L`universit`a per tutti i cervelli `e davvero l`universit`a per tutti?

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L`universit`a per tutti i cervelli `e davvero l`universit`a per tutti?
L’università per tutti i cervelli è davvero l’università per tutti?
Il presente documento è un’elaborazione del mio sintetico intervento alla recente assemblea
dei docenti di prima fascia, tenutasi il 30/06/2005, in preparazione alle prossime elezioni del
Senato Accademico. Esso non costituisce un documento di candidatura, in quanto non sono
candidato, ma vorrebbe semplicemente essere un piccolo contributo alla discussione sul tema
della didattica, almeno per quanto attiene alle facoltà di ingegneria.1 Preferisco focalizzarmi su
un tema specifico, piuttosto che fare un elenco dei tanti problemi che ci sono ben noti, se non
altro perché per circa tre anni sono stato referente dei corsi di primo livello in IV facoltà. Tale
esperienza, sebbene si sia interrotta un paio di anni fa per varie ragioni, è stata molto interessante
e mi ha permesso di capire molte cose su come non si dovrebbe organizzare la didattica.
Sono per certi versi imbarazzato nello scrivere quanto segue, perché penso che si tratti in gran
parte di banalità, spesso condivise con alcuni colleghi nelle chiacchiere di corridoio. Tuttavia,
mi preme provare ad attirare un’attenzione più esplicita su alcune questioni, se non altro di
fronte a certi titoli che ho avuto occasione di leggere sui giornali anche in questi giorni. Si legge
infatti che la riforma del 3+2 sarebbe stata un successo perché essa avrebbe accorciato i tempi
di laurea. Ammesso e non concesso che ciò sia vero, mi pare una tesi banalmente demenziale. Il
criterio “tempo medio di laurea” è un criterio curioso. Infatti, si può ridurre il tempo medio di
laurea in almeno due modi opposti: abbassando il livello della formazione, oppure introducendo
una seria selezione all’ingresso. Qualsiasi mio studente sa che non è saggio usare criteri di
valutazione che non discriminano tra soluzioni radicalmente diverse. Nella migliore delle ipotesi,
il tempo medio di laurea ci dice se l’università funziona male, ma non se essa funziona bene. E
non sono neanche tanto convinto di questo, dato che quando ero studente pochi si laureavano
nei tempi prescritti, ma questo era conseguenza della serietà degli studi, e non impediva certo
al Politecnico di avere ottima fama. Un laureato fuori corso (non troppo) era comunque una
persona che aveva superato una dura selezione, e questo era un indicatore positivo.
Purtroppo, in nessun discorso recente ho sentito attribuire il giusto valore alla selezione.
Nonostante ciò, durante il recente dibattito elettorale, sono stati posti sul tavolo diversi spunti
validi, da cui vorrei partire:2
1. è stata posta la questione della “fuga dei diciottenni”;
2. occorre elevare il livello medio della didattica;
3. occorre formare allievi con capacità autonome, dato che essi si troveranno spesso a cambiare
lavoro e necessiteranno di aggiornamento continuo;
4. sarebbe bene ridurre un certo uso distorto della didattica complementare.
Per quanto riguarda la prima questione, ritengo che il modo più onesto, anche se forse
di scarso valore oggettivo, di affrontare la questione sia porsi una domanda: se fossimo neomaturati, ci iscriveremmo al Politecnico di Torino? La domanda è particolarmente significativa
per chi, come me, qui ha studiato. Se il Poli fosse quello di non molto tempo fa (mi sono laureato
nel 1987), la mia risposta sarebbe di sicuro sı̀. Il che non è banale, dato che sono laureato in
Ingegneria Elettronica, ma nella vita ho fatto tutt’altro, prima gestione della produzione e ora
finanza quantitativa. A prima vista, se avessi fatto Storia Medievale, non sarebbe cambiato
1
Chiedo ovviamente venia agli architetti: questa limitazione è dovuta a mia personale e deprecabile ignoranza
sulle questioni didattiche dell’altra metà dell’ateneo, e non certo ad una mancanza di rispetto. Credo tuttavia
che alcune questioni siano comuni.
2
Alcuni di questi spunti sono stati esposti nei discorsi dei candidati rettori; altri sono stati sollevati nei documenti fatti circolare via mail. Preferisco non associare ogni spunto alla persona che l’ha buttato sul tavolo, non
certo perché non voglio attribuirne il giusto merito, bensı̀ per evitare la potenziale accusa di distorcere il pensiero
altrui.
1
molto. In realtà io rifarei esattamente la stessa scelta. Il Politecnico che ho avuto la fortuna di
frequentare era una scuola eccellente, che prima forniva solide basi e poi con un impianto logico
coerente insegnava ad applicarle in concreto. Quelle basi mi sono sempre state indispensabili,
nella mia variegata carriera. Ben lungi dall’essere una scuola iperspecialistica, il corso di laurea
che ho seguito mi ha messo in grado di cambiare tipo di lavoro più volte (vedi punto 3).3
Il Politecnico di ora, per certi versi, si è aggiornato. Però, mi si scusi la brutale franchezza,
non solo non lo sceglierei per i miei studi; non lo consiglio proprio a nessuno. E non si tratta
di impressioni soggettive. Il declino è oggettivo. E’ molto sconfortante ricevere telefonate dai
laureati di poco tempo fa, miei ex-studenti che hanno fatto carriera e mi chiedono il nome di
un valido laureato con un background simile a quello che hanno ricevuto loro. Ma i corsi che
tenevo fino a qualche anno fa, non li posso più tenere, perché il numero di bocciati mi farebbe
rottamare come “docente inefficiente”. Neo-laureati simili a ciò che mi viene richiesto non ci
sono, e spesso devo suggerire di rivolgersi al servizio di job placement di altre strutture didattiche
in cui posso operare con maggiore efficacia. La mia perplessità di ex-studente e docente è comune
agli studenti più validi, e anche ai datori di lavoro che lamentano una sempre maggior difficoltà
nella selezione di elementi validi. Certo, laureati eccellenti ce ne sono, pochi, ma (si veda il
punto 2) cosa dire del livello medio?
E’ stato per me un grande sollievo sentir parlare del livello medio dei laureati. Dalle pagine
dei quotidiani, avevo avuto l’impressione che l’unica risposta dell’ateneo ai problemi della formazione fosse l’Alta Scuola Politecnica. Essa infatti, pur presentando diversi aspetti interessanti,
soffre di limiti strutturali ben precisi. Primo: non si può pensare di elevare il livello della formazione con 30 crediti alla fine del curriculum, perché occorre evidentemente intervenire sulle
materie di base e sulla loro successiva applicazione. Secondo: per ovvie ragioni di economia di
scala, l’Alta Scuola eroga essenzialmente contenuti trasversali. Ora, nei confronti di tali contenuti si possono avere due atteggiamenti opposti. Qualcuno ci crede, come il sottoscritto, se
non altro perché sono un gestionale di adozione; ma chi ci crede, ritiene che questi contenuti
sia fondamentale erogarli a tutti gli studenti (vedi punto 3). Qualcuno, per contro, non ci crede affatto; rispetto profondamente tale opinione, ma immagino che per un ingegnere “duro e
puro” sia a maggior ragione difficile pensare che siano i contenuti trasversali a caratterizzare la
cosiddetta “eccellenza”. Questo, sia chiaro, non dipende da chi e come gestisce l’Alta Scuola.
Sono difficoltà intrinseche all’idea stessa, e che peraltro non ne sminuiscono alcuni meriti, tra
cui un buon impatto mediatico ed un positivo valore simbolico. I simboli sono importanti, ed in
questo senso l’Alta Scuola ha il grande merito di fornire qualche motivo di consolazione per gli
studenti frustrati dal livello della formazione. Ma perché non impostare un discorso più concreto
e pervasivo?
A mio modesto parere, il problema è molto semplice: l’eterogeneità della nostra popolazione
di studenti. Ho avuto occasione, in facoltà, di sentire un docente di prima fascia affermare che
la distribuzione ideale di voti in un esame sarebbe la normale. Credevo che quest’idea si fosse
estinta da tempo, perché presuppone una popolazione omogenea di studenti. La realtà è ben
diversa. Alcuni studenti non sono comunque in grado di acquisire le nozioni impartite nei nostri
insegnamenti; altri studenti potrebbero e dovrebbero fare di molto meglio. In mezzo c’è una
fascia intermedia che, opportunamente stimolata, non raggiungerebbe magari vette eccelse ma
acquisirebbe comunque più che discrete capacità, e che si trova assorbita nel livello basso. Nel
mio piccolo, come altri colleghi, cerco di ovviare al problema dividendo il mio corso in una parte
3
Questo non esclude che ci fossero spazi di miglioramento. Tanto per cominciare, il fatto che uno come me
si sia laureato in cinque anni con 110 e lode dimostra che qualcosa non funzionava a dovere. C’era poi qualche
inefficienza. Il filtro di Kalman veniva insegnato in quattro corsi, e io stesso mi sono sentito raccontare tre volte
gli oscillatori. Ma non era stato inutile: alla terza volta, forse, li avevo capiti. Però non saprei dire se la ragione
di ciò fosse il classico gutta cavat lapidem o l’eccelso talento didattico di Leschiutta. Magari un po’ di economia
non avrebbe guastato, ma se si introduce l’economia, o una cosa gabellata per tale, e poi si fa la fisica a quiz si
tappa un buco e se ne aprono due.
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obbligatoria e una più impegnativa, facoltativa ma necessaria per arrivare a voti alti. Si tratta
di una toppa artigianale, e sarebbe bene trovare una soluzione più sistematica.
A problema banale, soluzione banale. Evidentemente, non possiamo operare una forte selezione all’ingresso riducendo il numero di studenti. Non siamo una struttura agile in grado di
fare ciò. D’altro canto in questo momento non siamo ne’ università di eccellenza, ne’ università
di massa. Occorre quindi segmentare i corsi, diciamo convenzionalmente su un livello A ed un
livello B, lasciando ad altri il compito di trovare nomi migliori. A questa banale osservazione si
potrebbe obiettare che, comunque, la controriforma della Y (se l’ho capita) va proprio in questa
direzione. Vero, ma mi trovo costretto a contro-obiettare che:
1. la segmentazione c’era già, al tempo dei diplomi, ma è fallita, per poche e semplici ragioni:
il venire meno della selezione, con pochi docenti che recitavano la parte dei cattivi, l’aberrazione degli undici appelli all’anno nel vecchio ordinamento, e la conseguente esplosione
dei tempi di laurea associata ad un decadimento del livello degli studenti in ingresso;
2. di fatto ho avuto occasione di osservare la tendenza opposta, ad esempio per quanto
riguarda i corsi a distanza. Sebbene essi siano (almeno per la mia esperienza indiretta)
di qualità decisamente inferiore, si pretende che essi abbiano lo stesso valore formale dei
corsi standard.4
E’ evidente che senza una gestione efficiente delle risorse, il discorso della Y rischia di ridursi ad
un’operazione di facciata, invece che rappresentare una vera segmentazione.
La follia degli undici appelli è stata almeno in parte corretta, anche attraverso meccanismi
interessanti, come quello degli incomplete introdotti nella III facoltà. Anche in questo caso
bisognerebbe però andare avanti con maggiore coerenza. Prima di tutto certe scelte andrebbero
condivise tra le diverse facoltà,5 ed è compito del Senato operare in tal senso. Inoltre, si dovrebbe
davvero usare il meccanismo degli incomplete come è tipicamente impiegato all’estero, cioè per
organizzare l’università in modo che gli studenti procedano di anno in anno, non di esame in
esame. In altre parole, alla fine dell’anno di studi, gli studenti dovrebbero o procedere all’anno
successivo, anche in presenza di lievi insufficienze (con qualche vincolo di percorso, come quelli
previsti dalla III facoltà), oppure dover ripetere tutto (o passare dal livello A al livello B).
Ciò è evidentemente incompatibile con il meccanismo del part time, ma questo dovrebbe essere
riservato al livello B. E non si parli di discriminazione, perché un serio studio dell’ingegneria
richiede tempo pieno ed impegno costante: chi di noi, in caso di deprecabile necessità, si farebbe
operare da un chirurgo che ha studiato part time, o peggio ancora in un corso a distanza?
Organizzare in questo senso il corso di laurea di livello A avrebbe diversi vantaggi:
• si controllerebbe il tempo di laurea;
• si renderebbe agevole il necessario processo continuo di aggiornamento dei curricula;6
• si renderebbe più agevole l’uso di docenza esterna (se un docente a contratto di una materia
specifica non ripete il corso l’anno successivo, che si fa?).
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Questo almeno mi è parso di capire nella mia facoltà, salvo poi autosmentirsi. Non frequento da un po’ i
consigli di facoltà, ma mi è giunta voce di medie minime per l’accesso al secondo livello; tali medie sarebbero più
elevate nel caso di una laurea a distanza. Non so come sia andata a finire, ma il fatto stesso che se ne sia parlato è
una sconfessione palese di quanto affermato precedentemente. Sarebbe bene avere un’idea più chiara dei prodotti
che immettiamo sul mercato e mostrare maggior rispetto per i nostri clienti, ma forse non è cosı̀ se accade, come
è accaduto, che uno studente con media di 20/30 può laurearsi con 108/110 o giù di lı̀, per un intervento d’ufficio.
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Si pensi alle conseguenze che una certa incoerenza ha avuto sulla questione del PET con o senza Merit, il
che ci ha fruttato titoli imbarazzanti su almeno un quotidiano nazionale. Senza contare il fatto che, Merit o no,
molti studenti rifiutano l’idea di studiare su testi in lingua inglese. Esemplare il caso di una collega accusata di
scorrettezza per aver adottato un testo americano senza indicare l’inglese nelle precedenze dell’insegnamento. Ma
se gli studenti si aspettano un’università paternalistica e totalizzante, la colpa è solo nostra.
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Come referente dei corsi di primo livello nella mia facoltà ho toccato con mano le difficoltà di gestione dei
transitori in presenza di studenti a metà strada quando si modificava il manifesto degli studi.
3
La grande difficoltà di un’operazione reale di segmentazione sta nei limiti di risorse, docenza e
aule. Anche in questo caso, però, basta guardarsi intorno. Credo che in pochi sistemi universitari
si eroghino tante ore di lezione per corso (la cosa era più evidente nel vecchio ordinamento, ma
non è cambiato molto). Quello che ho osservato nelle università di altri paesi è che i corsi
hanno tipicamente meno ore di lezione, e che i docenti tengono più corsi, offrendo quindi uno
spettro più ampio di possibilità. Se dobbiamo formare laureati in grado di aggiornarsi (punto 3),
non sarebbe meglio che imparassero a studiare le cose più semplici su un libro invece di vedere
qualcuno alla lavagna che illustra tutti i minimi passaggi in dettaglio, magari copiando dal libro
medesimo? Naturalmente, questo non si dovrebbe applicare ai corsi di base del primo e secondo
anno, ma che uno studente degli anni successivi non sia in grado di studiare autonomamente,
all’interno di un quadro tracciato a lezione dal docente, mi pare curioso. La cosa è fattibile
segmentando: gli studenti del livello A possono avere maggiore autonomia perché sono quelli
più dotati; vale la stessa cosa per gli studenti del livello B, grazie a programmi meno ambiziosi,
ma non per questo meno utili nella vita professionale (e, per inciso, non banali da progettare).
Vale anche la pena di sottolineare che un uso più ragionevole della didattica frontale, riducendo il numero di ore, ridurrebbe il fabbisogno di quell’altra risorsa scarsa (e mal gestita) che
sono le aule. Anche l’istituto del tutoraggio avrebbe più senso in questa prospettiva.
Mi rimane da citare il punto 4. Nel documento fatto circolare da un collega per via telematica,
ho letto con grande piacere che bisognerebbe ridurre la didattica complementare. Chi ha qualcosa
di valido da insegnare, può benissimo farlo all’esterno, e si potrebbe investire maggiormente
nel business della formazione permanente. Avendo visto in prima persona un certo numero
di assurdità legate alla didattica complementare, ho letto tutto ciò con grande sollievo. In
effetti il grande numero di ore di lezione è un ottimo modo per poter giustificare la didattica
complementare, come quei lavoratori che con la loro inefficienza giustificano lo straordinario.7
Naturalmente, operare una segmentazione seria non sarebbe comunque facile. Ritengo però
che procedere nella direzione attuale sia non solo una ricetta disastrosa, ma anche immorale.
L’università dovrebbe essere per tutte le tasche e garantire il diritto allo studio, ma non per
tutti i cervelli. L’università per tutti i cervelli, in realtà, è l’università per pochi. Per quelli
cioè che, per censo o reti di conoscenze, si possono permettere un’università di basso livello
che non promuove la mobilità sociale, tappando magari i buchi con qualche costoso master. E’
deprimente leggere queste osservazioni banali sui quotidiani, a non sentirle nei nostri consessi.
E’ di pochi giorni fa la pubblicazione di uno studio in cui si evidenzia come in Italia sia molto
maggiore la percentuale di neolaureati che trovano lavoro per reti di conoscenze. E’ plausibile
attribuire parte di ciò alla forte incidenza di lauree “deboli” rispetto a quelle tecnico-scientifiche,
ma non mi illuderei per il futuro. Nel corso del recente dibattito elettorale, è stato detto che noi
dovremmo anche essere portatore di valori etici. Eccellente idea, a patto di non essere portatori
sani.
Paolo Brandimarte
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Il fatto che io condivida una certa ostilità alla didattica complementare potrebbe fare ritenere che io sono
molto ricco, o molto idealista, o molto scemo. Premesso che solo la prima ipotesi va esclusa categoricamente,
la spiegazione è semplice: esistono valide realtà didattiche esterne interessate alle mie competenze ed alle mie
capacità di docente. Non ho quindi bisogno di elemosinare crediti, con beneficio delle casse del Politecnico.
Dicendo ciò farò arrabbiare quel collega che mi aveva tempo fa rimproverato pubblicamente di dare il cattivo
esempio, perché nel vecchio ordinamento tenevo il mio corso istituzionale più un affidamento gratuito, per un
totale di venti crediti di oggi. Il medesimo collega, che è un amico e un simpaticissimo buontempone, di fronte
all’obbligo delle 120 ore di didattica frontale aveva progettato un corso di laurea con insegnamenti di 12 crediti.
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