Luglio - Agosto 2005

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Luglio - Agosto 2005
rivista giovanile di cultura e critica sociale anno I n. 8
luglio-agosto 2005 edizione per Fiesta!
Le bombe che non capisco
Marco Zamuner
Sarà un difetto del mestiere che sto cercando di imparare quello di cercare i
perché; una sorta di deformazione professionale dello Storico, una fissa, un
tarlo della coscienza. Sia quel che sia, ma io di questa orrenda saga di morte
e desolazione postmoderna continuo, mestamente, a non capire nulla.
Io queste bombe, giuro, non le capisco.
Nella seconda guerra mondiale Hitler voleva conquistare il mondo, e il
mondo non era d’accordo. Durante le Crociate i cristiani reclamavano il
possesso ideologico e materiale di territori rivestiti di interessi ideologici e
mistici, chi li aveva occupati non era d’accordo. Nello scontro primordiale tra
Uomo Sapiens e Uomo di Cro-Magnòn quest’ultimo voleva il predominio
sul primo, che naturalmente non era d’accordo. Nei corsi e ricorsi storici di
ogni tempo e ogni era la violenza è sempre stata originata dallo scontro tra
un progetto o un’ idea e l’opposizione di qualcuno.
Sarà pure una domanda semplice e disarmante ma meriterebbe senza
dubbio una risposta: a chi sono opposti i terroristi? Chi sono? Cosa cercano
di ottenere?
Nessuno ce lo spiega, e i media ci lasciano quotidianamente in balìa di vaghe
suggestioni vaneggianti in cui la chiacchiera bar-style prende il predominio
su qualunque considerazione logica.
Si sprecano parole di fuoco su fantomatici scontri di civiltà, sull’ intolleranza
A PAGINA 2
FACE UP!
Racconti
CONTATTI
Le bombe che non capisco
Sicari imprevisti
Fioetti giapponesi
Fai da te
Altra spiaggia, altro mare
WOP in Dublin
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Appeso ad un
buio impenetrabile
Valerio Evangelisti
Tante novità in arrivo da settembre:
una nuova veste grafica per la
rivista, nuovi progetti e iniziative
dell’associazione, nuove collaborazioni
e una festa per celebrare il primo anno
di attività!
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supplemento alla testata “Radio San Donà” Iscrizione n°1084 trib di VE del 22.02.92 direttore responsabile: Andrea Landi
2 Punto G.
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FACE UP!
SEGUE DALLA COPERTINA
religiosa, ci si spinge a pronostici ai
confini della chiaroveggenza per
capire cosa succederà in un domani
mai come ora impenetrabile e tetro.
Cosa nasconde la cortina di fuoco
che fitta fitta sta scendendo sul cuore
dell’Europa se non un’ulteriore,
fittizia guerra tra straccioni? Queste
bombe non le capisco perché non
sono gravide di ideologia come
quelle del terrorismo degli anni ’70
o quelle dell’ IRA, non sono mirate
a un obiettivo: sono solo grida,
affermazioni di violenza e di becera
distruttività, ma incisive come una
scacciacani. Esplodono nel paradiso
della porta accanto costruito ad uso
e consumo dei piccolo-borghesi
occidentali a Sharm el Sheik e
spezzano le vite di camerieri,
cuochi, e turisti da poche centinaia
di euro. Distruggono una stazione
della metropolitana londinese e
travolgono uomini, donne, ragazzi
della working class cittadina; così in
Spagna, così sempre, così ovunque.
Queste bombe non le capisco,
perché nel frattempo i Capi che
hanno riportato la guerra globale
nel mondo dopo soli sessant’anni
sono seduti comodamente nella
loro poltrona e il polverone delle
esplosioni non fa che oscurare
le loro malefatte. Non le capisco,
perché ogni bomba che scoppia
riabilita finisce per non far altro che
riabilitare facce di potenti sporche e
insensibili come un insperato regalo
del destino; perché permettono
a lingue biforcute e a bocche di
bronzo di vestirsi col linguaggio del
patriottismo e della resistenza. Sono
loro gli unici che non muoiono mai:
il terrorismo si mantiene lontano
dalle sedi del potere, di quello vero.
I mercati sono a rischio, i palazzi
sono al sicuro: io queste nuove
bombe proprio non le capisco.
Giuro.
Nel frattempo i piani anti terrorismo
nascondono il resto, tutto il resto,
ai nostri occhi spenti e impauriti.
Nascondono le due pizze di meno
al mese, le vacanze più brevi, il
carrello pieno di “3 per 2”, in barba
alle farneticazioni ottimistiche dei
lacchè dell’Istat coi loro panieri
inutili e irrilevanti e a quelle dei
vari Montezemolo e Billè che
parlano di ripresa. Nascondono
la nuova povertà, il lavoro che
non dà sicurezze, la svendida del
patrimonio dello Stato. Queste
bombe io continuo a non capirle, ma
mi si affaccia alla mente un barlume
di intuizione, un sottile timore: che
non siano capite nemmeno da chi
le nasconde nello zainetto o sotto la
giacca, ma che in compenso siano
capite, e molto bene, da qualcun
altro. Qualcuno che da perderci non
ha proprio nulla... e da guadagnarci,
invece, abbia molte, troppe cose.
Sicari imprevisti
Marco Maschietto
I miei occhi troppo occidentali non
sono mai riusciti a comprendere
le tappe mentali di un giovane kamikaze che accecato dal fanatismo
ha deciso di esplodere e di far morire. Mi sono sempre detto che era
una cultura troppo lontana da me,
impossibile da capire con le quattro
nozioni liceali di cui dispongo.
Poi ho sentito di un masso di 40 Kg
che è volato giù da un cavalcavia.
Il macigno è tutto italiano ed occidentale. Dovrei quantomeno capire il gesto.
Eppure, esattamente come il giovane kamikaze, riesco solo a con-
di qualsiasi terrorista; le loro insulse
mani non possono che essere lo
specchio di chi le ha comandate:
vili e miserabili.
Non è la prima volta che accade.
Le analisi che sono state compiute
hanno sottolineato un lato dell’attuale giovinezza vomitevole, quello di vite stentate vissute in totale
normalità, prive di crudezze e ferocie che culminano regolarmente in
“bravate” notturne per far colpo sulle ragazze. Collocati ai margini della
vita, ma non per questo ai margini
della società, capaci di ammazzare
in modo assolutamente gratuito,
dannarlo.
Non riesco a capire come dei ragazzi possano decidere di essere
Dio per un giorno, di giocare a
bowling con la vita di persone mai
viste, sconosciute, per poi correr
via da una notte troppo vile per essere raccontata. Li ho immaginati
nascosti, dopo il vigliacco gesto,
seduti ad un tavolo di un bar, a sorseggiare un bicchiere di birra troppo amaro per essere gustato.
E tornano come di consueto parole ordinarie per cercare di dare un
senso ad un atto che senso non ha:
noia, vuoto offuscante, stupidità.
Una “strage” congegnata da anonimi contro anonimi come quella del
calvacavia 439 non può che raffigurare una chiara rappresentazione di
nullità, ai miei occhi più orripilante
sicari imprevisti esattamente come
da bambini si schiacciavano per indolente crudeltà le formiche.
Forse una spiegazione c’è: quella
di voler sentirsi forti e potenti, di
poter esercitare liberamente una
superiorità non dimostrabile in
modo diverso dalla violenza, magari solo per risultare un po’ meno
mediocri e incapaci.
Poveretti. Non possiedono nemmeno un appiglio ideologico o religioso a cui aggrapparsi ferocemente;
non hanno la capacità di rendere
conto ad una vita vissuta per caso.
Che pena.
E tornano come di consueto parole ordinarie per cercare di dare un
senso ad un atto che senso non ha:
noia, vuoto offuscante, stupidità.
mensile giovanile di cultura e critica sociale
La rivista, organo ufficiale dell’associazione culturale Punto G., vuole
essere uno strumento di divulgazione di idee, uno spazio libero per
parlare dei problemi, della cultura, e delle necessità dei giovani. Il
collettivo redattore è aperto a chiunque voglia veicolare attraverso
questo strumento le proprie intuizioni.
Esce ogni mese e viene distribuita nelle scuole superiori di S. Donà,
negli atenei di Venezia e Padova, nelle biblioteche del Veneto
Orientale e agli eventi organizzati dall’associazione.
I numeri arretrati sono disponibili on - line sul sito
www.puntogiovane.it
Collettivo redattore
Boem Alberto
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Cereser Alberto
Lapis Giovanni
Maschietto Marco
Piovesan Marco
Tardivo Carlo
Vazzola Daniele
Vazzoler Enrico
Zamuner Marco
Impaginazione e grafica: Vian David
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Punto G.
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Fioetti giapponesi
Giovanni Lapis
Penso che all’infuori di accurate descrizioni e dotti sproloqui su templi
e tempietti da bravo studente di
yamatologia quale sono, che sia un
pochino più interessante andare
a sondare, descrivere e comparare
culture e società diverse e distanti
(mai come in questo caso) sotto
aspetti a noi più vicini, ovvero come
se la passano i “fioetti” giapponesi.
Orbene, già in passati articoli avevo scritto che l’immagine che gli
occidentali hanno dei giapponesi è
quella di indefessi lavoratori, bene
o male tutti uguali l’un l’altro; ora
che l’ho visto di persona posso sincerarvi che è assolutamente vero.
Ma bisogna capire bene cosa vuol
dire l’omogeneità per loro (anche
se avevo brevemente scritto in precedenza, a grandi linee).
L’uomo medio giapponese, pendolare o meno, abitante in centro
(cosa estremamente rara) o in periferia indistintamente sia alza prestissimo! Chi si alza alle 7.30 è considerato un vero fortunato. Questo
perchè il lavoro, oltre a essere la
base dello stato e della società, lo è
anche della morale e dell’etica comune, ovverosia lavorare è l’inclinazione naturale dell’individuo che
trova in esso la sua realizzazione e
il suo posto nella società. Per questo di norma una volta trovato un
lavoro, in una ditta o che sia, è naturale che lo si continui sino all’età
della pensione. Nel caso non accada, è un disonore piuttosto grave
essere licenziato, oltre al fatto che
un licenziato, in quanto considerato poco affidabile, difficilmente riesce a trovare una altro lavoro. Una
situazione estremamente umiliante che spesso finisce tragicamente con il suicidio. Ecco perchè nel
giapponese esistono due distinte
parole per lavoro=shigoto e lavoro
temporaneo o part-time=arubaito.
Tornando al discorso di prima, siccome tanta è l’importanza, al di
fuori dell’aspetto economico, del
lavoro che chi abita lontano si alza
presto per riuscire a lavorare un
monte di ore rispettabile, mentre
chi abita nelle vicinanze si alza altrettanto presto, approfittando della vicinanza, per lavorare ancora di
più. Per rendere l’idea gli straordinari sono di norma gratis!
Pertanto è norma se non regola
vedere questi branchi di salarimen
(impiegati in ditta), vestiti di tutto
punto, e bene o male tutti alla stessa maniera, incunearsi in autobus
e treni finché non rimane un centimetro quadrato di spazio (qui a
Kyoto per fortuna la vita non è così
frenetica, comunque, alla mattina
quando salivo in treno era un miracolo trovare un posto a sedere, così
come la sera).
Dato questo particolare stile di vita,
di masse di pendolari, lavoratori
ma anche moltissimi studenti, che
confluiscono dalla periferia, o dalle
città-satellite verso il centro delle
grandi città, l’urbanistica delle medesime è conforme a questo stile di
vita lontano dalle proprie abitazioni, cioè in definitiva tutto il giorno
constantemente in movimento per
motivi di lavoro, studio, divertimento. Oltre alla prevedibile super-efficenza dei trasporti pubblici, all’abbondanza di ristoranti, ristorantini
e fast-food, immensi department
store e quartieri commerciali grandi
come paesi. Un’altra cosa salta all’occhio, esplicativa come non mai
di questo ritmo all’insegna della
velocità: le macchinette distibutrici.
Ce ne sono a migliaia e sono di tutti i tipi, ma per la maggiore sono di
bevande, di tutti i generi dalla Coca
Cola al the con il latte passando per
mille tipi di the verde giapponese,
sia caldo che freddo; e poi di sigarette: anche nei posti più irraggiungibili e selvaggi il fumatore troverà
di sicuro di che soddisfare il suo
vizio. Volendo citare altri modi per
mettere a proprio agio e far rilassare l’indefesso lavoratore chiamo
in causa i relax-club, ovvero posti
dove pagando una modica tariffa
a tempo, il cliente può distendersi
su comode poltrone, guardare un
film, giocare alla playstation, andare in internet o semplicemente leggersi un fumetto preso in prestito
sorseggiando una bibita o facendo
un veloce spuntino, il tutto in un
ambiente che cerca di innalzare
un muro tra la faticosa e incalzante realtà e questa oasi di pace; un
esempio pratico? non ci sono assolutamente finestre, e i muri sono
così spessi da non far penetrare
nessuno rumore, ma c’è una tenue
luce artificiale e una rilassante musica di sottofondo.
Per non citare poi la cortesia estrema, a volte anche irritante per noi
occidentali, dei commessi, che si
profondono in numerosi inchini e
si esprimono utilizzando la forma
più onorifica e cortese del giapponese.
Tutte queste, chiamiamole, comodità altro non sono che l’ambiente
ideato per permettere alla macchina economica del giappone (leggi:
lavoro indefesso & consumismo
sfrenato) di operare alla perfezione
scorrendo fluida fra tutti gli aspetti della società. Ciò non è altro la
naturale combinazione chimica
fra una millenaria tradizione per la
quale la società è posta prima dell’individuo, una sfrenata ottimizzazione della produzione economica, retaggio del fascismo e infine
l’ammirazione smodata per tutto
ciò che rappresenta l’occidente, in
primis il consumo di beni di lusso.
Ebbene in tale contesto come
vengono su i giovani, i “fioetti
giapponesi”? Premettendo che la
situazione non è delle più rosee,
comincerei dalla carriera scolastica.
La società giapponese è denominata “gakureki shakai”, traducibile
con “società curriculum”, e si basa
su un sistema educativo fortemente meritocratico, ovvero in parole
povere il futuro di un individuo è
determinato da quali scuole ha
frequentato, dalle elementari fino
all’università. E naturalmente per
essere ammessi in quelle più prestigiose bisogna superare difficili esami e sborsare ingenti somme. Da
ciò è deducibile che fin da bambini
si è sottoposti ad uno stress fisico
e psicologico non trascurabile. I genitori preoccupati per l’avvenire dei
propri figli non esitano a mandarli
al dopo-scuola, costosi servizi privati per preparare gli studenti e far
loro superare gli esami di ammissione nelle scuole più prestigiose.
E oltre a questo ingente carico di
studio bisogna aggiungere la ferrea
disciplina impartita nelle scuole, la
cui caratteristica che salta più all’occhio è l’obbligo della divisa, a cui si
di tutta la carriera scolastica. Premetto che il metodo di studio delle
scuole giapponesi è principalmente basato sulla conoscenza mnenonica, il che sta a significare che
gli esami necessitano la capacità di
memorizzare una grande quantità
di informazioni, piuttosto che una
buona capacità di ragionamento
e comprensione. Inutile dire che
l’esame di ammissione nelle università più prestigiose costringa i
giovani a immagazzinare enormi
quantità di informazioni, minute
e particolareggiate; e sono pochi
quelli che ce la fanno al primo colpo. Chi fallisce viene quindi detto
“ronin”, che in realtà significa “samurai errante, senza padrone”. Diventarlo, e esserlo almeno per un
anno, prima di ritentare l’esame,
è quasi normale e naturale, tant’è
che è diventato un topos comune
in manga, anime, e letteratura contemporanea di consumo.
Ma, quando lo studente ormai ridotto ad un vegetale per il troppo studio riesce ad entrare nell’agognato
ateneo, è proprio il caso di dire che
“è fatta!”. Intendo dire che a differenza dell’Italia dove l’università è il
punto più importante, critico e difficile, in Giappone è il posto dove
il giovane, dopo un’infanzia e adolescenza stressante e costipata da
studio e impegno, può finalmente
concedersi di essere quello che è: il
“giovane”, il “fioet”, divertirsi e darsi alla pazza gioia insomma. Difatti una volta entrati esami e laurea
sono considerati quasi alla stregua
di formalità, prima di inserirsi nel
mondo del lavoro. Con questo non
aggiunge per esempio il dovere di
pulire e spazzare le aule e i corridoi. Il climax, diciamo, si raggiunge
dopo l’ultimo anno del liceo (che
dura tre anni, e non c’è esame di
maturità), quando, per iscriversi ad
una buona università (ovverosia,
un’università che una volta laureato
ti mandi direttamente in un buon
posto di lavoro) bisogna preparare
l’esame di ammissione più difficile
voglio dire assolutamente che manchi a tutti un’istruzione di stampo
accademico, tutt’altro, c’è fior fiore
di cervelli, soltanto che è gente che
ha scelto di sua sponte di ottenere
una preparazione superiore, per
nulla necessaria per laurearsi o per
lavorare, ad esempio, in ditta.
Una volta entrato nella medesima,
ecco che il giovane può entrare a
pieno titolo nella società, come
4 Punto G.
membro attivo ed autosufficente;
se poi continua il proprio iter con
matrimonio e figli, ben poco gli
rimane se una (idealizzata) vecchiaia. Se ciò può sembrare accumunante o uguale alle società
occidentali, tengo a precisare che
questi passaggi nella vita sociale del
singolo sono estremamente sentiti
nel pensare comune. Come testimonia la presenza di parole come
i pronomi personali maschili boku
e ore, entrambi significanti “io” ma
con varie differenze e sfumature di
significato, una delle quali discrimina chi è “autosufficente”, ore, da
chi è “dipendente”, in genere dai
genitori, boku. La stessa differenza
è ritrovabile tra le parole che in italiano vengono tradotte con “ragazzo” e “adulto”.
Cerimonie come l’ammissione all’università (studio), assunzione
(lavoro) e matrimonio (famiglia)
sanciscono rigorosamente i criteri
(ri)produttivi che differenziano il
giovane dall’adulto/membro della
società.
In tal senso è percepibile quanto
dall’alto, dalla società, dal mondo
del lavoro e dell’adulto, il concetto
di giovane non sia considerato un
risorsa, una voce da sentire, ma
sembra più un materiale da sgrezzare prima di essere utilizzato, a
riprova di un disinteresse per la generazione, anzi per le generazioni
di giovani che si sono susseguite
dal dopoguerra in poi, è fatto che
il sistema scolastico, ormai obsoleto, nozionistico e costipante, non
sia stato riformato, o solamente
modificata in minima parte, sin
dalla liberazione dall’occupazione
alleata.
Se in passato la ricostruzione del
dopoguerra agiva come spinta morale per tirarsi su le maniche, così
come l’incredibile boom economico dalla fine degli anni settanta-ottanta ispirava fiducia in una società
economicamente vincente, dopo
lo scoppio della “bolla finanziaria”
degli anni novanta era ben poco
attraente per i nuovi giovani della
generazione
dopo-dopo-guerra
una tale considerazione dal mondo degli adulti, o la prospettiva di
diventare un anonimo salariman.
In aggiunta a tale delusione, bisogna mettere in conto l’occidentalizzazione che ha portato con sé lo
spirito consumista postmoderno,
di chiaro stampo americano, attivo
e incentrato sulla figura del singolo, che nello stridente contrasto
con l’auto-annullante, e spesso
frustrante, sistema istituzionale,
scolastico ed economico sembra
mettere in crisi e perdita di valori i
suddetti giovani Come dice nel suo
FACE UP!
discorso davanti alla platea di Stoccolma lo scrittore Oe Kenzaburo,
premio Nobel nel 1994: “Può sembrare un discorso strano, ma quegli
stessi giapponesi che al culmine
della povertà del dopoguerra furono capaci di non perdere la speranza di una rinascita, non sembrano
ora capaci di sopportare l’enorme
ansia del futuro provocata in loro all’attuale eccezionale prosperità (...)
in una situazione del genere, tutti
noi che aspiriamo alla creazione di
una letteratura seria ben diversa dai
romanzi che riflettono la subcultura
mondiale e la cultura dei consumi
di Tokyo, ci poniamo il problema di
della ricerca della nostra identità di
giapponesi”.
Penso che questa insoddisfazione
si possa leggere in quei fenomeni
raggruppati sotto l’accumunante
etichetta di cultura pop giapponese, da noi per lo più sinonimo di
manga, anime, videogiochi o al
massimo qualche artista di musica
noise. In realtà sottointende una
variegata moltitudine di usi, costumi, consumi e subculture di strada,
paragonabili a ciò che in occidente
é stato il fenomeno dei punks, dei
teddy boys, dei rockers, dei mods e
via dicendo. Senza buttarmi in accurate descrizioni di tali fenomeni,
che già abbondano in libri e riviste,
che per lo più con un morboso
intento scadalistico dipingono giovani otaku (letteralmente: “la tua
casa”, ma in realtà si denominano
così giovani soggetti estremamente appassionati di fumetti, anime
ecc.) rinchiusi nella loro stanzetta
a consumare fumetti, cartoni e
videogiochi porno, affetti da autismo sociale (il che in realtà è un
raro caso), sottolinerei quanto sia
permeante il senso di rifiuto della
società, la voglia di parodiare i principi tradizionali e in definitiva, una
vita all’insegna del qui e ora.
Ragazzine che si vestono alla
“kawaii”, traducibile con “carino!”,
moda nata intorno al ‘96, che si
esprime in uno stile pastelloso,
zuccherino ed infantile, sia del
vestiario che dell’atteggiamento,
gironzolano bighellonando nelle
shotengai, le strade commerciali,
assieme alle amiche in un mondo
di negozi, boutique, fast food con
un’aria trasognata, una voce in falsetto che unisce risolini bambineschi a grida infantili appena notano
in una vetrina un oggettino carino,
un bambolotto, magari di Hello Kitty, completamente inutile se non
nella sua “carineria”. Otaku che registrano qualsiasi puntata di anime
passi alla televisione, che interiorizzano memorizzando storie personaggi, nomi, date delle loro opere
preferite. O anche degli otaku detti
“del quartiere di Akihabara (Tokyo)”, impegnati nel battere record
su record nelle salagiochi.
E che dire delle ganguro, da gan
(viso) e guro (nero), ultralampadate, dal modo di vestire e truccarsi
stravagante ed eccessivo, il cui stile
di vita gravita attorno alle strade, in
compagnia di altre simili passano
giornate intere a guardare le vetrine, fare shopping, mangiare nei
fast-food, truccarsi in continuazione o semplicemente fare una specie di street-watching, osservando
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e giudicando stili di altre consimili
o di chi comunque passa per le
strade commerciali. Ultimamente
paiono furoreggiare le gothic lolita,
che come dice il nome, si vestono
come delle bamboline dal gusto
estremamente dark, mutuato da
vari fumetti.
Certo queste non sono che generalizzazioni (e a volta estremizzazioni), ma bisogna tenere conto
che queste tendenze, stigmatizzate e ghettizzate dall’alto, ma in
realtà ben accette e “rivitalizzate”
dal mercato alla ricerca di nuovi
trend, sono una realtà fluida che si
muove bene o male attraverso tutti
i giovani, e ormai non fanno parte di “tribù metropolitane” come
accennano alcuni libri, ma si sono
estese e annacquate nella realtà
giovanile.
L’infantilismo forzato del “kawaii”,
che nei soggetti maschili si traduce
in un atteggiamenteo di vagheggiata disillusione e amorfismo, é
ormai un trend, quasi un canone
estetico comportamentale, come
da noi é stato (e penso sia ancora)
l’atteggiamento cool americano;
a differenza del quale il “kawaii”
sottointende una non-voglia di crescere, come se fosse un rifiuto del
passaggio giovane/adulto menzionato prima. Il look afro-marziano
delle gangoru parodia ciò che è
l’ideale tradizionale della donna
giapponese: pelle candida, dall’atteggiamento composto e tendente
a rimanere dentro casa. Gli otaku
instaurano con le loro passioni quali fumetti, anime e videogiochi lo
stesso rapporto di classificazione,
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memorizzazione e accumulo di
dati che viene richiesto dal sistema
educativo giapponese, con i suoi
chilometrici esami con test a scelta
multipla.
Non sono qua ad affermare (e non
lo penso neanche) che queste
mode sono una progressista e consapevole forma di protesta verso la
società, ma non nego neanche che
i vecchi valori siano stati parodiati o
reinterpretati dal concetto di asobi,
“gioco, divertimento”, che tanto
sembra mancare ai giovani, visto
nella prospettiva della carriera scolastica menzionata prima. Purtroppo, la mia impressione è che il solo
riferimento che ha questo “gioco” è
il consumo, che diventa unico ideale di espressione. Ho già scritto in
precedenti articoli come al giorno
d’oggi il consumo di beni equivale
anche ad un consumo di valori. Del
giappone si dice spesso che emula
ed estremizza, e a ragione si può
affermare che il modello americano del consumatore si è ben radicato, senza contare che il consumo
interno è uno dei maggiori pilastri
dell’economia giapponese, come
è deducibile dall’assetto urbano
brevemente descritto sopra. In aggiunta, é ormai solo nel consumo
che il giovane cerca di affermare
una individualità, che contrasta la
tradizione che lo vorrebbe integrato e, a sentir loro “despersonalizzato”. E nel realizzare l’anti-salariman, l’impiegato per antonomasia
anonimo, grigio e uguale a tutti gli
altri, la moda vien loro in aiuto per-
FACE UP!
mettendo di sfoggiare stili molto
più appariscenti di come si possa
ritrovare qui in europa o in america,
e non solo i vestiti, ma grande importanza viene data ai capelli (che
in genere sono tra il carattere più
uniformante degli orientali, cioè
sono tutti neri) che quasi tutti tingono.
Moda ed abbigliamento sono difatti fortemente sentiti, come testimoniano diffuse riviste che oltre a
vestiti, scarpe ed accessori scrivono puntando molto su delineare
nuovi “trend comportamentali”, e
appaiono come un incrocio fra i
nostrani Cioé e Cosmopolitan; senza tralasciare il concetto di gruppo
e di omologazione-omogeneizzazione, che radicato per millenni,
è facilmente riconoscibile nella
frenesia che sia ha nel seguire le
nuove tendenze, appunto per non
sentirsi “estraneo” e/o “fuori gruppo”. In conseguenza a questa tendenza ad una vita dedicata all’hic
et nunc, é il folto numero di giovani
che scelgono subito di lavorare, e,
tra il fatto che al massimo posseggono solo un diploma, e l’esigenza di soldi facili ed immediati, per
divertirsi, scelgono l’arubaito, che
come detto prima è il part-time,
ma sottointende anche precario.
Ed è precario anche il loro senso
di identità, che traballa tra l’ancora
forte fascinazione per l’occidente
(per lo più in termini consumistici),
le nuove mode in cui ricercarla, che
essendo figlie del mercato, sono
soggette a mutamenti repentini, e
il loro essere di figli di un giappone,
di cui però sembrano rinnegare la
paternità. Mi ricordo la frase detta
da un mio amico giapponese: «Se
chiederai ad un giovane se è orgoglioso di essere giapponese, di
sicuro di risponderà di sì, anche se
in cuor suo lo negherà».
Con questo non voglio assolutamente fare di tutta l’erba un fascio,
ma può essere uno spunto per
leggere quel senso di “deresponsabilizzazione sociale” che sembra
aver preso molto piede nella vita
dei giovani. Effettivamente c’è una
tendenza a rifuggire, o semplicemente ignorare argomenti e problematiche di una certa rilevanza,
il proprio futuro, il proprio lavoro,
politica e società. E’ indicativo che
molti non conoscano il nome del
proprio premier, Koizumi Jun’ichiro.
Non si consideri però che in questa
“bambagia di ignoranza e divertimento” soddisfi e appaghi in toto,
altrimenti come spiegare i frequenti suicidi collettivi, e l’incremento di
adepti, giovani e non nelle nuove
religioni (la più famosa delle quali
é la Aum shinrikyo, per l’attentato
nella metropolitana di Tokyo nel
1995), se non come segnale di un
bisogno di nuovi valori?
Non ci è dato sapere se questa
“generazione X”, per ora solamente estetica, edonistica ma in fin
dei conti fragile sancirà dei cambiamenti in una società che più di
tutte è detta “tradizionale”, o sarà
solo una fase di postposizione del-
Fai da te
Punto G.
5
le responsabilità del mondo adulto.
Sta il fatto che per ora il loro unico
interlocutore è il mercato, e il loro
approccio il consumo. Azzardando
una semplificazione, direi che in
fondo si tratta di un sorda chiusura al dialogo fra due parti, fra una
società che nasconde timori, ansie
e paure tipici della gioventù accusando anime, videogiochi fumetti
e quant’altro, intimoriti da giovani
ragazzine che, vestite come lolite,
si danno appuntamenti con anziani uomini d’affari, nella speranza di
ricavarci i soldi per un accessorio
griffato. Invece di ricercare delle
cause di questi comportamenti, si
scandalizzano additano come colpevole il consumo sfrenato di beni
di lusso, sebbene nessuno venga
in mente di limitare il numero di
riviste che dicono “compra questa
borsa o sei out”. Dall’altra sponda
c’è chi considera queste riviste la
propria bibbia, o chi comunque
trova in queste un linguaggio di
espressione; altri lasciano i consuenti modelli di socializzazione, e
preferiscono creare comunità internet, o scelgono la fumetteria al posto del pub come luogo di ritrovo.
Ma ad ogni modo anche il loro è
un allontanamento da un mondo
sociale, di responsabilità. L’impressione è che ci sia una frattura, che
continua ad allargarsi, costringendo a grandi salti chi deve inevitabilmente saltarla, al posto di un qualcosa che manca, oggigiorno, sia di
qua che di là, cioè di un dialogo
costruttivo e biunivocamente utile
fra vecchie e nuove generazioni.
Serena Boldrin
Stavo seriamente prendendo in
considerazione il problema delle vacanze post-diploma e l’unica immagine che si affacciava
alla mia mente era quella di una
coppia di ragazzi con lo zaino
in spalla in attesa del treno che
da Venezia li avrebbe portati
chissà dove. Una strana carica
proveniva dai loro occhi azzurri [sicuramente erano svedesi]:
c’era tutto un mondo là dentro, il mondo che essi avevano
scoperto insieme viaggiando.
Erano dei backpackers, un termine tradotto, con un’accezione negativa, saccopelisti e, da
qualche tempo, viaggiatori indipendenti. Ed effettivamente
la traduzione italiana rende meglio il concetto: i backpackers
[letteralmente persone con lo
zaino] non hanno particolari
vincoli, sono liberi di stabilire
o modificare il loro percorso,
di trattenersi più o meno in
un luogo e di visitare musei e
cattedrali o dedicarsi all’ozio o
all’arte di strada in un parco o
lungo un viale. Non sono turisti
di lusso, sono anzi frequentatori degli ostelli – da sempre i luoghi più economici per dormire
e i migliori dove fare nuove conoscenze - e spesso faticano a
far quadrare i conti. Ma la loro
capacità di adattamento è così
sviluppata che ogni imprevisto
non può che vivacizzare ancor
di più quella splendida avventura chiamata viaggio. Alcuni
iniziano dal classico giro ferroviario in Europa con l’Inter Rail,
ma i più audaci si spingono
anche verso mete più lontane, come le metropoli americane o il deserto marocchino.
Ciò che, tuttavia, mi ha colpito
maggiormente dei backpackers
incontrati lungo il mio percorso
è stata l’incredibile facilità con
la quale facevano conoscenza con gli altri backpackers, mi
sembrava come se, ad unirli,
fosse un’intrinseca e naturale
solidarietà. Uno svelto scambio di indirizzi e-mail e poi via,
verso una nuova meta… e nello
zaino solo una certezza: tanto
divertimento, passato presente
e futuro!
6 Punto G.
Racconti
Luglio - Agosto 2005
Altra spiaggia, altro mare
Alberto Cereser
Aereoporto asettico ed anonimo, la mattina presto. In coda
per l’imbarco ci si accorge pian
piano delle facce intorno: facce
strane per i lineamenti diversi,
facce di chi lavora come badante, operaio o chissà che a due
ore di aereo da casa. Sono le
facce che si incontrano ogni
giorno sulla rotta Venezia-Bucarest se ci si imbarca su un volo
economico, di quelli che si prenotano in rete.
Nuvole e poi Bucarest che
gradatamente, senza fretta,
presenta una vastissima umanità piena zeppa di contrasti,
talmente forti da causare un’indigestione, nel caso in cui si
aprano troppo gli
occhi: automobili
Dacia (marca unica sotto il regime
comunista, è ancor oggi la più diffusa in Romania)
ammaccate e fatiscenti borbottano
a fianco di berline
tedesche comprate con chissà quale
denaro, visto che
lo stipendio medio
è di 120 euri, e che
il costo della vita
non è molto più
basso che in Italia. Tanto per farsi
un’idea, benzina
e gasolio hanno lo
stesso prezzo che
nello Stivale; un
pacchetto di Marlboro costa meno
di un euro e il mangiare è molto
più economico.
Ma questo è solo l’inizio. La stazione, o “gara” che dir si voglia,
è un misto di ragazze belle di
una bellezza nuova e anziani
col cappello di paglia, vecchie
medaglie appuntate alla camicia ricordano chissà quale passato mentre ventenni in divisa da
poliziotti messaggiano assorti,
incuranti dei soliti fantasmi con
in mano un sacchetto con dentro un po’ di solvente da tirare
in caso di necessità, ossia ogni
cinque minuti circa.
Fuori dalla città i campi di grano e di girasoli si distendono
tranquilli, nelle due ore di treno
per arrivare a Costanza solo pochi villaggi hanno il coraggio di
tirar fuori il capo, qua e là carri
trainati da asini o cavalli, vacche
al pascolo e roghi di sterpaglie
varie.
Costanza è il principale porto
del Mar Nero, e il suo spirito
commerciale permea ogni millimetro quadrato della città, rivelandosi nei bambini di 10 anni
che fumano nervosi mentre calcolano il prezzo delle angurie
vendute a bordo strada, nelle
donne dall’età indefinibile che
a qualsiasi ora del giorno e delle notte si vendono al primo offerente, spesso turista, spesso
italiano. Buona parte degli uo-
mini di Costanza ha viaggiato
per mare, e la voglia di un futuro diverso, di una vita migliore
è tanta. Perché dietro alla città
ricca, dietro al bellissimo mare
di Mamaya, buffa sintesi tra Jesolo e Gardaland, ci sono abusi
quasi quotidiani sui più piccoli,
famiglie che vivono sotto un
telo di nylon, bambini abituati a
vivere da soli mentre i genitori
sono all’estero a lavorare.
Appena fuori dalla città ( i pulmini-taxi da 20 posti offrono
un servizio economico ed abbastanza capillare) la scena
cambia di nuovo, catapultando
in una dimensione temporale
indefinita, in cui parabole satellitari, mucche macellate all’aperto
ed onnipresenti
carte di pacchetti di patatine si
mescolano senza
nessun problema.
Ecco i villaggi in
cui i presidi usano la pompetta
della scuola per
bagnare i propri
campi racchiusi
dalle strade di terra battuta, amiche
di cani alquanto
spelacchiati. E gli
occhi splendenti
dei bambini, che
si accendono ad
ogni minimo pallone, mentre continua ad imperversare la folle estate
rumena.
WOP in Dublin
Elisabetta Sillian
E’ forte il lamento dei gabbiani,
mi accompagna nel risveglio.
Una nota di malinconia mi pervade. Vedo avanti a me un dipinto che troppe volte ho trovato appeso davanti alla finestra:
una distesa uniforme di grigio
perlato.
Il cielo è bello, il cielo è luminoso, il cielo è terribilmente
capace di scavarti dentro. Non
posso nascondermi, non posso
mentire.
Dublino è grigia.
La strada è affollata. L’andamento ricorda Venezia nei giorni che
precedono il Martedì Grasso.
Sorrido. Qui mancano i colori,
mancano i sorrisi, la gente cammina inespressiva per la sua via,
è sola, incurante di ciò che le
sta intorno. La gente si scontra,
si urta. Echeggiano troppi “sorry”, ma nessun “hello”.
Dublino è fredda.
Il pub è gremito di persone con
la famosa pinta di birra nera in
mano.
Gli uomini cantano canzoni tradizionali a voce alta accompagnati da esperti suonatori.
Altri ci provano, ma l’alcool nel
sangue li mette in seria difficol-
tà. Nessuno pare rendersene
conto, o non lo danno a vedere..o più semplicemente è normale.
I volti sono allegri, sono felici,
parlano di sé, si aprono agli altri.
Dublino è ubriaca. Dublino è
viva.