Luglio - Agosto 2005
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Luglio - Agosto 2005
rivista giovanile di cultura e critica sociale anno I n. 8 luglio-agosto 2005 edizione per Fiesta! Le bombe che non capisco Marco Zamuner Sarà un difetto del mestiere che sto cercando di imparare quello di cercare i perché; una sorta di deformazione professionale dello Storico, una fissa, un tarlo della coscienza. Sia quel che sia, ma io di questa orrenda saga di morte e desolazione postmoderna continuo, mestamente, a non capire nulla. Io queste bombe, giuro, non le capisco. Nella seconda guerra mondiale Hitler voleva conquistare il mondo, e il mondo non era d’accordo. Durante le Crociate i cristiani reclamavano il possesso ideologico e materiale di territori rivestiti di interessi ideologici e mistici, chi li aveva occupati non era d’accordo. Nello scontro primordiale tra Uomo Sapiens e Uomo di Cro-Magnòn quest’ultimo voleva il predominio sul primo, che naturalmente non era d’accordo. Nei corsi e ricorsi storici di ogni tempo e ogni era la violenza è sempre stata originata dallo scontro tra un progetto o un’ idea e l’opposizione di qualcuno. Sarà pure una domanda semplice e disarmante ma meriterebbe senza dubbio una risposta: a chi sono opposti i terroristi? Chi sono? Cosa cercano di ottenere? Nessuno ce lo spiega, e i media ci lasciano quotidianamente in balìa di vaghe suggestioni vaneggianti in cui la chiacchiera bar-style prende il predominio su qualunque considerazione logica. Si sprecano parole di fuoco su fantomatici scontri di civiltà, sull’ intolleranza A PAGINA 2 FACE UP! Racconti CONTATTI Le bombe che non capisco Sicari imprevisti Fioetti giapponesi Fai da te Altra spiaggia, altro mare WOP in Dublin [email protected] www.puntogiovane.it Discutiamone su: www.puntogiovane.it Appeso ad un buio impenetrabile Valerio Evangelisti Tante novità in arrivo da settembre: una nuova veste grafica per la rivista, nuovi progetti e iniziative dell’associazione, nuove collaborazioni e una festa per celebrare il primo anno di attività! Seguiteci su http://forum.puntogiovane.it supplemento alla testata “Radio San Donà” Iscrizione n°1084 trib di VE del 22.02.92 direttore responsabile: Andrea Landi 2 Punto G. Luglio - Agosto 2005 FACE UP! SEGUE DALLA COPERTINA religiosa, ci si spinge a pronostici ai confini della chiaroveggenza per capire cosa succederà in un domani mai come ora impenetrabile e tetro. Cosa nasconde la cortina di fuoco che fitta fitta sta scendendo sul cuore dell’Europa se non un’ulteriore, fittizia guerra tra straccioni? Queste bombe non le capisco perché non sono gravide di ideologia come quelle del terrorismo degli anni ’70 o quelle dell’ IRA, non sono mirate a un obiettivo: sono solo grida, affermazioni di violenza e di becera distruttività, ma incisive come una scacciacani. Esplodono nel paradiso della porta accanto costruito ad uso e consumo dei piccolo-borghesi occidentali a Sharm el Sheik e spezzano le vite di camerieri, cuochi, e turisti da poche centinaia di euro. Distruggono una stazione della metropolitana londinese e travolgono uomini, donne, ragazzi della working class cittadina; così in Spagna, così sempre, così ovunque. Queste bombe non le capisco, perché nel frattempo i Capi che hanno riportato la guerra globale nel mondo dopo soli sessant’anni sono seduti comodamente nella loro poltrona e il polverone delle esplosioni non fa che oscurare le loro malefatte. Non le capisco, perché ogni bomba che scoppia riabilita finisce per non far altro che riabilitare facce di potenti sporche e insensibili come un insperato regalo del destino; perché permettono a lingue biforcute e a bocche di bronzo di vestirsi col linguaggio del patriottismo e della resistenza. Sono loro gli unici che non muoiono mai: il terrorismo si mantiene lontano dalle sedi del potere, di quello vero. I mercati sono a rischio, i palazzi sono al sicuro: io queste nuove bombe proprio non le capisco. Giuro. Nel frattempo i piani anti terrorismo nascondono il resto, tutto il resto, ai nostri occhi spenti e impauriti. Nascondono le due pizze di meno al mese, le vacanze più brevi, il carrello pieno di “3 per 2”, in barba alle farneticazioni ottimistiche dei lacchè dell’Istat coi loro panieri inutili e irrilevanti e a quelle dei vari Montezemolo e Billè che parlano di ripresa. Nascondono la nuova povertà, il lavoro che non dà sicurezze, la svendida del patrimonio dello Stato. Queste bombe io continuo a non capirle, ma mi si affaccia alla mente un barlume di intuizione, un sottile timore: che non siano capite nemmeno da chi le nasconde nello zainetto o sotto la giacca, ma che in compenso siano capite, e molto bene, da qualcun altro. Qualcuno che da perderci non ha proprio nulla... e da guadagnarci, invece, abbia molte, troppe cose. Sicari imprevisti Marco Maschietto I miei occhi troppo occidentali non sono mai riusciti a comprendere le tappe mentali di un giovane kamikaze che accecato dal fanatismo ha deciso di esplodere e di far morire. Mi sono sempre detto che era una cultura troppo lontana da me, impossibile da capire con le quattro nozioni liceali di cui dispongo. Poi ho sentito di un masso di 40 Kg che è volato giù da un cavalcavia. Il macigno è tutto italiano ed occidentale. Dovrei quantomeno capire il gesto. Eppure, esattamente come il giovane kamikaze, riesco solo a con- di qualsiasi terrorista; le loro insulse mani non possono che essere lo specchio di chi le ha comandate: vili e miserabili. Non è la prima volta che accade. Le analisi che sono state compiute hanno sottolineato un lato dell’attuale giovinezza vomitevole, quello di vite stentate vissute in totale normalità, prive di crudezze e ferocie che culminano regolarmente in “bravate” notturne per far colpo sulle ragazze. Collocati ai margini della vita, ma non per questo ai margini della società, capaci di ammazzare in modo assolutamente gratuito, dannarlo. Non riesco a capire come dei ragazzi possano decidere di essere Dio per un giorno, di giocare a bowling con la vita di persone mai viste, sconosciute, per poi correr via da una notte troppo vile per essere raccontata. Li ho immaginati nascosti, dopo il vigliacco gesto, seduti ad un tavolo di un bar, a sorseggiare un bicchiere di birra troppo amaro per essere gustato. E tornano come di consueto parole ordinarie per cercare di dare un senso ad un atto che senso non ha: noia, vuoto offuscante, stupidità. Una “strage” congegnata da anonimi contro anonimi come quella del calvacavia 439 non può che raffigurare una chiara rappresentazione di nullità, ai miei occhi più orripilante sicari imprevisti esattamente come da bambini si schiacciavano per indolente crudeltà le formiche. Forse una spiegazione c’è: quella di voler sentirsi forti e potenti, di poter esercitare liberamente una superiorità non dimostrabile in modo diverso dalla violenza, magari solo per risultare un po’ meno mediocri e incapaci. Poveretti. Non possiedono nemmeno un appiglio ideologico o religioso a cui aggrapparsi ferocemente; non hanno la capacità di rendere conto ad una vita vissuta per caso. Che pena. E tornano come di consueto parole ordinarie per cercare di dare un senso ad un atto che senso non ha: noia, vuoto offuscante, stupidità. mensile giovanile di cultura e critica sociale La rivista, organo ufficiale dell’associazione culturale Punto G., vuole essere uno strumento di divulgazione di idee, uno spazio libero per parlare dei problemi, della cultura, e delle necessità dei giovani. Il collettivo redattore è aperto a chiunque voglia veicolare attraverso questo strumento le proprie intuizioni. Esce ogni mese e viene distribuita nelle scuole superiori di S. Donà, negli atenei di Venezia e Padova, nelle biblioteche del Veneto Orientale e agli eventi organizzati dall’associazione. I numeri arretrati sono disponibili on - line sul sito www.puntogiovane.it Collettivo redattore Boem Alberto Boldrin Serena Cereser Alberto Lapis Giovanni Maschietto Marco Piovesan Marco Tardivo Carlo Vazzola Daniele Vazzoler Enrico Zamuner Marco Impaginazione e grafica: Vian David Luglio - Agosto 2005 FACE UP! Punto G. 3 Fioetti giapponesi Giovanni Lapis Penso che all’infuori di accurate descrizioni e dotti sproloqui su templi e tempietti da bravo studente di yamatologia quale sono, che sia un pochino più interessante andare a sondare, descrivere e comparare culture e società diverse e distanti (mai come in questo caso) sotto aspetti a noi più vicini, ovvero come se la passano i “fioetti” giapponesi. Orbene, già in passati articoli avevo scritto che l’immagine che gli occidentali hanno dei giapponesi è quella di indefessi lavoratori, bene o male tutti uguali l’un l’altro; ora che l’ho visto di persona posso sincerarvi che è assolutamente vero. Ma bisogna capire bene cosa vuol dire l’omogeneità per loro (anche se avevo brevemente scritto in precedenza, a grandi linee). L’uomo medio giapponese, pendolare o meno, abitante in centro (cosa estremamente rara) o in periferia indistintamente sia alza prestissimo! Chi si alza alle 7.30 è considerato un vero fortunato. Questo perchè il lavoro, oltre a essere la base dello stato e della società, lo è anche della morale e dell’etica comune, ovverosia lavorare è l’inclinazione naturale dell’individuo che trova in esso la sua realizzazione e il suo posto nella società. Per questo di norma una volta trovato un lavoro, in una ditta o che sia, è naturale che lo si continui sino all’età della pensione. Nel caso non accada, è un disonore piuttosto grave essere licenziato, oltre al fatto che un licenziato, in quanto considerato poco affidabile, difficilmente riesce a trovare una altro lavoro. Una situazione estremamente umiliante che spesso finisce tragicamente con il suicidio. Ecco perchè nel giapponese esistono due distinte parole per lavoro=shigoto e lavoro temporaneo o part-time=arubaito. Tornando al discorso di prima, siccome tanta è l’importanza, al di fuori dell’aspetto economico, del lavoro che chi abita lontano si alza presto per riuscire a lavorare un monte di ore rispettabile, mentre chi abita nelle vicinanze si alza altrettanto presto, approfittando della vicinanza, per lavorare ancora di più. Per rendere l’idea gli straordinari sono di norma gratis! Pertanto è norma se non regola vedere questi branchi di salarimen (impiegati in ditta), vestiti di tutto punto, e bene o male tutti alla stessa maniera, incunearsi in autobus e treni finché non rimane un centimetro quadrato di spazio (qui a Kyoto per fortuna la vita non è così frenetica, comunque, alla mattina quando salivo in treno era un miracolo trovare un posto a sedere, così come la sera). Dato questo particolare stile di vita, di masse di pendolari, lavoratori ma anche moltissimi studenti, che confluiscono dalla periferia, o dalle città-satellite verso il centro delle grandi città, l’urbanistica delle medesime è conforme a questo stile di vita lontano dalle proprie abitazioni, cioè in definitiva tutto il giorno constantemente in movimento per motivi di lavoro, studio, divertimento. Oltre alla prevedibile super-efficenza dei trasporti pubblici, all’abbondanza di ristoranti, ristorantini e fast-food, immensi department store e quartieri commerciali grandi come paesi. Un’altra cosa salta all’occhio, esplicativa come non mai di questo ritmo all’insegna della velocità: le macchinette distibutrici. Ce ne sono a migliaia e sono di tutti i tipi, ma per la maggiore sono di bevande, di tutti i generi dalla Coca Cola al the con il latte passando per mille tipi di the verde giapponese, sia caldo che freddo; e poi di sigarette: anche nei posti più irraggiungibili e selvaggi il fumatore troverà di sicuro di che soddisfare il suo vizio. Volendo citare altri modi per mettere a proprio agio e far rilassare l’indefesso lavoratore chiamo in causa i relax-club, ovvero posti dove pagando una modica tariffa a tempo, il cliente può distendersi su comode poltrone, guardare un film, giocare alla playstation, andare in internet o semplicemente leggersi un fumetto preso in prestito sorseggiando una bibita o facendo un veloce spuntino, il tutto in un ambiente che cerca di innalzare un muro tra la faticosa e incalzante realtà e questa oasi di pace; un esempio pratico? non ci sono assolutamente finestre, e i muri sono così spessi da non far penetrare nessuno rumore, ma c’è una tenue luce artificiale e una rilassante musica di sottofondo. Per non citare poi la cortesia estrema, a volte anche irritante per noi occidentali, dei commessi, che si profondono in numerosi inchini e si esprimono utilizzando la forma più onorifica e cortese del giapponese. Tutte queste, chiamiamole, comodità altro non sono che l’ambiente ideato per permettere alla macchina economica del giappone (leggi: lavoro indefesso & consumismo sfrenato) di operare alla perfezione scorrendo fluida fra tutti gli aspetti della società. Ciò non è altro la naturale combinazione chimica fra una millenaria tradizione per la quale la società è posta prima dell’individuo, una sfrenata ottimizzazione della produzione economica, retaggio del fascismo e infine l’ammirazione smodata per tutto ciò che rappresenta l’occidente, in primis il consumo di beni di lusso. Ebbene in tale contesto come vengono su i giovani, i “fioetti giapponesi”? Premettendo che la situazione non è delle più rosee, comincerei dalla carriera scolastica. La società giapponese è denominata “gakureki shakai”, traducibile con “società curriculum”, e si basa su un sistema educativo fortemente meritocratico, ovvero in parole povere il futuro di un individuo è determinato da quali scuole ha frequentato, dalle elementari fino all’università. E naturalmente per essere ammessi in quelle più prestigiose bisogna superare difficili esami e sborsare ingenti somme. Da ciò è deducibile che fin da bambini si è sottoposti ad uno stress fisico e psicologico non trascurabile. I genitori preoccupati per l’avvenire dei propri figli non esitano a mandarli al dopo-scuola, costosi servizi privati per preparare gli studenti e far loro superare gli esami di ammissione nelle scuole più prestigiose. E oltre a questo ingente carico di studio bisogna aggiungere la ferrea disciplina impartita nelle scuole, la cui caratteristica che salta più all’occhio è l’obbligo della divisa, a cui si di tutta la carriera scolastica. Premetto che il metodo di studio delle scuole giapponesi è principalmente basato sulla conoscenza mnenonica, il che sta a significare che gli esami necessitano la capacità di memorizzare una grande quantità di informazioni, piuttosto che una buona capacità di ragionamento e comprensione. Inutile dire che l’esame di ammissione nelle università più prestigiose costringa i giovani a immagazzinare enormi quantità di informazioni, minute e particolareggiate; e sono pochi quelli che ce la fanno al primo colpo. Chi fallisce viene quindi detto “ronin”, che in realtà significa “samurai errante, senza padrone”. Diventarlo, e esserlo almeno per un anno, prima di ritentare l’esame, è quasi normale e naturale, tant’è che è diventato un topos comune in manga, anime, e letteratura contemporanea di consumo. Ma, quando lo studente ormai ridotto ad un vegetale per il troppo studio riesce ad entrare nell’agognato ateneo, è proprio il caso di dire che “è fatta!”. Intendo dire che a differenza dell’Italia dove l’università è il punto più importante, critico e difficile, in Giappone è il posto dove il giovane, dopo un’infanzia e adolescenza stressante e costipata da studio e impegno, può finalmente concedersi di essere quello che è: il “giovane”, il “fioet”, divertirsi e darsi alla pazza gioia insomma. Difatti una volta entrati esami e laurea sono considerati quasi alla stregua di formalità, prima di inserirsi nel mondo del lavoro. Con questo non aggiunge per esempio il dovere di pulire e spazzare le aule e i corridoi. Il climax, diciamo, si raggiunge dopo l’ultimo anno del liceo (che dura tre anni, e non c’è esame di maturità), quando, per iscriversi ad una buona università (ovverosia, un’università che una volta laureato ti mandi direttamente in un buon posto di lavoro) bisogna preparare l’esame di ammissione più difficile voglio dire assolutamente che manchi a tutti un’istruzione di stampo accademico, tutt’altro, c’è fior fiore di cervelli, soltanto che è gente che ha scelto di sua sponte di ottenere una preparazione superiore, per nulla necessaria per laurearsi o per lavorare, ad esempio, in ditta. Una volta entrato nella medesima, ecco che il giovane può entrare a pieno titolo nella società, come 4 Punto G. membro attivo ed autosufficente; se poi continua il proprio iter con matrimonio e figli, ben poco gli rimane se una (idealizzata) vecchiaia. Se ciò può sembrare accumunante o uguale alle società occidentali, tengo a precisare che questi passaggi nella vita sociale del singolo sono estremamente sentiti nel pensare comune. Come testimonia la presenza di parole come i pronomi personali maschili boku e ore, entrambi significanti “io” ma con varie differenze e sfumature di significato, una delle quali discrimina chi è “autosufficente”, ore, da chi è “dipendente”, in genere dai genitori, boku. La stessa differenza è ritrovabile tra le parole che in italiano vengono tradotte con “ragazzo” e “adulto”. Cerimonie come l’ammissione all’università (studio), assunzione (lavoro) e matrimonio (famiglia) sanciscono rigorosamente i criteri (ri)produttivi che differenziano il giovane dall’adulto/membro della società. In tal senso è percepibile quanto dall’alto, dalla società, dal mondo del lavoro e dell’adulto, il concetto di giovane non sia considerato un risorsa, una voce da sentire, ma sembra più un materiale da sgrezzare prima di essere utilizzato, a riprova di un disinteresse per la generazione, anzi per le generazioni di giovani che si sono susseguite dal dopoguerra in poi, è fatto che il sistema scolastico, ormai obsoleto, nozionistico e costipante, non sia stato riformato, o solamente modificata in minima parte, sin dalla liberazione dall’occupazione alleata. Se in passato la ricostruzione del dopoguerra agiva come spinta morale per tirarsi su le maniche, così come l’incredibile boom economico dalla fine degli anni settanta-ottanta ispirava fiducia in una società economicamente vincente, dopo lo scoppio della “bolla finanziaria” degli anni novanta era ben poco attraente per i nuovi giovani della generazione dopo-dopo-guerra una tale considerazione dal mondo degli adulti, o la prospettiva di diventare un anonimo salariman. In aggiunta a tale delusione, bisogna mettere in conto l’occidentalizzazione che ha portato con sé lo spirito consumista postmoderno, di chiaro stampo americano, attivo e incentrato sulla figura del singolo, che nello stridente contrasto con l’auto-annullante, e spesso frustrante, sistema istituzionale, scolastico ed economico sembra mettere in crisi e perdita di valori i suddetti giovani Come dice nel suo FACE UP! discorso davanti alla platea di Stoccolma lo scrittore Oe Kenzaburo, premio Nobel nel 1994: “Può sembrare un discorso strano, ma quegli stessi giapponesi che al culmine della povertà del dopoguerra furono capaci di non perdere la speranza di una rinascita, non sembrano ora capaci di sopportare l’enorme ansia del futuro provocata in loro all’attuale eccezionale prosperità (...) in una situazione del genere, tutti noi che aspiriamo alla creazione di una letteratura seria ben diversa dai romanzi che riflettono la subcultura mondiale e la cultura dei consumi di Tokyo, ci poniamo il problema di della ricerca della nostra identità di giapponesi”. Penso che questa insoddisfazione si possa leggere in quei fenomeni raggruppati sotto l’accumunante etichetta di cultura pop giapponese, da noi per lo più sinonimo di manga, anime, videogiochi o al massimo qualche artista di musica noise. In realtà sottointende una variegata moltitudine di usi, costumi, consumi e subculture di strada, paragonabili a ciò che in occidente é stato il fenomeno dei punks, dei teddy boys, dei rockers, dei mods e via dicendo. Senza buttarmi in accurate descrizioni di tali fenomeni, che già abbondano in libri e riviste, che per lo più con un morboso intento scadalistico dipingono giovani otaku (letteralmente: “la tua casa”, ma in realtà si denominano così giovani soggetti estremamente appassionati di fumetti, anime ecc.) rinchiusi nella loro stanzetta a consumare fumetti, cartoni e videogiochi porno, affetti da autismo sociale (il che in realtà è un raro caso), sottolinerei quanto sia permeante il senso di rifiuto della società, la voglia di parodiare i principi tradizionali e in definitiva, una vita all’insegna del qui e ora. Ragazzine che si vestono alla “kawaii”, traducibile con “carino!”, moda nata intorno al ‘96, che si esprime in uno stile pastelloso, zuccherino ed infantile, sia del vestiario che dell’atteggiamento, gironzolano bighellonando nelle shotengai, le strade commerciali, assieme alle amiche in un mondo di negozi, boutique, fast food con un’aria trasognata, una voce in falsetto che unisce risolini bambineschi a grida infantili appena notano in una vetrina un oggettino carino, un bambolotto, magari di Hello Kitty, completamente inutile se non nella sua “carineria”. Otaku che registrano qualsiasi puntata di anime passi alla televisione, che interiorizzano memorizzando storie personaggi, nomi, date delle loro opere preferite. O anche degli otaku detti “del quartiere di Akihabara (Tokyo)”, impegnati nel battere record su record nelle salagiochi. E che dire delle ganguro, da gan (viso) e guro (nero), ultralampadate, dal modo di vestire e truccarsi stravagante ed eccessivo, il cui stile di vita gravita attorno alle strade, in compagnia di altre simili passano giornate intere a guardare le vetrine, fare shopping, mangiare nei fast-food, truccarsi in continuazione o semplicemente fare una specie di street-watching, osservando Luglio - Agosto 2005 e giudicando stili di altre consimili o di chi comunque passa per le strade commerciali. Ultimamente paiono furoreggiare le gothic lolita, che come dice il nome, si vestono come delle bamboline dal gusto estremamente dark, mutuato da vari fumetti. Certo queste non sono che generalizzazioni (e a volta estremizzazioni), ma bisogna tenere conto che queste tendenze, stigmatizzate e ghettizzate dall’alto, ma in realtà ben accette e “rivitalizzate” dal mercato alla ricerca di nuovi trend, sono una realtà fluida che si muove bene o male attraverso tutti i giovani, e ormai non fanno parte di “tribù metropolitane” come accennano alcuni libri, ma si sono estese e annacquate nella realtà giovanile. L’infantilismo forzato del “kawaii”, che nei soggetti maschili si traduce in un atteggiamenteo di vagheggiata disillusione e amorfismo, é ormai un trend, quasi un canone estetico comportamentale, come da noi é stato (e penso sia ancora) l’atteggiamento cool americano; a differenza del quale il “kawaii” sottointende una non-voglia di crescere, come se fosse un rifiuto del passaggio giovane/adulto menzionato prima. Il look afro-marziano delle gangoru parodia ciò che è l’ideale tradizionale della donna giapponese: pelle candida, dall’atteggiamento composto e tendente a rimanere dentro casa. Gli otaku instaurano con le loro passioni quali fumetti, anime e videogiochi lo stesso rapporto di classificazione, Luglio - Agosto 2005 memorizzazione e accumulo di dati che viene richiesto dal sistema educativo giapponese, con i suoi chilometrici esami con test a scelta multipla. Non sono qua ad affermare (e non lo penso neanche) che queste mode sono una progressista e consapevole forma di protesta verso la società, ma non nego neanche che i vecchi valori siano stati parodiati o reinterpretati dal concetto di asobi, “gioco, divertimento”, che tanto sembra mancare ai giovani, visto nella prospettiva della carriera scolastica menzionata prima. Purtroppo, la mia impressione è che il solo riferimento che ha questo “gioco” è il consumo, che diventa unico ideale di espressione. Ho già scritto in precedenti articoli come al giorno d’oggi il consumo di beni equivale anche ad un consumo di valori. Del giappone si dice spesso che emula ed estremizza, e a ragione si può affermare che il modello americano del consumatore si è ben radicato, senza contare che il consumo interno è uno dei maggiori pilastri dell’economia giapponese, come è deducibile dall’assetto urbano brevemente descritto sopra. In aggiunta, é ormai solo nel consumo che il giovane cerca di affermare una individualità, che contrasta la tradizione che lo vorrebbe integrato e, a sentir loro “despersonalizzato”. E nel realizzare l’anti-salariman, l’impiegato per antonomasia anonimo, grigio e uguale a tutti gli altri, la moda vien loro in aiuto per- FACE UP! mettendo di sfoggiare stili molto più appariscenti di come si possa ritrovare qui in europa o in america, e non solo i vestiti, ma grande importanza viene data ai capelli (che in genere sono tra il carattere più uniformante degli orientali, cioè sono tutti neri) che quasi tutti tingono. Moda ed abbigliamento sono difatti fortemente sentiti, come testimoniano diffuse riviste che oltre a vestiti, scarpe ed accessori scrivono puntando molto su delineare nuovi “trend comportamentali”, e appaiono come un incrocio fra i nostrani Cioé e Cosmopolitan; senza tralasciare il concetto di gruppo e di omologazione-omogeneizzazione, che radicato per millenni, è facilmente riconoscibile nella frenesia che sia ha nel seguire le nuove tendenze, appunto per non sentirsi “estraneo” e/o “fuori gruppo”. In conseguenza a questa tendenza ad una vita dedicata all’hic et nunc, é il folto numero di giovani che scelgono subito di lavorare, e, tra il fatto che al massimo posseggono solo un diploma, e l’esigenza di soldi facili ed immediati, per divertirsi, scelgono l’arubaito, che come detto prima è il part-time, ma sottointende anche precario. Ed è precario anche il loro senso di identità, che traballa tra l’ancora forte fascinazione per l’occidente (per lo più in termini consumistici), le nuove mode in cui ricercarla, che essendo figlie del mercato, sono soggette a mutamenti repentini, e il loro essere di figli di un giappone, di cui però sembrano rinnegare la paternità. Mi ricordo la frase detta da un mio amico giapponese: «Se chiederai ad un giovane se è orgoglioso di essere giapponese, di sicuro di risponderà di sì, anche se in cuor suo lo negherà». Con questo non voglio assolutamente fare di tutta l’erba un fascio, ma può essere uno spunto per leggere quel senso di “deresponsabilizzazione sociale” che sembra aver preso molto piede nella vita dei giovani. Effettivamente c’è una tendenza a rifuggire, o semplicemente ignorare argomenti e problematiche di una certa rilevanza, il proprio futuro, il proprio lavoro, politica e società. E’ indicativo che molti non conoscano il nome del proprio premier, Koizumi Jun’ichiro. Non si consideri però che in questa “bambagia di ignoranza e divertimento” soddisfi e appaghi in toto, altrimenti come spiegare i frequenti suicidi collettivi, e l’incremento di adepti, giovani e non nelle nuove religioni (la più famosa delle quali é la Aum shinrikyo, per l’attentato nella metropolitana di Tokyo nel 1995), se non come segnale di un bisogno di nuovi valori? Non ci è dato sapere se questa “generazione X”, per ora solamente estetica, edonistica ma in fin dei conti fragile sancirà dei cambiamenti in una società che più di tutte è detta “tradizionale”, o sarà solo una fase di postposizione del- Fai da te Punto G. 5 le responsabilità del mondo adulto. Sta il fatto che per ora il loro unico interlocutore è il mercato, e il loro approccio il consumo. Azzardando una semplificazione, direi che in fondo si tratta di un sorda chiusura al dialogo fra due parti, fra una società che nasconde timori, ansie e paure tipici della gioventù accusando anime, videogiochi fumetti e quant’altro, intimoriti da giovani ragazzine che, vestite come lolite, si danno appuntamenti con anziani uomini d’affari, nella speranza di ricavarci i soldi per un accessorio griffato. Invece di ricercare delle cause di questi comportamenti, si scandalizzano additano come colpevole il consumo sfrenato di beni di lusso, sebbene nessuno venga in mente di limitare il numero di riviste che dicono “compra questa borsa o sei out”. Dall’altra sponda c’è chi considera queste riviste la propria bibbia, o chi comunque trova in queste un linguaggio di espressione; altri lasciano i consuenti modelli di socializzazione, e preferiscono creare comunità internet, o scelgono la fumetteria al posto del pub come luogo di ritrovo. Ma ad ogni modo anche il loro è un allontanamento da un mondo sociale, di responsabilità. L’impressione è che ci sia una frattura, che continua ad allargarsi, costringendo a grandi salti chi deve inevitabilmente saltarla, al posto di un qualcosa che manca, oggigiorno, sia di qua che di là, cioè di un dialogo costruttivo e biunivocamente utile fra vecchie e nuove generazioni. Serena Boldrin Stavo seriamente prendendo in considerazione il problema delle vacanze post-diploma e l’unica immagine che si affacciava alla mia mente era quella di una coppia di ragazzi con lo zaino in spalla in attesa del treno che da Venezia li avrebbe portati chissà dove. Una strana carica proveniva dai loro occhi azzurri [sicuramente erano svedesi]: c’era tutto un mondo là dentro, il mondo che essi avevano scoperto insieme viaggiando. Erano dei backpackers, un termine tradotto, con un’accezione negativa, saccopelisti e, da qualche tempo, viaggiatori indipendenti. Ed effettivamente la traduzione italiana rende meglio il concetto: i backpackers [letteralmente persone con lo zaino] non hanno particolari vincoli, sono liberi di stabilire o modificare il loro percorso, di trattenersi più o meno in un luogo e di visitare musei e cattedrali o dedicarsi all’ozio o all’arte di strada in un parco o lungo un viale. Non sono turisti di lusso, sono anzi frequentatori degli ostelli – da sempre i luoghi più economici per dormire e i migliori dove fare nuove conoscenze - e spesso faticano a far quadrare i conti. Ma la loro capacità di adattamento è così sviluppata che ogni imprevisto non può che vivacizzare ancor di più quella splendida avventura chiamata viaggio. Alcuni iniziano dal classico giro ferroviario in Europa con l’Inter Rail, ma i più audaci si spingono anche verso mete più lontane, come le metropoli americane o il deserto marocchino. Ciò che, tuttavia, mi ha colpito maggiormente dei backpackers incontrati lungo il mio percorso è stata l’incredibile facilità con la quale facevano conoscenza con gli altri backpackers, mi sembrava come se, ad unirli, fosse un’intrinseca e naturale solidarietà. Uno svelto scambio di indirizzi e-mail e poi via, verso una nuova meta… e nello zaino solo una certezza: tanto divertimento, passato presente e futuro! 6 Punto G. Racconti Luglio - Agosto 2005 Altra spiaggia, altro mare Alberto Cereser Aereoporto asettico ed anonimo, la mattina presto. In coda per l’imbarco ci si accorge pian piano delle facce intorno: facce strane per i lineamenti diversi, facce di chi lavora come badante, operaio o chissà che a due ore di aereo da casa. Sono le facce che si incontrano ogni giorno sulla rotta Venezia-Bucarest se ci si imbarca su un volo economico, di quelli che si prenotano in rete. Nuvole e poi Bucarest che gradatamente, senza fretta, presenta una vastissima umanità piena zeppa di contrasti, talmente forti da causare un’indigestione, nel caso in cui si aprano troppo gli occhi: automobili Dacia (marca unica sotto il regime comunista, è ancor oggi la più diffusa in Romania) ammaccate e fatiscenti borbottano a fianco di berline tedesche comprate con chissà quale denaro, visto che lo stipendio medio è di 120 euri, e che il costo della vita non è molto più basso che in Italia. Tanto per farsi un’idea, benzina e gasolio hanno lo stesso prezzo che nello Stivale; un pacchetto di Marlboro costa meno di un euro e il mangiare è molto più economico. Ma questo è solo l’inizio. La stazione, o “gara” che dir si voglia, è un misto di ragazze belle di una bellezza nuova e anziani col cappello di paglia, vecchie medaglie appuntate alla camicia ricordano chissà quale passato mentre ventenni in divisa da poliziotti messaggiano assorti, incuranti dei soliti fantasmi con in mano un sacchetto con dentro un po’ di solvente da tirare in caso di necessità, ossia ogni cinque minuti circa. Fuori dalla città i campi di grano e di girasoli si distendono tranquilli, nelle due ore di treno per arrivare a Costanza solo pochi villaggi hanno il coraggio di tirar fuori il capo, qua e là carri trainati da asini o cavalli, vacche al pascolo e roghi di sterpaglie varie. Costanza è il principale porto del Mar Nero, e il suo spirito commerciale permea ogni millimetro quadrato della città, rivelandosi nei bambini di 10 anni che fumano nervosi mentre calcolano il prezzo delle angurie vendute a bordo strada, nelle donne dall’età indefinibile che a qualsiasi ora del giorno e delle notte si vendono al primo offerente, spesso turista, spesso italiano. Buona parte degli uo- mini di Costanza ha viaggiato per mare, e la voglia di un futuro diverso, di una vita migliore è tanta. Perché dietro alla città ricca, dietro al bellissimo mare di Mamaya, buffa sintesi tra Jesolo e Gardaland, ci sono abusi quasi quotidiani sui più piccoli, famiglie che vivono sotto un telo di nylon, bambini abituati a vivere da soli mentre i genitori sono all’estero a lavorare. Appena fuori dalla città ( i pulmini-taxi da 20 posti offrono un servizio economico ed abbastanza capillare) la scena cambia di nuovo, catapultando in una dimensione temporale indefinita, in cui parabole satellitari, mucche macellate all’aperto ed onnipresenti carte di pacchetti di patatine si mescolano senza nessun problema. Ecco i villaggi in cui i presidi usano la pompetta della scuola per bagnare i propri campi racchiusi dalle strade di terra battuta, amiche di cani alquanto spelacchiati. E gli occhi splendenti dei bambini, che si accendono ad ogni minimo pallone, mentre continua ad imperversare la folle estate rumena. WOP in Dublin Elisabetta Sillian E’ forte il lamento dei gabbiani, mi accompagna nel risveglio. Una nota di malinconia mi pervade. Vedo avanti a me un dipinto che troppe volte ho trovato appeso davanti alla finestra: una distesa uniforme di grigio perlato. Il cielo è bello, il cielo è luminoso, il cielo è terribilmente capace di scavarti dentro. Non posso nascondermi, non posso mentire. Dublino è grigia. La strada è affollata. L’andamento ricorda Venezia nei giorni che precedono il Martedì Grasso. Sorrido. Qui mancano i colori, mancano i sorrisi, la gente cammina inespressiva per la sua via, è sola, incurante di ciò che le sta intorno. La gente si scontra, si urta. Echeggiano troppi “sorry”, ma nessun “hello”. Dublino è fredda. Il pub è gremito di persone con la famosa pinta di birra nera in mano. Gli uomini cantano canzoni tradizionali a voce alta accompagnati da esperti suonatori. Altri ci provano, ma l’alcool nel sangue li mette in seria difficol- tà. Nessuno pare rendersene conto, o non lo danno a vedere..o più semplicemente è normale. I volti sono allegri, sono felici, parlano di sé, si aprono agli altri. Dublino è ubriaca. Dublino è viva.