo della malattia. Queste funzioni sono caratterizzate da tre elementi: la media dei fattori di rischio della popolazione considerata, i coefficienti di rischio, cioè il peso dei singoli fattori nel determinare la patologia, e la probabilità della popolazione di sopravvivere senza malattia. Tutte queste caratteristiche possono subire una variazione in base alla popolazione studiata e nelle diverse generazioni. Sono disponibili numerosi sistemi di valutazione del rischio perché nelle differenti popolazioni considerate sono diversi gli elementi che contribuiscono in modo significativo alla predizione della probabilità di malattia. Il vantaggio che deriva dall’uso di questi strumenti è rilevante 31 poiché essi permettono di stimare l’effetto contemporaneo di molti fattori che difficilmente l’osservazione clinica può valutare obiettivamente e quantitativamente in modo preciso. Sull’ algoritmo Framingham si basa il documento statunitense elaborato e diffuso dal National Cholesterol Education Program (ATP‐III). Questo algoritmo permette di stimare la probabilità dei soli eventi coronarici (infarto miocardico acuto, angina pectoris, scompenso cardiaco, morte per cardiopatia e morte improvvisa). I parametri presi in considerazione sono età, sesso, abitudine al fumo, pressione arteriosa sistolica (in una variante anche la diastolica), valore del colesterolo totale, HDL‐C, presenza o meno di diabete. L’algoritmo SCORE (Systematic Coronary Risk Estimation) permette di stimare la mortalità cardiovascolare (cardiopatia ischemica, accidenti cerebrovascolari, arteriopatia periferica), prendendo in considerazione come fattori di rischio la pressione arteriosa sistolica, la colesterolemia totale, HDL‐ C, l’abitudine al fumo di sigaretta, oltre che sesso ed età. Score è un progetto internazionale, che ha esaminato complessivamente circa 200 mila soggetti: si basa su progetti di osservazione condotti sia in paesi nord‐europei che mediterranei. Per ovviare alla differenza di incidenza degli eventi cardiovascolari nelle aree settentrionali e meridionali del continente europeo, gli autori di SCORE hanno elaborato due differenti algoritmi, uno adatto alle popolazioni ad alto rischio ed uno adatto alle popolazioni a basso rischio, come quella italiana. Il modello SCORE è limitato ad età 45‐64 anni. Queste carte del rischio sono finalizzate a facilitare la stima del rischio cardiovascolare nei soggetti apparentemente sani senza segni di malattia clinica o pre‐clinica. Gli algoritmi, pertanto, non devono essere presi in 32 considerazione in alcune situazioni nelle quali il loro impiego conduce ad una reale sottostima del rischio del paziente considerato. Alcuni esempi di rilevanza clinica riguardo queste situazioni sono: il paziente affetto da ipercolesterolemia familiare, sindrome metabolica, presenza di danno d’organo. 33 34 35 4.3 Strategie di prevenzione. La valutazione del RCVG non solo ci consente di capire quanto possono essere vantaggiosi i provvedimenti da prendere in considerazione, soprattutto se di tipo farmacologico, ma permette anche di accrescere nei pazienti la consapevolezza dei propri comportamenti e delle possibilità riguardo eventuali cambiamenti dello stile di vita. Per ridurre l’incidenza e il peso delle malattie cardiovascolari è necessario attuare interventi non solo nei riguardi della popolazione ad alto rischio, ma anche nei confronti della fascia a rischio intermedio nella quale si concentra il maggior numero di morti a causa della sua maggiore numerosità. A questo scopo i soggetti a rischio intermedio devono ricevere una consulenza professionale in merito alle modifiche dello stile di vita, e in alcuni casi una terapia farmacologica adeguata, attuando un controllo periodico programmato dei lipidi plasmatici. Le finalità di questa strategia sono quelle di prevenire un ulteriore aumento del rischio cardiovascolare totale, migliorare la comunicazione del rischio e promuovere gli sforzi di prevenzione primaria. Occorre inoltre sottolineare che il rischio che ogni persona ha di sviluppare una malattia cardiovascolare è continuo, tende ad aumentare con l’età ed è direttamente correlato con l’entità dei fattori di rischio presenti. Pertanto non esiste un livello in cui il rischio è nullo, ed anche i soggetti considerati a basso rischio dovrebbero ricevere una adeguata consulenza al fine di prolungare la permanenza in questo stato. La malattia cardiovascolare è oggi prevenibile. 1. Rischio molto elevato. I pazienti con una delle seguenti caratteristiche: 36 ‐ malattia cardiovascolare documentata da test invasivi e non invasivi, precedente IM, interventi di rivascolarizzazione coronarica, ictus ischemico. ‐ pazienti con diabete di tipo 2, pazienti con diabete di tipo 1 in presenza di danno d’organo. ‐ Pazienti con moderata o grave insufficienza renale con velocità di filtrazione glomerulare < 60 mL/min. 2. Alto rischio. I pazienti con una delle seguenti caratteristiche: ‐ presenza di singoli fattori di rischio marcatamente elevati con dislipidemia familiare e ipertensione grave. ‐ un punteggio di rischio SCORE calcolato ≥ 5% e < 10% per 10 anni. 3. Rischio intermedio o moderato. I soggetti sono considerati a rischio intermedio quando il loro SCORE è ≥ 1% e < 5% a 10 anni. La maggior parte dei soggetti di mezza età appartengono a questa categoria di rischio. Il rischio è ulteriormente modulato dalla storia familiare di patologia cardiovascolare in età precoce, obesità addominale, modello di attività fisica effettuata, HDL‐C, TG, hs‐PCR, Lp (a), fibrinogeno, omocisteina, apo‐B, classe sociale. 4. Basso rischio. La categoria a basso rischio si applica agli individui con punteggio SCORE < 1%. Le attuali linee guida sulla prevenzione cardiovascolare consigliano di modulare l’intensità dell’intervento preventivo in base al livello di rischio cardiovascolare totale riscontrato, tenendo presente che il RCVG può variare nel tempo, in meglio o in peggio, per cui ricalcolarlo periodicamente consentirà di valutare i risultati ottenuti e di adeguarsi ai cambiamenti che si sono verificati. Gli obiettivi del trattamento della dislipidemia si basano 37 principalmente sui risultati ottenuti attraverso studi clinici e il LDL‐C viene utilizzato generalmente come indicatore di risposta alla terapia. Considerando i dati attualmente disponibili per quanto riguarda i pazienti a rischio molto alto, il raggiungimento di valori di LDL‐C < 70 mg/dL o una riduzione ≥ al 50% rispetto ai valori basali, offre il miglior beneficio clinico in termini di riduzione del rischio cardiovascolare. Nella maggior parte dei pazienti ciò è realizzabile con la monoterapia con statine. Per i soggetti ad alto rischio occorre prendere in considerazione un livello di LDL‐C < 100 mg/dL. Riguardo i soggetti a rischio moderato l’obiettivo è quello di un livello di LDL‐C < 115 mg/dL, tenendo presente i risultati dello studio Jupiter, i quali hanno chiaramente mostrato che i pazienti che hanno raggiunto un livello di LDL < 80 mg/dL e hs‐PCR < 2,0 mg/L, avevano il più basso tasso di eventi cardiovascolari. 38 5. ADERENZA ALLA TERAPIA Il successo di una terapia non dipende solo dalla correttezza della diagnosi e della scelta terapeutica da parte del medico: è fondamentale che il paziente si attenga alla cura, ovvero che segua esattamente le indicazioni fornitegli e per il tempo necessario. L’aderenza a una terapia si riferisce all’atto di conformarsi alle indicazioni dei professionisti sanitari in termini di tempistica, dosaggio, frequenza e durata di somministrazione dei farmaci prescritti. Viene quantificata dalla compliance (copertura temporale) e dalla persistenza (continuità). La mancata aderenza può seriamente compromettere l’efficacia di una terapia e comportare un peggioramento delle condizioni di salute e della qualità della vita del paziente, la necessità di esami o di ulteriori farmaci, l’aumento della morbilità e della mortalità. Uno dei presupposti affinché un trattamento mantenga il rapporto efficacia/rischio riscontrato nelle ricerche cliniche è che venga utilizzato in pazienti con caratteristiche analoghe a quelli inclusi nelle ricerche cliniche, che venga prescritto alle dosi studiate e per un intervallo di tempo adeguato. Ci sono molti segnali, invece, che il trattamento con le statine venga assunto in modo non continuativo, a intervalli di tempo più o meno lunghi per “normalizzare” i valori lipidici. Con una tale pratica clinica si espone il paziente al rischio degli effetti indesiderati (che non sempre sono legati alla durata del trattamento) senza offrirgli alcun beneficio clinico, dal momento che i risultati sulla riduzione della mortalità e 39 degli eventi clinici maggiori sono stati ottenuti in tutte le ricerche dopo anni di trattamento. Tuttavia stabilire la relazione tra aderenza e risultati clinici è complesso, in quanto l'esito della terapia è condizionato anche da fattori come l'efficacia intrinseca del trattamento raccomandato, variazioni genetiche che possono influenzare la risposta e alcuni aspetti dell’atteggiamento di medico e paziente nei confronti della patologia. Inoltre l’aderenza sembra contribuire a promuovere la salute del paziente non solo consentendo la performance attesa del trattamento, ma anche favorendo aspettative e condizionamenti positivi e potenziando le risposte neuroendocrine e immunitarie mediate dall'esperienza emotiva che accompagna una buona cura, con un conseguente miglioramento dell'approccio alla terapia. 5.1 Terapia ipolipemizzante I trial clinici hanno dimostrato che una diminuzione dei livelli di colesterolo LDL, derivante dalla terapia con statine, può ridurre morbilità e mortalità cardiovascolare. Analisi in prevenzione primaria hanno mostrato che le statine riducono l'incidenza di malattie cardiocoronariche di circa il 30%. Nonostante i ben noti effetti favorevoli della terapia ipolipemizzante, l'aderenza alle statine nella pratica clinica resta però inadeguata. Infatti, dopo un anno di trattamento, solo il 40% dei pazienti mostra una compliance ottimale (almeno 80%) e i tassi di interruzione della terapia variano tra il 15% e il 60%. 40 Poiché gli studi pubblicati suggeriscono che il pieno potenziale terapeutico della terapia farmacologica ipolipemizzante può essere raggiunto dopo 1‐2 anni di trattamento continuo, un'aderenza inadeguata può compromettere l’efficacia dei farmaci. Uno studio retrospettivo ha osservato che i pazienti aderenti alla terapia con statine hanno una probabilità 5 volte maggiore di raggiungere i propri obiettivi terapeutici rispetto ai soggetti meno aderenti. Due studi condotti in un’ampia coorte hanno indicato nella non aderenza alla terapia ipolipemizzante un fattore di rischio per le malattie cerebrovascolari e coronariche: livelli ottimali di compliance alle statine sono stati associati ad una riduzione del 26% del rischio di malattie cerebrovascolari e del 18% del rischio di malattie coronariche. Uno studio italiano ha osservato una riduzione del 20% del rischio di cardiopatia ischemica con livelli di compliance superiore al 90% rispetto a livelli inferiori al 20%. Il rapporto tra endpoint clinici e aderenza comporta anche risvolti economici. Uno studio recente ha osservato che un’elevata compliance è associata a una migliore prognosi (rischio di eventi ridotto del 25%) e a costi più elevati di oltre il 20% per paziente, a causa delle maggiori spese farmaceutiche, ma con un aumento della sopravvivenza stimata. D’altra parte, è stato dimostrato che i minori costi farmaceutici dei pazienti non aderenti sono di gran lunga superati dai costi addizionali dovuti all’aumento delle malattie cardiovascolari. Le evidenze ricavate da questi studi confermano che l’aderenza del paziente è associata a esiti migliori rispetto alla non aderenza e suggeriscono, quindi, che questo aspetto possa essere un importante obiettivo di intervento a 41 livello individuale così come a livello di sistema sanitario. In quest’ottica, gli sforzi per migliorare l’atteggiamento dei pazienti, in particolare nel contesto della partecipazione attiva e della responsabilità, in collaborazione con i loro medici, rappresentano una valida strategia per implementare l’efficacia delle terapie farmacologiche. È opportuno operare per aumentare il tasso di adesione alla terapia con statine per conseguire i risultati attesi. 42 6. FARMACOECONOMIA 6.1 Introduzione I recenti progressi in ambito di salute pubblica hanno aiutato le persone a vivere più a lungo e in salute. Tuttavia le patologie cardiovascolari rappresentano ancora oggi la maggiore causa di mortalità e morbosità degli adulti e nei prossimi dieci anni è previsto un aumento pari al 17% di tali malattie per effetto dell’allungamento dell’età media. E’ un dato di fatto che i sistemi sanitari investano una modestissima quota della spesa sanitaria nella prevenzione, rispetto alle spese di assistenza: solo il 3% secondo le stime dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Occorre considerare che le patologie cardiovascolare assorbono fette sempre più rilevanti della spesa sanitaria. Continuare ad investire in assistenza non è più sostenibile. Una parte dell’attenzione deve quindi essere focalizzata, in modo non rimandabile sulla prevenzione, considerando che gli ultimi studi hanno dimostrato in modo inequivocabile che queste patologie sono prevenibili e controllabili. I costi diretti e indiretti per il trattamento di queste patologie e delle loro complicazioni potrebbero essere notevolmente ridotti. Nonostante ciò la maggior parte della popolazione non è coperta da un’adeguata prevenzione e non riceve cure adeguate. Le evidenze scientifiche dimostrano la necessità di intervenire con azioni svolte da un lato alla prevenzione individuale e dall’altra alla prevenzione di comunità al fine di agire sia sulle persone ad alto rischio, abbassandolo, sia sulle persone a basso rischio affinché rimanga tale nel corso della vita. E’ 43 ampiamente dimostrato che il rischio cardiovascolare è reversibile e la diminuzione dei fattori di rischio porta ad una riduzione degli eventi e al verificarsi di eventi meno gravi. La regione Abruzzo è caratterizzata da una elevata spesa farmaceutica pro‐ capite. La manovra di contenimento della spesa farmaceutica, rivolte alle regioni sottoposte a piano di rientro (tra le quali anche l’Abruzzo), prevede l’istituzione di commissioni regionali e l’appropriatezza prescrittiva, l’introduzione nuclei di di controllo percorsi per diagnostico‐ terapeutici e linee guida cliniche, il rispetto delle indicazioni prescrittive contenute nelle note AIFA. Tuttavia è opportuno assicurarsi che le misure di contenimento siano occasione di miglioramento della qualità e non di razionamento. A tal fine la nuova nota 13 apporta significative modifiche ai criteri per l’appropriatezza prescrittiva dei farmaci ipolipemizzanti (statine, ezetimibe, omega 3). Le statine vengono suddivise in classi di primo e secondo livello con precise indicazioni sulla loro utilizzazione. Le modalità di impiego della terapia farmacologica vengono riformulate ed ora sono contemplate l’ipercolesterolemia poligenica, le dislipidemie familiari, le iperlipidemie indotte da farmaci. Per la determinazione del rischio cardiovascolare (pazienti con ipercolesterolemia familiare poligenica) scompaiono le Carte del Rischio del Progetto Cuore dell’Istituto Superiore di Sanità, e vengono utilizzati i criteri delle linee guida AHA/ACC e dell’ESC/EASD che stratificano il rischio cardiovascolare in base alla presenza o meno di alcune patologie (malattia coronarica, arteriopatia periferica, aneurisma dell’aorta addominale, disturbo cerebrovascolare, diabete mellito) e fattori di rischio (età, abitudine al fumo, PA sistolica > 135 e PA 44 diastolica > 85 o trattamento antipertensivo in atto, HLD < 40 mg/dl negli uomini e < 50 mg/dl nelle donne, storia familiare di cardiopatia ischemica prematura, prima dei 55 anni negli uomini e dei 65 anni nelle donne, in un familiare di primo grado). In base a questi criteri il rischio individuale può risultare moderato, alto o molto alto. In un comunicato, l’AIFA fa sapere che la nota 13 è stata profondamente rielaborata per renderla una raccomandazione unitaria che non costituisca ostacolo all’accesso alla cura per i pazienti. La scelta del farmaco da prescrivere è stata modulata in funzione del livello del rischio e del relativo target terapeutico. Alla luce delle nuove conoscenze clinico scientifiche sono stati superati i limiti della precedente versione della nota eliminando le incertezze relative alla ipercolesterolemia costituisce poligenica e chiarendo che l’ipercolesterolemia l’elemento necessario per l’ammissione al trattamento rimborsabile. 45 46 1) Ipercolesterolemia poligenica. L’uso di farmaci ipolipemizzanti deve essere continuativo non occasionale così come il controllo degli stili di vita. Solo dopo tre mesi di dieta adeguatamente proposta al paziente, ed eseguita in modo corretto dopo aver escluso le cause di dislipidemia familiare o dovute ad altre patologie (ad esempio l’ipertiroidismo oppure a patologia HIV correlata) si può valutare, a partire dai soggetti a rischio moderato, l’inizio della terapia farmacologica per la quale è di norma sufficiente l’impiego di una statina di prima generazione. La nota 13, identifica nella ipercolesterolemia non corretta dalla sola dieta, la condizione necessaria per l’ammissione dei pazienti al trattamento rimborsabile, essa non identifica un valore soglia per l’inizio della terapia ma stabilisce, in via principale, il target terapeutico (LDL‐C) in base alla associazione di fattori di rischio di malattia coronarica o di malattia a rischio equivalente e a loro combinazioni. Accanto a ciascun target terapeutico la nota 13 identifica il farmaco appropriato di prima scelta per la terapia che nella maggior parte dei casi è rappresentata da statine indicate come di primo livello solo in casi limitati è ammissibile la prescrizione iniziale di statine indicate come di secondo livello. In questa prima fase è necessario assicurare l’ottimizzazione della statina scelta prima di prendere in considerazione la sua sostituzione o la sua associazione. L’impiego di altri medicinali (statine di secondo livello) possono essere prescritte solo quando il trattamento con una statina di primo livello a dosaggio adeguato si sia dimostrato insufficiente al raggiungimento della riduzione attesa del LDL‐C. La nota 13 ha riconsiderato, su aggiornate basi farmaco‐terapeutiche, il ruolo dell’associazione tra ezetimibe e statine, infatti l’ezetimibe è un farmaco che 47 inibisce l’assorbimento del colesterolo. Utilizzato in monoterapia, la massima efficacia dell’ezetimibe nell’abbassare i livelli di LDL‐C, è non superiore al 15‐ 20% dei valori di base. Il ruolo dell’ezetimibe in monoterapia nei pazienti con elevati livelli di LDL‐C è perciò, molto limitato. L’azione dell’ezetimibe è complementare a quella delle statine, infatti le statine che riducono la biosintesi del colesterolo, tendono ad aumentare il suo assorbimento a livello intestinale; l’ezetimibe che inibisce l’assorbimento intestinale di colesterolo tende ad aumentare la sua biosintesi a livello epatico. Per questo motivo, l’ezetimibe in associazione ad una statina può determinare una ulteriore riduzione di LDL‐C indipendentemente dalla statina utilizzata: questa ulteriore riduzione è stata stimata non superiore al 15‐20% ed è praticamente la stessa qualunque sia la dose della statina associata. Quindi l’associazione tra ezetimibe e statine è utile e rimborsata dal SSN solo nei pazienti nei quali la dose di statine considerata ottimale non consente di raggiungere il target terapeutico atteso, oppure nei pazienti che siano ad esse intolleranti. 2) Dislipidemie familiari. Le dislipidemie familiari sono malattie su base genetica caratterizzate da elevati livelli di alcune frazioni lipidiche plasmatiche e, spesso da una grave e precoce insorgenza di malattie cardiovascolari. Le dislipidemie erano classicamente distinte secondo la classificazione di Frederickson, basata sull’individuazione delle frazioni lipoproteiche aumentate; questa classificazione è oggi in parte superata da una classificazione genotipica, basata sull’identificazione delle alterazioni geniche responsabili. Ad oggi non sono tuttavia definiti criteri internazionali consolidati per la diagnosi 48 molecolare di tutte le principali dislipidemie familiari e l’applicabilità clinica pratica di tali criteri è comunque limitata. Il loro riconoscimento va quindi effettuato impiegando algoritmi diagnostici che si basano sulla combinazione di criteri biochimici, clinici e anamnestici. E’ essenziale per la diagnosi di dislipidemia familiare escludere tutte le forme di iperlipidemia secondaria o da farmaci. Ipercolesterolemia familiare monogenica (FH): malattia genetica ( con prevalenza nel nostro Paese intorno a 1:500) frequentemente dovuta a mutazione del gene che codifica per il recettore delle LDL. Nonostante la diagnosi certa sia attendibile solamente mediante metodiche di analisi molecolare, questa dislipidemia, nella pratica clinica, può essere diagnosticata con ragionevole certezza mediante un complesso di criteri biochimici, clinici e anamnestici. I cardini di questi criteri, sostanzialmente condivisi da tutti gli algoritmi diagnostici proposti, includono: ‐colesterolemia LDL superiore a 190 mg/ dl; ‐trasmissione verticale della malattia, documentata dalla presenza di analoga alterazione biochimica nei familiari del paziente; ‐xantomatosi tendinea; ‐anamnesi positiva per cardiopatia ischemica precoce (prima di 55 anni negli uomini, prima di 60 anni nelle donne) nel paziente o nei familiari di primo e secondo grado o la presenza di grave ipercolesterolemia in figli in età prepubere. Dati recenti suggeriscono che un appropriato trattamento dei pazienti con una ipercolesterolemia familiare conduce ad un sostanziale abbattimento del rischio cardiovascolare. 49 Ipercolesterolemia familiare combinata (FCH): questa malattia (con prevalenza nel nostro Paese intorno a 1‐2:100) è caratterizzata da un importante variabilità fenotipica ed è collegata a numerose variazioni genetiche, con meccanismi fisiopatologici apparentemente legati ad un’iperproduzione di apoB‐100, e quindi delle VLDL. I criteri diagnostici sui quali è presente un consenso sono: ‐colesterolemia LDL superiore a 160 mg/dl e/o trigliceridemia superiore a 200 mg/dl; ‐documentazione nei membri della stessa famiglia (primo e secondo grado) di più casi di ipercolesterolemia e/o ipertrigliceridemia (fenotipi multipli), spesso con variabilità fenotipica nel tempo (passaggio da ipercolesterolemia ad ipertrigliceridemia, a forme miste). Disbetalipoproteinemia familiare: patologia molto rara (con prevalenza nel nostro Paese intorno a 1:10 000) che si manifesta in soggetti omozigoti per l’isoforma E2 dell’apolipoproteina E. La patologia si manifesta in realtà solamente in una piccola percentuale dei pazienti E2/E2, per motivi non ancora ben noti. I criteri diagnostici includono: ‐valori sia di colesterolo che di trigliceridemia intorno a 400‐500 mg/dl; ‐presenza di larghe bande beta, da fusione delle bande VLDL ed LDL alla elettroforesi delle lipoproteine. ‐xantomi tuberosi e xantomi striati palmari. 3) Iperlipidemia in pazienti con insufficienza renale cronica (IRC). Il danno aterosclerotico nei pazienti con insufficienza renale cronica a parità di livello dei fattori di rischio, è superiore a quello che si osserva nella popolazione generale; le malattie cardiovascolari sono infatti la principale 50 causa di morte dei pazienti con IRC. Per tale motivo è necessario, in questi pazienti un controllo particolarmente accurato dei fattori di rischio delle malattie cardiovascolari, tra cui la dislipidemia. Le statine sembrano efficaci nella prevenzione di eventi vascolari in pazienti vasculopatici con IRC e sono in grado di ridurre la proteinuria e di rallentare la progressione della malattia renale. Per pazienti adulti con IRC, in stadio 3‐4 (GFR < 60 ml/min ma non ancora in trattamento sostitutivo delle funzione renale), così come per coloro che pur con una GFR > 60 ml/min presentino segni di malattia renale in atto (proteinuria dosabile), va considerato un trattamento farmacologico ipocolesterolemizzante, nel caso di insuccesso della correzione dello stile di vita, con l’obiettivo di raggiungere un livello di LDL‐C almeno < 100 mg/dl. Secondo alcuni autorevoli enti internazionali il livello di LDL‐C può essere fissato a < 70‐80 mg/dl. 4) Iperlipidemia indotta da farmaci (immunosoppressori, antiretrovirali e inibitori delle aromatasi). Un incremento del colesterolo totale e delle frazioni a basso peso molecolare (LDL, VLDL), dei TG e dell’apolipoproteina B sono stati riscontrati nel 60‐80% dei pazienti sottoposti immunosoppressiva a standard trapianto che comprensiva ricevono di steroidi, una terapia ciclosporina, azatioprina. Nei pazienti con infezione da HIV, a seguito dell’introduzione della terapia antiretrovirale di combinazione ad alta efficacia è frequente l’insorgenza di dislipidemia indotta da farmaci che, nel tempo, può contribuire ad un aumento dell’incidenza di eventi cardiovascolari, sviluppabili in giovane età. 51 6.2 Obiettivi La terapia con statine che indubbiamente ha portato benefici in termini di riduzione della mortalità e morbilità sia in prevenzione primaria che in prevenzione secondaria, è gravata da costi che sono ancora molto elevati nei confronti dei pazienti in prevenzione primaria. Gli obiettivi sono quelli di effettuare una analisi farmacoeconomica valutando la sostenibilità da parte del SSN di un trattamento farmacologico con statine in assenza di pregressi eventi cardiovascolari; valutare l’aderenza terapeutica sia in termini di persistenza che di continuità. Si tratta di uno studio retrospettivo condotto sulla base dell’analisi di dati provenienti dal rapporto OsMed 2010 sull’impego dei farmaci in Italia e sui costi relativi; dati provenenienti dall’Osservatorio ARNO sull’impiego dall’Agenzia del farmaco AIFA. 52 dei farmaci ipolipemizzanti e 6.3 Materiali e metodi La compliance terapeutica nel trattamento con statine può essere valutata confrontando il dosaggio giornaliero mediamente assunto dal paziente con un parametro analogo che è rappresentato dalla DDD (Defined Daily Dose). La DDD è il noto valore internazionale di riferimento per le analisi dei consumi farmaceutici, di fonte OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). Esso rappresenta lo standard della dose giornaliera per l’indicazione principale di un farmaco in un paziente adulto e come tale può essere utilizzato anche come dato di riferimento per valutare l’appropriatezza dei dosaggi mediamente registrati nella prassi terapeutica. Sommando le giornate di trattamento associate a tutte le prescrizioni di un dato farmaco che un paziente ha ricevuto nel corso di un anno si ottiene l’esposizione (annua misurata in numero di giorni) di quel paziente al farmaco stesso. L’indagine economica è stata effettuata attraverso i dati forniti dal rapporto nazionale OsMed 2010 sull’uso dei farmaci in Italia e nelle diverse realtà territoriali. L’Osservatorio nazionale OsMed fornisce dati relativi all’uso territoriale dei medicinai e alla spesa corrispondente a carico del SSN, registrati dalla banca dati S.F.E.R.A. fornita dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco). 53 6.4 Risultati Il consumo delle statine in Italia e nella Regione Abruzzo ha registrato un aumento consistente negli ultimi anni. I dati di consumo della regione sono in linea con il dato italiano (Rapporto Osmed), fino ad arrivare nel 2010 a circa 65‐70 DDD/1000 abitanti die. La coorte degli utilizzatori di statine nella regione è risultata pari a circa 80 094 soggetti con un’età media di 67 anni (di cui il 46% con più di 69 anni) e con un rapporto maschi/ femmine di 1:1. L’85% dei pazienti ha ricevuto anche prescrizioni di altri farmaci cardiovascolari, in particolare il 77% ha assunto anche farmaci per l’ ipertensione. La prescrizione di questi farmaci è stata utilizzata come indicatore della presenza di patologie concomitanti del paziente che rappresentano fattori di rischio per lo sviluppo di un evento cardiovascolare. Il periodo di osservazione corrisponde complessivamente agli anni compresi tra il 2001 e il 2010. Sono stati presi in considerazione, nel contesto della Regione Abruzzo, gli assistiti dei circa 1 115 medici di medicina generale presenti nella Regione ai quali sia stata prescritta almeno una statina. Nel complesso la percentuale di pazienti aderenti, ossia di coloro che hanno ricevuto almeno 300 compresse in ogni singolo anno per tutti gli anni di trattamento è stata del 24%, mentre il 30% è risultato fortemente non aderente. Per quanto riguarda l’andamento della copertura farmacologica dei pazienti in ogni singolo anno considerato, risulta che il 62% (49 658) è coperto per almeno un anno, il 44% (35 241) per almeno due anni e il 24% (19 222) per almeno tre anni. Dallo studio condotto emerge che una copertura adeguata (superiore all’80%) garantisce una maggiore protezione 54 nei confronti degli eventi cardiovascolari. Tale beneficio è stato quantificato con una riduzione del 30% del rischio, che significa evitare un evento ogni tre, controllando periodicamente l’aderenza al trattamento del paziente. Per un uso appropriato delle statine sarebbe necessario utilizzare i criteri prescrittivi basati sulle evidenze scientifiche (nota AIFA numero 13) e, al tempo stesso tenere conto dell’aderenza del singolo paziente. Un trattamento saltuario con statine non offre alcun beneficio, ma espone il paziente ai rischi intrinsecamente connessi al farmaco. Le indagini economiche hanno dimostrato per i farmaci ipolipemizzanti un rapporto costo‐efficacia favorevole nella prevenzione secondaria del rischio cardiovascolare, mentre nella prevenzione primaria tale rapporto è dipendente dal livello di rischio e dalla capacità di mantenere una adeguata compliance in pazienti più giovani e in assenza di sintomi conclamati. L’analisi dei dati relativi alla spesa farmaceutica convenzionata nella Regione Abruzzo (in base ai dati forniti dal rapporto Osmed 2010) evidenzia una discreta riduzione della spesa territoriale complessiva soprattutto per effetto della riduzione dei costi dei farmaci (pari a – 3,6%). Tuttavia le statine rimangono al primo posto per spesa (17,7 € pro capite) con un aumento della quantità prescritta (+ 11,5%). Tra gli ipolipemizzanti, l’atorvastatina continua ad essere la più prescritta (18,1 DDD/ 1000 abitanti die), e in assoluto al primo posto fra i primi trenta principi attivi per spesa territoriale. La rosuvastatina sorpassa la simvastatina raggiungendo il secondo posto sia per spesa sia per prescrizione con il trend di crescita più elevato (+ 18%). A parità di dose prescritta la spesa per la rosuvastatina è più che doppia rispetto a quella per la simvastatina essendo a brevetto scaduto (5,2 € pro 55 capite vs 2,4 €). Per quanto riguarda l’Italia, la situazione nazionale non si discosta molto dalla realtà territoriale. Sono stati analizzati i dati epidemiologici ed economici forniti dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), dal rapporto Osmed 2011 (Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali) e dall’Osservatorio ARNO sull’impiego dei farmaci cardiovascolari che integra dati provenienti da vari database amministrativi (ricette di prescrizione, farmaceutica erogata dal SSN, schede di dimissione ospedaliera, specialistica ambulatoriale). Su un campione pari a 10,5 milioni di abitanti (il 17% della popolazione italiana), il 28,8% è trattato con almeno un farmaco ipolipemizzante, ovvero 760 303 soggetti con età media di 66 anni, prevalenza dell’8% e il 50% di donne. La spesa erogata dal SSN per il trattamento dei pazienti inclusi nel campione è stata di € 151 829 311, mentre la spesa complessiva nazionale esclusivamente rivolta al trattamento con statine è stata nell’anno 2010 pari a 1 067 milioni di euro. Prendendo in considerazione la spesa farmaceutica territoriale (FT), le prestazioni specialistiche, la spesa media annua per paziente è pari a € 2 109. La spesa farmaceutica media annua per trattato è pari a € 544, le visite specialistiche annue per paziente hanno un costo di € 342, mentre gli eventuali ricoveri annuali per paziente hanno un costo di € 1 222. Il “number needed to treat” (NNT) per le statine, secondo lo studio JUPITER, varia in base al periodo di trattamento da 165 soggetti da trattare in un anno per evitare un evento, a 25 quando il periodo di trattamento sia di 5 anni con vantaggi indiscutibilmente significativi. Pertanto la spesa farmaceutica per prevenire un evento cardiovascolare risulta indubbiamente elevata e poco costo‐efficace al primo anno di trattamento, mentre considerando un 56 periodo di cinque anni la spesa è pari a € 13 600 per evento, considerando un NNT di 25. Dall’analisi dei ricoveri ospedalieri emerge che la spesa media di ciascun ricoverato per infarto miocardico acuto non fatale è di € 7 336 con una media di 11 giorni di degenza, il costo per altre forme acute di cardiopatia ischemica per ricoverato è pari a € 6 268, mentre la spesa per ictus riguardo ciascun ricoverato è di € 3 209 con una media di 12 giorni di degenza ospedaliera. Queste cifre devono necessariamente essere corrette aggiungendo le spese per l’assistenza post‐ospedaliera, le giornate lavorative perse, l’abbassamento della qualità della vita, raggiungendo una spesa annuale per l’assistenza di ciascun paziente affetto da un evento cardiovascolare di circa € 12 800. La convenienza del trattamento con statine aumenta di pari passo con l’aumento del rischio cardiovascolare, determinando una sostanziale riduzione della spesa aggiuntiva pari a € 800. 6.5 Conclusioni Questi dati sembrerebbero ancora sottolineare che nei soggetti di età meno avanzata con alto rischio cardiovascolare, in assenza pregressi eventi cardiovascolari, l’utilizzo delle statine sia in grado di esercitare un impatto estremamente favorevole sui costi globali che la società deve affrontare per la tutela della salute. L’ impatto di un evento coronarico o cerebrovascolare in termini sanitari, economici e sociali risulta comunque più elevato rispetto alla spesa erogata per sostenere un trattamento farmacologico preventivo. 57 La terapia ipolipemizzante è associata ad una riduzione nell’arco di un periodo di trattamento di cinque anni, delle ospedalizzazioni per eventi cardiovascolari, nonché alla riduzione delle relative prestazioni sanitarie. Tutti i grandi trial clinici condotti negli ultimi anni (WOSCOPS, ASCOTT, JUPITER) hanno evidenziato come il trattamento con statine sia in grado di ridurre di circa il 30% il rischio di eventi cardiaci maggiori. Tuttavia rispetto alle raccomandazioni scientifiche e ministeriali (nota Aifa 13), la pratica clinica evidenzia un sotto‐utilizzo in termini di soggetti esposti al trattamento (oltre il 50% dei soggetti ad elevato rischio cardiovascolare con indicazione alla terapia non risulta sottoposto a trattamento ipolipemizzante). In questo contesto sembrerebbe che le risorse finanziarie disponibili siano completamente utilizzate, ma che sia presente un consistente sotto‐utilizzo delle terapie, con effetti che risultano subottimali in senso terapeutico ed economico. Gli studi epidemiologici sottolineano che la maggior parte degli eventi si verifica in pazienti inizialmente classificati a rischio intermedio o basso, suggerendo pertanto l’opportunità di effettuare una adeguata valutazione del rischio cardiovascolare, ricorrendo anche a test aggiuntivi come la hs‐PCR. E’ chiaro che se i pazienti non assumono o assumono solo in parte i trattamenti consigliati si possono non verificare i benefici attesi con conseguente utilizzo inefficiente delle risorse. La terapia è interrotta dal 30‐ 40% dei pazienti entro i primi sei mesi dall’inizio del trattamento. Dopo 3 anni solo il 40% dei pazienti è ancora in trattamento. Ciò si verifica nonostante sia stato ampiamente dimostrato che i benefici dell’uso delle statine si manifestino solo dopo 1‐2 anni di trattamento. L’obiettivo è quello 58 di effettuare una valutazione dei risultati ottenuti dal trattamento con statine in funzione del livello di copertura farmacologica. La percentuale di aderenza al protocollo terapeutico è molto basso, il loro uso sporadico. Alcuni studi hanno documentato come al ridursi della compliance aumentino i ricoveri e conseguentemente le spese a carico dei servizi sanitari. Pertanto non si tratta soltanto di stanziare un quantitativo congruo di risorse per la prevenzione delle patologie cardiovascolari, ma anche di utilizzare efficacemente quelle disponibili. L’assistenza farmaceutica rappresenta una voce importante all’interno della spesa sanitaria pubblica sia a livello nazionale che regionale. Negli ultimi anni la spesa farmaceutica in particolare è cresciuta, manifestando una forte discrepanza tra le Regioni. Le statine rappresentano la maggiore voce di spesa farmaceutica (circa l’8% della spesa convenzionata), evidenziando a partire dal 2000 fino al 2010, un aumento delle prescrizioni dal 3,3 al 7,3%. La spesa farmaceutica da loro generata ha cominciato a ridursi a partire dal 2007, quando per la simvastatina si è reso disponibile un farmaco equivalente. La progressiva genericazione e la progressiva riduzione dei prezzi dei medicinali ipolipemizzanti rappresentano, quindi, una situazione favorevole ed utile ad allentare i vincoli di bilancio. 59 BIBLIOGRAFIA 1. National Center for Health Statistics 2004. 2. Gotto AM Jr, Whitney E, Stein EA et al. Relation between baseline and on treatment lipid parameters and first acute major coronary events in the Air Force/ Texas Coronary Atherosclerosis Prevention Study (ASCAPS/ Tex CAPS). Circulation 2000; 101: 477‐484. 3. Influence of pravastatin and plasma lipids on clinical events in the West of Scotland Coronary Prevention Study. (WOSCOPS). Circulation 1998; 97: 1440‐1445. 4. Kinla S, Egido J. Inflammatory biomarkers in stable atherosclerosis. Am J Cardiol 2006; 98: 2P‐8P. 5. Tsimikas S. 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