TERRA DI VIGLIANO - Associazione Culturale GECOS
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TERRA DI VIGLIANO - Associazione Culturale GECOS
Il 3 novembre 2012 è stato presentato il libro IL MUSEO DELLA CIVILTÀ CONTADINA “TERRA DI VIGLIANO” DI SAN DONATO DI LECCE (i proventi scaturiti dalla vendita saranno devoluti in beneficienza), alla presenza di autorità religiose e civili (locali e provinciali), dei sandonatesi e di numerosi amici dell’Autrice, la quale ha illustrato la struttura museale anche con un filmato, come emerge dalle foto allegate. ADELE QUARANTA Il Museo della Civiltà Contadina “Terra di Vigliano” di San Donato di Lecce Prefazione Da decenni la civiltà contadina è ormai quasi completamente scomparsa, persino nell’ambito delle micro comunità rurali del Mezzogiorno, cancellata, dapprima, da un processo di modernizzazione senza sviluppo – un intenso flusso migratorio, interno ed esterno, ha svuotato soprattutto i marginali, piccoli e medi centri urbani, dagli anni ’80 del secolo scorso – e, in seguito, omogeneizzata mediante il consolidamento ed espansione, a livello planetario, della globalizzazione, che ha mistificato le identità e specificità territoriali (gradualmente costruite in maniera ecosostenibile, nel corso dei secoli), sempre più labili, vaghe e difficilmente leggibili, tanto dalle generazioni attuali, quanto dalle successive. Il “grande libro della memoria”, pertanto, si assottiglia inesorabilmente, perché, giorno dopo giorno, perde, nella indifferenza generale, le pagine più belle, miniaturizzate dalla laboriosa e dura fatica effettuata da milioni di instancabili contadini, i quali, con le braccia, l’esperienza millenaria tramandata da padre in figlio (in larga parte oralmente), hanno disegnato un paesaggio unico e originale, armonizzandolo non solo con l’ambiente naturale, le peculiarità geografico-ambientali, le vicende storiche, lotta per la sopravvivenza, sfruttamento, miseria, tensioni per il possesso della terra e gestione dell’acqua, ma altresì con i complessi substrati culturali, usi, costumi, tradizioni, valori, principi morali, generi di vita, ecc. Fortunatamente, questo immenso patrimonio, viene custodito, anche se solo parzialmente, nei tanti contenitori museali distribuiti sul territorio nazionale. Ben vengano, allora, questi indispensabili ed interessanti “archivi della memoria”, i quali, se, da un lato, salvaguardano, tutelano, gestiscono e valorizzano le “eredità” (preziosi “lasciti” dei nostri padri ed elementi basilari di distinzione in una realtà globalizzata), dall’altro, non devono solo cristallizzare spezzoni di un passato che non ritornerà mai più, bensì, grazie all’attiva partecipazione delle comunità locali, veicolare e stimolare il dibattito passato-presente al fine di realizzare le fondamenta del futuro. Il Museo della Civiltà Contadina “Terra di Vigliano” richiamando, indirettamente, la dinamica delle forme di utilizzazione del suolo e di gestione delle risorse, le caratteristiche della vita materiale e spirituale della comunità, il duro lavoro compiuto dai nostri antenati, i drammi esistenziali (individuali e collettivi), il religioso rispetto del territorio (oggi sconvolto e saccheggiato dall’invadente processo antropico), si manifesta come una “raccolta sistematica” della memoria locale, che onora i tanti volontari-benefattori e offre alle giovani generazioni, uno strumento in più, un “libro” costantemente arricchito di nuove pagine per riflettere sul passato, conoscerlo ed amarlo. L’iniziativa, progettata e realizzata da un gruppo di Sandonatesi, si rivela, pertanto, particolarmente apprezzabile, in quanto scaturita dal volontariato, dalla partecipazione della cittadinanza e dalla guida di don Donato De Blasi, da tempo impegnato anche nel sociale e attività missionarie. Notevole, infine, è il contributo offerto da Adele Quaranta, per le doti di analisi e sintesi, conoscenza delle caratteristiche dei luoghi, accurata ed equilibrata fusione tra presente e radici identitarie e socio-culturali che rinsaldano le comunità. Lecce, marzo 2012 DOTT. ALESSANDRO LAPORTA Direttore della Biblioteca Provinciale “N. Bernardini” di Lecce Società contadina, volontariato e interventi territoriali La struttura museale è stata allestita dai volontari “Amici del Presepe”, associazione presieduta da Don Donato De Blasi (nativo del luogo), il quale svolge l’attività pastorale tra questo paese (situato a circa 10 Km dal capoluogo provinciale), una comunità di tossicodipendenti ubicata a San Severino Marche (in provincia di Macerata) e l’Etiopia, oltre a collaborare con i missionari cappuccini. L’associazione è impegnata, in primo luogo, sul fronte della solidarietà a largo respiro, che ha consentito di realizzare, a favore delle missioni in Etiopia (dove opera don Donato De Blasi), micro piani di sviluppo, basati sulla trivellazione di pozzi, adozioni a distanza, invio di aiuti alimentari, assistenza sanitaria in strutture ospedaliere mobili, apertura di scuole professionali allo scopo di consentire, alla popolazione locale, l’apprendimento di un mestiere (grazie anche alla disponibilità della Confartigianato italiana, che ha inviato insegnanti, meccanici e falegnami), ecc. In secondo luogo, sull’allestimento di una sede dove esporre gli oggetti dei nostri avi, cioè di un “museo delle tradizioni popolari”, che, come un libro aperto, parlasse della cultura e tradizioni locali. Il museo è allestito in un’ex casa a corte – tipica della piana messapica e molto diffusa nel Salento leccese –, acquistata, risanata e restaurata dal gruppo dei volontari. Tale modulo abitativo, concepito come dimora della famiglia povera contadina (solitamente sopravviveva con un’agricoltura di sussistenza), rispecchiava una cultura poco aperta alle mode e all’influenza del mondo urbano ed evidenziava una composizione tipologica molto semplice (nella forma originaria, non si sviluppava mai al di là del piano terreno), formata inizialmente da un monolocale con funzioni plurime, arredato semplicemente con mobili di quercia e di olivo, pavimentata con lastre di pietra calcarea (chianche). Negli anni l’abitazione si è arricchita con altri vani non solo per soddisfare le esigenze dei figli maschi in prospettiva del matrimonio, ma anche in seguito al miglioramento delle condizioni economiche – non più legate alla pastorizia e cerealicoltura, ma ad un segmento più redditizio impostato sul vigneto, oliveto e frutteto –, sicché al primitivo edificio sono stati aggiunti ambienti destinati ad usi diversi (ampio soggiorno adoperato come disimpegno per le camere da letto, cucina più spaziosa ed attrezzata, ecc.), a scapito dell’area retrostante (o del giardinetto) scoperta. Nella parte anteriore, la “corte” costituiva, invece, uno spazio importante sia per le donne, le quali evitavano la pubblica strada e “consumavano” il tempo libero, soprattutto in estate, svolgendo i lavori di ricamo e tessitura, sia per i bambini in quanto la usavano per giocare, sia per gli adulti, i quali si ritrovavano per conversare e scambiare le proprie opinioni. Ingresso del Museo e, sullo sfondo, la porta di accesso. Casa a corte in Largo Chiesa. Nell’ex vano carraio trovano posto la panca in pietra per sedersi, il recipiente in terracotta dove sistemare i panni destinati al bucato (cofanu) e il catino con all’interno l’asse per lavare i tessuti (lavaturu). L’esposizione dei reperti – come è possibile ammirare on-line, cliccando sul link a fine articolo – consente di ripercorrere i ritmi millenari del tempo, nonché di scoprire gli antichi mestieri, gli ambienti tipici della donna e della società contadina, a cui è stato dedicato un monumento – rappresentato da un aratro a chiodo in legno (aràtu) con il vomere in ferro (ombre) – collocato nei vani della corte, destinati a granaio, stalla per il cavallo o l’asino (utile, ancora oggi, nelle zone più interne ed impervie dell’area mediterranea) e deposito per la legna, oltre ai servizi igienici, pozzo nero (confluivano anche le acque sporche), vasca (pila) scavata in un blocco monolitico di pietra calcarea munita di tavola scanalata (lavaturu) per il lavaggio dei panni e la “strofinata” delle lenzuola – prima di essere adagiate, a strati, nel recipiente in terracotta (lu cofanu) e coperte dal cenneratùru (panno bianco, chiuso a sacchetto, conteneva la cenere sulla quale di versava l’acqua calda per dare lucentezza al bucato) –, pozzo, cisterna adibita alla raccolta delle acque piovane convogliate dal terrazzo, ecc. Monumento al contadino (aratro a chiodo in legno e vomere metallico). Blocco monolitico collocato sulla sommità di una cisterna (sono visibili i solchi scavati dallo scorrimento delle funi per emungere l’acqua). La prima sala, dedicata all’accoglienza dei visitatori, ospita vari oggetti (alcuni risalgono ad un recente passato), tra cui la girella in legno (circhiu) per consentire ai bambini di muovere i primi passi, la “testa” per accogliere il neonato in fasce, triciclo in ferro, cestino per la colazione, calamaio e penne sul banco di scuola dotato di piano apribile, lavagna, boccette di vetro per contenere l’inchiostro, cartoline, orologi da tasca, fornello ad alcool (spiritiera) per sterilizzare gli strumenti medici, fonografo a tromba, batacchio proveniente dalla Chiesa Matrice di San Donato, ecc. Nelle altre stanze, sono conservati, inoltre, gli strumenti tipici del lavoro rurale, come le zappe per dissodare la terra, i forconi a tre o quattro denti (onde spostare la paglia sui carri, ventilare il grano sull’aia per separarlo dalla pula) dapprima in legno e successivamente in metallo, il maju (piccola mazza in legno per battere le granaglie e liberare i semi, la pisara in pietra trainata dal cavallo, piccole bilance graduate con una capacità massima di 5 kg, la stadera costituita di un’asta metallica su cui scorreva un peso, mbile (contenitore di terracotta per conservare l’acqua durante il duro lavoro nei campi), gli innaffiatoi in rame muniti, all’estremità del tubo di scarico, di “rosetta” (piscialetta), al fine di non sprecare acqua e distribuire il prezioso liquido in maniera uniforme, la sarchiuddhra (serviva a rimuovere la terra sotto le piante), ecc. Per quanto attiene il settore artigianale, gli oggetti esposti riguardano i mestieri svolti nel passato dalla popolazione sandonatese. Il muratore, ad esempio, utilizzava la sega manuale per tagliare i blocchi di pietra (rifiniti con la gradina onde ottenere i basoli, o rastremati con la mannara), setacciava sabbia e materiali tufacei con la rezza e preparava la malta con il reddhrulu. Il cavamonte, invece, incideva la roccia, staccava i massi (con mazzuola e zappune) e li tagliava con la sega a quattro mani (serracchio), ecc. Il materiale lapideo era utilizzato anche dai contadini e pastori salentini per allestire sia muretti a secco onde perimetrare aree coltivate o singole proprietà, sia rifugi temporanei e trulli (adattati a custodia degli arnesi agricoli, al ricovero del bestiame e alla permanenza temporanea del colono), molto diffusi nel Salento – dove assumono localmente differenti denominazioni, come emerge anche dai Cata- sti Onciari: pagghiare, pajare, pajaruni, caseddhre, tuddhru, furni, lìame, ecc. – per la disponibilità della materia prima e la conservazione di tecniche costruttive tradizionali, tramandate, senza sostanziali modifiche, nel corso dei secoli. Muretti a secco per delimitare appezzamenti di terreno e rifugi temporanei adibiti alla custodia degli arnesi agricoli e ricovero del bestiame (Galugnano, frazione di San Donato di Lecce, località Li Cacuni). I trulli ospitavano anche i componenti della famiglia nel periodo estivo (Galugnano, località Li Cacuni). Trulli indipendenti e dotati, all’esterno, della caratteristica scaletta per l’accesso sulla lìama (Galugnano, località Madonna della Neve). Il legno di olivo (per la durezza) era, invece, il materiale più utilizzato dal falegname (come altri artigiani – in particolare il calzolaio – aveva di solito la bottega accanto all’abitazione) per la realizzazione di prodotti sia di uso comune (mobili per la casa, infissi, suppellettili), sia agricolo – aratri a chiodo, piccole sedie (scanni), carri trainati da cavalli o buoi (traini) con le relative ruote, ecc. –, grazie all’utilizzo di seghe, sgorbie e trapani a volano di forme diverse (superati successivamente da quelli metallici a manovella, in quanto più funzionali), asce, martelli, pialle (chianule), scalpelli, ecc. Il fabbro usava la forgia per avere il fuoco sempre a disposizione, onde lavorare a caldo il metallo (dando la forma desiderata sull’incudine e realizzando oggetti di varie dimensioni, tra cui ferri di cavallo, parti di carri agricoli, martelli, tenaglie, ruote, ecc.). Un’attenzione particolare è riservata al lavoro domestico e al “mondo” della donna, la quale, costretta dai costumi dell’epoca, svolgeva in casa, oltre alle faccende domestiche, i lavori di filatura, tessitura, ricamo e rammendatura. Ai lati due piccoli comodini (dove solitamente era presente il lume a petrolio con campana di vetro) e di fronte il telaio (lu talaru), appartenuto alla famiglia di provenienza, usato per tessere robuste tele, realizzare tovaglie, asciugamani e coperte (le fibre tessili grezze, venivano lavorate al filatoio a pedale, mentre il cotone passava dalle matasse ai cannuli per l’orditura o ai cannolicchi per la spola mediante ncannalatùru o macinnula). Lungo le pareti laterali trovavano posto, invece, i portabiti su cui appendere i vestiti di uso quotidiano e da cerimonia, il grande baule (la cascia de le robbe) per custodire la dote della sposa e la toiletta (costituita da un recipiente smaltato per lavarsi, brocca e piccolo specchio). Appesi alle pareti erano lo scaldaletto in metallo (lu scarfaliettu) riempito di carboni per scaldare il letto e protetto dal prete (attrezzo che impediva di bruciare le lenzuola), nonché l’occorrente relativo alla preparazione dei filati (lu tornu per riempire i grossi rocchetti destinati all’orditura, lu cusifierru per avvolgere il cotone sui cànnuli formati da parti di canne da paludi, lu matassaru per configurare le matasse, ecc.). La stanza di giorno veniva usata, infine, per ricamare i tessuti fissati su cerchi, o realizzare merletti con il tombolo. Grazie al corredo muliebre e alla dote dello sposo – costituita di solito da un appezzamento di terreno (chiusùra) cinto da muri a secco da coltivare e trarre il minimo di prodotti agricoli sufficienti alla sussistenza della famiglia –, i giovani potevano sposarsi guardando con fiducia al futuro. Il fulcro della vita domestica era rappresentato, comunque, dal camino – in particolare da quello monumentale (focalire) –, non solo adibito, fino all’avvento delle cucine a gas e dell’elettricità, alla cottura dei cibi ed alla lavorazione del latte (di capra o pecora) per produrre formaggi e ricotta in piccoli cesti di vimini (fische), ma altresì usato per riscaldarsi nelle fredde serate d’inverno. Intorno ad esso si riunivano, infatti, i componenti della famiglia, sia per trasmettere le proprie esperienze, sia per divulgare canti, credenze e tradizioni, intercalate con aneddoti e locuzioni proverbiali tipici della saggezza popolare, che spaziavano dalle norme igieniche alle giuridiche, dalle previsioni meteorologiche alla sapienza contadina (come quelli che lodavano la vita rusticana e nobilitavano l’arte agraria), dalla sfera igienico-sanitaria alla complessa realtà ambientale, socio-economica e storico-culturale, ancora riconducibili al quotidiano e quanto mai attuali (Aprile non ti scoprire, Una rondine non fa primavera, L’occhio del padrone ingrassa il cavallo, Chi semina vento raccoglie tempesta, Senza l’acqua tuttu rrappa, Coji l’acqua quannu chiove, Ci tene sterna sarvezza eterna, ecc.). Gli utensili da cucina venivano, invece, appesi sulle pareti al lati del camino – come la grattugia in metallo o rame su struttura in legno (rattacasu), i farnari diversamente bucherellati a seconda del prodotto da setacciare –, oppure riposti su lunghe tavole fissate ai muri, per essere utilizzati durante il pranzo o la cena (i cibi venivano versati, di solito, in un unico piatto, di ceramica o rame smaltata, posto al centro del tavolo). Le stoviglie per le occasioni importanti (li piatti te purtata) – solitamente in ceramica decorata con motivi floreali, a ghirlanda e geometrici – facevano bella mostra di sé nella credenza, mentre appesi alle pareti erano il mestolo (cuppinu), il setaccio a maglia finissima per vagliare la farina (farnaru), gli arnesi sia per raccogliere la ricotta o altri alimenti (cazziceddhra), sia per prelevare le granaglie dai sacchi (la séssula o votàzza), mentre altri, in legno, servivano alla scolatura dei piatti (la piattera), alla preparazione del formaggio, all’impasto della farina (le mattre) e produzione di pasta fresca (maccarrùni, sagne lisce o ncannulate, thria), friselle e forme di pane, lavorate (scanate) dapprima sulle mattrebanche e, successivamente, riposte, durante il processo di lievitazione, sotto il piano interno apribile del mobile. In pietra, ricavato in un blocco unico, era invece il mortaio (stuempu o stumpaturu), dotato di pestello in legno (stumpaturu) per triturare il grano. Nella parte esterna retrostante, a seconda del tenore di vita della famiglia contadina e delle crescenti esigenze legate alla valorizzazione agricola, erano collocati, inoltre, i telai di altezza e dimensioni varie (talaretti) – da cui pendevano le “fizze” di tabacco da essiccare al sole –, spostati durante la notte in spazi coperti da canne e tegole (imbrici), o semplicemente da un telo, onde proteggere dall’umidità questo tipico prodotto salentino, che, pur offrendo redditi molto bassi, impegnava numerose famiglie, in particolare donne e bambini. La coltivazione iniziava in inverno nei semenzai (ruddhre), continuava in primavera con il trapianto del vegetale e in estate con la raccolta. Raggiunta la maturazione, le foglie venivano infilzate, mediante un grosso ago (cuceddhra), in lunghi fili di spago, essiccate, imballate in grandi sacchi (mante) o conservate in casse di legno o cartoni, prima di essere caricate sui carri e inviate alle manifatture per la trasformazione. In questa zona aperta trovavano posto, infine, il piccolo carro a due ruote per trasportare le botti (thraimella), il torchio manuale per spremere l’uva, le botti in legno (di acero, robinia, quercia, rovere, ecc.) dove venivano conservati e affinati i vini, l’aratinu (trainato dal cavallo o bue, era fornito di ruote d’appoggio e adatto ad aprire i solchi), ecc. Nello spazio aperto retrostante al museo, alcuni ragazzi giocano “a campana” e “cinque pietre”. Considerazioni conclusive La tutela delle specificità, legate sia al Salento in generale che alla sfera della società contadina locale, proposta da questo museo, con l’eccezionale carica di vitalità e originalità – come emerge anche dal campione delle foto allegate (realizzate personalmente e pubblicate con l’autorizzazione dell’Associazione Amici del Presepe) –, è una testimonianza non solo della lotta contro il processo di omologazione, ma altresì del recupero conservativo del patrimonio “minore”, condannato a scomparire anche dalla memoria collettiva senza la testimonianza del passato (proiettato nel presente e utilizzato nella progettazione del futuro), grazie ai valori simbolici intrinseci e alla forza evocatrice espressa dagli ambienti e attrezzi esposti. “Il museo – come afferma don Donato De Blasi – non è, infatti, una realtà compiuta, ma un libro aperto (che si arricchirà di altri capitoli) per i nostri figli che vanno a scuola col computer, sanno usare la penna ma non conoscono l’aratro. Il vomere entra nel terreno e lo sconvolge per portarlo alla luce del sole; la penna, con la sua punta, penetra nella coscienza alla ricerca della verità. Grazie a questa lettura, ci auguriamo che le nuove generazioni facciano proprie le regole dei nostri avi, i quali hanno rispettato ed amato la terra, fecondata col sudore della fronte e considerata una madre provvidente, così come ricorda il Cantico di Frate Sole di San Francesco d’Assisi, il testo poetico più antico della letteratura italiana composto – in volgare umbro del XIII secolo – per celebrare l’onnipotenza dell’Altissimo attraverso le sue “creature” (Laudato sie mi Signore cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, … sora luna e le stelle, …. frate vento, …. sora acqua, … frate focu, …. sora nostra matre terra la quale ne sustenta et guverna, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba)”. La bicicletta costituiva il mezzo di trasporto del contadino, a cui legava gli attrezzi da lavoro (il paniere proteggeva il contenitore in creta per l’acqua, la sega era utilizzata per mondare gli alberi, ecc.), .mentre la scala, di solito, veniva portata in spalla. La struttura museale può essere osservata anche cliccando il seguente sito: ……………….………… (in preparazione)…………………………