L`aggettivo è necessario - Educazione. Giornale di pedagogia critica
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L`aggettivo è necessario - Educazione. Giornale di pedagogia critica
Editoriale L’aggettivo è necessario Ci si potrebbe chiedere (e non sarebbe del tutto fuori luogo) se fosse stato proprio necessario, nel dare un titolo a questa rivista, aggiungere a pedagogia l’aggettivo critica. In effetti, se quello cui miriamo è un traguardo di ricerca, di riflessione, di interpretazione e reinterpretazione di modelli, teorici ed empirici, che hanno segnato il cammino dell’educazione e ne distinguono le condizioni attuali, si potrebbe anche considerare l’aggettivo pleonastico. Quando si persegue con onestà intellettuale l’incremento della conoscenza, si è necessariamente aperti alla considerazione di nuove proposte e di sviluppi non previsti. Cogliere contraddizioni nell’orizzonte interpretativo consueto non riduce la capacità di interpretare l’educazione, ma costituisce una condizione per formulare nuove ipotesi. Cambiare il punto di vista è la premessa per sfuggire alle insidie di un determinismo dal quale non ci si può che attendere una limitazione nella capacità di cogliere i segni del divenire. In breve, se quella che si persegue e si è capaci di perseguire è buona conoscenza, non può che trattarsi di una conoscenza critica. Allora, se la pedagogia definisce l’orizzonte interpretativo dell’educazione, e se l’intento che si persegue EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 1-5. ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Editoriale è l’incremento della conoscenza, c’è bisogno di far riferimento a una sua dimensione critica? Se abbiamo in mente l’apporto alla conoscenza educativa di Platone o di Quintiliano, di Tommaso d’Aquino o di Comenio, di Jean-Jacques Rousseau o di Maria Montessori abbiamo bisogno di far riferimento al carattere critico dei loro apporti? Dovremmo, se lo facessimo, spiegare per quale ragione ci occupiamo di modelli e proposte che potrebbero essere all’origine di atteggiamenti non critici. Ma, se non abbiamo bisogno di fornire tale spiegazione quando ci riferiamo ai personaggi menzionati (e a tanti altri non menzionati, ma che sarebbe stato giusto comprendere nella lista, se il nostro intento non fosse stato solo di proporre qualche esempio), si può dubitare che nel dibattito pedagogico l’impianto critico che si riconosce a questo o quell’indirizzo di pensiero o di azione sia stato sempre onorato da quanti si sono collocati sulla scia. È accaduto, e accade, che la tensione critica si attenui quando al vigore originario di un modello si sostituisce la sua iterazione in condizioni diverse, spaziali e temporali. L’impegno interpretativo, invece di applicarsi al reale, si applica alla rappresentazione implicita nel modello, senza considerare che l’educazione assume connotazioni che variano in conseguenza dei modi in cui nel tempo si realizza l’adattamento alla vita. Quello che ne deriva è un irrigidimento che accredita una conoscenza pedagogica non critica, perché ignara dei cambiamenti necessari per rispondere a nuove esigenze (o, se si pensa che sia il caso, per contrastarle). Si potrebbe pensare che la tendenza all’irrigidimento fosse propria soprattutto di una pedagogia impegnata sul versante teorico, ma che sarebbe stata superata con l’affermarsi di interpretazioni sostenute da riscontri empirici o da evidenze sperimentali. Non è 2 L’aggettivo è necessario ciò che è accaduto. Al contrario, tendenze non critiche serpeggiano negli orientamenti che si sono affermati a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, fino a diventare, nel corso del Novecento, largamente maggioritari in gran parte dei paesi. Nella ricerca educativa si sono affermati, infatti, modelli e procedure che lasciano modesti spazi di libertà per elaborazioni originali. Basta esaminare l’impianto di gran parte dei contributi pubblicati nelle riviste pedagogiche per individuare una sorta di canovaccio, che incomincia con il tratteggio di uno status quaestionis, prosegue con la dichiarazione delle ipotesi, descrive la procedura seguita per verificarle, presenta i risultati e li discute. Completano questo indice ricorrente una breve sintesi e i riferimenti bibliografici (che oggi, sempre più spesso, sono anche sitografici). Fin qui, niente di male. Al contrario, un po’ di struttura semplifica il compito di chi formula il messaggio, ma anche dei suoi destinatari, che non sono costretti a leggere testi ridondanti per conoscere gli esiti di questa o quella ricerca. La questione è che troppo spesso il canovaccio è tutto ciò che il contributo presenta di positivo. Se si passa a considerare i contributi per ciò che contengono, è difficile sottrarsi alla sensazione che molti di essi ripropongano questioni già note, solo rinfrescate coi belletti di una certa fastosità metodologica. Peggio ancora quando si coglie il candore che accompagna la riproposta: chi ha effettuato la ricerca è convinto che sia proprio l’imbellettamento a garantirne la validità, e non si rende conto che la questione affrontata ha dei precedenti (talvolta dei trascorsi). In questi casi emerge uno degli ostacoli più forti per l’affermazione di una pedagogia critica, quello derivante dalla mancanza di spessore temporale della linea argomentativa. 3 Editoriale Negli ultimi cinquant’anni si è assistito a un cambiamento progressivo nel modus operandi della ricerca educativa (analogo, nelle grandi linee, a quello che ha interessato altri settori d’indagine nel campo delle scienze dell’uomo). In precedenza, all’impegno per l’attività sul campo doveva aggiungersi un impegno anche più consistente per l’archiviazione e l’elaborazione dei dati. Si deve allo sviluppo della tecnologia l’acquisizione di risorse che hanno semplificato in modo sostanziale le procedure per l’archiviazione e per l’elaborazione. Anzi, sotto certi aspetti l’hanno semplificato troppo. Non vorremmo essere fraintesi. Quello che si sta enunciando non è una sorta di luddismo metodologico. La preoccupazione che si cerca di esprimere riguarda l’eccessiva facilità con la quale si passa dall’acquisizione dei dati alla loro elaborazione, che prevede siano eseguite, senza risparmio, procedure statistiche nelle quali un tempo si sarebbe evitato di cimentarsi se non nei casi in cui, per qualche ragione, si era acquisita una certa attesa circa la rilevanza degli esiti. Oggi, serie di dati che corrispondono a variabili mal definite e peggio rilevate sono il punto di partenza per calcoli statistici che in altri tempi avrebbero richiesto che fossero eseguite serie interminabili di operazioni. Si sarebbe avuto un progresso, anche nella direzione dell’incremento di consapevolezza critica nei confronti della conoscenza educativa, se alla rapidità con la quale si archiviano e si elaborano i dati avesse corrisposto la consapevolezza necessaria a comprendere che cosa si stesse facendo. Accade, invece, che si giunga a formulare giudizi sulla base di indici numerici che abbiano superato l’unico vaglio critico che consiste nell’essere compresi entro determinate soglie. Se, per uno scherzo malvagio, non fosse più possibile eseguire i calcoli (e tutto ciò che ad essi si collega, a cominciare dalle rappresentazioni gra4 L’aggettivo è necessario fiche) in modo automatico, assisteremmo ad un crollo della ricerca (e ad uno, non meno rovinoso, delle speranze di affermazione accademica dei ricercatori). Se si considera l’enorme quantità di contributi scientifici che si pubblicano nell’area pedagogica, è difficile spiegare perché il quadro dell’educazione appaia così poco rassicurante. I segnali di crisi si moltiplicano e, anzi, proprio l’analisi di tali segnali costituisce uno dei settori di ricerca che mostrano una maggiore vitalità. Il fatto è che in troppi casi gli apporti derivano da un uso più o meno sapiente di schemi e strumentari, al quale si accompagnano interpretazioni di livello modesto, che non escono dal recinto che, per abitudine, si continua a prendere in considerazione. La conoscenza educativa perde di consistenza perché confida per crescere su risorse prese a prestito, invece di cercare nella sua cultura gli elementi che consentirebbero, per continuità o per differenza, di avviare una migliore comprensione dei problemi attuali dell’educazione. In breve, fa difetto la capacità di collocare correttamente i fenomeni nel tempo e nello spazio, di stabilire relazioni sul piano diacronico e non solo su quello sincronico, di porre in equilibrio, come avrebbe detto Pascal, la géométrie e la finesse. Potremmo anche dire, riassumendo, che fa difetto una pedagogia critica. fm bv 5 Editoriale Géométrie, finesse. – La vraie éloquence se moque de l’éloquence, la vraie morale se moque de la morale; c’est-à-dire que la morale du jugement se moque de la morale de l’esprit, qui est sans règles. Car le jugement est celui à qui appartient le sentiment, comme les sciences appartiennent à l’esprit. La finesse est la part du jugement, la géométrie est celle de l’esprit. Se moquer de la philosophie, c’est vraiment philosopher. [B. Pascal, Pensées, 24.] 6