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RIVISTA DI STUDI ITALIANI
CONTRIBUTI
JOYCE E FOSCOLO:
L’IO POETICO E L’IO FRAMMENTATO NEL MOMENTO MISTERICO
FOSCOLIANO
COSIMO STIFANI
Toronto, Ontario
N
el Portrait of the Artist as a Young Man, il lettore partecipa alla
creazione di una poesia in cui tutte le ansie dell’io esistenziale di Stephen
Dedalus, personaggio principale del romanzo, sono sublimate nel
momento creativo e misterico della poiesi, del fare, nel creare; e l’artista, come
scrive Joyce, “like the God of creation, remains within or behind or beyond or
above his handiwork invisible, refined out of existence, indifferent, paring his
fingernails”. (Joyce, Portrait, p. 215)
Questo fenomeno, secondo Dedalus, è la fase finale del momento estetico
concesso soltanto al poeta, all’artista “when the esthetic image is first conceived
in his imagination” (Joyce, Portrait, p. 213). È una variante, questa, che
riscontriamo in numerosi poeti romantici inglesi, e non solo: ad esempio, il
creative moment di Shelley, come pure il momento misterico di Foscolo, e il
mysterious moment di Joyce (Portrait, p. 213), sono tutti frammenti di una realtà
che non esula dal suo momento storico e affondano le loro radici in alcune opere
di Thomas Gray (1716-1771), sul quale ci soffermeremo più distesamente nel
prosieguo del presente saggio.
Ma prima di tutto occorre fare qualche breve considerazione sulle premesse
estetiche di Joyce. Come Foscolo, Joyce inizia la sua carriera letteraria con un
romanzo autobiografico – il Portrait, per l’appunto. Secondo la poetica del
giovane Dedalus, in questo suo primo tentativo letterario, che si svolse, com’è
noto, in un clima di grandi riassestamenti economici e sociali europei, l’arte si
presenta come la sola alternativa, l’unico corso percorribile, per sublimare la sua
ricerca esistenziale. Infatti, né il fervido nazionalismo irlandese, né, tantomeno,
le continue diatribe sul popolo “vivo-morto” (il nesso di fondo dei Dubliners)
hanno un significato per Dedalus, ormai determinato ad intraprendere il viaggio
della vita per incontrare “for the millionth time the reality of experience and to
forge in the smithy of my soul the uncreated conscience of my race” (Portrait, p.
253).
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Ma la realtà dell’esperienza estetica di Joyce è il viaggio solitario dell’uomo che
cerca disperatamente di scoprire se stesso nell’intimità della sua vocazione
letteraria. Il mondo oggettivo, dilaniato e frantumato, del periodo storico joyciano
è recuperato indirettamente dal momento estetico dell’artista – in un’odissea
solitaria e tormentata dove l’io artistico osserva l’io temporale, storico, proprio
come un Dio distaccato, appunto, “paring his fingernails”.
Ma se per Joyce ci può essere un distacco estetico tra l’io temporale (oggettivo,
storico) e l’io poetico, per Foscolo questo distacco è quanto mai inammissibile
perché il momento estetico foscoliano è il punto d’incontro che congiunge l’uno e
l’altro, e cioè l’io temporale (frantumato dagli eventi storici) e l’io
artistico/estetico (frammentato dalla partecipazione al momento storico). Sia
Joyce che Foscolo scompongono il momento creativo in tre stadi1, ma entrambi
pongono l’artista come punto focale su cui convergono questi tre momenti
creativi: Joyce lo chiama “the whatness of a thing” (Portrait, p. 213) o quidditas,
secondo il termine usato da San Tommaso; Foscolo invece lo definisce come
l’Ideale che comprende l’Arte (e quindi la natura, il mondo oggettivo) e il
momento geniale, estetico (e quindi poietico) dell’artista. Secondo le premesse
joyciane l’artista può distanziarsi dal magma caotico del mondo oggettivo e
cogliere in quel “enchantment of the heart”, che è la sintesi dell’integritas,
consonantia e claritas, il momento creativo dell’artista; mentre per Foscolo il
Genio dell’artista
coglie l’Ideale, indovinando, radunando, e distribuendo sopra un solo oggetto,
con le stesse leggi e con la stessa spontaneità della natura, le varietà ch’ella ha
sparso sopra diversi oggetti, o che ella avrebbe potuto creare e spargere onde
rendere più belle le opere sue. (EN, Foscolo, Vol. 4, p. 509)
In tal modo, il momento estetico foscoliano precluderà ogni disgiunzione tra
l’io oggettivo e l’io soggettivo, perché l’arte non ha come unico obiettivo il
momento estetico ma anche il mondo oggettivo, ossia il luogo dove l’io si
esperisce e si concretizza. Per dirla nuovamente con Foscolo, “l’Ideale
scompagnato dal Vero [cioè dall’Arte che imita la natura] non è che o
stranamente fantastico, o metafisicamente raffinato; ma senza l’Ideale, ogni
imitazione del Vero riescirà sempre volgare” (EN, Vol. 4, p. 509). Come si vede,
anche se il momento estetico foscoliano parte da premesse analoghe a quelle del
1
Per la posizione di Joyce, Portrait of the Artist as a Young Man, pp. 211-23;
per Foscolo, EN, Vol. 4, pp. 509-10; di Foscolo andrebbe letta anche la Notizia
bibliografica intorno alle Ultime lettere di Jacopo Ortis, pp. 479-541, nonché la
lettera al Bartholdy del 1808, in EN, Vol. 4, pp. 543-49.
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momento estetico joyciano, e cioè, dal fatto che il poeta costituisce il centro della
creazione artistica, il punto di arrivo di questi due momenti saranno
inevitabilmente diversi: se in Joyce siamo davanti all’assenza assoluta dell’io
temporale dal momento creativo, in Foscolo invece c’è un incontestabile
intercalarsi dell’io esistenziale nell’io storico. In altri termini, mentre Joyce si
rinchiude nel suo momento estetico come entità assoluta e abbandona l’io storico
nel miasma degli eventi temporali per riassorbirlo poi indirettamente nell’ambito
del quotidiano (il presunto inconscio freudiano), l’io frammentato
(artistico/estetico) del Foscolo altro percorso non avrà se non quello di esperirsi
nell’io frantumato (storico/temporale), formando così la base per accrescere,
attraverso la sua artistica armonia (la consonantia joyciana), la natura e la storia.
Dal quadro formativo di questi due scrittori, oltre al parallelismo dei loro
romanzi fortemente autobiografici, risulta abbastanza chiaro che il momento
misterico foscoliano e il mysterious instant di Joyce siano ambedue improntati,
come abbiamo già accennato, alla nuova poesia inaugurata da Thomas Gray.
Infatti, Joyce nel descrivere il suo mysterious instant fa ricorso ad un’immagine
di Shelley per illustrare quest’aspetto della sua poetica, essendo quest’ultimo uno
dei più celebri conoscitori della poesia di Gray. E Gray, la cui opera letteraria
comprende meno di mille versi, è – come si sa – l’autore dell’inimitabile Elegy e
delle due odi pindariche, The Progress of Poesy (1757) e The Bard (1757), che
tanto colpirono i letterati europei dell’eopoca, incluso naturalmente Foscolo, che
fu tra i maggiori estimatori in Italia del settecentista inglese2.
Della traduzione berchettiana del Bardo (1807) in endecasillabi sciolti,
2
La critica ha dato molto più spazio all’Elegy che alle due odi pindariche di
questo eccentrico erudito inglese che voleva essere ricordato nella letteratura non
come poeta elegiaco ma piuttosto come continuatore dello stile pindarico. The
Progress of Poesy e The Bard, secondo i critici, sono due odi inimitabili. Il
Cesarotti aveva tradotto nel 1772 l’Elegy, quindi, si potrebbe desumere che le
due odi fossero ben conosciute in Italia.
Se il Foscolo si esprime in questi termini sul Bardo nella traduzione berchettiana,
crediamo che deve essere stato a conoscenza delle due odi, e quindi della poesia
del Gray. Non a caso il Foscolo ebbe a dire che la traduzione del Bardo,
pubblicata dal Berchet nel 1807, era servita ad addomesticare gli italiani alla
“lirica sublime” (Mineo, p. 366) di Gray; ma anche lui, il Foscolo poeta, l’artista
vero, più che imitare, aveva perfettamente assimilato, alcune caratteristiche del
Bardo grayano.
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Foscolo ebbe a dire che l’intento del Berchet era stato un ottimo esercizio per
“addomesticare gli italiani con questo esemplare di lirica sublime” (Mineo, p.
366); e giustamente non ebbe elogi per il miserrimo Bardo di Vincenzo Monti,
pubblicato nel 1806, in cui l’autore della Bassvilliana emerge per quello che
realmente era: un poetucolo ed un lacché dei cortigiani. Foscolo aveva visto bene
che il Bardo di Monti era soltanto una brutta copia – e di cattivo gusto – del
Bardo di Gray. D’altronde, sarebbe stato inverosimile per uno come Foscolo, così
imbevuto di cultura classica, reagire diversamente nei confronti di un poeta come
Gray, che riesce a fondere perfettamente nel tessuto storico del suo tempo le
Muse dell’antica Grecia3. Anzi, chi avrebbe potuto stimare più di Foscolo la
poesia di Gray, se non uno, come lui, nato, per l’appunto, nel “greco mar”? E chi
poteva apprezzare un’ode pindarica trascritta in lingua inglese come The Bard se
non un altro poeta come Foscolo che studia da autodidatta il greco antico, scrive
in latino e verseggia in lingua moderna le muse dell’antica Aliconia? Ciò che
Foscolo avrà sicuramente ammirato nella poesia di Gray – a parte la sua
erudizione e la sua forza stilistica – è l’immagine di un poeta che riesce a
congiungere non solo il passato e presente, ma anche il presente e futuro: “I felt
myself the Bard”, scrive Gray4.
3
L’ode del Gray The Progress of Poesy ha in comune, con la poesia foscolania,
il ‘viaggiare’ delle muse. In quest’ode, infatti, le muse vanno dal Parnaso al
‘Latium’ (Roma imperiale) e poi arrivano in Inghilterra. Altro riscontro
interessante è che l’ambiente della Roma imperiale non è congeniale al loro
gusto.
Riportiamo i versi del Gray:
Till the sad Nine, in Greece’s evil hour,
Left their Parnassus for the Latian plains.
Alike they scorn the pomp of tyrant Power,
And coward Vice, that revels in her chains.
When Latium had her lofty spirit lost,
They sought, O Albion! next thy sea-encircled coast.
(Gray, The Progress of Poesy, vv.77-83)
È indubbio che il Foscolo sia in sintonia non soltanto con l’avversità alla
tirannide dei Romani (usurpatori, come commentò nell’Ortis), ma anche con
l’itinerario delle Muse.
4
Alcune osservazioni sull’Elegy di Gray e I Sepolcri di Foscolo. Come
contenuto i due poemi non hanno niente in comune; tuttavia, credo che si possa
fare una lettura del Bardo come poema introduttivo a I Sepolcri. Infatti nei due
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L’esordiente Joyce si lamentava della mentalità isolana degli irlandesi; anche
l’emergente Foscolo si sentiva crucciato dagli angusti e artificiosi confini del
paese e dalla gretta e chiusa mentalità dei suoi connazionali. Ma Foscolo non è
soltanto un fenomeno della cultura italiana, della quale non condivide né le forme
restrittive né, tantomeno, l’atteggiamento pedantesco dei dotti del suo tempo.
Foscolo è un autoditatta degli ultimi decenni del secolo dei lumi (con cui
condivide il profondo amore disinteressato per la conoscenza) e un fervido
propugnatore delle premesse rivoluzionarie che avevano demolito l’ancien
regime. Data la preparazione classicheggiante (tra l’altro sempre presente nella
cultura italiana e tanto ammirata dalla emergente fascia intellettuale della
borghesia terriera-commerciale inglese) di Foscolo, non c’è da stupirsi se le sue
idee sulla poesia e sulla politica siano fortemente condizionate da spinte spesso
contrastanti e persino contraddittorie. Se da un lato c’è l’artista in cerca di nuove
dinamiche culturali come quelle provenienti dai paesi d’oltralpe, dall’altro si
avverte un intellettuale ancora psicologicamente legato al contesto storico-sociale
della sua generazione. Foscolo non riuscì mai ad evitare lo scontro tra queste due
realtà. Sul piano politico le idee promulgate nell’Europa del nord non potevano
trovare un terreno fertile in un’Italia completamente spezzettata e priva di ogni
accentramento economico. Sul piano letterario le accademie, che in Italia
avevano fatto una loro prima apparizione verso la metà del Cinquecento, quando
già si annunciava un imminente declino economico e il successivo declassamento
della penisola a paese da terzo mondo (Cipolla, pp. 253-63) alla fine del
Settecento, assumono la funzione di protettrici della cultura dei piccoli principati
che dipendono totalmente dal gettito fiscale delle imposte e da un’economia
dettata dalle derrate alimentari.
L’Italia del Sette-Ottocento era a tutti gli effetti un paese arretrato5, sia dal
poemi esiste il nesso passato-presente-futuro, e sia nell’ode di Gray che nei
Sepolcri (un carme) prevale la liricità del componimento, il vaticinio, la profezia
e l’incantesimo.
Mi sembra che Foscolo prima scrive e poi teorizza; Gray invece prosegue
all’inverso, e cioè prima teorizza e poi scrive. The Progress of Poesy sarebbe la
poetica e il Bardo l’applicazione della poetica. Foscolo teorizza con Le Grazie
ma aveva già esposto i suoi concetti nei Sepolcri. Mi sembra che questo sia il
loro metodo. Foscolo, come Gray, è coerente col suo sistema di comporre.
Altro punto d’incontro: sia il Bardo che I Sepolcri elevano il poeta a
personaggio metastorico, e, quindi, per riflesso, anche il componimento diventa
metastoria.
5
La dinamica economico-commerciale del Rinascimento aveva spinto la
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punto di vista economico che sociale: gli uomini illustri che si dedicano alle
scienze e alla cultura non hanno una struttura socio- economica recettiva per
sfruttare le loro idee, nonostante il fatto che alcuni antichissimi atenei, come
l’università di Bologna e l’università di Padova, continuassero ad essere centri di
saperi di levatura europea. Le scoperte scientifiche sul territorio peninsulare sono
molto limitate, e quelle che mirano ad uno sviluppo commerciale inesistenti.
Galvani, Volta, Spallanzani fanno delle scoperte importanti ma non trovano un
terreno fertile per le loro invenzioni; di fatto, la ricerca scientifica si era trasferita
al nord Europa, dove si era spostata la sfera del commercio e dove nascerà la
rivoluzione industriale – nel 1780 in Inghilterra e verso il 1829 in Francia
(Trebilcock, p. 429). L’interesse degli stati italiani è rivolto ad un miglioramento
della produttività agricola, il cui apparato produttivo manca di capitale e di
innnovazione. Nel 1753 nasce a Firenze l’Accademia dei Gergofili, il cui
obiettivo è di incrementare la produttività delle campagne; ma l’agricoltura
italiana, secondo lo storico J. Roberts, “cannot, as a practical fact, be treated as a
single food-producing industry” (Roberts, p. 383). E il pensiero dei grandi
riformatori – Palmieri, Filangieri, Verri, Beccaria, Galiani e Carli – è, in ultima
istanza, diretto verso un consolidamento del potere dei piccoli principati italiani:
It is not a paradox – conclude lo storiografo Roberts – that the reformers also
wanted to strengthen the powers of their states. Confident of the success of
the policies they wanted government to carry out, they everywhere sought to
concentrate state power and improve its machinery. Obstacles to the
sovereignty of the prince were to be weeded out...[and] almost everywhere,
reform followed the need for revenue. (Roberts, pp. 387-88)
Il paesagggio culturale ed economico degli anni giovanili foscoliani è
popolazione della penisola ad acculturarsi, indice questo del binomio vincente
commercio/cultura. Infatti c’è un calo cospicuo nell’acculturazione globale del
paese nel periodo successivo che incomincia a registrare uno spostamento del
commercio verso i paesi del nord Europa. L’economia italiana durante questo
periodo si sposta dal settore della ‘manifattura’ (stoffe e broccato) e del
commercio, a quello dell’agricoltura e dell’apparato burocratico. Nasce un
baratro profondo fra la moltitudine e le classi acculturate. È pur vero che ci sono
accademie ed università, ma il binomio vincente del Rinascimento italiano era
stato il commercio e la cultura, e, quindi, con l’agricoltura come forza trainante, i
centri culturali sotto l’aspetto scientifico finiscono nel dilettantismo più assoluto.
Nel sei-settecento il contributo della penisola alle scoperte scientifiche è molto
esiguo, ed inesistente nell’ambito delle attività commerciali.
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condizionato dalla perenne legge economica che prevale sul territorio italiano. La
pubblicazione delle Ultime Lettere di Jacopo Ortis (1798) del giovane Foscolo,
romanzo epistolare che deve la sua forma narrativa ad ambienti letterari europei,
non sempre suscitò tra gli italiani la ricezione che ci si sarebbe aspettata. Per una
piccola percentuale della popolazione italiana6 identificarsi con il protagonista del
romanzo, Jacopo Ortis, non fu facile, tanto per usare un eufemismo. Per questi
lettori, Jacopo passava più per un eccentrico gentleman inglese che per un
rivoluzionario italiano. L’immagine del più celebre personaggio foscoliano che si
voleva propagare in questi ambienti veniva invece recepita come puro spettro
solitario, capace solo di ruminare pensieri sul passato e sempre pronto a lunghe
elucubrazioni suicide, come vediamo sin dalle prime battute di Jacopo:
6
In questo periodo i ceti culturali in Italia sono la nobiltà terriera e l’apparato
burocratico; ed entrambi costituiscono una piccola percentuale della
popolazione, se i dati del 1861 possono darci un indizio su come deve essere
stata la situazione in Italia all’inizio dell’Ottocento. Infatti, all’unificazione della
penisola si riscontra che soltanto il 2-3% della popolazione parla l’italiano (De
Mauro, p. 43) e che l’80% è analfabeta – nel meridione si toccano punte del
90%.
A tutto ciò si sommano altri fattori: la mancanza di una predispozione mentale
(ed anche di una unificazione territoriale) per prendere atto dei nuovi risvolti
economici e commerciali. Insomma non esiste un linguaggio e una cultura
unitaria con cui la maggioranza della popolazione può identificarsi; verso la
fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento l’Italia deve essere stata veramente
in condizioni penose sotto l’aspetto culturale. Già nei primi decenni del
Seicento i riassestamenti economici (cioè da attività commerciali ad attività
agricole) precludono ogni possibilità di cultura del collettivo: ritornando nelle
campagne, oppure adattandosi alla nuova struttura della città, la maggioranza
della popolazione o è alienata, (i centri rurali) oppure è esclusa (i centri urbani).
Per avere un’idea dell’entità del decadimento culturale in Italia bisogna leggere
le varie inchieste che furono fatte subito dopo l’unificazione del paese da
intellettuali come Franchetti, Sonnino, Zanardelli, Romilli, i quali non erano
certamente dei rivoluzionari. Infatti, anche loro, come gli illuminati del
Settecento, propongono delle riforme: la ridistribuzione dei feudi papali.
L’Italia pre-industriale – e il sorpasso avviene soltanto nel 1960 – rimane
sempre ancorata nei modi di produzione delle derrate agrarie.
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Il sacrificio della patria nostra è consumato; tutto è perduto; e la vita,
seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre
sciagure e la nostra infamia. (Ultime lettere di Jacopo Ortis, Muscetta, p.
7)
Dunque, morire per la “patria”7 e per il mancato affetto di una giovane fanciulla
che mette in primo piano i suoi sentimenti e poi gli interessi della proprietà, era
considerato da coloro che si identificavano con il valore assoluto della terra8, un
gesto troppo astratto e inverosimile per essere credibile e condiviso. È chiaro che
qui siamo davanti ad una ricezione diametralmente opposta a quella di un
ideologo come Mazzini, tanto per fare l’esempio più eclatante. Ma Foscolo –
senza volerlo – mette in evidenza, con i personaggi di Teresa e del Signor T, le
prevalenti strutture sociali del suo tempo, cosa che si evince direttamente dal
tessuto narrativo del romanzo: una società la cui raison d’etre è la proprietà come
valore totalizzante. Col suo rifiuto di Edoardo, Teresa rinuncia non solo ad
un’idea di proprietà convenzionale capace di determinare lo status sociale della
persona, ma allo stesso tempo mira a riaffermare che le ragioni del cuore non
vanno sacrificate alle ragioni della politica. L’osservazione del Signor T: “O
figlia mia, tu vuoi dunque precipitare teco noi tutti?”(Ortis, Muscetta, p. 83) e
quel “Non posso essere vostra mai” (Ortis, Muscetta, p. 69) che Teresa aveva
rivolto a Edoardo, mettono in evidenza non tanto la sincerità o la “virtù” della
giovane donna, anche se Foscolo insiste sull’integrità morale della donna e sulle
simpatie rivoluzionarie del padre, quanto la volontà del Signor T di farsi
promotore di una ideologia della classe dominante.
Le passioni di Jacopo sono solo la crosta dell’opera, che lo scrittore cambia
aggiungendovi una pennellata qua e là man mano che le varie edizioni venivano
ristampate. Foscolo rimaneggia spesso il testo quando si accorge che il pubblico
stava oramai lentamente cambiando, anche se agli inizi dell’opera sembra che
avesse una coscienza non superficiale dell’irreconciabilità tra il mondo dei
7
Il Foscolo maturo sembra più realista. Nella lezione XIV delle Epoche della
lingua italiana, conclude che “li (sic) Italiani avranno poesia, ma non avranno
più storia, prché l’Italia non è abitata da una nazione” (EN, Vol. 11.1, p. 264).
8
La “sacerdotessa di Venere” (Gavazzeni, p. 550), cioè l’iniziatrice agli
amori giovanili del Foscolo, Isabella Teotochi Albrizzi (1780-1836), come
anche la Pallavicini (1772-1841), erano donne che non si sarebbero lasciate
abbindolare dalle passioni come Teresa. Questi personaggi storici che fanno
parte della vita del poeta, mettono in evidenza l’abisso che esiste tra ideologia
visionaria e realtà del quotidiano.
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sentimenti e i valori che informano il concetto di proprietà9. L’Albrizzi, donna
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Si è parlato tanto dell’influenza del pensiero vichiano sull’opera foscoliana.
Tuttavia, una lettura del romanzo giovanile, come viene proposta in questo
saggio, rivendica l’inconscia intuizione foscoliana che tutte le discordie sociali
nascono dall’inalienabile diritto della proprietà. Anche Vico aveva intuito che
l’espansione dei Romani era stata un continuo accrescimento del proprio
territorio; ma egli è anche convinto che l’apparato legislativo, creato dai Romani,
aveva dato ordine (secondo lui civiltà) alle nazioni barbare (La Provvidenza,
spostata su un piano superiore, avrà la stessa funzione.)
Quando Foscolo maturo ritorna sull’argomento la sua posizione è molto più
enfatica e irreversibile. Ma se Vico propone le leggi come grandi livellatrici il
Foscolo invece sostiene che la concordia deve nascere dalla “precisa
comunicazione d’idèe”, e questa è una posizione completamente diversa da
quella vichiana. Riportiamo per intero il famoso passaggio della prolusione
patavina:
Or questo bisogno di comunicare il pensiero e’ inerente alla natura dell’uomo,
animale essenzialmente usurpatore, essenzialmente sociale: pero’ ch’ei tende
progressivamente ad arrogarsi e quanto gli giova e quanto potrebbe giovargli;
all’uso presente aggiunge l’uso futuro e perpetuo, quindi la proprietà e la
disuguaglianza: ne’ vi poteva a principio essere proprietà perpetua di cose utili
agli altri, senza usurpazione; ne’ progresso d’usurpazione, senza violenza ed
offesa; ne’ difesa contro a pochi forti, senza società di molti deboli; ne’ lunga
concordia di società, senza precisa comunicazione d’idee. (EN, Vol 7, pp. 8-9)
Foscolo sembra voler sostenere che l’uso futuro e perpetuo della proprietà porti
alla “noia e l’avidità” (EN, vol 7, p.9) la quale può essere mitigata dalla
comunicazione delle idee, cioè dalla poesia. Da questa angolatura l’opera
foscoliana diventa un iter letterario il cui compimento deve essere il carme delle
Grazie; espressione poetica del sublime che si concretizza nella storia, con la
precisa comunicazione delle idee. Il momento creativo, sia esso poetico o
letterario, costituisce un momento gnoseologico, e quindi elemento intrinseco
dell’uomo. Questa forse è l’ostinata insistenza foscoliana della necessitàà della
poesia educatrice nella vita dell’uomo. La poesia non soltanto adorna l’uomo sul
piano estetico, ma lo rende anche sapiente.
È interessante notare che uno studioso come Giorgio Colli sostiene che la nascita
della filosofia è dovuta ai poeti e non ai fisici (Sapienza greca, Vol. I).
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bellissima e intelligente quanto mai pratica, deve avergli fatto capire che nella
società si “ama” innanzitutto per bisogno, poi per dovere o per capriccio, ed
infine per compassione (Gavazzeni, p. 554). Il sedicenne Foscolo avrà
sicuramente intuito il significato di questa verità diatimea, se si tiene presente che
l’Albrizzi, ovvero la Contessa Isabella Teotochi Albrizzi, a cui egli accenna nei
frammenti del romanzo autobiografico (Gavazzeni, pp. 550-55), è una donna di
34 anni e, quindi, conoscitrice della società, così come viene descritta nell’Ortis.
Otto anni dopo, in una lettera del 1802, indirizzata ad Antonietta Fagnani Arese,
il Foscolo-Ortis si esprime in questi termini:
Gli amori non possono essere eterni: questo favore se lo sono riserbato i numi
[...] ma quando le rose dell’amore si sono appassite, la divina amicizia le deve
accogliere, e respirarne la fragranza. (Varese, p. 42)
A cavallo tra i ventiquattro e i venticinque anni sembra che, ormai navigato e
maturo sotto l’aspetto sociale, Foscolo abbia appreso la sua lezione. Resta poi da
determinare cosa intenda per ‘divina amicizia’ (eufemismo poetico?), lui che di
fragranza femminile era gran conoscitore, ma senza i dovuti oneri sociali, come il
sostentamento. Sia l’Albrizzi che la Fagnani Arese erano donne della borghesia
terriera; ed anche la Donna Gentile, la Mocenni-Magiotti (colei che sarà l’amante,
la madre, l’amica e sorella di Foscolo) si unisce in matrimonio – non è chiaro se
per compassione o per interesse – con il demente Ferdinando Magiotti per essere
l’amministratirce e tutrice del marito e, ovviamente, dei di lui beni. E non va
dimenticato che anche la bellissima Isabella Teotochi, pure lei di origine greca, a
diciassette anni fu data in sposa al capitano di galere della Serenissima, Carlo
Antonio Marin (molto più anziano di lei), che dovutamente divorzia per andare
nuovamente a nozze con il nobile Inquisitore di Stato, Giuseppe Albrizzi, e
quindi con dovuto ingresso nella nobiltà terriera col titolo di Contessa Isabella
Teotochi Albrizzi.
Entro certi limiti Jacopo Ortis è un visionario influenzato dalle correnti
letterarie del nord Europa10, un prodotto della piccola borghesia terriera imbevuto
10
Melchiore Cesarotti (1730-1808) aveva dato alle stampe la prima traduzione
dall’inglese dei Canti di Ossian nel 1763, e nel 1772 una traduzione dell’Elegy
di Thomas Gray (Gavazzeni, p. 545, nota No. 5). Nel 1796 Foscolo segue le sue
lezioni all’università di Padova e si lega in una certa amicizia col docente ed
alcuni suoi studenti simpatizzanti dei nuovi risvolti politici rivoluzionari. È
possibile che l’amore del docente per la lingua e la letteratura inglese, molto in
voga e tradotta nel Sette-Ottocento, sia sfuggito al giovane aspirante poeta, al
Foscolo, senza creargli un pungolo di curiosità per cercare nell’originale la novità
stilistica del Gray delle odi pindariche che lo avevano reso famoso nei circoli
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di ideali rivoluzionari in una società che richiedeva soltanto delle riforme. I
sentimenti di un amore disinteressato, di stampo nord-europeo, non possono
entrare negli schemi di una società ancorata in una misera industria delle derrate
alimentari; questo sarà il privilegio delle classi industrializzate, le quali, come
avviene in Inghilterra, associano alle loro attività commmerciali quelle di
proprietari terrieri11. Foscolo in questo romanzo ci presenta dei valori che, come
abbiamo cercato di mettere in evidenza, non sono reperibili nel tessuto della
letterari europei?
Tuttavia, resta da precisare se il Foscolo avesse di già una certa dimestichezza
con la lingua inglese, e quindi una conoscenza indiretta dell’opera di Thomas
Gray. Il Gavazzeni, a p. 541 del Vol. I dell’edizione Ricciardi, sostiene che nel
1800 il Foscolo fosse a conoscenza soltanto della lingua francese. Ma a pagina
555 dello steso volume cita un passaggio in inglese tratto dal Tristram Shandy
molto vicino al testo foscoliano. Foscolo, forse, per dimostrare la sua erudizione,
lascia che il lettore ne deduca la provenienza. Se questi frammenti autobiografici
sono stati scritti tra il 1799-1800, allora il passaggio attesta che Foscolo deve aver
avuto una certa dimestichezza con la lingua inglese. Tradurre Stern non è poi
tanto facile (impresa che Foscolo compirà dopo) se non si ha un’ottima
conoscenza dell’idioma inglese. Riportiamo il testo foscoliano e l’originale
inglese citato a piè di pagina:
Io scrivo... e ogni lettera ch’io traccio m’avvisa che la vita siegue con pari rapidità
la mia penna. Il tempo vola e divora il creato. Passano l’ore simili alle nuvole
cacciate dagli aquiloni. Tutto cangia, tutto si perde quaggiù... tutto! Quelle treccie
che con tanta cura conservi (?)... vedi vedi! ti biancheggiano fra le dita. Ogni
bacio ogni addio è il preludio di quella eterna separazione che ci aspetta!
Time wastes too fast: every letter I trace tells me with what rapidity Life follows
my pen; the days and hours of it,... are flying over our heads like light clouds of a
windy day never to return more -every thing presses on- whilst you are twisting
that lock,- see! it grows grey; and every time I kiss thy hand to bid adieu, and
every absence which follows it, are preludes to that eternal separation which we
are shortly to make. (Gavazzeni, pp. 555-56)
11
Lo studioso inglese K. Hopkins ha messo in risalto che nell’Inghilterra del
primo Ottocento, la proprietà è ancora il metro che determina la ricchezza.
(Hopkins, p. 52-53).
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COSIMO STIFANI
società italiana. L’originalità dell’opera, e quindi la sua novità letteraria, va
cercata nella visione artistica foscoliana; in quella visione che tenta un innesto a
spacco su un ceppo sociale marcio e decrepito con una gemma vigorosa e
verdeggiante tolta da quell’albero culturale che aveva apportato un rinnovamento
nella letteratura e nella società europea. Nell’interpretare la letteratura europea (e
qui si potrebbe ampliare il discorso ed esplorare tutta l’opera foscoliana in un
contesto globale e inclusivo della letteratura europea, attività a cui Foscolo
volgerà la sua attenzione in età matura come critico letterario), Foscolo dà alla
letteratura italiana il primo vero romanzo della nostra narrativa; romanzo che si
cala in senso verticale nella storia del territorio italiano (evitiamo sempre il
sostantivo patria perché il termine implica delle aberrazioni politiche
risorgimentali assimilate dai critici italiani) malgrado sia impostato su una
struttura sociale contraddittoria. Insomma, vi è poca concordanza con l’esordio
dell’opera foscoliana, anche se i critici frugano disperatamente nell’opera
giovanile del Foscolo per cercare un filo conduttore per ricucire l’iter poetico
foscoliano con l’oggettività storica.
La critica molto spesso punta sulle concordanze di un’opera letteraria e quasi
mai sulle dissonanze. Proponendo una lettura dell’Ortis da quest’ultima
angolatura, oltre a mettere in evidenza l’originalità del giovanissimo autore, si
mette in risalto anche la dimensione europea dell’opera foscoliana. Infatti non
deve stupire la ricezione favorevole che l’Ortis ebbe nel nord Europa; e se il
lavoro piacque molto alle nuove leve dovette piacere molto meno, o per nulla,
(come avvenne) agli accademici. L’Ortis è il crogiolo in cui viene fuso il
momento storico (e in parte estetico) della prima fase letteraria foscoliana. In
questa operetta, come la definì l’autore stesso nella sua corrispondenza (lettera a
Goethe; Milano 16 gennaio 1802), “cerchi l’uomo e trovi il poeta”; e il momento
in cui credi di aver individuato il poeta ti accorgi di conversare con l’uomo. Il
Foscolo dell’Ortis nel trascrivere tutto quello che aveva assimilato sul piano
sociale, letterario ed estetico12, crea il primo grande personaggio della narrativa
italiana. In questo romanzo non ci sono i languidi umori di un Werther nord
europeo, o quell’attegiamento di distacco del gentleman che vive di rendita, di
quell’annuity tanto elogiata da Jane Austin: “An annuity is a serious business; it
comes over and over every year, and there is no getting rid of it” (Sense and
Sensibility, 1811). Jacopo Ortis prorompe sulla scena con una forte carica
passionale e fragorosa come le onde del “greco mar” tanto caro a Foscolo.
La rottura che esiste nel romanzo (e nella propria vita) si tenta di superare con il
12
L’Ortis puo essere anche letto come il ricettacolo della preparazione eclettica
foscoliana, e quindi come primo tentativo, come abbiamo cercato di far presente
nella prima parte del saggio, dell’iter foscoliano.
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JOYCE E FOSCOLO:
L’IO POETICO E L’IO FRAMMENTATO NEL MOMENTO MISTERICO
FOSCOLIANO
momento creativo dell’artista; ma il protagonista dell’opera, secondo la nostra
analisi, non è all’altezza del compito perché gli ideali di onore, patria e virtù di
Jacopo non sono condivisibili in un mondo conflittuale e frantumato come il suo.
Ortis-Foscolo in questo stadio embrionale è il Bardo alla ricerca del nesso che
congiunge l’io frantumato (l’io oggettivo, storico) con l’io frammentato (l’io
esistenziale, poetico); ma prima di raggiungere questa sintesi deve riconoscere
l’esitenza frammentaria dell’io poetico.
Il Foscolo ventenne, quindi, apprende una scottante verità: che il mondo
oggettivo è dominato da istituzioni sociali conflittuali e che le virtù dell’uomo
sono molto limitate. Il trattato di Campoformio lo inducono a capire che virtù e
potenza sono insociabili. Nella dedica A Bonaparte liberatore Foscolo si esprime
in questi termini: “[...] t’invierò un consiglio, che essendo da te liberamente
accolto, mostrerai che non sono sempre insociabili virtù e potenza” (EN, Vol. 2,
p. 332) e che i grandi popoli conquistatori sono degli usurpatori – “Romani
ladroni del mondo” (Ortis, Muscetta, p. 12). A questo punto le scelte sono due: o
il suicidio o la ricerca dell’io. La prima non è certamente la soluzione migliore, e
il Foscolo uomo opta per la seconda alternativa, e sublima la prima esteticamente
con un romanzo epistolare. Il giovane autore è consapevole del fatto che se Ortis
morrà suicida rimarrà nella storia soltanto un tumolo di terra per ricordare la sua
esistenza: Jacopo non ha scritto ancora nulla per scolpire il suo nome “sulle volte
dei cieli” (Gavazzeni, p. 545). La scelta quindi ricade sulla ricerca dell’io (un
termine che Foscolo stesso scrive e riscrive nei Frammenti di un romanzo
autobiografico) e ad accompagnarlo nel viaggio è Diogene, “il quale –
commenta Foscolo – non è poi come si pretende, l’uomo il più villano del
mondo” (Gavazzeni, p. 542). In questi frammenti Foscolo ragiona più con se
stesso che con il presunto lettore – “Le cose tra me e me si passano in
confidenza” (Ibid.) – ed è ossessionato da questo io che lo cerca (la scelta su
Diogene è puramente simbolica) per identificarsi e riconoscersi come entità,
come essere. Ma la ricerca dell’io lo riconduce alla consapevolezza disperata che
anche l’io è diviso, frammentato:
Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovanil mio canto.
(Non son chi fui, vv. 1-4)
Nasce così la poesia della disperazione e della consapevolezza della
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COSIMO STIFANI
frammentazione dell’io poetico. Questo sonetto, come giustamente sostiene il
Russo (Prose e poesie, p. 107), è un componimento con una forte carica
psicologica che rivendica la ricerca disperata dell’io. L’uomo è in lotta con se
stesso perché incomincia lentamente ad accorgersi che l’io frammentato – “cieca
è la mente e guasto il core” – (Non son chi fui, v. 7) è un ricalco dell’io
frantumato – “dal dì ch’empia licenza e Marte” – (Ibid. v. 5) – e quel “dì”
potrebbe sottintendere quel tempo immemore della storia dell’uomo che sarà
premesso nella prolusione del 1809.
Incominciano a tentennare le premesse giovanili (unitarie e passionali) di Ortis,
e si preclude ogni speranza di recupero. Il mirto è rinsecchito, arido (nemmeno
l’amore ha valore salvifico), e le foglie dell’alloro sono sparte, trasportate via dal
vento, dagli eventi storici e naturali. Quello “che avanza è sol languore e pianto”
(Non son chi fui, v. 2); e riappare di nuovo la possibilità del suicidio, non come
rinuncia ma come presa di coscienza della tracotante verità cosmica della
frammentazione universale, e cioè dell’io frammentato e dell’io frantumato. Ma è
soltanto un pensiero perché (e qui ritorna il motivo della gloria dei frammenti del
romanzo autobiografico), il suicidio, come in Ortis, cancellerebbe ogni traccia
della scoperta di questa verità che non è riuscito ancora a comunicare; il suo
nome non è stato ancora scritto sulle volte dei cieli. Si incomincia a toccare il
fondo dell’abisso esistenziale e scema anche il verseggiare:
Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, aonia Diva,
quando de’ miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto
questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete per la muta riva.
(Alla Musa, vv. 1-6)
E se nei sonetti prevale questo travaglio psicologico, questa instabilità
interiore, questa consapevolezza che “[t]utto è guerra nell’universo”
(Gavazzeni, p. 547), e se persiste anche la volontà di superare questa
agghiacciante presa di coscienza: “e so invocare e non darmi la morte” (Non
son chi fui, v. 14), allora ci deve essere un qualcosa che forse potrà
riconciliare questi due mondi.
Sul piano logico e concettuale il nesso che si presenta per dare un significato al
mondo soggettivo e a quello oggettivo è la poesia A se stesso:. “[...] Breve è la
vita e lunga è l’arte;/ a chi altamente oprar non è concesso/ fama tentino almen
libere carte” (A se stesso, vv. 12-14). Il dialogo interiore ha come postulato l’arte
(cioè la poesia, secondo Foscolo) come mediatrice, come nesso che connette l’io
frammentato all’io frantumato e quindi come possibilità di superamento della
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JOYCE E FOSCOLO:
L’IO POETICO E L’IO FRAMMENTATO NEL MOMENTO MISTERICO
FOSCOLIANO
presa di coscienza del conflitto universale. “Però mi accorgo, e mel ridice
Amore,/ che mal ponno sfogar rade, operose/ rime il dolor che deve albergar
meco” (Alla musa, vv. 12-14).
Questa premessa logica pone il poetare (cioè il fare, il creare) come atto di
mediazione che mitiga la forza bruta di un universo (uomo e natura) dilaniato,
frammentato. Emerge così il Bardo non delle rime che “mal ponno sfogar rade/
operose”, ma il bardo nel vero senso della parola che:
[...] with a master’s hand, and prophet’s fire,
[Strikes] the deep sorrows of his lyre.
(Gray, The Bard, vv. 21-22)
E nasce l’opera incommensurabile, arcana (“Entra ed adora!”), incompiuta; lui
che aveva scritto le graziose odi, che si era cimentato con il grande Omero, il
bardo dei bardi, tradotto in tersi ma profondi versi i lirici greci e dato alla
letteratura italiana gli inimitabili Sepolcri, non poté mai porre fine a quel poema
che doveva racchiudere l’universo intero; se l’avesse terminato, ponendo dei
limiti alla creazione di un’opera d’arte, questo sarebbe stato come porre dei limiti
alla propria esistenza. La dicotomia poesia-esistenza si presentava al poeta come
la sola alternativa che gli potesse concedere il superamento di quel vuoto
cosmico, quella noia universale che aveva intravvisto nel riconoscere l’io
frammentato nell’io frantumato. Come giustamente sostiene Scotti (Scotti, p. 3),
Carlo Cattaneo aveva visto nel giusto quando afferma che completare l’Inno per
Foscolo significava chiudere l’ultimo capitolo della sua vita. Ma finché ci sarà
vita Le grazie e la poesia continueranno ad imbellire questa terra “bella d’erbe
famiglia e d’animali” (Sepolcri, v. 5), ad educare il mondo selvaggio, e a
consolare il poeta scolpendo il suo nome, come Michelangelo, sulla volta dei
cieli13. Si concretizza così la premessa esistenziale del poeta, non come un dio
13
Crediamo che la differenza tra Leopardi e Foscolo nasca proprio da questa
presa di coscienza cosmica che pervade entrambi; ma se per Leopardi dobbiamo
ripiegarci su noi stessi, sui nostri simili, per superare il momento della noia
cosmica, per Foscolo bisogna anche lasciare la propria orma sul mondo
oggettivo. Viene rivendicata così la premessa esistenziale; e cioè della
conoscenza dell’Io che sà di essere soggetto esteriorizzandosi e riconoscendosi
nel mondo oggettivo. La poesia viene assurta a nesso esistenziale.
È interessante notare che un momento simile avviene nella poesia montaliana; e
cioè in Arsenio dove la dicotomia soggetto-oggetto viene superata il momento in
cui Arsenio-Montale riconosce nel rivo strozzato, nel cataclisma cosmico del
temporale – “I turbini sollevano la polvere” – un cosmo che era un ricalco dell’io
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COSIMO STIFANI
esistenziale (il mondo degli ossimori). Il superamento avviene quando l’io
poetico (“un gesto che ti sfiora, una parola che ti cade accanto”) ‘assente’, accetta
consciamente la dualità esistenziale del mondo oggettivo (l’anguilla sorella) e del
mondo soggettivo (lui che si ferma “innanzi ai vetri luccicanti”) e la risolve
nell’istante in cui l’io cosciente si riconoce di essere “[l]’anello d’una catena”
(l’articolo indeterminativo descrive l’esistenza di un qualcosa indeterminato).
Questo forse è il ‘momento misterico’ di cui parlano i poeti; e una volta superato,
la poesia, secondo la mia lettura, di quasi tutti i grandi poeti, si svuota in media
res, nel mondo oggettivo. Persino Yeats, negli ultimi anni, ha i plantari impiantati
sulla crosta terrestre. Il Foscolo non fà diversamente: le Grazie sono anche tre
donne viventi.
Ritornando a Montale, Arsenio è il punto di non ritorno della poesia montaliana.
Nelle Occasioni si incomincia ad osservare dal balcone (Il balcone) il mondo
esterno, oggettivo, e nella raccolta La bufera e altro i morti incominciano a
convivere coi vivi (la madre, il padre, la sorella, recupero della storia e di se
stesso). Cade il mito della donna e viene anche messo in dubbio l’esistenza
postulata del nesso. Con Satura si è nel microcosmo, il mondo degli esseriinsetti; ed inizia così la poesia del mondano, dell’immediato, che finisce nella
poesia del momento, epigrammatica, lirica, contrariamente a quanto sostengono i
critici.
Il Foscolo dei Sonetti A se stesso e Alla Musa, deve aver vissuto un momento
come Arsenio. Se queste ipotesi sono valide l’opera foscoliana non è
frammentata; sul piano artistico il Foscolo è coerente.
Un’ulteriore osservazione. In Vico la Provvidenza viene dimostrata come
condizione ‘sine qua non’ dell’ordine che esiste nella natura e della
predisposizione dell’uomo di crearsi un ordine (né la predisposizione dell’uomo,
né l’ordine della natura provengono dal nulla – ex nihilo nihil facit); infatti
l’uomo può essere violento (le origini) ma la Providenza (di cui la storia
dell’uomo ne è un fatto tangibile e evidente, poiché si è emancipato, civilizzato, e
questo sentimento della civiltà dell’ordine non nasce dal nulla) essendo nella
storia in senso verticale lo induce a ravvedersi, a correggersi.
Per Foscolo la Poesia avrebbe le stesse funzioni della Provvidenza. La
dimostrazione esistenziale emerge dalla realtà oggettiva e soggettiva (l’io
frammentato e l’io frantumato); e cioè dalla presa di coscienza dell’esistenza di
questo “genio” esistente nell’uomo che può mitigare la forza bruta intriseca di
questi due mondi. Per il Foscolo la poesia è parte inerente all’io esistenziale. Il
Foscolo deve aver avuto questo presentimento; tuttavia, lo scoglio da superare è
di trovare il mezzo per comunicare questa parte inerente all’io esistenziale.
Allegoria-realtà-allegoria-realtà e così all’infinito? Ha ragione forse Montale nel
sostenere che se presa sul serio la poesia ci riporta all’esperienza dell’effimero
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JOYCE E FOSCOLO:
L’IO POETICO E L’IO FRAMMENTATO NEL MOMENTO MISTERICO
FOSCOLIANO
lontano e distaccato paring his fingernails14, ma come essere umano, artifice della
propria vita e della storia: E tu ne’ carmi avrai perenne vita.
__________
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momento esistenziale? È questo il significato di “Ottimista fu già chi si estasiava/
tra i sepolcri inebriandosi del rauco gargarismo/ delle stigi”? (Il mio Ottimismo)
14
Va notato anche che quel senso ironico distaccato del Joyce presente in tutta la
sua opera letteraria, come sostengono alcuni critici, ci riconduce o
quell’atteggiamento dell’artista del Portrait (estetico), e quindi distaccato,
oppure alla consapevolezza che, come in Montale, l’effimero contingente,
l’esperienza del quotidiano deve prevalere sulle forme poetiche, letterarie.
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87