Angeli e orchi - Dario Flaccovio Editore

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Angeli e orchi - Dario Flaccovio Editore
Abstract tratto da www.darioflaccovio.it - Tutti i diritti riservati
Nicolò Angileri
con Raffaella Catalano
Angeli e orchi
Storie di abusi sui bambini raccontate da un poliziotto
della Sezione specializzata minori di Palermo
Abstract tratto da www.darioflaccovio.it - Tutti i diritti riservati
Una stanza per tornare a essere piccoli
di Ficarra & Picone
La stanza era sicuramente colorata.
C’era un intenso profumo di matite e colori, e forse c’era
un qualche tipo di animale disegnato alle pareti… il
tempo, si sa, offusca i ricordi e a volte li modifica anche.
Ma sicuramente c’era lui: un piccolo e luccicante banco
da scuola elementare, con due seggioline accanto. Tutti
a scuola abbiamo avuto il nostro banco e un compagnetto di cui abbiamo un ricordo confuso… come noi
adesso di quella stanza. Crediamo che non ci sia un solo
uomo sulla faccia della Terra che di fronte a un banchetto da scuola elementare possa resistere alla tentazione: sedersi, chiudere gli occhi e, insieme all’odore
delle matite e delle gomme per cancellare, tornare a
quando si era piccoli. Ecco, noi in quel momento eravamo due uomini sulla faccia della Terra. Ma, ahinoi, la
Terra è roba per grandi, così ci siamo guardati e insieme abbiamo convenuto che anche con la scusa, spesso
comoda, di essere dei comici, sedersi dietro il piccolo
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banco sarebbe stato troppo. Più che comici, saremmo
apparsi ridicoli.
Ma poiché la fortuna aiuta spesso gli audaci, ma sempre
e comunque aiuta chi c’ha culo, qualcosa ci venne in
soccorso.
I giornalisti presenti ci proposero infatti di fare due
scatti seduti, sì seduti proprio lì, su quelle seggioline,
dietro quel banchetto. Dicevano che sarebbe stata
un’immagine bella e forte contemporaneamente e che
avrebbe giovato alle finalità di quella giornata.
Noi non sappiamo che tipo d’immagine sia venuta
fuori, sappiamo soltanto che con la scusa dei flash, ogni
tanto chiudevamo gli occhi e, insieme all’odore delle
matite e delle gomme per cancellare, raggiungevamo le
nostre lontanissime scuole elementari.
Quel giorno amavamo i giornalisti!
Era gennaio del 2007 e noi eravamo stati invitati negli
uffici della Squadra Mobile di Palermo per inaugurare
la “Baby Mobil”, ovvero l’“Isola dei bambini”, la prima
stanza in Italia, in uso alle forze dell’ordine, attrezzata
per ascoltare le vittime di abusi sessuali, per metterle a
proprio agio durante le loro audizioni.
È passato un po’ di tempo da quel giorno, ma questo
libro ci ha riportati per la prima volta dentro la stanza,
ad ascoltare i singhiozzi di quei bambini costretti a diventare grandi troppo presto.
La parola pedofilia ci fa paura: è troppo doloroso immaginare gli occhi spaventati delle piccole vittime, le
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urla soffocate nella notte dalle enormi mani degli orchi,
il loro silenzio spesso estorto con la minaccia di un
dolore più grande.
La parola pedofilia ci rende cattivi: un senso di vendetta verso i carnefici fa vacillare i nostri più moderni principi di umana comprensione e di perdono.
Dalla parola pedofilia ci difendiamo: la releghiamo a
notizia da telegiornale, che non riguarda la nostra vita,
i nostri piccoli, le nostre case. Ma riguarda i “poverini”,
“quelli sfortunati”, quelli che in tv hanno nomi diversi,
ma tutti la stessa faccia.
Leggere quindi di queste storie, e soprattutto saperle
vere, richiede uno sforzo voluto, perché quando si vedono certe cose, e il libro ha il merito di farcele vedere,
non si può rimanere gli stessi.
Nicolò Angileri, insieme a Raffaella Catalano, ci ricorda
che i pedofili di cui tanto sentiamo parlare, nei sempre
più distanti telegiornali del nostro tempo, possono essere così vicini da non riuscire spesso a riconoscerli. Ed è
questa preoccupazione che ci lascia il libro, preoccupazione però subito confortata dalla certezza di sapere
che dentro una piccola stanza… colorata, con un intenso profumo di matite e con un qualche tipo di animale
disegnato alle pareti, ci sono uomini che ogni giorno
medicano le anime e i sorrisi dei nostri angeli, quegli
angeli che grazie a un banchetto luccicante da scuola
elementare forse torneranno a essere piccoli, e saranno
felici pensando che per fortuna passerà ancora molto
tempo prima di diventare grandi!
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Premessa
di Raffaella Catalano
Ho conosciuto Nicolò Angileri nell’autunno del 2008,
tramite un collega giornalista.
Quando l’ho incontrato per la prima volta mi sono
detta che se fossi stata una criminale non avrei mai voluto avere a che fare con lui.
Nicolò ha l’aspetto da duro. Per il fisico compatto, per
il giubbotto di pelle nera (dal quale, avrei notato poi,
non si separa mai), per gli occhiali scuri che porta sempre e per la faccia che a prima vista ricorda quella di
Ricky Memphis nei film in cui interpreta il dispensatore di cazzotti. Glielo dicono tutti che somiglia a quell’attore, ma a lui non fa molto piacere. Però probabilmente in un film anche a Nicolò Angileri un regista affiderebbe quel genere di ruolo. Perché al cinema spesso
conta più la faccia che l’indole. E il copione da duro
pensavo che Nicolò l’avesse sempre recitato in quella
sorta di gioco delle parti che spesso fanno i poliziotti
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durante gli interrogatori: uno blandisce, l’altro attacca,
uno fa l’amico, l’altro l’inflessibile.
Poi ho saputo che lui gli ultimi sei anni dei suoi diciannove di servizio in polizia li ha impiegati a occuparsi di
violenze sessuali sui bambini, a Palermo. E per trattare
casi così delicati non serve soltanto un fisico possente:
c’è bisogno soprattutto di sensibilità.
Quando dai suoi racconti ho scoperto che la cosa a cui
tiene di più sono i bambini che tutela prestando servizio alla Sezione specializzata minori della Squadra
Mobile, ho smesso di pensare a Ricky Memphis e ai
duri dello schermo. Ho sentito le emozioni di Nicolò,
ho vissuto la sua passione e capito i sacrifici che gli
richiede ogni caso giudiziario in cui si impegna. Ho
imparato che per lui il lavoro è sempre e prima di tutto
l’incontro con una vicenda umana. Ogni volta più
amara. E ho percepito pure l’amore di questo poliziotto trentottenne per i suoi figli e per sua moglie e la
voglia che ha di non trascurarli, nonostante le ragioni di
servizio lo tengano spesso lontano da casa.
Nicolò mi ha anche raccontato un segreto che da un
uomo che vive sulla strada non mi sarei aspettata: la sua
devozione agli angeli custodi. Secondo lui esistono.
Sostiene che in ogni momento difficile ne ha incrociato
uno, magari cogliendolo con lo sguardo in un quadro,
su un libro o passando davanti a una chiesa. Oppure in
un riferimento casuale nel corso di una conversazione.
Per lui gli angeli sono illuminazioni del momento e
conforto nella sofferenza. Una sofferenza che nasce dal
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lavoro che fa, ma che non gli ha impedito di andare
avanti.
Di crisi lui ne ha avute nell’affrontare centinaia di storie
di violenza. Ha temuto e teme anche per i suoi figli.
Ogni tanto qualcuno ha rivolto minacce non sempre
velate alla sua famiglia.
Un giorno, uno di quelli più brutti – sempre che tra gli
orrori delle vite violate dai pedofili si possa fare una
classifica – Nicolò stava per mollare tutto e passare a un
ambito professionale diverso, meno coinvolgente e
meno distruttivo a livello psicologico. Ma ha la testa
dura e non si arrende facilmente. Così ha parlato del
suo disagio con una psicologa che da molti più anni di
lui lavora con i bambini e le ha raccontato le sue difficoltà e il suo scoramento.
Lei gli ha dato un consiglio semplice: scrivi le storie che
ti capitano, anche le più raccapriccianti. Raccontale a te
stesso appena ne esci fuori. Sarà una specie di autoanalisi che forse ti aiuterà a vederle un po’ più a distanza.
Perché se soffri troppo non potrai più aiutare gli altri.
E così, nottetempo, Nicolò si è messo a prendere
appunti. A penna, al computer, come capitava, ed è
uscito dalla crisi poco dopo aver cominciato a mettere
nero su bianco. È andato avanti a scrivere per qualche
anno.
Sapeva che quegli stralci di storie buttate su un foglio
con l’idea di liberarsi dall’angoscia erano troppo personali per avere un pubblico di lettori. Però ha voluto raccoglierle lo stesso, alla rinfusa com’erano. Poi le ha rile11
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gate e le ha trasformate in un regalo per sua moglie, in
occasione di un compleanno. Lei proprio non se l’aspettava, quel genere di dono, perché Nicolò aveva
sempre scritto in silenzio.
Lui mi ha raccontato che alla fine della lettura sua moglie era entusiasta. Da tempo vedeva suo marito più sollevato e sereno, ma adesso aveva anche scoperto qualcosa di nuovo su quell’uomo che le viveva accanto da
tredici anni: il suo mondo professionale fatto di storie
indicibili che lui le aveva quasi sempre tenuto nascoste
per non addolorarla. I resoconti di Nicolò le avevano
dato scosse ed emozioni. «Non dovrei leggerle solo io,
queste cose», gli disse una sera. Lui sapeva bene di non
essere uno scrittore: non voleva cimentarsi in un’opera
destinata al pubblico. Passò qualche tempo, ma sua
moglie non demordeva e Nicolò si rese conto che forse
poteva affrontare anche quella sfida.
Così io e lui ci siamo incontrati. Gli ho chiesto di raccontarmi quelle storie. Con la sua voce, le sue emozioni, i suoi sfoghi a volte ruvidi e a volte teneri e i suoi
ricordi brutti o belli: la violenza, ma anche le espressioni dei bambini che gli avevano sorriso, gli abbracci dei
genitori che lo avevano ringraziato, che avevano pianto
con lui e poi tirato un sospiro di sollievo alla fine di
un’esperienza drammatica.
Quelle storie adesso sono qui in una forma nuova.
Nicolò Angileri ha deciso che possono fare del male e
del bene a tutti e che, quindi, non lasceranno indifferenti.
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Io credo che valga la pena conoscerle, nonostante siano
sfibranti. Servirà a individuare, a comprendere e a evitare le situazioni a rischio, a portare nelle scuole esperienze utili e a spazzare via remore, tabù, silenzi.
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La caparbietà
Mi chiamo Nicolò Angileri, faccio il poliziotto e la prima storia di questo libro è la mia.
Non è drammatica. Nulla a che vedere con quelle che
racconterò dopo, che sono violente, strazianti. Però è
una storia che credo meriti di essere conosciuta. Se non
altro, per spiegare come sono entrato in polizia e poi
arrivato a lavorare con i bambini, e perché il lavoro che
ho oggi non lo cambierei con nessun altro.
Il poliziotto non volevano farmelo fare. Ma ero un predestinato, solo che allora, nel 1989, non lo sapevo. Nessuno lo sapeva.
Venivo da Ficarazzi – un paesino vicinissimo a Palermo
– da una famiglia di fornai, e dai quattordici ai sedici
anni avevo aiutato mio zio a vendere il pane su un banchetto del mercato del Capo, uno dei più belli e vivi del
capoluogo siciliano.
Ma all’epoca della visita militare per il servizio di leva,
mentre la prospettiva per me era il battaglione San
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Marco, cambiai repentinamente idea, come se fossi
stato folgorato all’improvviso, e decisi di fare domanda
per diventare ausiliare in polizia.
Mi ritrovai in fila, in mutande, ad aspettare il capitano
medico, in mezzo agli altri aspiranti poliziotti. Chi doveva esaminarmi, mi dicevo, si sarebbe accorto subito
che avevo una lunga cicatrice sulla gamba destra.
L’inopportuno regalo di un incidente stradale.
«Tu, fuori!», mi ordinò il capitano medico, appena la
vide.
Fuori?, pensai. Io che vengo dal judo, che ho fatto gare
e che ho un fisico allenatissimo? Non se ne parla nemmeno.
Se in quel momento avessi avuto i miei vestiti addosso,
per la rabbia li avrei lacerati, come Hulk.
Invece strinsi i denti, m’imposi l’autocontrollo e mi
informai: pretendevo un’altra possibilità. Così seppi da
un poliziotto che potevo farmi fare una radiografia alla
gamba per dimostrare che era sana da tempo, e riprovarci.
Quel giorno era l’ultimo utile per l’arruolamento.
Spinto dalla mia caparbietà, corsi come un pazzo, lottando contro il tempo, finché non mi ritrovai, in serata,
di nuovo davanti al capitano medico, con la mia lastra e
il referto in mano. Lui stava per salire sul motorino e
andarsene a casa.
Gli mostrai la radiografia.
Lui non la degnò nemmeno di uno sguardo. «Consegnala. Tanto domani ti scartano lo stesso».
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Invece passai tutte le selezioni. Il primo round l’avevo
vinto io.
Ma non era finita. Mentre attraversavo tutte le fasi per
l’arruolamento in polizia avevo anche fatto domanda
per entrare nei carabinieri. Stavo tentando di tutto pur
di lavorare nelle forze dell’ordine. Fatto sta che subito
dopo, quando avevo già preso servizio effettivo come
poliziotto, seppi che avevo vinto anche il concorso da
carabiniere.
Ero un predestinato, l’ho detto. E lo testimonia la mia
storia che tutto era già scritto, da qualche parte: dovevo
diventare sbirro, indossare una divisa.
Dissi di no all’Arma e da lì cominciò la mia carriera
nella Polizia di Stato.
All’inizio fu il Reparto mobile. Diventai uno di quelli
che molto tempo prima, nel periodo buio del terrorismo, si chiamavano celerini. Tutori dell’ordine pubblico, insomma.
Dopo un paio d’anni, mi trasferirono vicino Reggio Calabria, a Condofuri. Che, guarda caso, significa “covo di
ladri”.
Ammetto che piansi quando seppi di dover partire.
Non volevo lasciare la mia città proprio all’inizio del
mio percorso, quando dovevo ancora capire cosa fare e
come farlo. Ma trovai la forza e preparai le valigie.
L’avevo voluto io, quel lavoro, e mi toccava accettare
tutto ciò che ne sarebbe venuto. Intanto, a Palermo, in
quel periodo – eravamo nel ’92 – la città era stravolta
dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. A distanza, vive17
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vo comunque con intensità quella stagione orribile per
gli uomini dello Stato. Nell’attentato a Paolo Borsellino
morì anche uno dei miei migliori amici, Vincenzo Li
Muli (che per noi tutti era “Fabio”), un agente di scorta del magistrato.
Per me fu un colpo durissimo. Tanto duro che, quattro
mesi dopo la strage, quando mi si prospettò il rientro a
Palermo, precipitai nel panico. Palermo significava ufficio scorte. Ufficio scorte significava rischio. Altissimo.
Sarebbe stato un terribile regalo per il mio compleanno,
che cade a dicembre.
A Palermo ci tornai, proprio a dicembre del ’92, ma mi
toccò il commissariato di Mondello, affacciato sulla
spiaggia più bella della città. E tranquillo, tutto sommato.
La vera vita da poliziotto sarebbe cominciata quasi un
anno dopo, quando passai alla Squadra Mobile, Sezione
omicidi, e alle mie prime indagini, comprese quelle di
mafia. Tra i nostri obiettivi c’era anche Sandro Lo
Piccolo, che all’epoca non era il superboss che conosciamo adesso, potentissimo e catturato dopo una lunga
latitanza. Allora, contribuii al suo primo arresto.
Poi, dal ’98, ho lavorato all’antirapina, la mia vera palestra professionale. Ti passano tutti per le mani: dal pesce piccolo, l’arrogantello di quartiere, al criminale di
punta, il reggente di qualche cosca. L’antirapina era un
osservatorio privilegiato: mi resi conto che potevo seguire la carriera di un delinquente. All’inizio del suo
cammino lo incrociavo come piccolo rapinatore, alla
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fine come capomafia. Era un lavoro difficile, quello.
Molta volontà, troppi crimini, orari sfibranti e pochissimi mezzi. E se ti serviva un confidente, per agganciarlo
ti toccava pagare di tasca tua. Mai come in quel periodo mi resi conto che niente, in polizia, somiglia a quello che vedi nei film.
Dopo cinque anni di quell’andazzo ero esausto, logorato fisicamente e mentalmente. Ma non volevo mollare o
avrei tradito la mia testardaggine. Però pensavo a un’alternativa, perché altrimenti non sarei più riuscito a dare
il massimo, come desideravo.
Incrociando un collega della Sezione reati contro i
minori della Squadra Mobile, chiesi come andavano le
cose nel suo ufficio, che si occupava di minori.
«Se sei così stanco e cerchi turni di lavoro più umani»,
mi spiegò, «vieni da noi».
Mi ostinai e ci riuscii: ma non sapevo ancora che presto
avrei fatto parte della sezione che allora era la Cenerentola della Mobile. Contava solo otto persone in organico, e a quell’epoca era anche senza dirigente. Mezzi
sempre pochi e fatica a volontà. Era una costola della
sezione Duomo formata da quattro colleghi, che si era
occupata, nel suo territorio di competenza, di quello
che è finito in cronaca come il caso dei pedofili dell’Albergheria e che noi poliziotti invece chiamiamo “Operazione Ballarò”. Una banda di delinquenti che sfruttava i bambini per vizi privati (la prostituzione minorile)
o per pubblici affari (il commercio illecito di videocassette pedopornografiche) era stata scoperta e sgomina19
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ta, grazie anche al coordinamento di Marzia Sabella, un
giovane magistrato che per la prima volta in Italia concepì qui a Palermo l’idea di una nuova fattispecie di
reato, estendendo pure alle organizzazioni di pedofili il
reato di associazione per delinquere, aggravando così la
loro posizione nei confronti della legge. Un’innovazione che da allora è in vigore in tutto il nostro Paese.
Anche l’intuizione di creare una Sezione specializzata
minori dal gruppo Duomo fu brillante: erano loro, all’epoca, i veri specialisti anti-pedofilia, perché con
l’“Operazione Ballarò” avevano acquisito un’esperienza specifica che si sarebbe rivelata fondamentale.
C’è anche un altro dato che conforta, in questo lavoro:
la maggior parte delle persone rinviate a giudizio per
abusi sessuali sui minori sceglie il patteggiamento. Il
che implica non solo una riduzione della condanna, ma
anche un’ammissione di responsabilità e il desiderio di
evitare il dibattimento, quasi che l’impatto sociale di
questo genere di reati sancisca l’ineluttabilità della pena.
Adesso che ho trentotto anni, io sono ancora lì, tra quel
manipolo di poliziotti che sono diventati i pionieri nella
lotta al crimine sessuale. Perché nel 2007 in quella struttura fu creata la prima “Isola dei bambini” d’Italia, una
stanza allegra e confortevole, attrezzata per accogliere
le piccole vittime di abusi, tra i personaggi dei fumetti
dipinti alle pareti, sedie multicolore e giocattoli. Un
posto a misura di bambino che rappresenta il primo
passo verso una vita nuova per chi, sin da piccolo, ha
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conosciuto solo vessazioni e l’orrore della violenza sessuale.
Ecco dove mi ha spinto la mia caparbietà. Ed è qui che
voglio rimanere.
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