Tempo oggettivo e tempo soggettivo
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Tempo oggettivo e tempo soggettivo
Marco Cambiaghi (Articolo pubblicato su “La Provincia il 10/04/2006”) Tempo oggettivo e tempo soggettivo Einstein, nello spiegare in poche parole la sua teoria sulla relatività disse: “Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora”. Questa frase è ideale per riassumere l’antinomia che esiste fra il “tempo della scienza” e il tempo percepito. Il tempo misurato attraverso lo strumento orologio – come ben si capisce dalla frase di Einstein – è ben diverso dal tempo che viviamo quotidianamente, che è tutto fuorché oggettivo. Ogni guidatore sa bene che una luce arancione ad un incrocio stradale può rappresentare un momento di sfida. È necessario frenare oppure continuare la propria marcia – aumentando la velocità magari – per passare prima che la luce diventi rossa? Diversi fattori possono influenzare la scelta, come il grado di distensione del guidatore, l’urgenza del viaggio e, non ultima, la presenza di qualche agente di polizia nei pressi del suddetto incrocio. L’elemento determinante, tuttavia, sta nella stima del tempo che impiegherà il semaforo a diventare rosso. Questo è solo un esempio di come la percezione del tempo sia costantemente presente nella nostra vita: quanto tempo lasciar tostare il pane la mattina prima di spalmarlo con la marmellata? Quanto lasciar squillare il telefono prima di riattaccare e cambiare i programmi della serata? Gli scienziati, da anni, cercano di capire le basi neurali della percezione temporale; come il nostro cervello interpreta un periodo di tempo in riferimento alla scala temporale effettiva: quella dell’orologio per intenderci. Ci sono decisioni che vanno prese nell’ordine di pochi millisecondi, altre che sono nella scala dei secondi, dei minuti o addirittura delle ore. I primi successi, verso la fine dello scorso secolo, vennero dalla comprensione del ciclo circadiano, il timer biologico che regola la serie giorno-notte. Nei mammiferi questo orologio è sito in profondità nel cervello, in un organo chiamato ipotalamo. A partire dagli anni ’70 – ispirati da queste scoperte – si è perciò cominciato a cercare quale fosse l’orologio biologico per periodi di tempo più brevi e non così cadenzati. L’idea iniziale degli scienziati era quella di trovare, come per l’ipotalamo, un solo organo deputato a questo importante compito. Col passare degli anni, si è invece fatta largo l’ipotesi – sempre più accreditata – che non esista una sola area cerebrale, ma che diverse regioni siano coinvolte nella stima del tempo. “Le informazioni temporali – sostiene Jennifer Coull, neuroscienziata francese – sembrano essere codificate da una complessa rete cerebrale, probabilmente perché dobbiamo integrare diverse informazioni contemporaneamente per stimare il passare del tempo, in quanto è un elemento molto meno tangibile rispetto a quelli percepiti dagli altri sensi”. A livello cerebrale, la percezione del tempo richiede necessariamente un discreto numero di informazioni spazio-temporali: solo conoscendo in precedenza il determinarsi degli eventi è possibile farsi un’idea del passare del tempo. Pertanto, tramite complesse elaborazioni, il cervello realizza una visione del presente risultante dal confronto fra i dati mnemonici e le anticipazioni sull’andamento degli eventi. Se non avessimo capacità anticipativa degli avvenimenti, andremmo quotidianamente incontro ad una serie di spiacevoli inconvenienti. Quello che noi consideriamo presente, quindi, è in realtà il risultato di una combinazione fra il passato (memoria) e l’immaginazione; tanto che, in assenza di sorgenti di informazione, il cervello perde la propria capacità di percezione del tempo. Un esempio comprensibile a tutti è quello del sonno: non è possibile stimare il tempo durante il quale abbiamo dormito, nemmeno se questo periodo è stato breve. Dopo quello che è stato detto sulla percezione umana del tempo, e per gli animali valgono le stesse regole, è opportuno sottolineare che il tempo come lo misuriamo noi, con orologi stazionari basati sulla successione di durate temporali prestabilite, assume un valore soggettivo del tutto convenzionale (anche se non è una buona scusa per il ritardo ad una riunione!). Non solo. Il vecchio concetto imparato dalla fisica classica "La persistenza della memoria", Salvador Dalì (1931) che il tempo e lo spazio sono assoluti che è stato letteralmente demolito da Einstein all’inizio del ‘900, è dimostrabile – e lo facciamo tutti – quotidianamente. Basta mettersi davanti ad un computer e collegarsi ad internet, un sistema che ci permette di fare shopping nel lussuoso quartiere londinese di Soho e contemporaneamente godere della vista di un tramonto infuocato dalla propria finestra. Qualcosa di difficilmente immaginabile sino a pochi anni fa. Data la complessità dei sistemi neurali che si devono attivare nella percezione cerebrale del tempo, sono ben fondate le ipotesi sviluppate negli ultimi anni dagli scienziati; immagini di risonanza magnetica funzionale hanno infatti mostrato l’attivazione di ampie regioni cerebrali durante la stima della durata di un evento. Sebbene molti siano i ricercatori convinti di una massiva attivazione, essi non sono affatto d’accordo sul tipo di neuroni che vi prendono parte. La scienza, che inizialmente non aveva considerato il tempo della vita, fatta di attese, desideri e ricordi, percepiti differentemente da ogni persona, con sostanziali mutazioni durante la crescita dell’individuo, sembra ora tendere una mano alla concezione personale del tempo, argomento che da sempre è stato caro ai filosofi, fra i quali vale la pena ricordare la risposta di S. Agostino a chi gli chiese cos’è il tempo: “Sinceramente – rispose – se nessuno mi fa tale domanda son o sicuro di sapere cosa sia il tempo, se però qualcuno me lo domanda non so cosa rispondergli”. Un ultimo consiglio. Quando il semaforo è arancione, è bene fermarsi. Marco Cambiaghi