Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo
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Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo
Chiara Calzolaio Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo. Migrazione, identità e femminicidi... 667 XXIX Convegno Internazionale di Americanistica - Perugia 2, 3, 4, 5, 6, e 7 maggio 2007 Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo. Migrazione, identità e femminicidi a Ciudad Juárez (Chihuahua, México) Chiara Calzolaio Università di Bologna, Italia Il mio contributo è frutto di una esperienza di ricerca sul campo svolta a Ciudad Juárez, città messicana alla frontiera con gli Stati Uniti, nell’aprile e nell’agosto del 2006. Le riflessioni che proporrò rappresentano il tentativo di tracciare alcune linee interpretative riguardo a un fenomeno di violenza che sta colpendo centinaia di donne a Ciudad Juárez. Questo contributo non esaurisce in alcun modo la complessità del fenomeno. Si propone invece di approfondire alcuni suoi aspetti socio-culturali legati alle trasformazioni che ha vissuto la città negli ultimi trenta anni, alle ripercussioni che queste hanno avuto sulle pratiche e sulla percezione di sé delle donne, alle tensioni di un ordine sociale che riconosce precisi modelli di genere e ai modi in cui queste tensioni si materializzano nelle sofferenze inflitte sui corpi delle donne. Las muertas de Juárez Nel periodo che va dal 1993 al 2005 sono state assassinate a Ciudad Juárez molte centinaia di donne e bambine, 379 secondo i dati della Procuraduría General de la República (PGR), più di 400 secondo varie organizzazioni civili e non governative cittadine, nazionali ed internazionali(1). Alle vittime “certe” si aggiungono centinaia di desaparecidas(2), 260 nel periodo 1993-2003 secondo i dati della Comisión Interaméricana de Derechos Humanos (CIDH), più di 600 secondo diverse associazioni civili locali. La forte discordanza di cifre tra istituzioni governative ed organizzazioni non governative e la difficoltà nello stabilire chiaramente il numero dei femminicidi sono indicativi di una più generale carenza di documentazione ufficiale attendibile e completa sulla violenza contro le donne (CEF 2006; MONÁRREZ FRAGOSO J. 2005). Molte donne furono sequestrate e subirono violenze sessuali, mutilazioni, torture, per poi essere uccise e lasciate in campi abbandonati, tra strade degradate, nel deserto che circonda la città. La maggior parte delle donne assassinate erano operaie, impiegate o studentesse, appartenenti a settori sociali economicamente marginali. Molte erano migranti(3). La presentazione di dati non vuole ignorare l’individualità e la drammaticità di ogni singola storia personale, scadendo in quella che Julia Monárrez Fragoso chiama una «generalización descriptiva de la memoria» (MONÁRREZ FRAGOSO J. 2005: 105). Tuttavia l’enormità dei numeri e l’efferatezza dei delitti consente di avere almeno un primo ed inevitabilmente generico quadro del fenomeno: Ciudad Juárez è un luogo in cui si concentrano femminicidi. Il termine “femminicidio” entra nel linguaggio giornalistico locale fin dalla fine degli anni Novanta nella sua accezione letterale, come neutro equivalente femminile di “omicidio”. Vorrei far propria però la prospettiva di accademiche e attiviste femministe che, sulla scia di alcune ricerche statunitensi di criminalistica femminista (RADFORD J. - RUSSELL D. 1992; RUSSELL D. - HARMES R. 2006 [2001]), danno al termine un’accezione politica ed interpretativa. In questa prospettiva la categoria di femminicidio viene definita come assassinio di una donna per il solo motivo di essere donna (LAGARDE M. 1994, 2005; MONÁRREZ FRAGOSO J. 2000, 2002, 2005a, 2005b). La Commisión Especial para los Feminicidios (CEF)(4), commissione della Camera dei Deputati creata per portare avanti una ricerca sulla diffusione e l’incidenza dei femminicidi nella Repubblica messicana, adotta esplicitamente tale prospettiva interpretativa. Esula dai fini di queste brevi riflessioni approfondire come meriterebbe la categoria di genere. Vorrei però chiarire che quando ne parlo faccio riferimento alle costruzioni socio-culturali del maschile e del femminile, della maschilità e della femminilità, prodotte e riprodotte da contesti storici particolari (RUBIN G. 1975; SCOTT J. 1986; PICCONE STELLA S. SARACENO C. 1996). Grazie all’incessante lavoro svolto da associazioni di familiari delle vittime e da altre organizzazioni locali i femminicidi sono stati portati all’attenzione dell’opinione pubblica messicana e mondiale(5). Invece di impiegare energie e risorse nella risoluzione dei crimini le autorità locali – tanto statali quanto municipali – Migrazioni e percorsi dell’identità nel continente americano Chiara Calzolaio Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo. Migrazione, identità e femminicidi... 668 XXIX Convegno Internazionale di Americanistica - Perugia 2, 3, 4, 5, 6, e 7 maggio 2007 hanno minimizzato a lungo la gravità delle violenze, criminalizzando la condotta delle donne e incarcerando veri e proprio “capri espiatori”, individui con precedenti penali adattabili al caso, provenienti da gruppi sociali etichettati come marginali e violenti(6). Si sono diffuse teorie che condividono un immaginario cinematografico popolato di mostruosi serial killer, rituali satanici, orge assassine, traffici di organi o di snuff movies. “Las muertas de Juárez” sono diventate un ennesimo, scandaloso caso di cronaca nera attribuito a patologie individuali o collettive non “strutturalmente” legate alla società (DOMÍNGUEZ RUVALCABA H. RAVELO BLANCAS P. 2003), limitato a settori marginali e “degradati” che si posizionano fuori dalle norme morali condivise e per questo commettono o subiscono violenze. L’antropologia, di fronte a discorsi che tendono a naturalizzare e de-storicizzare la violenza, può porsi in una posizione critica. Per far questo può provare a far emergere i processi storici, umani che costruiscono le realtà della violenza (NORDSTROM C. - ROBBEN A. 1994). Può svelare le relazioni di potere che vengono da esse riaffermate e riprodotte; decostruire i discorsi che le legittimano. Nel tentativo di superare visioni semplicistiche e scandalistiche dei femminicidi proverò ad approfondire il contesto storico-sociale di Ciudad Juárez ed i cambiamenti che ha vissuto negli ultimi trenta anni. Cercherò di mettere in luce i modi in cui tali cambiamenti hanno messo in atto nuove pratiche ed innescato processi identitari di genere. Da ultimo mi soffermerò sulle reazioni ai femminicidi dell’opinione pubblica e delle autorità locali per far emergere le tensioni esistenti tra quelle pratiche e quei processi e i modelli di genere dominanti. Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo: maquiladoras e migrazione Ciudad Juárez si trova sulla linea di frontiera tra Messico e Stati Uniti. Arrivando con l’aereo a Ciudad Juárez si ha l’impressione di stare atterrando in un’unica enorme città “binazionale” (negli Stati Uniti le chiamano twin cities – città gemelle), circondata da montagne e deserto, tagliata a metà da un fiume che per la maggior parte dell’anno è in secca e “ricucita” da tre grandi ponti strapieni di macchine e persone a tutte le ore del giorno e della notte. Solo una volta a terra si iniziano a percepire gli effetti del condividere il territorio di frontiera con il paese più ricco del mondo. In particolare sono sempre più evidenti i controlli sul traffico di droga(7) e le migrazioni illegali che rientrano in quel progetto di militarizzazione della frontiera portato avanti dal governo statunitense negli ultimi anni e volto ad ostacolare la migrazione illegale degli almeno due milioni di donne e uomini che ogni anno cercano di varcare la frontiera. Di questi solo un quarto vi riesce. I più fortunati vengono rimpatriati in Messico, per ritornare nei luoghi di origine o restare nelle grandi città della frontiera, aspettando di riuscire a varcare il confine. La popolazione della città si è quasi triplicata negli ultimi venti anni a causa della forte migrazione di donne e uomini provenienti dai vicini stati del Nord (soprattutto Durango, Coahuila, Zacatecas) ma anche, dalla metà degli anni Novanta, dal Sud del paese ed in particolare dallo stato di Veracruz. La forza attrattiva che ha letteralmente calamitato migliaia di persone verso Ciudad Juárez, accanto alla speranza di raggiungere il “sogno” statunitense, è stata l’istallazione, a partire dalla fine degli anni Sessanta, di maquiladoras, fabbriche d’esportazione di prevalente proprietà straniera che beneficiano di un regime fiscale speciale e consentono bassi costi di fabbricazione. Come hanno evidenziato Cirilia Quintero Ramírez e María Eugenia De la O (QUINTERO RAMÍREZ C. - DE LA O M. E. 2003), il progetto di industrializzazione attraverso maquiladoras costituisce lo strumento attraverso cui il Messico si inserisce nella de-localizzazione internazionale dei processi produttivi. L’Accordo Nordamericano di Libero Scambio (NAFTA) del 1994 costituisce uno dei più importanti momenti propulsori di questo progetto. Durante tutti gli anni Ottanta e Novanta le industrie intraprendono una politica volta a stimolare la migrazione interna al paese, inviando pullman e promotori ad attrarre lavoratori e lavoratrici migranti fin nei centri d’origine. Se nei primi anni le industrie avevano stimolato l’assunzione di manodopera femminile, innescando una vera femminilizzazione del mercato del lavoro, dalla metà degli anni Ottanta la presenza maschile torna a crescere, soprattutto in settori che fanno uso di tecnologie più avanzate (PEQUEÑO RODRÍGUEZ C. 2005). Segregazione socio-spaziale, violenza strutturale, mondi morali locali La città ha subito grandi e significativi cambiamenti durante gli anni della industrializzazione e delle conseguenti migrazione: grandi parchi industriali sono sorti in zone facilmente collegabili ai ponti internazionali, enormi quartieri-dormitorio sono stati creati dal nulla, spesso dagli stessi migranti, arrivati in un ambiente non preparato ad accoglierli. I quartieri – al nordovest e al sudovest – che si sono formati per “invasione” a seguito delle prime ondate migratorie mancano di infrastrutture e servizi. I peggiori sono fatti di Migrazioni e percorsi dell’identità nel continente americano Chiara Calzolaio Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo. Migrazione, identità e femminicidi... 669 XXIX Convegno Internazionale di Americanistica - Perugia 2, 3, 4, 5, 6, e 7 maggio 2007 abitazioni improvvisate con materiali di scarto e sono carenti delle infrastrutture di base (disponibilità di acqua potabile, drenaggio, elettricità). I più antichi si sono venuti strutturando nel corso degli anni ma continuano a mancare di scuole, servizi sanitari, strutture ricreative. Anche quelle poche aree di più recente insediamento e di migliore infrastrutturazione – al sudest della città – rimangono carenti di servizi collettivi essenziali (scuole, parchi, centri comunitari) che vadano al di là degli enormi e nuovissimi centri commerciali. Le aree industriali sono situate sulle principali vie di comunicazione e queste vengono costruite o migliorate in base alle esigenze dettate dalle industrie. Le aree di commercio e servizi tendono a stabilirsi in zone centrali e vicine alle aree di residenza della popolazione di alti e medi redditi. Queste forti e visibili disuguaglianze all’interno della città per ciò che riguarda infrastrutture e servizi rivelano l’esistenza di quella che Julia Monárrez Fragoso e Carlos Fuentes (MONÁRREZ FRAGOSO J. - FUENTES C. 2004) hanno chiamato una «segregación socio-espacial de la estructura urbana». La maggioranza delle donne uccise viveva nelle zone più marginali e disagiate. Condivido l’interpretazione di Julia Monárrez Fragoso che rifiuta una relazione lineare tra i femminicidi e la violenza diffusa legata alla marginalità sociale. Molte delle donne sono state sequestrate in luoghi diversi da dove vivevano, poi tenute in prigionia, solo dopo l’uccisione i corpi sono stati abbandonati in luoghi desertici ed isolati (generalmente diversi da quelli di residenza). È importante quindi chiedersi perché non tutte le donne siano state ugualmente colpite dalla “sofferenza estrema” (FARMER P. 2003) del femminicidio, ma solo alcune, quelle socioeconomicamente marginali. Riprendendo un concetto elaborato da Jhoan Galtung (GALTUNG J. 1969), Paul Farmer ha proposto la categoria di “violenza strutturale” per indicare come disuguaglianze economico-sociali agiscano sulle vite dei soggetti limitando capacità di scelta e possibilità di azione e rendendo alcuni più vulnerabili di altri alla forme di sofferenza estrema. Utile a far emergere la dimensione socio-economica e politica nascosta sotto i fenomeni di violenza, la categoria di “violenza strutturale” rischia però di rimanere estremamente lontana dall’esperienza delle donne e degli uomini reali che vivono, affrontano, fronteggiano la violenza. Le loro vite non possono essere definite solo nei termini di processi globali, economici e politici (NORDSTROM C. - ROBBEN A. 1994) ma devono essere presi in considerazione anche i modi in cui quei processi di dominazione e di oppressione si consumano nel locale. Come sostiene Arthur Kleinman (KLEINMAN A. 2000) è necessario quindi rimanere vicini all’esperienza umana particolare, soffermandosi sui «mondi morali locali» nei quali le violenze si producono, si giustificano, si vivono. Maquiladoras e pratiche identitarie di genere A questo proposito vorrei quindi soffermarmi sugli effetti che l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro ha avuto sulla vita quotidiana delle donne e sulla percezione di sé. L’arrivo delle maquiladoras produce infatti segregazione e marginalizzazione, ma innesca anche importanti processi identitari che trovano espressione in nuove pratiche e nuove forme di socialità. Nelle testimonianze raccolte emerge spesso l’ambivalenza del giudizio sulle fabbriche e il lavoro operaio. Si riconoscono le difficili condizioni di vita in cui si è costretti a vivere, le difficoltà di ricreare reti sociali di amicizie e condivisioni, la nostalgia per le sicurezze affettive date dai luoghi in cui si è nati e cresciuti. Ma allo stesso tempo appaiono forti i miglioramenti rispetto alle situazioni d’origine. Il fatto di avere un salario fisso, per quanto basso, la possibilità di accedere a dei crediti per comprare una casa, per quanto piccola, un serie di garanzie di sicurezza sociale (come proprio il Seguro Social), per quanto i servizi molte volte siano di bassa qualità, risultano un miglioramento tale rispetto alla situazione di provenienza, che i progetti di ritorno rimangono nel corpo e nella mente come desideri, nostalgie, sogni e poche volte possono essere davvero realizzati. La possibilità di un salario fisso garantisce alle giovani donne una piccola autonomia che permette loro di costruire altri modi di “fare famiglia”. Nel contesto migratorio le donne scelgono di ricreare unità familiari alternative, sole con i proprio figli, o con le loro madri e sorelle: «[…] empiezas a trabajar, empiezas a ganar, tienes un sueldo, empiezas a ganar cierta independencia, entonces claro que si estás sufriendo violencia intrafamiliar, si estás sufriendo una serie de cosas como mujer y te enfrentas a que tú puedes, por ti misma, tú puedes sacar a tu familia adelante, claro que empiezas a tomar decisiones. A parte, te abres a un círculo social más amplio: en las maquiladoras empiezas a tener amigas, compañeros de trabajo, empiezas a ver otras cosas... o sea... tú... se te empieza a abrir el mundo. Ya no es la situación de que si mi marido no me mantiene ya no puedo mantenerme...Y esto empieza a tener, claro una serie de repercusiones. Las mujeres nos vemos de una cierta forma empoderadas y empezamos a tomar decisiones. Y de las decisiones que empezamos a tomar es de que “mi marido no mantiene, mi marido me golpea... entonces ¿por qué estoy con él?” Empezamos a dejarlos. Las mujeres empiezan a dejar a los compañeros y empiezan a vivir solas con sus hijos»(8). Migrazioni e percorsi dell’identità nel continente americano Chiara Calzolaio Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo. Migrazione, identità e femminicidi... 670 XXIX Convegno Internazionale di Americanistica - Perugia 2, 3, 4, 5, 6, e 7 maggio 2007 Uno dei cambiamenti più significativi viene individuato proprio nella possibilità di non sposarsi, di avere figli fuori dal matrimonio, di lasciare mariti spesse volte violenti. Questa tendenza trova un riscontro nella significativa crescita dei nuclei familiari guidati da donne che ormai costituiscono quasi il 40% del totale dei nuclei familiari (CEF 2006b: 82-3). L’autonomia economica significa per le donne inoltre la possibilità di usufruire dei nuovi servizi e dei nuovi “luoghi” di divertimento che hanno riempito il centro della città. Permette loro di uscire, scegliere come e dove divertirsi: «se te empieza a abrir el mundo», dice Elizabeth. Dalle interviste e dai dati raccolti emerge dunque il legame tra l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro ed una progressiva indipendentizzazione tanto economica quanto sociale. Il diffondersi di nuove pratiche legate alla costruzione delle famiglie o ai luoghi e ai modi della socialità non si traduce, però, automaticamente in un riconoscimento e in una rivendicazione della propria autonomia: «…creo que no hemos ganado… o sea, hemos ganado espacios pero hemos cedido otros. O sea no los hemos conquistado a la par. Porque ahora no se reconoce, por ejemplo, que somos jefas de familias. No se reconoce, a mi me parece, por toda la cuestión emocional que hemos venido cargando. Porque no podemos reconocer que hemos tenido triunfos porque detrás de esos siempre está la mujer que ha desafiado, que desafió, a sus abuelitas, a sus suegras, a su mamá y que tomó decisiones en que no estaban de acuerdo. Y entonces es una carga emocional muy fuerte, una carga emocional con la que estamos cargando y que no nos permite ver los otros logros que hemos tenido... o sea, somos una fuerza laboral fuerte en la ciudad. Es más, a nivel, inclusive a nivel nacional, e inclusive de las mujeres que nos quedamos en la casa y que no trabajamos... o sea, sostenemos fuerte la economía porque sostenemos a los hijos que no van a la escuela, sostenemos a los enfermos que nadie atiende para que los compañeros salgan a trabajar. Todo esto como que no lo reconocemos y todo esto a mi me parece que es como el por qué no tenemos la presencia pública y social fuerte. Porque siempre estamos luchando contra “bueno, yo no hago nada...»(9). I processi che interessano la percezione di sé e la costruzione identitaria non sono lineari o automatici: in molti casi le testimonianze esprimono una distanza e una contraddizione tra le pratiche messe in atto dalle donne nella vita quotidiana e la percezione del proprio ruolo nella società. Femminicidi e «lineamientos del orden moral» Il fatto che le donne mettano in pratica modalità alternative di esistenza che rompono con le regole morali condivise non è privo di ripercussioni nel contesto sociale in cui si muovono. Elizabeth ricorda che quando ha iniziato a lavorare in maquila, nel 1989, erano diffusi in città discorsi che mettevano in dubbio la moralità delle operaie. Spiega ancora Elizabeth: «Pero claro que esto como sociedad fue muy fuerte... porque entonces entras en la maquila, te conviertes en una piruja(10) dejas a tu marido, dejas a tu familia, dejas lo que se te ha inculcado como sociedad, como familia, lo dejas y te decides a vivir libremente, entonces ya es otra... otra... cosa con la que las mujeres tenemos que cargar y que la sociedad nos achaca, ¿no? Que no podemos vivir libremente estas libertades que estamos conquistando»(11). Che le donne inizino ad occupare nuovi spazi (le fabbriche ma anche i bar e i locali notturni) e che costruiscano modi alternativi di “fare famiglia” viene discorsivamente interpretato come sintomo di disgregazione morale. Nell’ambiente ecclesiastico si promuovo campagne a favore delle famiglia naturale e dell’ordine sociale basato su di essa (CEF 2006: 82). Quando, dalla metà degli anni Novanta, i femminicidi iniziano a riempire le pagine dei giornali, le autorità religiose e istituzionali sostengono la colpevolizzazione delle vittime e dei loro familiari. Tra le ragioni delle violenze vengono chiamati in causa il modo di vestire delle donne, i luoghi frequentati, gli orari in cui si trovano a girare sole. Si susseguono dichiarazioni che focalizzano l’attenzione sul comportamento delle donne e sulla loro discutibile correttezza morale. Il coordinatore regionale della Procuraduría parla delle vittime come «jovencitas» minori d’età delle quali «no se podría afirmar si comerciaban o no con su cuerpo, lo que sí es seguro es que las conocían muy bien en los centros nocturnos» (CNDH 1998). Il governatore dello Stato di Chihuahua che aveva fatto della lotta ai femminicidi un baluardo della sua campagna elettorale, una volta eletto dichiara che «estas mujeres no venían precisamente de misa cuando fueron atacadas» (DON MIRONE, “Norte”, 13-5-1998). Queste ed altre dichiarazioni pubblicate dai giornali alla fine degli anni Novanta esprimono chiaramente quali sono i modelli di genere ritenuti moralmente accettabili e giustificano esplicitamente i rischi che si corrono nel trasgredirli(12). In uno dei Rapporti Ufficiali presentati dalla Procuraduría si fa esplicitamente riferimento a «lineamientos del orden moral» trasgrediti dalle ragazze vittime di violenza(13). Iniziano ad emergere i contorni di un ordine sociale che marca chiaramente ruoli e possibilità di donne e uomini e legittima i rischi per chi li trasgredisce. Le forze egemoniche e la profondità storica dei modelli di genere sono confermate dal Migrazioni e percorsi dell’identità nel continente americano Chiara Calzolaio Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo. Migrazione, identità e femminicidi... 671 XXIX Convegno Internazionale di Americanistica - Perugia 2, 3, 4, 5, 6, e 7 maggio 2007 fatto che i discorsi volti ad incolpare le vittime sono diffusi anche tra persone la cui condizione sociale e di genere e la cui storia personale sembrerebbero sufficienti per elaborare una posizione alternativa. Il legame tra i processi sociali in atto e l’esplosione della violenza femminicida sembra chiarirsi: i cambiamenti sociali che hanno interessato Ciudad Juárez nell’ultimo quarto di secolo non hanno trovato conferma in un mutamento ideologico-culturale (per lo meno non in modo generalizzato). Il lavoro in fabbrica, i bar e i locali notturni sono luoghi dove la presenza femminile si è ormai imposta. Eppure continuano ad essere percepiti come spazi non femminili, moralmente sbagliati. La violenza contro le donne esprime precisamente questo giudizio e questa imposizione. La sancisce. Colpisce alcune donne – quelle economicamente più vulnerabili – per ribadire la fissità delle possibilità di vita di tutte. La violenza viene giustificata come normale e legittima dal momento che si dirige contro quelle donne che occupano spazi e tempi che non sono loro “genericamente” assegnati (HIERRO G. 2004). In questo modo si avvisa la società e allo stesso tempo la si tranquillizza di fronte alla condotta impropria, inadeguata, irresponsabile di chi è stata uccisa (MONÁRREZ FRAGOSO J. 2005b). Le campagne di prevenzione promuovono una responsabilizzazione delle donne che si traduce nell’accettazione di una restrizione delle loro libertà e della loro autonomia. I femminicidi vanno letti come espressione di una violenza di genere che si fonda su una condizione di disuguaglianza e discriminazione, nella quale trovano giustificazione e legittimazione e grazie alla quale vestono abiti di naturalità e normalità. Note (1) Centro de crisis Casa Amiga A.C., una delle prime organizzazioni non governative ad iniziare un “conteggio” degli assassini di donne, riporta 265 casi nel periodo 1993-2003. Nuestras Hijas de Regresso a Casa, associazione di familiari di vittime nata nel 2001, parla di 430 femminicidi e 600 desapariciones nel periodo 1993-2005, cifra molto vicina ai 433 casi sostenuti da Justicia para Nuestras Hijas, altra organizzazione di familiari di vittime della città di Chihuahua. Amnesty International a sua volta denuncia 370 femminicidi dal 1993 al 2003 (AI 2003). La Comisión Nacional de Derechos Humanos (CNDH) nello stesso periodo sostiene di avere informazione su 263 casi di donne uccise (CNDH 2003) mentre la Comisión Interamericana de derechos Humanos (CIDH) parla di almeno 285 donne e bambine uccise nel municipio di Juárez nel periodo 1993-2002 (CIDH 2003). (2) Il termine è difficilmente traducibile. Si potrebbe utilizzare una parafrasi come “fatte sparire”. Preferisco mantenere la dicitura originale, ormai internazionalmente diffusa, per la sua valenza politica ed interpretativa. La Convención Interamericana sobre Desaparición Forzada de Personas, firmata il 9 giugno 1994 a Belem do Pará (Brasile), definisce, nell’articolo II, desaparición forzada «...la privación de la libertad a una o más personas, cualquiera que fuere su forma, cometida por agentes del Estado o por personas o grupos de personas que actúen con la autorización, el apoyo o la aquiescencia del Estado, seguida de la falta de información o de la negativa a reconocer dicha privación de libertad o de informar sobre el paradero de la persona, con lo cual se impide el ejercicio de los recursos legales y de las garantías procesales pertinentes» (OEA 1994). Tutti i Rapporti e le Raccomandazioni nazionali ed internazionali che sono stati pubblicati sul caso di Ciudad Juárez denunciano gravi negligenze da parte di funzionari statali responsabili di amministrare la giustizia: insabbiamento di prove, incompletezza degli atti giudiziari, utilizzo della tortura per estorcere confessioni, “fabbricazione” di colpevoli, minacce ed attentati a giornalisti, avvocati, attivisti ed attiviste (CNDH 1998; UN-CEDAW 2005; CEF 2006b; PÉREZ DUARTE A. 2006). A questo si accompagna un atteggiamento cinico e colpevolmente indifferente delle autorità nei confronti dei familiari delle vittime nei momenti della denuncia della scomparsa, delle indagini, del riconoscimento del cadavere e delle analisi per confermare l’identità della vittima, delle successive richieste per ottenere verità e giustizia (MONÁRREZ J. 2005b). (3) Per una dettagliata ed aggiornata analisi della situazione socio-economica di donne e uomini di Ciudad Juárez, delle cifre (ufficiali e ufficiose) di femminicidi e desapariciones, delle investigazioni svolte a livello statale e federale, delle risposte istituzionali e giuridiche ai crimini, delle denuncie pubbliche di associazioni civili, ONG ed istituzioni di Diritti Umani, si può consultare il rapporto presentato dalla Comisión Especial para los Feminicidios sulla Violencia Feminicida en Chihuahua (CEF 2006). (4) Comisión Especial para Conocer y Dar Seguimiento a las Investigaciones Relacionadas con los Feminicidios en la República Mexicana y a la Procuración de Justicia Vinculada, nel testo, per brevità, Comisión Especial para los Feminicidios. (5) Il 1998 segna l’anno della prima raccomandazione ufficiale diretta al governo federale messicano da parte di una istituzione nazionale, la Comisión Nacional de Derechos Humanos (CNDH 1998). La prima rappresentante di un organismo internazionale a pronunciarsi a proposito della situazione di violenza contro le donne nel municipio di Juárez e a denunciare la situazioni di impunità è Asma Jahangir, nel 1999 Relatrice Speciale delle Nazioni Unite su Esecuzioni Extragiudiziarie, Sommarie o Arbitrarie (CEF 2006b: 157). Altri segnali di un crescente interesse internazionale sono presenti nel Rapporto del Relatore Speciale delle Nazioni Unite sull’ Indipendenza di Magistrati e Avvocati, Dato Param Cumaraswamy, presentato nel 2002 (CEF 200b: 158) mentre è del marzo del 2003 la Relazione sulla Situación de los Derechos de la Mujer en Ciudad Juárez, México della Relatrice Speciale su Diritti della Donna della Comisión Interamericana de Migrazioni e percorsi dell’identità nel continente americano Chiara Calzolaio Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo. Migrazione, identità e femminicidi... 672 XXIX Convegno Internazionale di Americanistica - Perugia 2, 3, 4, 5, 6, e 7 maggio 2007 Derechos Humanos (CIDH 2003). Nell’agosto dello stesso anno esce il rapporto di Amnesty International, Muertes Intolerables. Diez años de desapariciones y asesinatos de mujeres en Ciudad Juárez y Chihuahua (AI 2003) e alla fine dello stesso anno quello della Commissione di Esperti Internazionali dell’Agenzia delle Nazioni Unite contro la Droga e il Delitto sulla Missione a Ciudad Juárez (UNODC 2003). Sempre del 2003 è un nuovo Rapporto Speciale della CNDH (CNDH 2003). Nel 2005 viene presentato il Rapporto della Relatrice del Comitato di Pari Opportunità per Donne e Uomini del Parlamento del Consiglio Europeo, Ruth-Gaby Vermot-Mangold, (VERMOT-MANGOLD R.-G. 2005), nella sua versione in spagnolo curata dalla CEF: Desaparciciones y homicidios de un gran número de mujeres y niñas en México. Sempre del 2005 è il Rapporto presentato dalle rappresentanti del Committee on the Elimination of Discrimination Against Women della Convenzione per l’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Contro le Donne (CEDAW) (UN-CEDAW 2005). Il Rapporto ufficiale più recente è di Yakin Ertürk, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, che nel 2005 ha effettuato una missione in Messico (ERTÜRK Y. 2006). (6) Il più famoso tra i vari accusati è Abdel Latif Sharif, chimico egiziano estradato dagli Stati Uniti per violenze sessuali, arrestato a Ciudad Juárez dalla polizia dello stato di Chihuahua nel 1995, con l’accusa di aver stuprato una prostituta (WASHINGTON VALDÉZ D. 2005: 146). Nel 1996 viene inoltre accusato di pagare i membri di una gang locale, conosciuti come Los Rebeldes, per commettere 17 assassini di donne ed in tal modo scagionarlo dalle accuse. Malgrado sia stato riconosciuto innocente per mancanza di prove sufficienti, non viene liberato a causa di una nuova accusa di omicidio contro una donna. Inoltre viene accusato di aver pagato ad un gruppo di autisti di autobus urbano perché uccidessero sette donne. Malgrado le denuncie di irregolarità e deficienze nelle investigazioni (in particolare torture e minacce a testimoni ed accusati, ed un grave attentato contro il figlio dell’avvocata di Sharif) (WASHINGTON D. 2005: 150) è rimasto in carcere fino alla morte avvenuta il 1° giugno scorso. Ma il caso di Sharif non è l’unico: nel 2001 due autisti di autobus urbano vengono accusati del sequestro, lo stupro e l’omicidio di otto giovani donne ritrovate in un campo abbandonato in una zona centrale della città (conosciuto come campo algodonero). Anche in questo caso vengono denunciate torture. A pochi mesi dall’arresto degli autisti, in febbraio 2002, la polizia statale uccide l’avvocato di uno dei due, sostenendo di averlo confuso con un narcotrafficante. Nel 2003 uno dei due autisti muore in carcere in seguito ad una semplice operazione di ernia (che l’accusato ha sostenuto essere stata provocata dalle torture subite). Nel 2005 esce dal carcere il secondo degli autisti accusati, a seguito di pressioni esercitate da organizzazioni civili, difensori dei Diritti Umani, politici ed organizzazioni internazionali. È di gennaio 2006 la notizia dell’uccisione in un assalto dell’avvocato difensore di quest’ultimo. (7) A Ciudad Juárez ha il centro uno dei più importanti cartelli della droga messicani, quello dei Carrillo Fuentes. In Messico il campo del traffico di droghe illegali nasce negli anni Venti del Novecento a partire del consolidamento negli Stati Uniti del sistema proibizionista. Fin dalla nascita si costituisce come strutturalmente subordinato al campo del potere politico (ASTORGA L. 2002, 2005). Il narcotraffico, cioè, non si infiltra poco a poco nel sistema politico: «aparece en sus inicios como uno más de los negocios posibles desde el poder político y supeditado por éste» (ASTORGA L. 2005: 182). Le stesse istituzioni incaricate di combatterlo lo hanno protetto, ma hanno rappresentato alla stesso tempo uno strumento per una regolamentazione, un controllo, un contenimento. Con la progressiva destrutturazione del sistema politico post-rivoluzionario basato nella concentrazione centralistica del potere nell’esecutivo federale e nel(la forza del) partito di Stato (che inizia alla fine degli anni Ottanta e culmina nel 2000 con l’elezione di Fox, primo presidente di un partito d’opposizione, il PAN) si creano le condizioni di possibilità di una autonomia relativa del campo del traffico di droga rispetto al potere politico (ASTORGA L. 2005: 161-2). L’aumento spaventoso dei livelli di violenza legati al traffico di droga negli anni Novanta è da legare a questa autonomizzazione relativa (ASTORGA L. 2005: 163). (8) Intervista realizzata a Ciudad Juárez il 17-04-2006. (9) Vedi nota 8. (10) Piruja, espressione familiare per “prostituta”. (11) Vedi nota 8. (12) Ancora più paradigmatico di questa tendenza a naturalizzare la violenza è il commento di Armando Rodríguez, Procurador de Justicia del Estado di Chihuahua, secondo cui: «hay lamentablemente mujeres que por sus condiciones de vida, los lugares donde realizan sus actividades, están en riesgo, porque sería muy dificil que alguien que saliera a la calle cuando está lloviendo, pues sería muy dificil que no se mojara» (RODRIGUEZ A., “El Diario”, 24-02-1999). (13) Si legge nell’ Informe de Homicidios en Perjuicio de Mujeres en Ciudad Juárez, Chihuahua, 1993-1998, presentato dalla Subprocuraduría de Justicia del Estado de la Zona Norte: «es importante hacer notar que la conducta de algunas de las víctimas no concuerda con esos lineamientos del orden moral toda vez que se ha desbordado una frecuencia de asistir a altas horas de la noche a centros de diversión no aptos para su edad en algunos casos» (citato da MONÁRREZ J. 2002: 286, corsivo mio). Migrazioni e percorsi dell’identità nel continente americano Chiara Calzolaio Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo. 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