Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo

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Chiara Calzolaio Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo. Migrazione, identità e femminicidi...
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XXIX Convegno Internazionale di Americanistica - Perugia 2, 3, 4, 5, 6, e 7 maggio 2007
Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo.
Migrazione, identità e femminicidi a Ciudad Juárez
(Chihuahua, México)
Chiara Calzolaio
Università di Bologna, Italia
Il mio contributo è frutto di una esperienza di ricerca sul campo svolta a Ciudad Juárez, città messicana alla
frontiera con gli Stati Uniti, nell’aprile e nell’agosto del 2006. Le riflessioni che proporrò rappresentano il
tentativo di tracciare alcune linee interpretative riguardo a un fenomeno di violenza che sta colpendo
centinaia di donne a Ciudad Juárez. Questo contributo non esaurisce in alcun modo la complessità del
fenomeno. Si propone invece di approfondire alcuni suoi aspetti socio-culturali legati alle trasformazioni che
ha vissuto la città negli ultimi trenta anni, alle ripercussioni che queste hanno avuto sulle pratiche e sulla
percezione di sé delle donne, alle tensioni di un ordine sociale che riconosce precisi modelli di genere e ai
modi in cui queste tensioni si materializzano nelle sofferenze inflitte sui corpi delle donne.
Las muertas de Juárez
Nel periodo che va dal 1993 al 2005 sono state assassinate a Ciudad Juárez molte centinaia di donne e
bambine, 379 secondo i dati della Procuraduría General de la República (PGR), più di 400 secondo varie
organizzazioni civili e non governative cittadine, nazionali ed internazionali(1). Alle vittime “certe” si
aggiungono centinaia di desaparecidas(2), 260 nel periodo 1993-2003 secondo i dati della Comisión Interaméricana
de Derechos Humanos (CIDH), più di 600 secondo diverse associazioni civili locali. La forte discordanza di cifre
tra istituzioni governative ed organizzazioni non governative e la difficoltà nello stabilire chiaramente il
numero dei femminicidi sono indicativi di una più generale carenza di documentazione ufficiale attendibile e
completa sulla violenza contro le donne (CEF 2006; MONÁRREZ FRAGOSO J. 2005).
Molte donne furono sequestrate e subirono violenze sessuali, mutilazioni, torture, per poi essere uccise e
lasciate in campi abbandonati, tra strade degradate, nel deserto che circonda la città. La maggior parte delle
donne assassinate erano operaie, impiegate o studentesse, appartenenti a settori sociali economicamente
marginali. Molte erano migranti(3).
La presentazione di dati non vuole ignorare l’individualità e la drammaticità di ogni singola storia personale,
scadendo in quella che Julia Monárrez Fragoso chiama una «generalización descriptiva de la memoria»
(MONÁRREZ FRAGOSO J. 2005: 105). Tuttavia l’enormità dei numeri e l’efferatezza dei delitti consente di
avere almeno un primo ed inevitabilmente generico quadro del fenomeno: Ciudad Juárez è un luogo in cui si
concentrano femminicidi.
Il termine “femminicidio” entra nel linguaggio giornalistico locale fin dalla fine degli anni Novanta nella sua
accezione letterale, come neutro equivalente femminile di “omicidio”. Vorrei far propria però la prospettiva
di accademiche e attiviste femministe che, sulla scia di alcune ricerche statunitensi di criminalistica femminista
(RADFORD J. - RUSSELL D. 1992; RUSSELL D. - HARMES R. 2006 [2001]), danno al termine un’accezione
politica ed interpretativa. In questa prospettiva la categoria di femminicidio viene definita come assassinio di
una donna per il solo motivo di essere donna (LAGARDE M. 1994, 2005; MONÁRREZ FRAGOSO J. 2000,
2002, 2005a, 2005b). La Commisión Especial para los Feminicidios (CEF)(4), commissione della Camera dei
Deputati creata per portare avanti una ricerca sulla diffusione e l’incidenza dei femminicidi nella Repubblica
messicana, adotta esplicitamente tale prospettiva interpretativa. Esula dai fini di queste brevi riflessioni
approfondire come meriterebbe la categoria di genere. Vorrei però chiarire che quando ne parlo faccio
riferimento alle costruzioni socio-culturali del maschile e del femminile, della maschilità e della femminilità,
prodotte e riprodotte da contesti storici particolari (RUBIN G. 1975; SCOTT J. 1986; PICCONE STELLA S. SARACENO C. 1996).
Grazie all’incessante lavoro svolto da associazioni di familiari delle vittime e da altre organizzazioni locali i
femminicidi sono stati portati all’attenzione dell’opinione pubblica messicana e mondiale(5). Invece di
impiegare energie e risorse nella risoluzione dei crimini le autorità locali – tanto statali quanto municipali –
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hanno minimizzato a lungo la gravità delle violenze, criminalizzando la condotta delle donne e incarcerando
veri e proprio “capri espiatori”, individui con precedenti penali adattabili al caso, provenienti da gruppi sociali
etichettati come marginali e violenti(6). Si sono diffuse teorie che condividono un immaginario
cinematografico popolato di mostruosi serial killer, rituali satanici, orge assassine, traffici di organi o di snuff
movies. “Las muertas de Juárez” sono diventate un ennesimo, scandaloso caso di cronaca nera attribuito a
patologie individuali o collettive non “strutturalmente” legate alla società (DOMÍNGUEZ RUVALCABA H. RAVELO BLANCAS P. 2003), limitato a settori marginali e “degradati” che si posizionano fuori dalle norme
morali condivise e per questo commettono o subiscono violenze.
L’antropologia, di fronte a discorsi che tendono a naturalizzare e de-storicizzare la violenza, può porsi in una
posizione critica. Per far questo può provare a far emergere i processi storici, umani che costruiscono le realtà
della violenza (NORDSTROM C. - ROBBEN A. 1994). Può svelare le relazioni di potere che vengono da esse
riaffermate e riprodotte; decostruire i discorsi che le legittimano.
Nel tentativo di superare visioni semplicistiche e scandalistiche dei femminicidi proverò ad approfondire il
contesto storico-sociale di Ciudad Juárez ed i cambiamenti che ha vissuto negli ultimi trenta anni. Cercherò di
mettere in luce i modi in cui tali cambiamenti hanno messo in atto nuove pratiche ed innescato processi
identitari di genere. Da ultimo mi soffermerò sulle reazioni ai femminicidi dell’opinione pubblica e delle
autorità locali per far emergere le tensioni esistenti tra quelle pratiche e quei processi e i modelli di genere
dominanti.
Alla frontiera tra un Nord e un Sud del mondo: maquiladoras e migrazione
Ciudad Juárez si trova sulla linea di frontiera tra Messico e Stati Uniti. Arrivando con l’aereo a Ciudad Juárez
si ha l’impressione di stare atterrando in un’unica enorme città “binazionale” (negli Stati Uniti le chiamano
twin cities – città gemelle), circondata da montagne e deserto, tagliata a metà da un fiume che per la maggior
parte dell’anno è in secca e “ricucita” da tre grandi ponti strapieni di macchine e persone a tutte le ore del
giorno e della notte. Solo una volta a terra si iniziano a percepire gli effetti del condividere il territorio di
frontiera con il paese più ricco del mondo. In particolare sono sempre più evidenti i controlli sul traffico di
droga(7) e le migrazioni illegali che rientrano in quel progetto di militarizzazione della frontiera portato avanti
dal governo statunitense negli ultimi anni e volto ad ostacolare la migrazione illegale degli almeno due milioni
di donne e uomini che ogni anno cercano di varcare la frontiera. Di questi solo un quarto vi riesce. I più
fortunati vengono rimpatriati in Messico, per ritornare nei luoghi di origine o restare nelle grandi città della
frontiera, aspettando di riuscire a varcare il confine.
La popolazione della città si è quasi triplicata negli ultimi venti anni a causa della forte migrazione di donne e
uomini provenienti dai vicini stati del Nord (soprattutto Durango, Coahuila, Zacatecas) ma anche, dalla metà
degli anni Novanta, dal Sud del paese ed in particolare dallo stato di Veracruz. La forza attrattiva che ha
letteralmente calamitato migliaia di persone verso Ciudad Juárez, accanto alla speranza di raggiungere il
“sogno” statunitense, è stata l’istallazione, a partire dalla fine degli anni Sessanta, di maquiladoras, fabbriche
d’esportazione di prevalente proprietà straniera che beneficiano di un regime fiscale speciale e consentono
bassi costi di fabbricazione. Come hanno evidenziato Cirilia Quintero Ramírez e María Eugenia De la O
(QUINTERO RAMÍREZ C. - DE LA O M. E. 2003), il progetto di industrializzazione attraverso maquiladoras
costituisce lo strumento attraverso cui il Messico si inserisce nella de-localizzazione internazionale dei
processi produttivi. L’Accordo Nordamericano di Libero Scambio (NAFTA) del 1994 costituisce uno dei più
importanti momenti propulsori di questo progetto.
Durante tutti gli anni Ottanta e Novanta le industrie intraprendono una politica volta a stimolare la
migrazione interna al paese, inviando pullman e promotori ad attrarre lavoratori e lavoratrici migranti fin nei
centri d’origine. Se nei primi anni le industrie avevano stimolato l’assunzione di manodopera femminile,
innescando una vera femminilizzazione del mercato del lavoro, dalla metà degli anni Ottanta la presenza
maschile torna a crescere, soprattutto in settori che fanno uso di tecnologie più avanzate (PEQUEÑO
RODRÍGUEZ C. 2005).
Segregazione socio-spaziale, violenza strutturale, mondi morali locali
La città ha subito grandi e significativi cambiamenti durante gli anni della industrializzazione e delle
conseguenti migrazione: grandi parchi industriali sono sorti in zone facilmente collegabili ai ponti
internazionali, enormi quartieri-dormitorio sono stati creati dal nulla, spesso dagli stessi migranti, arrivati in
un ambiente non preparato ad accoglierli. I quartieri – al nordovest e al sudovest – che si sono formati per
“invasione” a seguito delle prime ondate migratorie mancano di infrastrutture e servizi. I peggiori sono fatti di
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abitazioni improvvisate con materiali di scarto e sono carenti delle infrastrutture di base (disponibilità di
acqua potabile, drenaggio, elettricità). I più antichi si sono venuti strutturando nel corso degli anni ma
continuano a mancare di scuole, servizi sanitari, strutture ricreative. Anche quelle poche aree di più recente
insediamento e di migliore infrastrutturazione – al sudest della città – rimangono carenti di servizi collettivi
essenziali (scuole, parchi, centri comunitari) che vadano al di là degli enormi e nuovissimi centri commerciali.
Le aree industriali sono situate sulle principali vie di comunicazione e queste vengono costruite o migliorate in
base alle esigenze dettate dalle industrie. Le aree di commercio e servizi tendono a stabilirsi in zone centrali e
vicine alle aree di residenza della popolazione di alti e medi redditi. Queste forti e visibili disuguaglianze
all’interno della città per ciò che riguarda infrastrutture e servizi rivelano l’esistenza di quella che Julia
Monárrez Fragoso e Carlos Fuentes (MONÁRREZ FRAGOSO J. - FUENTES C. 2004) hanno chiamato una
«segregación socio-espacial de la estructura urbana».
La maggioranza delle donne uccise viveva nelle zone più marginali e disagiate. Condivido l’interpretazione di
Julia Monárrez Fragoso che rifiuta una relazione lineare tra i femminicidi e la violenza diffusa legata alla
marginalità sociale. Molte delle donne sono state sequestrate in luoghi diversi da dove vivevano, poi tenute in
prigionia, solo dopo l’uccisione i corpi sono stati abbandonati in luoghi desertici ed isolati (generalmente
diversi da quelli di residenza). È importante quindi chiedersi perché non tutte le donne siano state ugualmente
colpite dalla “sofferenza estrema” (FARMER P. 2003) del femminicidio, ma solo alcune, quelle socioeconomicamente marginali. Riprendendo un concetto elaborato da Jhoan Galtung (GALTUNG J. 1969), Paul
Farmer ha proposto la categoria di “violenza strutturale” per indicare come disuguaglianze economico-sociali
agiscano sulle vite dei soggetti limitando capacità di scelta e possibilità di azione e rendendo alcuni più
vulnerabili di altri alla forme di sofferenza estrema. Utile a far emergere la dimensione socio-economica e
politica nascosta sotto i fenomeni di violenza, la categoria di “violenza strutturale” rischia però di rimanere
estremamente lontana dall’esperienza delle donne e degli uomini reali che vivono, affrontano, fronteggiano la
violenza. Le loro vite non possono essere definite solo nei termini di processi globali, economici e politici
(NORDSTROM C. - ROBBEN A. 1994) ma devono essere presi in considerazione anche i modi in cui quei
processi di dominazione e di oppressione si consumano nel locale. Come sostiene Arthur Kleinman
(KLEINMAN A. 2000) è necessario quindi rimanere vicini all’esperienza umana particolare, soffermandosi sui
«mondi morali locali» nei quali le violenze si producono, si giustificano, si vivono.
Maquiladoras e pratiche identitarie di genere
A questo proposito vorrei quindi soffermarmi sugli effetti che l’inserimento delle donne nel mercato del
lavoro ha avuto sulla vita quotidiana delle donne e sulla percezione di sé. L’arrivo delle maquiladoras produce
infatti segregazione e marginalizzazione, ma innesca anche importanti processi identitari che trovano
espressione in nuove pratiche e nuove forme di socialità. Nelle testimonianze raccolte emerge spesso
l’ambivalenza del giudizio sulle fabbriche e il lavoro operaio. Si riconoscono le difficili condizioni di vita in cui
si è costretti a vivere, le difficoltà di ricreare reti sociali di amicizie e condivisioni, la nostalgia per le sicurezze
affettive date dai luoghi in cui si è nati e cresciuti. Ma allo stesso tempo appaiono forti i miglioramenti rispetto
alle situazioni d’origine. Il fatto di avere un salario fisso, per quanto basso, la possibilità di accedere a dei
crediti per comprare una casa, per quanto piccola, un serie di garanzie di sicurezza sociale (come proprio il
Seguro Social), per quanto i servizi molte volte siano di bassa qualità, risultano un miglioramento tale rispetto
alla situazione di provenienza, che i progetti di ritorno rimangono nel corpo e nella mente come desideri,
nostalgie, sogni e poche volte possono essere davvero realizzati.
La possibilità di un salario fisso garantisce alle giovani donne una piccola autonomia che permette loro di
costruire altri modi di “fare famiglia”. Nel contesto migratorio le donne scelgono di ricreare unità familiari
alternative, sole con i proprio figli, o con le loro madri e sorelle: «[…] empiezas a trabajar, empiezas a ganar,
tienes un sueldo, empiezas a ganar cierta independencia, entonces claro que si estás sufriendo violencia
intrafamiliar, si estás sufriendo una serie de cosas como mujer y te enfrentas a que tú puedes, por ti misma, tú
puedes sacar a tu familia adelante, claro que empiezas a tomar decisiones. A parte, te abres a un círculo social
más amplio: en las maquiladoras empiezas a tener amigas, compañeros de trabajo, empiezas a ver otras
cosas... o sea... tú... se te empieza a abrir el mundo. Ya no es la situación de que si mi marido no me mantiene
ya no puedo mantenerme...Y esto empieza a tener, claro una serie de repercusiones. Las mujeres nos vemos
de una cierta forma empoderadas y empezamos a tomar decisiones. Y de las decisiones que empezamos a
tomar es de que “mi marido no mantiene, mi marido me golpea... entonces ¿por qué estoy con él?”
Empezamos a dejarlos. Las mujeres empiezan a dejar a los compañeros y empiezan a vivir solas con sus
hijos»(8).
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Uno dei cambiamenti più significativi viene individuato proprio nella possibilità di non sposarsi, di avere figli
fuori dal matrimonio, di lasciare mariti spesse volte violenti. Questa tendenza trova un riscontro nella
significativa crescita dei nuclei familiari guidati da donne che ormai costituiscono quasi il 40% del totale dei
nuclei familiari (CEF 2006b: 82-3).
L’autonomia economica significa per le donne inoltre la possibilità di usufruire dei nuovi servizi e dei nuovi
“luoghi” di divertimento che hanno riempito il centro della città. Permette loro di uscire, scegliere come e
dove divertirsi: «se te empieza a abrir el mundo», dice Elizabeth.
Dalle interviste e dai dati raccolti emerge dunque il legame tra l’inserimento delle donne nel mercato del
lavoro ed una progressiva indipendentizzazione tanto economica quanto sociale. Il diffondersi di nuove
pratiche legate alla costruzione delle famiglie o ai luoghi e ai modi della socialità non si traduce, però,
automaticamente in un riconoscimento e in una rivendicazione della propria autonomia: «…creo que no
hemos ganado… o sea, hemos ganado espacios pero hemos cedido otros. O sea no los hemos conquistado a
la par. Porque ahora no se reconoce, por ejemplo, que somos jefas de familias. No se reconoce, a mi me
parece, por toda la cuestión emocional que hemos venido cargando. Porque no podemos reconocer que
hemos tenido triunfos porque detrás de esos siempre está la mujer que ha desafiado, que desafió, a sus
abuelitas, a sus suegras, a su mamá y que tomó decisiones en que no estaban de acuerdo. Y entonces es una
carga emocional muy fuerte, una carga emocional con la que estamos cargando y que no nos permite ver los
otros logros que hemos tenido... o sea, somos una fuerza laboral fuerte en la ciudad. Es más, a nivel, inclusive
a nivel nacional, e inclusive de las mujeres que nos quedamos en la casa y que no trabajamos... o sea,
sostenemos fuerte la economía porque sostenemos a los hijos que no van a la escuela, sostenemos a los
enfermos que nadie atiende para que los compañeros salgan a trabajar. Todo esto como que no lo
reconocemos y todo esto a mi me parece que es como el por qué no tenemos la presencia pública y social
fuerte. Porque siempre estamos luchando contra “bueno, yo no hago nada...»(9).
I processi che interessano la percezione di sé e la costruzione identitaria non sono lineari o automatici: in
molti casi le testimonianze esprimono una distanza e una contraddizione tra le pratiche messe in atto dalle
donne nella vita quotidiana e la percezione del proprio ruolo nella società.
Femminicidi e «lineamientos del orden moral»
Il fatto che le donne mettano in pratica modalità alternative di esistenza che rompono con le regole morali
condivise non è privo di ripercussioni nel contesto sociale in cui si muovono. Elizabeth ricorda che quando
ha iniziato a lavorare in maquila, nel 1989, erano diffusi in città discorsi che mettevano in dubbio la moralità
delle operaie. Spiega ancora Elizabeth: «Pero claro que esto como sociedad fue muy fuerte... porque entonces
entras en la maquila, te conviertes en una piruja(10) dejas a tu marido, dejas a tu familia, dejas lo que se te ha
inculcado como sociedad, como familia, lo dejas y te decides a vivir libremente, entonces ya es otra... otra...
cosa con la que las mujeres tenemos que cargar y que la sociedad nos achaca, ¿no? Que no podemos vivir
libremente estas libertades que estamos conquistando»(11).
Che le donne inizino ad occupare nuovi spazi (le fabbriche ma anche i bar e i locali notturni) e che
costruiscano modi alternativi di “fare famiglia” viene discorsivamente interpretato come sintomo di
disgregazione morale. Nell’ambiente ecclesiastico si promuovo campagne a favore delle famiglia naturale e
dell’ordine sociale basato su di essa (CEF 2006: 82). Quando, dalla metà degli anni Novanta, i femminicidi
iniziano a riempire le pagine dei giornali, le autorità religiose e istituzionali sostengono la colpevolizzazione
delle vittime e dei loro familiari. Tra le ragioni delle violenze vengono chiamati in causa il modo di vestire
delle donne, i luoghi frequentati, gli orari in cui si trovano a girare sole. Si susseguono dichiarazioni che
focalizzano l’attenzione sul comportamento delle donne e sulla loro discutibile correttezza morale. Il
coordinatore regionale della Procuraduría parla delle vittime come «jovencitas» minori d’età delle quali «no se
podría afirmar si comerciaban o no con su cuerpo, lo que sí es seguro es que las conocían muy bien en los
centros nocturnos» (CNDH 1998). Il governatore dello Stato di Chihuahua che aveva fatto della lotta ai
femminicidi un baluardo della sua campagna elettorale, una volta eletto dichiara che «estas mujeres no venían
precisamente de misa cuando fueron atacadas» (DON MIRONE, “Norte”, 13-5-1998). Queste ed altre
dichiarazioni pubblicate dai giornali alla fine degli anni Novanta esprimono chiaramente quali sono i modelli
di genere ritenuti moralmente accettabili e giustificano esplicitamente i rischi che si corrono nel
trasgredirli(12). In uno dei Rapporti Ufficiali presentati dalla Procuraduría si fa esplicitamente riferimento a
«lineamientos del orden moral» trasgrediti dalle ragazze vittime di violenza(13). Iniziano ad emergere i
contorni di un ordine sociale che marca chiaramente ruoli e possibilità di donne e uomini e legittima i rischi
per chi li trasgredisce. Le forze egemoniche e la profondità storica dei modelli di genere sono confermate dal
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fatto che i discorsi volti ad incolpare le vittime sono diffusi anche tra persone la cui condizione sociale e di
genere e la cui storia personale sembrerebbero sufficienti per elaborare una posizione alternativa.
Il legame tra i processi sociali in atto e l’esplosione della violenza femminicida sembra chiarirsi: i cambiamenti
sociali che hanno interessato Ciudad Juárez nell’ultimo quarto di secolo non hanno trovato conferma in un
mutamento ideologico-culturale (per lo meno non in modo generalizzato). Il lavoro in fabbrica, i bar e i locali
notturni sono luoghi dove la presenza femminile si è ormai imposta. Eppure continuano ad essere percepiti
come spazi non femminili, moralmente sbagliati. La violenza contro le donne esprime precisamente questo
giudizio e questa imposizione. La sancisce. Colpisce alcune donne – quelle economicamente più vulnerabili –
per ribadire la fissità delle possibilità di vita di tutte. La violenza viene giustificata come normale e legittima
dal momento che si dirige contro quelle donne che occupano spazi e tempi che non sono loro
“genericamente” assegnati (HIERRO G. 2004). In questo modo si avvisa la società e allo stesso tempo la si
tranquillizza di fronte alla condotta impropria, inadeguata, irresponsabile di chi è stata uccisa (MONÁRREZ
FRAGOSO J. 2005b). Le campagne di prevenzione promuovono una responsabilizzazione delle donne che si
traduce nell’accettazione di una restrizione delle loro libertà e della loro autonomia.
I femminicidi vanno letti come espressione di una violenza di genere che si fonda su una condizione di
disuguaglianza e discriminazione, nella quale trovano giustificazione e legittimazione e grazie alla quale
vestono abiti di naturalità e normalità.
Note
(1) Centro de crisis Casa Amiga A.C., una delle prime organizzazioni non governative ad iniziare un “conteggio” degli
assassini di donne, riporta 265 casi nel periodo 1993-2003. Nuestras Hijas de Regresso a Casa, associazione di familiari di
vittime nata nel 2001, parla di 430 femminicidi e 600 desapariciones nel periodo 1993-2005, cifra molto vicina ai 433 casi
sostenuti da Justicia para Nuestras Hijas, altra organizzazione di familiari di vittime della città di Chihuahua. Amnesty
International a sua volta denuncia 370 femminicidi dal 1993 al 2003 (AI 2003). La Comisión Nacional de Derechos Humanos
(CNDH) nello stesso periodo sostiene di avere informazione su 263 casi di donne uccise (CNDH 2003) mentre la Comisión
Interamericana de derechos Humanos (CIDH) parla di almeno 285 donne e bambine uccise nel municipio di Juárez nel periodo
1993-2002 (CIDH 2003).
(2) Il termine è difficilmente traducibile. Si potrebbe utilizzare una parafrasi come “fatte sparire”. Preferisco mantenere la
dicitura originale, ormai internazionalmente diffusa, per la sua valenza politica ed interpretativa. La Convención
Interamericana sobre Desaparición Forzada de Personas, firmata il 9 giugno 1994 a Belem do Pará (Brasile), definisce,
nell’articolo II, desaparición forzada «...la privación de la libertad a una o más personas, cualquiera que fuere su forma,
cometida por agentes del Estado o por personas o grupos de personas que actúen con la autorización, el apoyo o la
aquiescencia del Estado, seguida de la falta de información o de la negativa a reconocer dicha privación de libertad o de
informar sobre el paradero de la persona, con lo cual se impide el ejercicio de los recursos legales y de las garantías
procesales pertinentes» (OEA 1994). Tutti i Rapporti e le Raccomandazioni nazionali ed internazionali che sono stati
pubblicati sul caso di Ciudad Juárez denunciano gravi negligenze da parte di funzionari statali responsabili di
amministrare la giustizia: insabbiamento di prove, incompletezza degli atti giudiziari, utilizzo della tortura per estorcere
confessioni, “fabbricazione” di colpevoli, minacce ed attentati a giornalisti, avvocati, attivisti ed attiviste (CNDH 1998;
UN-CEDAW 2005; CEF 2006b; PÉREZ DUARTE A. 2006). A questo si accompagna un atteggiamento cinico e
colpevolmente indifferente delle autorità nei confronti dei familiari delle vittime nei momenti della denuncia della
scomparsa, delle indagini, del riconoscimento del cadavere e delle analisi per confermare l’identità della vittima, delle
successive richieste per ottenere verità e giustizia (MONÁRREZ J. 2005b).
(3) Per una dettagliata ed aggiornata analisi della situazione socio-economica di donne e uomini di Ciudad Juárez, delle
cifre (ufficiali e ufficiose) di femminicidi e desapariciones, delle investigazioni svolte a livello statale e federale, delle risposte
istituzionali e giuridiche ai crimini, delle denuncie pubbliche di associazioni civili, ONG ed istituzioni di Diritti Umani, si
può consultare il rapporto presentato dalla Comisión Especial para los Feminicidios sulla Violencia Feminicida en Chihuahua (CEF
2006).
(4) Comisión Especial para Conocer y Dar Seguimiento a las Investigaciones Relacionadas con los Feminicidios en la República Mexicana y
a la Procuración de Justicia Vinculada, nel testo, per brevità, Comisión Especial para los Feminicidios.
(5) Il 1998 segna l’anno della prima raccomandazione ufficiale diretta al governo federale messicano da parte di una
istituzione nazionale, la Comisión Nacional de Derechos Humanos (CNDH 1998). La prima rappresentante di un organismo
internazionale a pronunciarsi a proposito della situazione di violenza contro le donne nel municipio di Juárez e a
denunciare la situazioni di impunità è Asma Jahangir, nel 1999 Relatrice Speciale delle Nazioni Unite su Esecuzioni
Extragiudiziarie, Sommarie o Arbitrarie (CEF 2006b: 157). Altri segnali di un crescente interesse internazionale sono
presenti nel Rapporto del Relatore Speciale delle Nazioni Unite sull’ Indipendenza di Magistrati e Avvocati, Dato Param
Cumaraswamy, presentato nel 2002 (CEF 200b: 158) mentre è del marzo del 2003 la Relazione sulla Situación de los
Derechos de la Mujer en Ciudad Juárez, México della Relatrice Speciale su Diritti della Donna della Comisión Interamericana de
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Derechos Humanos (CIDH 2003). Nell’agosto dello stesso anno esce il rapporto di Amnesty International, Muertes
Intolerables. Diez años de desapariciones y asesinatos de mujeres en Ciudad Juárez y Chihuahua (AI 2003) e alla fine dello stesso anno
quello della Commissione di Esperti Internazionali dell’Agenzia delle Nazioni Unite contro la Droga e il Delitto sulla
Missione a Ciudad Juárez (UNODC 2003). Sempre del 2003 è un nuovo Rapporto Speciale della CNDH (CNDH 2003).
Nel 2005 viene presentato il Rapporto della Relatrice del Comitato di Pari Opportunità per Donne e Uomini del
Parlamento del Consiglio Europeo, Ruth-Gaby Vermot-Mangold, (VERMOT-MANGOLD R.-G. 2005), nella sua versione
in spagnolo curata dalla CEF: Desaparciciones y homicidios de un gran número de mujeres y niñas en México. Sempre del 2005 è il
Rapporto presentato dalle rappresentanti del Committee on the Elimination of Discrimination Against Women della
Convenzione per l’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Contro le Donne (CEDAW) (UN-CEDAW 2005). Il
Rapporto ufficiale più recente è di Yakin Ertürk, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne,
che nel 2005 ha effettuato una missione in Messico (ERTÜRK Y. 2006).
(6) Il più famoso tra i vari accusati è Abdel Latif Sharif, chimico egiziano estradato dagli Stati Uniti per violenze sessuali,
arrestato a Ciudad Juárez dalla polizia dello stato di Chihuahua nel 1995, con l’accusa di aver stuprato una prostituta
(WASHINGTON VALDÉZ D. 2005: 146). Nel 1996 viene inoltre accusato di pagare i membri di una gang locale,
conosciuti come Los Rebeldes, per commettere 17 assassini di donne ed in tal modo scagionarlo dalle accuse. Malgrado sia
stato riconosciuto innocente per mancanza di prove sufficienti, non viene liberato a causa di una nuova accusa di
omicidio contro una donna. Inoltre viene accusato di aver pagato ad un gruppo di autisti di autobus urbano perché
uccidessero sette donne. Malgrado le denuncie di irregolarità e deficienze nelle investigazioni (in particolare torture e
minacce a testimoni ed accusati, ed un grave attentato contro il figlio dell’avvocata di Sharif) (WASHINGTON D. 2005:
150) è rimasto in carcere fino alla morte avvenuta il 1° giugno scorso. Ma il caso di Sharif non è l’unico: nel 2001 due
autisti di autobus urbano vengono accusati del sequestro, lo stupro e l’omicidio di otto giovani donne ritrovate in un
campo abbandonato in una zona centrale della città (conosciuto come campo algodonero). Anche in questo caso vengono
denunciate torture. A pochi mesi dall’arresto degli autisti, in febbraio 2002, la polizia statale uccide l’avvocato di uno dei
due, sostenendo di averlo confuso con un narcotrafficante. Nel 2003 uno dei due autisti muore in carcere in seguito ad
una semplice operazione di ernia (che l’accusato ha sostenuto essere stata provocata dalle torture subite). Nel 2005 esce
dal carcere il secondo degli autisti accusati, a seguito di pressioni esercitate da organizzazioni civili, difensori dei Diritti
Umani, politici ed organizzazioni internazionali. È di gennaio 2006 la notizia dell’uccisione in un assalto dell’avvocato
difensore di quest’ultimo.
(7) A Ciudad Juárez ha il centro uno dei più importanti cartelli della droga messicani, quello dei Carrillo Fuentes. In
Messico il campo del traffico di droghe illegali nasce negli anni Venti del Novecento a partire del consolidamento negli
Stati Uniti del sistema proibizionista. Fin dalla nascita si costituisce come strutturalmente subordinato al campo del
potere politico (ASTORGA L. 2002, 2005). Il narcotraffico, cioè, non si infiltra poco a poco nel sistema politico: «aparece
en sus inicios como uno más de los negocios posibles desde el poder político y supeditado por éste» (ASTORGA L. 2005:
182). Le stesse istituzioni incaricate di combatterlo lo hanno protetto, ma hanno rappresentato alla stesso tempo uno
strumento per una regolamentazione, un controllo, un contenimento. Con la progressiva destrutturazione del sistema
politico post-rivoluzionario basato nella concentrazione centralistica del potere nell’esecutivo federale e nel(la forza del)
partito di Stato (che inizia alla fine degli anni Ottanta e culmina nel 2000 con l’elezione di Fox, primo presidente di un
partito d’opposizione, il PAN) si creano le condizioni di possibilità di una autonomia relativa del campo del traffico di
droga rispetto al potere politico (ASTORGA L. 2005: 161-2). L’aumento spaventoso dei livelli di violenza legati al traffico
di droga negli anni Novanta è da legare a questa autonomizzazione relativa (ASTORGA L. 2005: 163).
(8) Intervista realizzata a Ciudad Juárez il 17-04-2006.
(9) Vedi nota 8.
(10) Piruja, espressione familiare per “prostituta”.
(11) Vedi nota 8.
(12) Ancora più paradigmatico di questa tendenza a naturalizzare la violenza è il commento di Armando Rodríguez,
Procurador de Justicia del Estado di Chihuahua, secondo cui: «hay lamentablemente mujeres que por sus condiciones de vida,
los lugares donde realizan sus actividades, están en riesgo, porque sería muy dificil que alguien que saliera a la calle
cuando está lloviendo, pues sería muy dificil que no se mojara» (RODRIGUEZ A., “El Diario”, 24-02-1999).
(13) Si legge nell’ Informe de Homicidios en Perjuicio de Mujeres en Ciudad Juárez, Chihuahua, 1993-1998, presentato dalla
Subprocuraduría de Justicia del Estado de la Zona Norte: «es importante hacer notar que la conducta de algunas de las víctimas
no concuerda con esos lineamientos del orden moral toda vez que se ha desbordado una frecuencia de asistir a altas
horas de la noche a centros de diversión no aptos para su edad en algunos casos» (citato da MONÁRREZ J. 2002: 286,
corsivo mio).
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