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RASSEGNA STAMPA
giovedì 5 novembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Articolo 21 del 04/11/15
Intercettazioni: Fnsi, al via la mobilitazione
“no bavaglio 3”
di Rossella Guadagnini
Presentate le iniziative e l’appello online contro il ddl del governo Renzi
E’ un chiaro no al nuovo tentativo, il terzo, “di mettere per legge il bavaglio alla stampa”. A
lanciare l”emergenza informazione’ è la Federazione Nazionale della Stampa Italiana,
pronta a mobilitarsi contro il ddl del governo Renzi, che ha affidato all’esecutivo una
delega in proposito con “il potere di stabilire le regole sulla pubblicazione delle
intercettazioni” e per tutelare i giornalisti dalle “continue intimidazioni e minacce che
mettono in pericolo la libertà di informazione”.
Primo firmatario dell’appello è Stefano Rodotà, già Garante della Privacy e promotore
dell’iniziativa insieme ai giornalisti Marino Bisso, Arturo Di Corinto, Giovanni Maria Riccio e
alle associazioni Articolo 21, Arci Associazione Nazionale, Associazione Nazionale
Stampa Online (ANSO), Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi), Gruppo Abele, Il
Fatto Quotidiano, Libera – Contro le mafie, Libertà e Giustizia, Libertà e Partecipazione,
Ordine dei Giornalisti (Odg), MoveOn, Pressing – Giornalisti in rete, Sindacato Cronisti
Romani, Stampa Romana, Unione Sindacale Giornalisti Rai (Usigrai). La petizione è
online, all’indirizzo www.nobavaglio.org
Tra le proposte avanzate, la necessità di un coordinamento internazionale di giornalisti a
livello europeo, contro “i ripetuti e dilaganti attacchi alla democrazia e alla libertà di
informazione”; un primo sit-in a Roma, giovedì 5 novembre, davanti all’aula Occorsio di
Piazzale Clodio, dove inizierà il processo per Mafia Capitale; infine un comitato di avvocati
di cui avvalersi per cause di lite temeraria, ossia in caso di richiesta di risarcimento a
coloro che abbiano intentato (e perso) cause per diffamazione ‘preventiva’ a danni di
giornalisti.
Il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso, ha proposto di “tenere alta la guardia” e
coinvolgere gli altri sindacati europei dei giornalisti in modo che anche la Ue e il
Parlamento europeo intervengano “contro la proposta di legge bavaglio” contenuta nel ddl
in materia di intercettazioni. La normativa, infatti, “metterebbe l’Italia sullo stesso piano di
altri Paesi dove abbiamo visto manifestarsi gravi problematiche, come Spagna, Francia e
Ungheria, per non dire di quanto sta avvenendo in Turchia”. Da Roma “può dunque partire
un’azione che coinvolga tutti i sindacati dei giornalisti europei, così da essere promotori di
iniziative in sede Ue e di Parlamento europeo”.
Stefano Rodotà ha sottolineato la “gravita’ ” del provvedimento che finisce con l’essere “un
intervento sui diritti fondamentali attraverso la delega al governo, così come già avvenuto
per i controlli a distanza e la privacy”. Per il giurista “e’ una linea di tendenza, quella di
espropriare il Parlamento per quanto riguarda l’esercizio di diritti fondamentali, che si sta
consolidando ad ogni livello istituzionale, a partire dal Presidente della Repubblica in giù.
C’è una evidente messa in discussione della prima parte della Costituzione italiana” e si
sottrae via via all’opinione pubblica la possibilità di esercitare il controllo su quanto viene
discusso in Aula. I rischi sono anche legati al fatto che “questo tipo di delega può essere
applicato a tutto”, mentre “disponiamo già di una disciplina adeguata in materia”, che tutela
cittadini e personaggi pubblici dalla diffusione di notizie che possono arrecare danno alla
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persona di cui si parla. “Non c’è quindi alcun vuoto da colmare, ma in realtà si vuole
restringere il diritto-dovere di informare”.
Alla conferenza stampa è intervenuto il segretario nazionale dell’Usigrai, Vittorio di
Trapani, il quale ha sostenuto “è intollerabile che i diritti fondamentali siano sottratti al
dibattito parlamentare. E questo si riflette anche sulla missione e sul perimetro del Servizio
Pubblico radiotelevisivo”. E’ quindi opportuno allargare la mobilitazione, portandola a
Bruxelles, in sede Ue. Il segretario dell’Associazione Stampa Romana, Lazzaro
Pappagallo, ha sostenuto l’esigenza di allargare quanto più possibile la platea di persone
da coinvolgere e portare l’opinione pubblica a conoscenza di quanto accade nel nostro
Paese in tema di libera informazione.
http://www.articolo21.org/2015/11/intercettazioni-fnsi-al-via-la-mobilitazione-no-bavaglio-3/
Da Redattore Sociale del 04/11/15
Firenze, weekend contro l’omofobia
promosso da Arci
Due giorni di eventi nel capoluogo toscano per parlare dei diritti dei gay.
Con l’occasione, sarà lanciata la campagna nazionale #LoStessoSì
FIRENZE - Arci Firenze, Indie Pride, Florence Queer Festival, Azione Gay e Lesbica e
Novaradio sono i soggetti che hanno dato vita alla due giorni per i diritti e contro l’omofobia
che segna il prossimo fine settimana fiorentino. La cornice è quella dell’Exfila, (via Leto
Casini, 11 dietro il centro commerciale del Gignoro), che dopo l’Exsummerfest di
settembre riapre i battenti per ospitare un grande concerto e uno spettacolo teatrale.
Sabato 7 novembre il Florence Queer Concert, che inizierà con un aperitivo alle 20 e alle
21 vedrà salire sul palco la presidente nazionale di Arci, Francesca Chiavacci, Roberta
Vannucci, presidente di Arci Lesbica nazionale e direttrice artistica del Florence Queer
Festival e Antonia Peressoni di Indie Pride. Alle 21.30 spazio alla musica, con i live di
cinque dei più apprezzati protagonisti della scena indie italiana: si esibiranno nell'ordine
Mandrake, Andrea Chimenti, Alia, Femina Ridens e Cosimo Morleo. Infine, il dj set
diMcNill, affermata freestyler.
Domenica 8 novembre alle 17, invece, Exfila diventa palcoscenico teatrale, grazie alla
collaborazione tra Arci Firenze e Azione Gay e Lesbica, con lo spettacolo “L’importanza di
lavarsi presto”, monologo esilarante, irriverente e amaro, che vedrà in scena Mikaela
Cappucci, attrice e regista che ha riscosso successi in tutta Italia. A seguire, aperitivo e
chiusura della maratona per i diritti.
Con l’occasione Arci Firenze lancia una campagna fotografica a sostegno della campagna
nazionale #LoStessoSì, che coinvolgerà tre fotografi: i fiorentini Fulvio Petri e Fulvio
Bennati e Angelica Braccini, pratese, i cui scatti saranno consegnati alla Presidenza del
Consiglio per sollecitare l’approvazione del ddl Cirinnà, considerato un punto di partenza
per arrivare a una legislazione equa e giusta nei confronti di tutti i cittadini. I tre fotografi
coinvolti ritrarranno, durante gli eventi, tutte quelle coppie che, spiega Jacopo Forconi,
presidente di Arci Firenze, “vogliono metterci la faccia e far sentire la propria voce a un
Parlamento e a un Governo che continuano a mostrarsi sordi alla legittima rivendicazione
di diritti fondamentali da parte di una grande fetta di cittadine e cittadini che oggi non si
sentono riconosciuti dallo Stato in cui vivono, lavorano e in cui vorrebbero poter costruire
la propria famiglia”.
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Da Askanews del 04/11/15
Gup su parti civili processo Aemilia: esclusi
Arci e Avviso P.
Non accolte anche Sos Impresa, Confindustria sportello antiracket
Bologna, 4 nov. (askanews) - Il gup di Bologna, Francesca Zavaglia, che sta conducendo
l'udienza preliminare del processo "Aemilia" sul radicamento della 'Ndrangheta in EmiliaRomagna, ha deciso sull'accoglimento delle richieste di costituzione di parte civile
avanzate da privati, sindacati, amministrazioni locali e associazioni, in tutto una trentina.
Sono rimasti esclusi Arci Emilia-Romagna, Avviso Pubblico l'associazione dei comuni uniti
nella lotta alle mafie, Sos Impresa, Confindustria sportello antiracket.
L'elenco, che prevedeva in tutto una trentina di soggetti, conteneva diverse istituzioni tutte accolte dal Gup -: Regione Emilia-Romagna, Comune di Finale Emilia, Provincia e
Comune di Reggio Emilia, i Comuni reggiani di Bibbiano, Brescello, Gualtieri, Montecchio,
Reggiolo e Sala Baganza, e alcune province come Modena, i ministeri dell'Interno e
dell'Ambiente, l'Agenzia delle entrate. A questi si sono aggiunti i sindacati Cgil dell'EmiliaRomagna, Cisl e Uil Emilia-Romagna; e associazioni come Fita-Cna, del settore degli
autotrasporti.
In prima fila a chiedere la costituzione di parte civile anche Libera, l'associazione di
associazioni fondata da don Luigi Ciotti, l'Associazione antimafia Paolo Borsellino, il
sindacato degli giornalisti "Aser" e l'Ordine dei giornalisti dell'Emilia-Romagna,
Legambiente, l'Associazione nazionale Caponnetto. Ci sono poi quattro privati e circa
novanta persone offese.
Per alcune associazioni il giudice ha accolto la richiesta solo per alcuni reati, come nel
caso di Legambiente che è stata ammessa solo per i reati ambientali.
Da Left.it del 05/11/15
Una marcia per i desaparecidos del
Mediterraneo
Donatella Coccoli
La prima città è stata Milano, il 18 giugno scorso. Poi, una dopo l’altra si sono aggiunte
Torino, Messina, Palermo e dal 5 novembre, Roma. Anche la capitale, nella piazza Santi
Apostoli a due passi da Piazza Venezia, dalle 18 alle 19 ospiterà la marcia dei Nuovi
desaparecidos, cioè dei parenti e degli amici di coloro che sono scomparsi in mare per
raggiungere l’Europa e che, come sostiene Edda Pando, coordinatrice degli sportelli
immigrazione di Milano e responsabile di Arci Todo Cambia «deriva da precise politiche
degli Stati europei». Non sono incidenti le scomparse in mare, assomigliano stranamente
alle “sparizioni” dei giovani dissidenti al tempo dei generali in Argentina. Ci sono dunque
precise responsabilità. Il primo a fare questo nesso era stato qualche tempo fa Enrico
Calamai, ex vice console in Argentina al tempo dei militari. Allora il giovane diplomatico si
adoperò per far espatriare e quindi salvare centinaia di connazionali. In seguito ha
contribuito alla nascita del comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos che poi si
è incontrato con le varie associazioni e comitati sorti in Italia per difendere i diritti dei
migranti. Ma soprattutto per contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’effetto
devastante delle politiche attuate dagli Stati. Al grido Basta stragi – migrare per vivere e
non per morire, la marcia del giovedì, come quella delle madri di Plaza de Mayo a Buenos
Aires chiede verità e giustizia. A Roma domani sera ci saranno anche artisti del Centro
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interculturale, ci sarà anche Dora Salas rappresentante dei parenti dei desaparecidos
argentini e naturalmente Enrico Calamai. «A Roma, la marcia punterà molto nella richiesta
di corridoi umanitari, della fine dei respingimenti e delle necessità di una politica
dell’accoglienza umana», dice Francesca Koch, della Casa delle Donne, uno dei 50 gruppi
e associazioni che hanno organizzato la manifestazione.
«Potevamo ricordare il numero dei morti, che ormai sono 27mila accertati negli ultimi 15
anni – dice Edda Pando – ma ormai non fa più effetto, la gente è abituata all’evento
doloroso, al barcone che affonda ma poi se ne dimentica. Invece noi vogliamo dare un
volto umano a quelle politiche che bloccano i visti d’ingresso, e visti di lavoro e che con la
chiusura delle frontiere contribuiscono a chiudere l’Europa». Il volto umano è anche quello
che mostrano i parenti e gli amici dei migranti scomparsi in mare. A Milano, racconta
Edda, la gente che passa da piazza della Scala – dove si svolge la marcia del giovedì – si
ferma, cammina con i parenti delle persone scomparse. «Per ogni migrante che non arriva
ci sono sei o sette vittime, i loro genitori, fratelli, sorelle, mogli», continua Edda. Il dolore
per la scomparsa del caro ma anche l’attesa per avere notizie sul riconoscimento di un
corpo. Con tutti i problemi di tipo legale che si possono presentare.
L’idea della marcia dei Nuovi desaparecidos è nata durante il Forum sociale di Tunisi che
si è tento nello scorso marzo. «Abbiamo incontrato come Arci e Carovana migranti due
associazioni nordafricane», racconta Edda. Si tratta dell’associazione tunisina La Terre
pour tous e il Collettivo algerino dei parenti degli Harraga di Annaba. A Tunisi Edda Pando
incontra un rappresentante della comunità eritrea e anche Marta Sanchez della Carovana
centramericana dei figli dispersi tra Messico e Stati Uniti. Tre associazioni, tre gruppi di
parenti che reclamano diritti per persone disperse. «Si sono incontrati due continenti»,
ricorda Edda. A partire da quell’esperienza a Milano è partita l’idea della marcia. Esistono
delle vertenze legali in corso, naturalmente: da parte tunisina per l’affondamento di 5
imbarcazioni nel 2011, un’altra denuncia per il naufragio del 6 settembre 2012 a
Lampione, vicino a Lampedusa. Un’altra vertenza, racconta Edda, riguarda la scomparsa
dei giovani algerini del gruppo Harraga, avvenuta tra il 2007 e il 2008. Un dossier è stato
presentato anche alle Nazioni Unite. «Il nostro è un lavoro iniziato un anno fa, è tutto
volontario e bisogna ancora di più far conoscere la nostra esistenza anche in altri Paesi
dell’Africa», afferma l’infaticabile militante di Todo Cambia.
L’obiettivo della marcia, poi, non è solo sollevare il problema dei singoli migranti quanto
quello di sollevare una riflessione sulle politiche degli Stati. «Basterebbe che i consolati
europei in Africa concedessero dei visti di soggiorno per lavoro. I migranti potrebbero
venire qua senza problemi per la loro sicurezza e non ci sarebbe un’invasione di massa.
Non c’è stata quando si sono aperte le frontiere a Est, non si capisce perché ci debba
essere adesso». Perché il dramma dei migranti economici è uguale a quello dei richiedenti
asilo che fuggono dalle guerre come i siriani.
http://www.left.it/2015/11/05/una-marcia-per-i-desaparecidos-del-mediterraneo/
Da Ravenna Notizie del 05/11/15
"Ricordare Pasolini, a quarant'anni dalla
morte": al via oggi gli appuntamenti al circolo
Dock61
In occasione del quarantennale della morte di Pier Paolo Pasolini, il Circolo Arci Dock61 di
Ravenna propone dal 5 al 7 novembre una breve rassegna per ricordare l'artista - poeta,
scrittore, giornalista, regista, sceneggiatore.
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Si parte oggi, alle 19, con Gianluca Costantini ed Elettra Stamboulis che inaugurano la
mostra delle tavole tratte dalla loro graphic novel Diario Segreto di Pasolini (Ed.
Beccogiallo). A seguire aperitivo con stuzzicherie.
Alle 19 di venerdì 6 novembre aperitivo romagnolo di benvenuto e, a seguire, alle 20.30
Andrea Bruni, critico cinematografico, racconterà “L'esistenza inammissibile. Dialoghi sulla
vita di Pierpaolo Pasolini e sul suo cinema eretico.”
Alle 19 di sabato 7 novembre, l'appuntamento sarà dedicato a Pasolini poeta e scrittore:
aperitivo greco con letture di Lorenzo Carpinelli presentate da Alessandra Carini.
La mostra di Gianluca Costantini sarà aperta al pubblico sino al 15 novembre, dal
mercoledì alla domenica, dalle 19 alle 24. La rassegna si inserisce nel calendario di eventi
promossi dalla Direzione Nazionale Arci in ricordo di Pier Paolo Pasolini.
http://www.ravennanotizie.it/articoli/2015/11/05/ricordare-pasolini-a-quarantanni-dallamorte-tre-giorni-di-appuntamenti-al-circolo-dock61.html
Da Trieste Prima del 05/11/15
"VIA Cadorna", in 70 alla manifestazione
pacifista: «No a nuove guerre» (FOTO)
Una settantina di persone hanno preso parte nel tardo pomeriggio di oggi alla
manifestazione "VIA Cadorna da Trieste - presidio antimilitarista", a cui hanno aderito
ARCI Trieste, Associazione Culturale “Tina Modotti”, Associazione Politica per la
Costituente della Sinistra / Trieste per Tsipras, Circolo del Manifesto - Trieste. Collettivo
UP - Attivismo Critico, Comitato Pace e Convivenza “Danilo Dolci”, FIOM, Gruppo
Anarchico Germinal, Gruppo BDS – Trieste, L'altra Europa per Tsipras - Trieste , PCdI
Federazione della Sinistra, PRC Federazione della Sinistra, Salaam ragazzi dell'Olivo e
Sinistra Anticapitalista Trieste,
«Siamo oggi in piazza a manifestare contro le parate militari - riferisce Fabio Feri - che
normalmente vengono organizzate in città ogni 4 novembre, ribaltando quella che è la
realtà della data, che è la fine del conflitto e non quindi quella di orgoglio della guerra.
Siamo contro il militarismo, contro le spese militari e contro nuove guerre che potrebbero
avvenire in futuro anche in considerazione del riarmo degli stati europei. Siamo inoltre qui
per testimoniare come l'orgoglio di una nazione non si debba misurare in quantità di armi
possedute o di eserciti, quanto invece di qualità ed efficienza di servizi sociali e del welfare
in generale. Siamo molto preoccupati per la "politica di potenza" che continuamente viene
pubblicizzata e mesa in atto anche dallo stato italiano come le missioni, sia attuali (vedi
Afghanistan) che quelle future, vedi ad esempio quello possibile in Libia»
http://www.triesteprima.it/cronaca/via-cadorna-70-manifestazione-pacifista-no-nuoveguerre.html
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ESTERI
del 05/11/15, pag. 2
Così le guerre in Medio Oriente chiudono i
corridoi del turismo
Dal Nord Africa all’Afghanistan sempre più aree non sorvolabili Per
aggirare i pericoli nascono nuove vie e alleanze inaspettate
La decisione di Londra di sospendere con effetto immediato tutti i voli da Sharm el-Sheikh
conferma che il Sinai è «zona proibita» per le grandi compagnie aree a causa del rischio di
attentati terroristici, con bombe o missili. Le «zone proibite» compongono una mappa
dell’«alto rischio» per i voli commerciali aggiornata in tempo reale dall’Ente federale Usa
per l’aviazione civile.
Le aree a rischio
Si tratta di una cartina del Grande Medio Oriente, dall’Afghanistan alla Libia, che include
«aree rosse» e «aree gialle»: nelle prime viaggi, sorvoli e soste sono del tutto vietati, nelle
seconde sono fortemente sconsigliati. Da Est verso Ovest sono «gialli» i territori
dell’Afghanistan teatro della guerriglia dei taleban, dell’Iran a causa dei rapporti ancora in
bilico con l’Occidente, di Siria e Yemen per le guerre civili, del Kenya per le minacce dei
jihadisti somali e del Congo per le violenze che ne infestano gran parte della superficie.
Sorvolare queste «aree gialle» comporta particolari rischi e accorgimenti che solo alcune
compagnie accettano di assumersi: ad esempio sui cieli della Siria volano gli aerei delle
compagnie giordane e libanesi che collegano Amman e Beirut.
Nel caso delle «aree rosse» invece il divieto è assoluto per la convinzione degli Stati Uniti
che vi operino gruppi terroristici in possesso di missili terra-aria tipo Stinger o Sa-7 capaci
di abbattere un aereo in fase di decollo o atterraggio. Si tratta dunque di «cieli proibiti» per
il traffico commerciale e civile: lo sono sulla Somalia degli shabaab jihadisti fedeli al Califfo
dello Stato Islamico, sulla Libia in preda alla guerra fra fazioni armate che hanno svaligiato
gli arsenali di Gheddafi dove si trovavano almeno 5000 missili a spalla, sull’Etiopia
settentrionale teatro della guerra mai del tutto sopita con l’Eritrea, sull’Ucraina dell’Est e
sulla Crimea dove si combattono nazionalisti e filo-russi, sull’Iraq controllato in vaste
regioni dai jihadisti di Isis (ma con l’eccezione del Kurdistan, a Nord, considerato sicuro) e
sul Sinai egiziano ora divenuto off-limits. In concreto ciò significa che le rotte ancora
considerate sicure attraverso il Medio Oriente hanno spazi ben definiti: passano sopra gli
Emirati del Golfo, l’Arabia Saudita, la Giordania, il Libano, Israele e il territorio egiziano ad
Ovest del Canale di Suez.
Nuove Cooperazioni
È una nuova mappa del traffico aereo nata per l’impatto dei conflitti locali e dell’estensione
dei territori controllati da gruppi jihadisti. Ed è interessante notare come questo nuovo
assetto dei cieli regionali vede generare conseguenze opposte ovvero la tendenza a
cooperare come finora non è avvenuto. Un esempio a tale riguardo viene dal volo della
Royal Jordanian che martedì era partito da Dubai diretto ad Amman ma, a causa di una
tempesta di sabbia, è stato dirottato su Tel Aviv.
Gli aerei di linea giordani atterrano regolarmente al «Ben Gurion» ma questa volta il volo
aveva a bordo passeggeri arabi cittadini di Paesi ancora in guerra con lo Stato Ebraico.
L’aereo è atterrato, il personale del «Ben Gurion» ha portato dolci ai passeggeri a bordo e
il tutto si è concluso con uno scambio - informale - di messaggi fra autorità israeliane,
giordane ed emiratine. D’altra parte da alcuni mesi è stata rivelata l’esistenza di un volo
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«privato» che decolla ogni settimana dal «Ben Gurion» verso una misteriosa capitale del
Golfo: non figura su nessun registro ma è affollato di uomini d’affari che fanno la spola fra
Tel Aviv e i diversi Emirati. Così cambiano i cieli del Medio Oriente in tempo di guerra: le
rotte agibili si restringono, le zone «proibite» si estendono e nei corridoi «sicuri»
avvengono senza troppo clamore una buona dose di fatti insoliti.
[m. mo.]
Del 5/11/2015, pag. 16
Egitto
“Aereo precipitato è stata una bomba”
L’America accusa l’Is
Disastro nel Sinai, “forse l’ordigno in una valigia” Londra e Dublino
bloccano i voli per Sharm
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA. Sarebbe stata “una valigia- bomba” a fare esplodere il Metrojet russo sul Sinai
la settimana scorsa uccidendo tutti i 224 passeggeri a bordo. I sospetti ci sono stati da
subito, ora lo dicono senza mezzi termini fonti dell’intelligence americana alla
Cnn, aggiungendo che a mettere a bordo l’esplosivo (forse in una valigia imbottita)
«potrebbe essere stato l’Is», il sedicente Stato Islamico che ha varie volte rivendicato
l’azione. Inoltre, sempre le fonti di intelligence sottolineano che nel periodo
immediatamente precedente alla tragedia, «vi è stato un aumento dell’attività delle
comunicazini sospette nel Sinai che aveva attirato la nostra attenzione».
Forse da queste stesse fonti Usa sono giunte le “nuove informazioni” che hanno spinto ieri
sera la Gran Bretagna a sospendere tutti i voli fra la sua capitale e Sharm el-Sheikh, nel
timore che «possa essere stata una bomba », ha detto un portavoce di Downing street, a
distruggere l’aereo russo. L’annuncio del governo britannico è arrivato proprio alla vigilia
dei colloqui previsti oggi a Londra fra il primo ministro Cameron e il presidente egiziano alSisi. Nel comunicato dell’ufficio del premier si citano per l’appunto “nuove informazioni”
venute alla luce, senza specificare da dove provengano: «Non possiamo essere certi che
l’aereo russo sia rimasto vittima di un attentato ma non siamo neanche in grado di
escluderlo». Una squadra di esperti inglesi ha raggiunto Sharm per effettuare un esame
delle condizioni di sicurezza dell’aeroporto della località balneare, nel quale, indicano fonti
anonime, sembrano esserci delle “falle”. L’indagine potrebbe concludersi presto, lasciano
capire le autorità britanniche, per cui è possibile che i voli da e per Sharm riprendano già
stamane o al massimo domani. Ma intanto la decisione ha creato allarme fra i circa 2 mila
turisti inglesi che si trovano attualmente nella stazione balneare sul Mar Rosso e che non
sono più sicuri di come e quando potranno tornare in patria. Il Consolato britannico del
Cairo ha inviato extra personale a Sharm con l’obiettivo di rassicurare, confortare e
assistere i propri cittadini. «Vogliamo sottolineare che si tratta di una misura
precauzionale, presa perché diamo la priorità alla sicurezza dei nostri cittadini », afferma il
portavoce di Downing street.
Cameron ha riunito ieri sera il comitato Cobra, l’organismo di cui fanno parte i capi dei
servizi segreti e delle forze armate, tra i cui compiti ci sono le misure contro il terrorismo e
le minacce alla sicurezza nazionale. Il ministro dei Trasporti McLoughlin osserva che gli
esperti del governo vogliono essere ben certi che le massime misure di sicurezza siano in
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vigore a Sharm, prima di autorizzare voli britannici. La Easyjet ha cancellato due voli per
Sharm nella serata di ieri; la British Airways attende ulteriori indicazioni del governo prima
di annunciare se i suoi voli di oggi saranno cancellati. L’Alitalia non vola da tempo sul
Sinai, ma Sharm è raggiungibile dall’Italia con voli charter e a basso costo. Per il momento
la Farnesina non ha ritenuto di dover prendere iniziative analoghe a quella del governo
britannico, ma ha consigliato ai nostri connazionali che vanno a Sharm di non uscire dai
resort.
del 05/11/15, pag. 3
Ora rischiano anche i civili
E l’America lancia l’allarme
Dopo giorni di indiscrezioni e smentite la stampa Usa ha rotto gli indugi
Washington preoccupata: il blitz di Putin in Siria alza il livello dello
scontro
Paolo Mastrolilli
La bomba dell’Isis sull’aereo russo esploso nei cieli sopra la penisola del Sinai cambia tutti
gli scenari. Se lo scoop della Cnn verrà confermato, segna la svolta che tutti temevano
nella strategia dello Stato islamico.
Finora il Califfato aveva minacciato di colpire i suoi nemici all’estero, in particolare gli Stati
Uniti, e alcuni terroristi ispirati dalla sua ideologia avevano attaccato in Europa. Non aveva
organizzato attentati, però, e secondo l’intelligence occidentale non lo aveva fatto per due
ragioni principali: primo, le sue risorse erano tutte concentrate sul controllo del territorio
conquistato in Siria e Iraq; secondo, non aveva le capacità tecniche per operazioni come
quelle condotte da al Qaeda. L’attacco del Sinai segna la svolta, perché dimostra che
questi limiti non esistono più. L’Isis, o i suoi alleati, vogliono e possono colpire anche fuori
dalla zona dello Stato, con tecniche usate dai terroristi che operano su scala globale.
La prudenza iniziale
Fino a ieri i servizi segreti americani erano stati prudenti, e avevano dato poco peso alle
rivendicazioni dell’Isis, che sembravano fatte per approfittare di un disastro a scopo di
propaganda. Il direttore nazionale dell’intelligence, Clapper, si era spinto a dire che
l’attentato sembrava improbabile, perché i satelliti non avevano notato il lancio di missili,
che peraltro l’Isis non avrebbe; e perché durante la fase iniziale delle indagini sul luogo del
disastro non erano stati individuati residui di esplosivo, sui cadaveri o sui rottami
dell’aereo.
Ora la prospettiva è cambiata. L’ipotesi del missile resta esclusa, ma quella della bomba
ha preso consistenza. Le analisi iniziali forse avevano semplicemente mancato il luogo
esatto dell’esplosione, perché se è avvenuta nella zona cargo è possibile che in altre parti
dell’aereo, o sui corpi, non siano rimaste tracce. Il secondo elemento che ha cambiato la
posizione della Cia è stato quello dell’intercettazione di nuove rivendicazioni venute da
ambienti dell’Isis, ma in privato. Non si trattava, in sostanza, di dichiarazioni pubbliche
fatte per vantarsi dell’attentato, ma di conversazioni avvenute in segreto fra i terroristi per
discutere le modalità e gli effetti dell’operazione.
Ordigno rudimentale
L’attacco sarebbe avvenuto attraverso l’uso di una bomba convenzionale, non
particolarmente sofisticata, posta a bordo con l’aiuto di un complice impiegato
all’aeroporto. Nella penisola del Sinai ci sono formazioni legate all’Isis, e la loro attività era
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aumentata nelle ultime settimane. A questo si sono aggiunti due fattori, che avrebbero
fatto scattare l’assalto: primo, la cronica debolezza dei controlli di sicurezza all’aeroporto di
Sharm el-Sheikh, che non sono paragonabili a quelli degli scali occidentali e possono
essere infiltrati dagli estremisti locali; secondo, l’intervento di Putin in Siria, che ha reso la
Russia un obiettivo privilegiato, e forse più facile degli americani.
Lo stop dei voli britannici, e le nuove misure di sicurezza ordinate ai diplomatici americani,
confermano la preoccupazione per una svolta di lungo termine. Se l’indiscrezione della
Cnn verrà confermata, infatti, vuol dire che l’Isis vuole e può lanciare attentati fuori dal
territorio che controlla.
Del 5/11/2015, pag. 17
L’America vende all’Italia i droni armati
Il via libero notificato al Congresso. Ma per rendere operativi i Reaper
servono altri dodici mesi
ROMA Il governo degli Stati Uniti ha approvato la richiesta dell’Italia di ottenere la
tecnologia necessaria ad armare due droni del modello Reaper con missili Hellfire, bombe
a guida laser e altre munizioni. Il via libera del Dipartimento di Stato è stato notificato ieri al
Congresso americano, che ha ora 15 giorni di tempo per pronunciarsi sulla vendita, anche
se un parere negativo è molto raro. È la prima volta da quando, in febbraio, Washington
ha stabilito i nuovi criteri per l’esportazione del più avanzato sistema d’arma dell’arsenale
americano. Presentata nel 2011 dal governo Berlusconi, rinnovata nel 2013 sotto Mario
Monti e ancora quest’anno dall’esecutivo Renzi, la richiesta di poter rendere letali i due
droni già in nostro possesso, punta a dotare le nostre forze armate di maggiore flessibilità
operativa, consentendo di proteggere meglio le missioni. Nella scorsa primavera si era
valutata anche l’ipotesi di poter usare i Reaper per colpire e affondare i barconi dei
trafficanti di esseri umani, prima che partano dalle coste nordafricane. L’Italia possiede 12
droni, sei Predator di prima generazione e altrettanti «mietitori», tutti fin qui usati per
sorveglianza e ricognizione Il sì di Washington non avrà tuttavia conseguenze immediate
sul piano operativo. Si tratta infatti di una disponibilità, che spetta ora al governo italiano
decidere se attivare o meno. In primo luogo stanziando i 28 milioni di dollari necessari
all’acquisto del sistema. E poi avviando la riconversione necessaria. Come spiegano al
Corriere fonti militari, «armare i “mietitori” e renderli operativi è un lavoro lungo e
complesso, tra addestramento tecnico e prove sperimentali, non potremmo impiegarli
efficacemente prima di un anno». Resta l’importante valenza politica della decisione
americana. «Non l’abbiamo presa a cuore leggero — hanno commentato fonti
dell’Amministrazione — è simbolica della nostra fiducia nell’Italia come partner. Roma è
membro responsabile della comunità internazionale ed è stata con noi in ogni operazione
significativa guidata dalla Nato o dagli Stati Uniti». L’Italia è solo il secondo Paese dopo la
Gran Bretagna a vedersi approvata una richiesta di armare i due Reaper MQ-9, acquistati
nel 2009. Londra li ha in uso sin dal 2007. Anche la Turchia ha fatto analoga richiesta, ma
non c’è stato ancora il via libera.
La decisione ha comunque anche un significativo risvolto di politica industriale per General
Atomics, l’azienda prime contractor dei Reaper. La cessione della tecnologia necessaria
ad armarli è infatti anche un implicito disincentivo a proseguire nei programmi europei per
realizzare dei droni armati.
Paolo Valentino
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Del 5/11/2015, pag. 17
IL CASO. RICHIESTA AVANZATA 4 ANNI FA
Armi e missili su 2 droni italiani gli Usa
dicono sì
L’Aeronautica militare italiana avrà missili e bombe a guida laser per i suoi droni
“Predator”, gli aerei senza pilota adoperati per anni in Afghanistan. La decisione di
vendere all’Italia ordigni e sistemi per armare i droni, è stata presa dall’amministrazione
Obama, 4 anni dopo una richiesta del governo Berlusconi del 2011.
Formalmente la richiesta di autorizzazione deve essere ancora votata dalle commissioni
del Congresso, ma un voto favorevole è quasi certo. La Defense Security Cooperation
Agency propone di vendere all’Italia 156 missili Helfire II, 30 bombe a guida laser Gbu-12,
30 bombe a guida satellitare Gbu-38, 30 bombe a guida laser avanzate Gbu-49 e altre 30
bombe Gbu-54. L’acquisizione di questa nuova capacità comporterà però una serie di
passaggi politici tutti molto delicati. Innanzitutto il contratto d’acquisto dovrà essere
autorizzato dal Parlamento, e il governo Renzi di sicuro sarà in imbarazzo nel ricevere i
voti di Lega e Forza Italia contro la prevedibile opposizione di Sel, della sinistra Pd e dei
5Stelle. Ma la parte più delicata sarà poi la gestione del nuovo strumento bellico. Il sistema
politico-militare dovrà fare un salto di qualità non indifferente: in caso di azioni militari in
operazioni Nato oppure Onu varranno le regole fissate per le altre missioni militari italiane.
Ma nel caso di un possibile blitz contro terroristi? Di un’operazione in Libia o in Siria per
difendere un obiettivo nazionale, al di fuori di missioni internazionali? «Non credo che
l’Italia preveda di fare un uso dei droni armati così intenso come gli Usa hanno fatto contro
il terrorismo», dice Pietro Batacchi, direttore di
Rivista Italiana Difesa.
Del 5/11/2015, pag. 17
Ritorno sul «luogo del delitto» Il G7 del 2017
verso La Maddalena
L’idea del governo: utilizzare le strutture mai usate (l’evento si fece
all’Aquila)
«L’assassino torna sempre sul luogo del delitto, specialmente se la prima volta non è
riuscito a commetterlo», dice Groucho in una delle storie di Dylan Dog. Non ci sarebbe
battuta migliore di questa, pronunciata dal personaggio fumettistico chiaramente ispirato al
comico Groucho Marx, se volessimo raccontare con il necessario sarcasmo ciò che
potrebbe accadere a La Maddalena. Perché l’idea di organizzare il G7 del 2017 in quel
paradiso naturale che doveva essere la sede del G8 del 2009, poi fatto traslocare a
L’Aquila da Silvio Berlusconi è più che una semplice suggestione.
A Palazzo Chigi sta prendendo corpo l’ipotesi di curare la dolorosa ferita inferta a La
Maddalena con la stessa medicina: il medesimo grande evento abortito per cui lo Stato ha
già dissipato quasi mezzo miliardo di euro in opere faraoniche gestite dalla cricca degli
appalti della vecchia Protezione civile, di fatto mai utilizzate e lasciate lì da anni a marcire
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in balia dell’incuria e della salsedine. La proposta è maturata nel corso di una serie di
incontri riservati con esponenti della giunta regionale sarda presieduta da Francesco
Pigliaru.
Da tempo, comitati locali si battono perché quello sconcertante disastro venga affrontato,
nel più completo disinteresse dei governi che di volta in volta si sono succeduti: ben
quattro dal 2009. Qualche settimana fa è iniziata a Sassari una raccolta di firme promossa
dallo storico dell’arte Amedeo Chessa e da Paola Guerra Anfossi, direttrice della Scuola
internazionale Etica & sicurezza dell’Aquila, proprio per chiedere a Matteo Renzi di
indicare La Maddalena come sede del prossimo G7 da tenersi in Italia fra due anni,
persuasi che soltanto in questo modo si possa dare una svolta a una situazione
scandalosamente surreale. Convinzione che sembra ora aver fatto breccia anche a
Palazzo Chigi.
Perché ogni giorno che passa, il degrado si mangia un pezzo del «Main conference» dove
i rivestimenti cadono a pezzi, dell’hotel a cinque stelle che avrebbe dovuto ospitare i
potenti della Terra, degli spazi pubblici, dei giardini... Quando non ne salta fuori addirittura
una nuova. La settimana scorsa, per esempio, i magistrati hanno scoperto una discarica
abusiva di un ettaro. C’erano interrati i resti delle demolizioni dei cantieri della cricca,
compresa a quanto pare una grande quantità di amianto. I lavori con il bollino della
Protezione civile che inquinano un luogo che doveva essere disinquinato: bel colpo. Il che
pone adesso il problema di una seconda bonifica. Dopo che con la prima è successo
quello che è successo. E qui bisogna fare un passo indietro.
Siamo nel 2009. La concessione per gestire le strutture ricettive dopo il G8 fantasma viene
assegnata alla Mita resort dell’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Il
concessionario dovrebbe versare 31 milioni subito e poi pagare un canone di 65 mila euro
l’anno: una inezia, per un posto che dovrebbe richiamare un turismo nautico di altissimo
livello con la possibilità di ospitare yacht di cento e più metri. Tutto è però legato alla
bonifica dello specchio di mare antistante. Che nessuno fa. Ragion per cui l’operazione
non decolla e Mita resort trascina la Protezione civile davanti a un collegio arbitrale con
una richiesta di 210 milioni di danni. Gliene vengono riconosciuti 39 e la concessione
viene dichiarata risolta. Con il paradosso che mentre Emma Marcegaglia è in causa con lo
Stato il governo di Matteo Renzi la nomina al vertice dell’Eni. Ovvero, la più grande e
importante impresa statale.
Ma non finisce qui. Sorvoliamo sui contenziosi relativi alla proprietà, un altro incredibile
pasticcio che occuperebbe troppo spazio per essere raccontato nei dettagli. Vi basti
sapere che il padrone dovrebbe essere la Regione Sardegna, ma probabilmente si ridurrà
a essere soltanto il custode giudiziario. Il problema continua a essere la bonifica, che ha
richiesto più di un anno per il solo progetto. E poi la causa con la società della presidente
dell’Eni, non ancora risolta. La Protezione civile, che a perdere tutti quei soldi non ci pensa
minimamente, ha fatto ricorso contro il lodo arbitrale. Nel ricorso, per giunta, si cita anche
la Regione Sardegna, con il nemmeno troppo sorprendente risvolto tutto italiano di un
pezzo dello Stato che chiama in giudizio un altro pezzo dello stesso Stato. Il tutto davanti
alla Corte d’appello: la quale, a conferma della straordinaria efficienza della giustizia
italiana, ha fissato la prima udienza per il merito della questione, tenetevi forte, al giorno 2
novembre 2018. Fra tre anni esatti.
È chiaro che nemmeno il G7 potrà sciogliere una selva tanto intricata di carte bollate e
inchieste giudiziarie. Ma si potrà mettere fine a certe indolenze e assurdità burocratiche,
nella speranza che tutti quei soldi non finiscano una volta per tutte nel cestino. A La
Maddalena e a tutti i contribuenti almeno questo era dovuto.
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Del 5/11/2015, pag. 33
In Afghanistan la lapidazione di una ragazza dimostra che la legge dei
fondamentalisti trionfa ancora
Quel sasso tirato contro la vita la morte
barbara di Rokhshana
ADRIANO SOFRI
Notizie sull’età della pietra. Rokhshana è una ragazza di 19 anni, lapidata in un villaggio
afgano nella provincia di Ghor.
I siti di tutto il mondo ne sono pieni, qualcuno sceglie un fermo immagine, qualcuno migliaia - posta il video. Mentre alcuni uomini, senza fretta, senza emozione, scagliano le
loro pietre, altri stanno accoccolati a guardare, altri riprendono col telefono. I siti avvertono
che le immagini sono “graphic”, crude. Del resto in rete se ne trovano a volontà, di
lapidazioni. Ho guardato il video. Avevamo tanto letto e ascoltato la meravigliosa parabola
dell’adultera senza capire davvero. Il fotogramma di Rokhshana e dei lapidatori è
raccapricciante, ma è giusto sentire il suo pianto basso come un lamento, la voce tremula
che prega e implora, e man mano che le sassate si infittiscono e si fanno più rapide la
voce si alza e diventa un guaito e poi un grido alto, non più una preghiera a Dio e
nemmeno un’implorazione agli assassini – e poi si interrompe.
Anche se lei ha chiesto pietà, è impossibile che abbia chiesto aiuto. Non c’è nessuno cui
chiedere aiuto, da quella buca.
Da noi che, grazie ai carnefici vanesi, guardiamo e ascoltiamo, non viene aiuto. La
provincia ha una governatrice, che si barcamena, disgraziata anche lei, fra la legge che
vieta la lapidazione e la shari’a che, secondo lei, la prescrive. Le autorità accusano i
Taliban, qualcuno obietta che i capi tribali fanno lo stesso. Rokhshana era scappata con il
Mohammed che amava, 23 anni. Con lui sono stati clementi, si sono accontentati di
frustarlo. L’adultera è per eccellenza femmina.
Mi sono ricordato del carcere femminile di Herat, costruito dagli italiani, dove le recluse
erano donne accusate di adulterio anche solo immaginato, messe in salvo nelle celle dalle
vendette omicide di uomini e famiglie. A Kabul, a marzo, Farkhunda, una giovane
accusata falsamente da un lurido mullah di aver bruciato pagine del Corano, era stata
trucidata da una folla di giovani uomini che lottarono per calpestarla, saltare sul suo corpo,
infierire coi bastoni, infine darle fuoco. C’è il video, meticoloso. Ci fu una ribellione mirabile
di donne, vollero, contro ogni tradizione, caricarsi sulle spalle la bara della loro sorella.
Il potere se ne spaventò, recitò qualche punizione. A distanza di pochi mesi tribunali
superiori riportarono le cose all’ordine maschile. Alla “differenza culturale”.
La questione afgana ha infatti questo di peculiare, rispetto all’intervento internazionale:
che le donne lo chiedono, in nome dell’incolumità e dei diritti più elementari.
Ora c’è una gran vicenda fra Afghanistan e Stati Uniti. Nel 2011 due Berretti verdi, un
ufficiale e un sottufficiale, trovarono il capo della polizia di un paese, nominato da loro, che
aveva tenuto per giorni un bambino incatenato al letto per abusarne, e picchiato la madre.
Gli diedero una lezione e denunciarono la cosa. La cosa rivelò che quella tradizione, si
chiama bacha bazi, “giocare coi bambini”, è diffusa: capi della polizia o dell’esercito
afgano, i “nostri”, si prendono dei bambini per farli danzare vestiti da femmine e abusarne.
I due americani furono rispediti in America, e lo scandalo è scoppiato ora (grazie a un
articolo del New York Times), quando uno si è congedato, e l’altro non accetta di esser
congedato. Vengono fuori circolari militari che insegnano ai marines che lo stupro di
bambini e donne in Afghanistan è «una questione culturale» dalla quale devono astenersi.
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Sono molti in America a dire che “i veri americani” sono quelli che non hanno voltato la
testa dall’altra parte. Finché il comandante delle forze Usa in Afghanistan ha dichiarato:
«Voglio che sia assolutamente chiaro che ogni abuso sessuale o analogo maltrattamento,
chiunque ne sia l’autore o la vittima, è del tutto inaccettabile e riprovevole».
Un po’ di americani e di italiani resteranno in Afghanistan. Avranno capito che la
“questione culturale” è la solita questione maschile.
del 05/11/15, pag. 7
Gerusalemme e Hebron nel mirino
Intifada. Nelle due città si concentrano la nuova Intifada e la repressione
israeliana. Ieri ucciso un palestinese che avrebbe investito
intenzionalmente un poliziotto nei pressi di Halhul
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Gerusalemme-Hebron. In queste due città, separate da poche decine di chilometri, si
concentrano la nuova Intifada palestinese e la repressione israeliana. In poco più di un
mese sono stati arrestati 1553 palestinesi, 2/3 dei quali nella zona araba (Est) di
Gerusalemme e nel sud della Cisgiordania, in particolare nel distretto di Hebron. Il pugno
di ferro tuttavia si sta rivelando un boomerang nell’area di Hebron dove ieri, nei pressi
della cittadina di Halhul, un palestinese ha investito intenzionalmente e ferito un poliziotto
israeliano e un colono. L’attentatore è stato ucciso subito e ad Halhul poi sono scoppiati
scontri violenti tra gli abitanti e i soldati. A Gerusalemme la tensione è alta nel quartiere
palestinese di Silwan dove da giorni i giovani protestano contro i blocchi stradali e i
controlli di polizia che, denunciano, impediscono a tanti studenti di raggiungere le scuole
nella zona di Ras al Amud. A Silwan ormai sono esplosivi i rapporti tra gli abitanti e i coloni
israeliani insediati nel quartiere. Negli ultimi sei mesi, riferisce l’ong israeliana Ir Amin, i
coloni dell’organizzazione “Ataret Cohanim” hanno intensificato le occupazioni di case nel
rione di Bata al Hawa, rendendo sempre più precario il clima. Le ultime sono avvenute due
settimane fa. Ir Amin denuncia i legami tra il governo di destra e Ataret Cohanim e
sottolinea che il primo tour effettuato a Gerusalemme Est dal ministro della sicurezza Gilad
Erdan è avvenuto proprio a Bata al Hawa dove sono a rischio 88 case palestinesi.
Non va meglio a Hebron, in particolare nella zona H2 controllata dall’esercito israeliano,
dove, tra 20 mila palestinesi, vivono insediati circa 700 coloni ebrei giunti dopo
l’occupazione militare nel 1967. Gli abitanti parlano di clima irrespirabile, di una pressione
enorme esercitata dalle forze armate israeliane dopo gli accoltellamenti compiuti o tentati
da palestinesi in queste ultime settimane. I coloni, aggiungono, che si sono fatti più
aggressivi, soprattutto a Tel Rumeida. Qui l’esercito israeliano ha proclamato una sorta di
“area militare chiusa” e due giorni fa ha impedito ad otto attivisti dell’International Solidarity
Movement (Ism) di entrare nella casa dell’organizzazione e li ha costretti a lasciare la zona
perchè “non residenti” in città.
L’area militare chiusa ha complicato la già difficile vita delle famiglie palestinesi di Tel
Rumeida, che devono mostrare i documenti ai soldati israeliani ad ogni passaggio e
talvolta restano bloccate in attesa per ore in strada. Chiunque non risulti in lista non ha la
possibilità di entrare nella zona. «Oltre alla negazione di una piena libertà di circolazione si
sferra un duro colpo anche all’economia – ci dice Pietro Pasculli, uno degli attivisti dell’Ism
— I negozi palestinesi vicini alla moschea di Abramo sono costretti a rimanere chiusi.
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Lungo Al-Wakaleh street, i negozi tengono abbassate le saracinesche da venerdì scorso».
Ben diverso, prosegue Pasculli «è il trattamento riservato ai coloni. I loro spostamenti in
città non sono soggetti a controlli o limitazioni. I loro negozi sono gli unici ad essere aperti
e frequentati dai turisti, quei pochi, che con coraggio scelgono di visitare Hebron».
Le tensioni sul terreno intanto sono arrivate ai vertici dell’Anp e dell’Olp. Ieri 18 esponenti
del movimento Fatah hanno chiesto al loro leader e presidente Abu Mazen di convocare il
Consilio Nazionale Palestinese (il Parlamento di tutti i palestinesi, in esilio e nei Territori
occupati) per discutere dell’Intifada in corso e del rinnovamento ai piani alti delle istituzioni
nazionali. Abu Mazen, contrario all’Intifada, fa i conti con il malumore di una parte dei
dirigenti e della base di Fatah, oltre alle critiche del movimento islamico Hamas e dal
Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Il Cnp era stato convocato per metà
settembre ma Abu Mazen, di fronte alle proteste delle forze politiche di sinistra (e di settori
di Fatah) per la frettolosa organizzazione di un appuntamento atteso da 20 anni, decise di
rinviare la riunione a fine anno.
del 05/11/15, pag. 8
Gli studenti si prendono Londra
Gran Bretagna. Manifestazione contro i costi universitari abnormi e i
forti tagli ai sussidi. A differenza del passato, il Labour di Corbyn
appoggia totalmente la protesta. Il ministro ombra McDonnell al corteo.
Prossima protesta il 17 novembre
Leonardo Clausi
LONDRA
Gli studenti britannici sono scesi ancora una volta in piazza per rivendicare il diritto allo
studio, sotto assalto come mai prima da parte del governo conservatore in carica. La
manifestazione, organizzata inizialmente dai membri della National Campaign Against
Fees and Cuts, ha finito per ricevere l’adesione di molte altre organizzazioni studentesche
sulla scia delle tagli draconiani e degli aumenti insostenibili delle tasse universitarie dettati
dall’agenda «austeritaria» dei Tories.
C’è stata qualche scaramuccia e qualche arresto, ma nel complesso nulla di comparabile
ai ben più violenti scontri che ebbero luogo a Millbank nel 2010.
Il corteo, partito dal quartiere di Bloomsbury, ha attraversato una serie di luoghi
emblematici della città, tra cui Trafalgar Square, Charing Cross e Westminster, per poi
concentrarsi davanti al Department for Business Innovation and Skills, l’organismo
responsabile del sistema universitario nazionale – dove c’è stato il confronto con la polizia
— e poi sciogliersi davanti Scotland Yard.
A parte l’esorbitante aumento (triplicato dal 2010) delle tasse universitarie, si è protestato
contro l’abolizione dei sussidi per gli studenti di fascia a basso reddito e quella dei visti per
studenti stranieri, introdotta con la scusa del controllo dell’immigrazione clandestina.
Le prospettive attuali di un neolaureato in questo Paese sono a dire poco plumbee: in
media, ci si ritrova con un fardello di circa 40.000 sterline (quasi 57.000 Euro) pro capite,
che con gli interessi schizza a livelli esorbitanti: ripagare un debito simile significa
portarselo dietro fino all’età pensionabile.
Le tasse sono di gran lunga le più care d’Europa, circa 9.000 sterline l’anno (13.000 Euro).
Significa escludere dall’accesso all’istruzione universitaria chi proviene dalle famiglie meno
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abbienti, già duramente colpite dai tagli ai sussidi e dall’esorbitante aumento del mercato
immobiliare, soprattutto a Londra.
La differenza nella protesta di mercoledì – differenza più che sostanziale – è che questa
volta gli studenti hanno dalla loro il Labour di Corbyn e McDonnell.
Se nel 2010 Ed Miliband era riuscito a malapena a farfugliare qualcosa a favore della
protesta, in modo da non scalfire la compattezza del partito nel suo sostanziale appoggio
politico nei confronti dei tagli e dell’austerità, lo stesso ministro ombra delle finanze
McDonnell ha parlato agli studenti prima della partenza del corteo. «La vostra generazione
è stata tradita da questo governo con l’aumento delle tasse, l’eliminazione delle borse di
studio e dei sussidi e dai tagli a tutto il settore dell’istruzione» ha detto agli studenti.
Ha poi ribadito che l’istruzione non è una merce che si compra e si vende quando in realtà
dovrebbe essere un dono che una generazione trasmette a quella successiva.
Esattamente il contrario di quanto avviene attualmente nel paese, dove i giovani si trovano
enormemente penalizzati.
Anche Corbyn ha mandato un messaggio di solidarietà alla protesta prima di tornare
all’attacco di David Cameron in occasione dell’incontro bisettimanale nel Prime Minister’s
Questions.
Ma non sono solo gli studenti le vittime di quella che in effetti sembra sempre di più un
assalto di questo governo al futuro delle nuove generazioni del paese. Sul fronte dei tagli
alla sanità pubblica è in corso attualmente un braccio di ferro fra il ministro della sanità
Jeremy Hunt e i giovani medici che prestano servizio negli ospedali, che già affrontano
orari lunghissimi e sfibranti e per i quali si prospetta una retribuzione del tutto insufficiente.
Il dato saliente è comunque l’aumento massiccio della mobilitazione politica delle
generazioni più giovani a fianco del Labour, mobilitazione che ha colmato il gap che da
troppo tempo li teneva separati. Questo non è che l’inizio di un autunno caldo di protesta:
la prossima manifestazione studentesca è già fissata per il prossimo 17 novembre.
del 05/11/15, pag. 9
Un po’ di rispetto per la Grecia che accoglie
La crisi e i profughi. Tsipras a Schulz: richieste «assurde» dai creditori.
La barbarie anche morale di chi pretende di aumentare l’Iva agli abitanti
delle isole. Ad Atene anche il commissario agli affari economici dell’Ue,
Moscovici: «Prima i patti, poi gli aiuti». Ma Il premier resta contrario a
mettere all’asta le prime case dei greci indebitati con le banche
Teodoro Andreadis Synghellakis
Alexis Tsipras lo ha ripetuto anche nel corso della conferenza stampa congiunta con il
presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, in visita ad Atene: ha definito
«assurde» le richieste delle istituzioni creditrici, che vogliono mettere all’asta le prime case
dei cittadini greci indebitati con le banche.
«Dobbiamo tenere conto di questioni che, oltre la barbarie economica, riguardano anche
una dimensione morale: nello stesso momento in cui gli abitanti delle nostre isole
accolgono a braccia aperte ondate di profughi, il governo viene obbligato ad aumentare
l’Iva nelle isole», ha aggiunto Tsipras.
Atene non chiede maggiore flessibilità, solo per il fatto di aver continuato a fare il proprio
dovere nell’emergenza immigrazione, ma richiama l’Europa al rispetto di alcuni principibase, che dovrebbero mettere, a prescindere, la persona al centro dell’agire politico.
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Schulz, che nei difficili giorni della trattativa del governo greco con i creditori, l’estate
appena trascorsa, aveva più volte usato dei toni che non miravano, esattamente,
rasserenare il clima, oggi mostra di comprendere la fondatezza delle richieste elleniche,
riguardo alla protezione della prima casa e alla difficoltà ad alzare l’aliquota dell’Iva per le
isole, e ha voluto promettere di farsi latore delle richieste di Tsipras, presso le istituzioni
europee. «Non dobbiamo chiedere delle misure improduttive, è una cosa che comprendo
molto seriamente», ha detto il presidente del Parlamento Europeo, aggiungendo anche
che «ci troviamo in una fase in cui è possibile recuperare la fiducia», tra la Grecia e i
creditori.
Bisognerà vedere, certo, se alla fine verrà accolta la richiesta del governo di Atene di poter
fare in modo che anche il Parlamento Europeo, venga aggiunto alle istituzioni che
dovranno valutare i «progressi» compiuti dalla Grecia nell’applicazione del compromesso
firmato in agosto. Anche se Schulz, non ha mancato di ricordare che «solo rispettando
quanto pattuito, si potrà fare in modo che venga ristabilito un clima di fiducia nell’economia
del paese».
All’aeroporto di Atene, Eleftherios Venizelos, alla presenza di Tsipras e Schulz, sei
famiglie di profughi provenienti dall’Iraq e dalla Siria, arrivate in Grecia nelle scorse
settimane, si sono imbarcate, ieri mattina, in un volo che le ha portate in Lussemburgo. Si
tratta del primo trasferimento, nel quadro dei recenti accordi europei, dalla Grecia verso un
altro paese membro dell’Unione.
Nel frattempo, è arrivato ad Atene anche il commissario europeo per gli affari economici e
monetari Pierre Moscovici, per chiarire che «la Grecia dovrà prima tenere fede ai propri
impegni e poi le verrà versata la prossima tranche di aiuti, pari a due miliardi di euro». Il
suo messaggio è chiaro e non proprio dei più tranquilli: Atene ha solo quattro giorni a
disposizione– sino all’Eurogruppo di lunedì prossimo– per trovare un accordo sulla
questione dei cittadini indebitati e la possibilità che non perdano la casa di proprietà in cui
vivono.
Molti analisti riportano che il governo di Syriza viene sottoposto a nuove, fortissime
pressioni, e che una delle proposte dei creditori è di permettere a chi è indebitato con le
banche di continuare ad abitare nel proprio appartamento, ma a condizione di versare un
affitto proprio agli enti bancari.
Il calendario ufficiale prevede che la valutazione dell’applicazione del memorandum
imposto alla Grecia, da parte delle istituzioni creditrici, dovrebbe concludersi entro il 20
novembre, per poter aprire, in seguito, il delicato e importantissimo dossier della riduzione
o alleggerimento, che dir si voglia, del debito pubblico. Se i vari passaggi previsti,
ovviamente, non incontreranno intoppi provocati da ulteriori richieste di scuola
ultraliberista.
C’ è poi anche la questione della ricapitalizzazione delle banche greche — per un
massimo di 14 miliardi di euro — che ci si aspetta si riesca a concludere prima della fine
dell’anno. «Non dobbiamo farci sfuggire il momento favorevole» ha ripetuto Moscovici ai
giornalisti. Allo stesso tempo, tuttavia, non deve neanche sfuggire, alle istituzioni europee
in primis, l’enorme sforzo che sta compiendo Syriza e il suo governo, per cercare di
garantire la coesione sociale e non tradire il mandato degli elettori.
Del 5/11/2015, pag. 18
La diplomazia
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Il vertice. I presidenti si vedono sabato a Singapore. Non era mai
successo da quando l’isola dichiarò l’indipendenza nel ‘49. Ora crisi
economica ed elezioni avvicinano il disgelo
Cina-Taiwan, si incrina il muro
Ecco il primo storico incontro
GIAMPAOLO VISETTI
La scacchiera del “grande gioco” torna a muoversi. Il presidente cinese Xi Jinping e quello
di Taiwan, Ma Ying-jeou, si incontreranno sabato a Singapore, metropoli neutrale
ammirata da entrambi. Sarà la prima volta, dal 1945, che i leader delle due sponde dello
stretto dell’ex Formosa si stringono la mano e si rivolgono la parola. Pechino, dalla fine
della guerra civile, nel ‘49, non riconosce la sovranità di Taiwan, definita «l’isola ribelle».
Taipei ha proclamato l’indipendenza e non si considera una provincia della «madrepatria
cinese». I due presidenti, per evitare imbarazzi, si rivolgeranno l’un l’altro con il titolo di
«signore»: faccia a faccia politico, poi cena insieme. Il vertice, segreto fino all’ultimo, è
stato annunciato dalle agenzie di stampa all’improvviso. Con soli tre giorni di anticipo i due
governi hanno comunicato che non verranno firmati accordi e che non ci saranno incontri
con la stampa, o momenti pubblici.
Ma Ying-jeou spiegherà oggi le ragioni della svolta diplomatica. Le autorità cinesi hanno
dichiarato che l’incontro punta a «mantenere la pace e la stabilità nello stretto»,
avvertendo però che si svolgerà «in base al principio dell’unica Cina». È una condizione
che Taiwan non ha mai accettato e che a Taipei ha subito scatenato manifestazioni antiPechino. Migliaia di studenti e oppositori democratici si sono riuniti davanti al palazzo
presidenziale, chiedendo di annullare il vertice e denunciando che Ma Ying-jeou «vuole
svendere in modo subdolo Taiwan alla Cina prima di essere sconfitto».
Il summit è stato fissato a poco più di due mesi dalle elezioni presidenziali del 16 gennaio,
a cui dopo due mandati il leader uscente non può partecipare. Ma Ying-jeou otto anni fa
riportò al potere il Kuomintang, il partito nazionalista fondato da Chang Kai-shek per
opporsi ai rivoluzionari comunisti di Mao Zedong. Dopo la sconfitta e la fuga su quella che
nel 1949 ancora di chiamava isola di Formosa, con il tempo il Kuomintang si è riavvicinato
a Pechino, sostenendo un’integrazione sempre più spinta con la Cina. In piena campagna
elettorale i sondaggi danno però oggi per scontata una vittoria dell’opposizione guidata dal
partito democratico, indipendentista e ostile all’espansionismo economico e territoriale di
Pechino. Proprio la prospettiva di un tracollo degli alleati del Kuomitang avrebbe suggerito
a Xi Jinping l’irruzione sulla scena del voto, che promette di avvicinare ancora di più l’isola
agli Stati Uniti e al Giappone. A metà ottobre la candidata democratica Tsai-Ing-wen,
ribattezzata la “Hillary Clinton di Taipei” perché può diventare la prima donna presidente
del paese, è andata in visita a Tokyo. Pochi giorni dopo la sfidante conservatrice è stata
brutalmente sostituita dal presidente del Kuomintang Eric Chu, accusato di aver prima
tentato di corrompere la compagna di partito per convincerla a ritirarsi.
Taiwan, dal 2008, è scossa da una crisi economica che non riesce a superare. La scelta di
tempo di Xi Jinping servirebbe a porre sul piatto del voto un «patto per la ripresa» con
Pechino: per riportare il consenso verso il Kuomintang, o per condizionare l’orientamento
dell’opposizione democratica. Già nel 1996 l’allora leader cinese Jiang Zemin tentò di
influenzare le presidenziali, spingendosi fino a sparare missili al largo dell’isola, come
durante la Guerra Fredda. Il risultato, oltre che uno scontro sfiorato con gli Usa, fu la
vittoria schiacciante del partito democratico. Il contesto è oggi del tutto diverso. I sondaggi
confermano che il 70% della popolazione continua a sostenere l’indipendenza politica e i
diritti garantiti dalla democrazia. La crescita economica della Cina, la crisi che colpisce
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anche il Giappone, il ridimensionamento dell’influenza Usa nel Pacifico, conquistano però
un numero sempre maggiore di taiwanesi alla causa della «riunificazione nazionale ». Xi
Jinping e Ma Ying-jeou parleranno di elezioni e di affari, ma il filo conduttore del vertice
sarà il futuro del riavvicinamento Pechino- Taipei e lo scontro che in Asia oppone la Cina
agli Stati Uniti. La Casa Bianca ha dichiarato ieri di «guardare con favore ai passi
intrapresi da entrambe le parti dello stretto per cercare di ridurre le tensioni e migliorare le
relazioni». In realtà Washington, legata a Taiwan da un patto di difesa, è in allarme.
L’incontro Xi-Ma cade nel pieno della tensione Cina-Usa scatenata dal controllo degli
arcipelaghi contesi nel Mar cinese meridionale, tale da spingere il Pentagono a inviare una
nave da guerra tra gli atolli artificiali costruiti da Pechino. Fonti dell’intelligence americana
rivelano che la corsa al riarmo cinese e le nuove dispute aeree e marittime, servirebbero a
«creare le condizioni per un’invasione di Taiwan entro il 2020», scoraggiando interventi
stranieri. Lo spettro di una “Crimea asiatica”, con il cinese Xi Jinping nel ruolo del russo
Vladimir Putin, agita anche Hong Kong. Nell’ex colo- nia britannica, scossa un anno fa
dalla rivolta studentesca contro Pechino, in giugno è stata bocciata la riforma elettoraletruffa imposta dalle autorità cinesi. Le finte elezioni non si terranno, ma neppure il primo
voto a suffragio universale, promesso da oltre un decennio. Sia a Taiwan che a Hong
Kong i sostenitori della democrazia temono che Xi Jinping, prima di cedere il campo
all’esercito per ricostituire il territorio dell’antico impero cinese, cerchi ora di conquistare le
enclavi democratiche con il ricatto del business. È un’accusa che a Taipei, nella primavera
del 2014, ha scatenato la «rivolta dei Girasoli», unendo studenti e imprenditori contro un
accordo commerciale Cina-Taiwan. Sabato, alla vigilia del voto che in Myanmar può
proiettare la leader democratica Aung San Suu Kyi alla guida dell’ex dittatura militare, Xi
Jinping rompe così l’assedio filo-occidentale e incontra Ma Ying-jeou, ponendo fine ad un
gelo lungo 66 anni. Forse, visto lo stallo nella penisola coreana, il primo dei due ultimi
“Muri dell’Asia” non cadrà subito: ma non solo tra Pechino e Taipei, questo è certo, si
inaugura una stagione nuova.
19
INTERNI
Del 5/11/2015, pag. 12
«Non è un totem». Renzi apre sull’Italicum
Il premier non esclude una modifica per attribuire il premio alla
coalizione anziché alla lista Ncd applaude. I Cinque Stelle: si regola sui
sondaggi, interverrà solo se è utile per fermarci
ROMA Sulla legge elettorale «non esistono totem ideologici». Matteo Renzi risponde a
Bruno Vespa (nel suo ultimo libro) e lascia aperto uno spiraglio.
Finora ha sempre difeso a spada tratta la sua legge elettorale, quella fortemente voluta,
ampiamente rivendicata, capace secondo i suoi detrattori di consegnare un Parlamento
quasi monocolore a un Pd in buona forma elettorale, quando sarà. Ora invece Renzi
sembra aprire alle richieste che da mesi gli arrivano sia dai suoi alleati, in primo luogo
l’Ncd di Alfano, sia da Forza Italia.
Il punto è sempre lo stesso: il premio alla lista, quello che al premier sta bene e che quasi
tutti gli altri faticano a digerire. Bruno Vespa chiede se esiste la possibilità di un
cambiamento, ovvero che il ballottaggio si faccia tra coalizioni, Renzi risponde così: «Non
ci sto ripensando. Io preferisco il premio alla lista. È più logico, è in linea con il partito a
vocazione maggioritaria, che è la natura del Pd. Poi è ovvio che non abbiamo totem
ideologici. Nessuna legge da sola garantisce la governabilità. È il sistema politico che
deve farlo». L’interpretazione prevalente ha carattere diplomatico: Renzi non vuole
sembrare un dittatore, gli fa comodo lasciare una porta aperta, in questo modo fa felici sia
l’Ncd (Fabrizio Cicchitto dirà che le parole del premier «hanno un notevole rilievo»), sia la
sinistra di Sel sia quella interna al Pd. Se quest’ultima dovesse sganciarsi, se nascesse
una «cosa» rossa a sinistra del Pd avrebbe comunque la possibilità di «rientrare», in sede
elettorale, al secondo turno.
Ma c’è anche da dire che lo stesso Renzi dice apertamente di non avere cambiato idea: il
premio alla lista previsto dalla nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum, è a suo
giudizio quello che maggiormente garantisce la certezza della vittoria dopo il voto.
«Questa legge, grazie ai ballottaggi, garantisce la certezza della vittoria. I candidati nei
collegi dovranno tornare a guardare in faccia gli elettori, mentre prima veniva eletto il
numero 27 di una lista che nessuno, magari, aveva mai visto. A dimostrazione che prima
di oggi il sistema non ha mai funzionato, ci sono 63 governi e 27 presidenti del Consiglio in
meno di settant’anni», è la sintesi del presidente del Consiglio.
La nuova legge elettorale approvata a maggio prevede un premio di maggioranza alla
Camera per la lista che prende almeno il 40% dei voti al primo turno o vince il ballottaggio.
Ai piani alti del Pd giudicano la mossa di Renzi meramente tattica: nessun accordo è stato
fatto con Alfano, se ne parlerà seriamente solo dopo il referendum confermativo delle
riforme istituzionali. Con una postilla: «Se andiamo con l’Ncd perdiamo a sinistra, se
andiamo con Sel facciamo un regalo alla Lega, meglio correre da soli e lasciare tutto
com’è». Danilo Toninelli, capogruppo M5S in Commissione Affari costituzionali alla
Camera, la vede invece in questo modo: «Il totem di Renzi è il sondaggio — prosegue
Toninelli — se i sondaggi diranno che M5S vince al secondo turno allora modificherà
l’Italicum. Tutto si deciderà dopo le elezioni comunali di primavera. Se M5S vincerà al
secondo turno in qualche grande città Renzi sposterà il premio di maggioranza dal partito
alla coalizione».
Marco Galluzzo
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Del 5/11/2015, pag. 6
Tregua governo-Regioni, subito un decreto.
Padoan: “Scende il debito”
Verifica su ricadute finanziarie della legge di stabilità. Provvedimento
salva-conti. Renzi: basta demagogia. Tesoro: spending da 7,3 miliardi
ROBERTO PETRINI
IL CONFRONTO
Depongono le armi Renzi e Chiamparino. L’incontro di ieri a Palazzo Chigi tra le Regioni e
una folta delegazione di governo si è chiuso con una valutazione «positiva» e un
sostanziale disgelo. Domani sarà varato il decreto che evita i buchi contabili creati dalla
sentenza della Corte costituzionale di giugno; si aprono due tavoli tecnici su farmaci e
costi standard; il fondo sanitario restera bloccato per il 2016 a 111 miliardi come fissato dal
governo, ma dal 2017 crescerà per recuperare il terreno perduto.
La «tregua» arriva dopo i fuochi di artificio degli ultimi giorni: le violente critiche dei
governatori alla legge di Stabilità e ai ritardi del decreto «salva-Regioni » cui ha fatto
seguito la replica indignata del premier che ha puntato l’indice su «sprechi» e «stipendi »
dei governatori. Ieri Renzi ha aperto la riunione con toni più morbidi ma decisi. «Abbiamo
due strade: o scegliamo il muro contro muro e la demagogia o giochiamo la carta della
serietà . Ma biso- gna essere chiari: non c’è taglio alla sanità», ha detto affiancato dal
sottosegretario alla presidenza del Consiglio De Vincenti e dalla ministra della Sanità
Beatrice Lorenzin.
Frutto del vertice la nascita dei due tavoli che lavoreranno sulla spesa farmaceutica e sui
costi standard, con una attenzione particolare alla questione della centralizzazione degli
acquisti. A far avanzare dialogo ed evitare la rottura è stata tuttavia l’apertura del governo
sul fondo sanitario per il 2017 quando, come ha detto De Vincenti, «continuerà a
crescere». Le Regioni che reclamavano un miliardo in più (per Lea, vaccini, contratti e
farmaci salvavita) restano guardinghe ma lo stesso Chiamparino ha aperto alla possibilità
che il recupero della somma avvenga con «interventi nella pluriannualità». L’intesa dovrà
essere comunque trovata entro il 31 gennaio del prossimo anno.
«Valutazione positiva, per metodo e, in parte, di merito che ci può portare a condividere la
legge di Stabilità», ha detto il presidente della Conferenza delle Regioni Chiamparino che
ha ritrovato un clima disteso con il premier (ci sarebbe stato anche un abbraccio). Cruciale
per sbloccare la situazione, oltre al decreto «salva-Regioni», l’apertura dell’esecutivo sul
fondo sanitario che nel 2017 crescerà e potrà recuperare il miliardo perso quest’anno.
Nessuna modifica invece per le risorse destinate al 2016 che resteranno bloccate a 111
miliardi come ha ribadito ieri Renzi durante il vertice: un «incremento », ha detto
nuovamente il premier, dopo i 109 del 2014 e i 110 del 2015.
Cominciano ad emergere, nel frattempo, le prime modifiche alla legge di Stabilità che ieri
ha avviato la discussione in Commissione al Senato. «Entro lunedì gli emendamenti del
governo», ha dichiarato la relatrice Magda Zanoni (Pd). Mentre l’altra relatrice Federica
Chiavaroli (Ap) ha annunciato che il tetto per i money transfer rimarrà a 1.000 euro e che
si interverrà sui tagli ai Caf e ai patronati. Si punta inoltre al rafforzamento della
decontribuzione per i giovani nel Sud e ad interventi per l’ Agenzia delle entrate.
Una giornata durante la quale il ministro dell’Economia Padoan ha difeso manovra e ha
replicato alle critiche giunte durante le audizioni parlamentari su debito, coperture, conti
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pubblici e rinvio dell’aumento dell’Iva. Il quadro è «sostenibile», ha ribattuto il ministro, per
le misure già prese ma anche per quelle che «verrano prese» in futuro; i mercati stanno
«premiando la credibilità delle scelte fatte» e il debito dopo otto anni di aumento
ininterrotto, nel 2016 «scenderà». Padoan ha invitato nuovamente a considerare la
manovra nel suo insieme («errato e distorsivo» il giudizio su singoli aspetti) a cominciare
dal tetto del contante, misura che ha nuovamente rivendicato.
Il ministro ha inoltre rassicurato sulla sorte della spending review: le misure «riconducibili
alla revisione della spesa», ha detto, ammontano a 7,3 miliardi nel 2016 (8,4 miliardi nel
2017 e 10,3 miliardi nel 2018): una cifra in cui sono considerate tutte le poste di taglio alla
spesa, dalla sanità, alle Regioni alle amministrazioni centrali, all’acquisto di beni e servizi.
Padoan ha inoltre sottolineato che la lotta all’evasione ha un «ruolo centrale» nella
strategia del governo, che l’aumento dell’Iva è stato evitato per «non ostacolare la ripresa»
che «si rafforza» e imprimerà una «traiettoria di discesa» al debito.
del 05/11/15, pag. 1/3
Renzi, una forza del passato
Michele Prospero
La strategia di medio periodo del partito della nazione, inteso come spontanea confluenza
degli elettori di destra nelle accoglienti sigle del Pd, viene precisata negli editoriali che
Angelo Panebianco sta pubblicando sul Corriere. Impegnandosi in una strenua difesa
dell’Italicum, celebrato come una garanzia certa di governabilità, il politologo ha affermato
che ogni ripensamento sulla via del traguardo delle grandi riforme è assurdo e che i
pericoli paventati da politici esitanti sono semplici prodotti di fantasia.
Egli ha così accreditato la sicura affermazione elettorale di Renzi ricorrendo a un teorema
che in verità poggia su basi labili. La destra, sostiene, non potrà mai votare in massa per il
M5S al secondo turno e, inoltre, il soggetto di Grillo è destinato a sgonfiarsi in prossimità
del ballottaggio. La apoditticità di queste sue asserzioni Panebianco le ricava da un
postulato (in realtà un canone metafisico o un pio desiderio) che crede inoppugnabile. E
cioè che gli elettori votano con il portafoglio saldamente cucito nelle tasche. Motivo per cui
i barbari sognatori non passeranno, a meno che alle urne si rechino degli attori irrazionali
disposti a compiere atti di autolesionismo economico.
Secondo il Corriere il voto al M5S andava bene nel 2013, quando occorreva organizzare
(e anche via Solferino contribuì all’impresa) lo «sberleffo ai poteri costituiti».
Ora che il servizio dei guastatori è stato garantito, non serve più a nulla il sostegno al
movimento che prenderà «molti meno voti del 2013». A colpire il M5S, sino a
ridimensionarne le ambizioni, è la percezione del nudo interesse economico che vieta a
chi ha i conti in banca di marciare verso l’ignoto. Gratta il liberale e vien fuori un
materialista volgare. E, proprio su queste basi molto prosaiche, Panebianco indica in
maniera perentoria le ragioni dell’inevitabile successo di Renzi: «Un grillino a palazzo
Chigi scatenerebbe il panico in tutte le piazze internazionali».
Più che a una democrazia competitiva egli pensa a un sistema rigidamente protetto che va
messo sotto osservazione dai custodi dell’ordine del mercato mondiale. Bisogna
scongiurare che dalle fragili menti dei cittadini escano strane preferenze, in completa
violazione della dottrina dell’utilità e dell’interesse bene inteso formulata da Bentham o
Mill. Dalla difesa dei precisi calcoli monetari, visti come movente principale della scelta
razionale di voto, Panebianco fa discendere la sua prospettiva politica con un ferreo
22
automatismo, e cioè il soccorso scontato della destra al Pd per salvare i depositi bancari
altrimenti violati.
Questa analisi, che esibisce un realismo cinico in fondo è solo un tentativo di auto
rassicurazione. Trascura peraltro che gli interessi materiali che il governo ha incoraggiato
con le sue manovre sono quelli delle imprese, che pesano molto nella confezione delle
leggi di bilancio ma meno impatto hanno nel conteggio delle schede elettorali.
L’allargamento della soglia del pagamento in contanti mira ad ampliare la coalizione
sociale governativa coinvolgendo nella festa per la mitica ripresa anche settori del
commercio, delle libere professioni. Ma, come in un gioco a somma zero, ciò che
guadagna verso il mondo delle imprese e del lavoro autonomo, l’esecutivo lo perde nel
campo del lavoro dipendente pubblico e privato, delle pensioni, del precariato, della
disoccupazione, del voto di opinione.
Con pensioni di sopravvivenza, il sud abbandonato al declino irreversibile, il pubblico
impiego perseguitato con accanimento terapeutico, il ricatto del licenziamento che presto
peserà sui nuovi assunti a tutele crescenti, l’universo potenziale di chi ritiene di non avere
proprio nulla da perdere da un atto di ribellione parrebbe sterminato. E a nulla valgono gli
sconvolgimenti sul piano degli averi che Panebianco agita allo scopo di incutere tremore.
La difesa dell’ordine costituito sulla base dell’interesse economico minacciato rischia di
fare cilecca. Servirebbe un supplemento di politica.
Ed è soprattutto per ragioni politiche e culturali che l’assioma del successo renziano come
dato acquisito non regge. Lo stile di governo che intende divertirsi con le regioni e
strapazzare il lavoro, l’esibizione di arroganza nelle riforme costituzionali, il ricorso a
commissari e prefetti per gestire i territori sospendendo ovunque la democrazia, il
contrasto sempre più palese tra il mito anticasta delle origini e l’attaccamento a tutti i
privilegi del potere conquistato con astuzia, creano una sempre più rigida opposizione tra il
palazzo e la società.
Lo scenario possibile è che si ripeta la regolarità della seconda repubblica nelle forme di
una nuova insorgenza populista e che Renzi cada vittima del suo stesso immaginario
antipolitico. La sua predilezione neorinascimentale per i complotti, il regolamento dei conti,
gli agguati, cui aggiunge come maschere diversive le tecniche del comico, del sorriso,
della finzione potrebbero portarlo al tramonto. Contro il potere gigliato che marcia con
simbologie aggressive, potrebbe mobilitarsi una grande resistenza dal basso, tale da
travolgere equilibri che affrettati interpreti vorrebbero consolidati per un ventennio.
Se, a dispetto della demonizzazione dei cosacchi in cammino, arriva a strutturarsi una
polarità palazzo-società, che marcia sino a diventare la demarcazione cruciale, il voto
potrebbe regalare sorprese. Esclusa dalla somma pro cinque stelle pure la totalità dei
sostenitori di FI, esiste comunque, tra i votanti della destra radicale, della Lega e del M5S
un blocco di forze che parte già dalla dotazione di un buon 45 per cento dei consensi. Se
ad essi si aggiungono al ballottaggio anche i voti presumibili di quanti nella sinistra (non
solo radicale) rifiutano per principio ogni possibilità di scegliere Renzi, non è da escludere
che dalle urne risuonerà il grido «game over», stavolta rivolto al leader del Pd.
Se, come sembra ormai acclarato, il Pd non mollerà prima del voto lo statista di Rignano
inducendolo alla ritirata, la sorte dello scontro è rischiosa. E inevitabile sarà il deflusso
della competizione lungo l’asse società-palazzo, essendo, con la benedizione di De
Benedetti, felicemente stata archiviata la polarità destra-sinistra. Solo un estremo atto di
ribellione, che disarcioni Renzi, potrebbe impedire ulteriori collassi sistemici. Ma il coraggio
di un siffatto rimedio liberatorio, e la lucidità strategica nel cogliere il senso delle tendenze,
mancano del tutto alle pallide comparse che in parlamento danzano in attesa del grande
crollo incombente. Il nuovo soggetto della sinistra perciò deve guardare oltre Renzi, una
forza del passato.
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Del 5/11/2015, pag. 29
PERCHÉ HA ANCORA SENSO PARLARE DI
DESTRA E SINISTRA
NADIA URBINATI
GIUDICARE in politica è tenere una parte o prendere parte, scriveva Hannah Arendt
commentando Aristotele. Non si può giudicare senza stare da una qualche parte o
schierarsi. Questo vale soprattutto per i cittadini nelle loro considerazioni ordinarie sulle
cose relative alla loro città o al loro Paese; anche quando dichiarano di volersi astenere
dal giudicare o si professano indifferenti alle parti politiche. È a partire dalla natura fallibile
del giudizio politico che i governi liberi vantano di essere quelli nei quali la ricerca del
giudizio migliore trova la propria sede, poiché garantiscono le libertà civili grazie alle quali
il giudicare pro e contro si dipana in un clima di tranquillità e rispetto. Giudizio e politica
stanno in stretta connessione. Un narratore della condizione politica, Thomas Mann,
diceva che, per questo, la democrazia è tra tutti i regimi quello più compiutamente politico,
perché qui anche chi vuole tirarsi fuori da ogni giudizio politico deve fatalmente schierarsi,
facendo della propria posizione impolitica un giudizio di parte.
Le pretese che oggi si levano contro il giudizio politico destano quindi legittimo sospetto.
Un candidato possibile alla poltrona di sindaco del Comune di Roma, Alfio Marchini, si
propone come al di sopra delle parti politiche — né di destra, né di sinistra.
È un imprenditore, parte della società civile intraprendente, ed è romano. Due ragioni certo
rilevanti, la seconda soprattutto, ma non sufficienti.
Perché amministrare una città non è lo stesso che amministrare un’azienda, anche se le
città hanno bisogno di buoni amministratori che sappiano ragionare in termini di prudenza,
opportunità ed efficienza. Ma non basta. Poiché, contrariamente alle aziende private,
l’amministratore di una città deve rendere conto delle sue decisioni, non ai suoi azionisti
ma a tutti i cittadini, residenti che hanno diversissime condizioni sociali, economiche e
culturali, tutte rappresentate nel voto che esprimono, pro o contro. Solo la politica può
rappresentare questa generalità e insieme partigianeria.
E torniamo così al punto di partenza, al giudizio politico. Presentarsi come candidato né di
destra né di sinistra è una strategia molto politica, che cerca di capitalizzare a partire dai
fallimenti delle precedenti amministrazioni, di destra e di sinistra, le quali — per ragioni e
con responsabilità molto diverse tra loro — hanno generato i problemi che portano ora al
voto anticipato, dopo essere passati per una gestione commissariale della città capitale
d’Italia. Ma si deve dubitare di questo ecumenismo poiché se Marchini diventasse sindaco
dovrà pur scegliere dove investire o disinvestire le risorse pubbliche, se occuparsi delle
periferie e come, se occuparsi del malgoverno e come, se prediligere il trasporto pubblico
e come, eccetera. In tutti i casi, egli dovrà scegliere e si rivolgerà a una parte del consiglio
comunale per avere sostegno e voti.
Destra/sinistra sono distinzioni generali che servono a orientare elettori ed eletti. Sono
sempre più approssimative e sempre più liminali, ma esistono. La confusione prodotta in
questi mesi non aiuta a distinguerle, è vero: la destra parlamentare spesso alleata del
partito di centro-sinistra che governa, il quale ha una sua sinistra interna, e un’opposizione
grillina che si definisce in ragione di chi contrasta, senza chiarezza sulle proprie posizioni.
Tanta confusione disorienta. Ma non elimina le distinzioni di giudizio sulle politiche, che
esistono. Rinunciare ad esse o pretendere che non esistano non è indice di oggettiva
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chiarezza, ma di strategica ambiguità — la speranza di capitalizzare dalla memoria
vecchia e recente dei fallimenti della politica.
Scriveva John Stuart Mill — un liberale diffidente verso i partiti—che il sistema
rappresentativo non può evitare divisioni di schieramento ideale o ideologico: la divisione
tra “progressisti” e “conservatori” (alla quale egli pensava), ovvero tra “sinistra” e “destra”,
corrisponde a due modi di giudicare, relativi a due criteri o principi generali non identici e
nemmeno interscambiabili. Uno di essi orientato direttamente verso la promozione del
benessere della maggioranza con scelte amministrative volte a risolvere i bisogni più
urgenti e a includere quanti più possibile nel godimento del benessere generale; l’altro
orientato a pensare che favorendo l’interesse dei pochi che hanno risorse da investire ne
verrà giovamento per molti, eventualmente. Si tratta, come si vede, di divisioni molto meno
esplicite di quelle che la vecchia terminologia ideologica offriva. Ma sono abbastanza
chiare nonostante tutto, e corrispondono a due modi di intendere e di amministrare il bene
pubblico.
del 05/11/15, pag. 1/15
L’antipolitica tra notai e commissari
Gaetano Azzariti
Davanti ad un notaio s’è certificata la fine di un’esperienza politica, senza che ne venisse
coinvolta l’istituzione rappresentativa. Nulla di illegittimo può essere rilevato. Il caso di
auto-scioglimento del consiglio per dimissioni della maggioranza dei consiglieri rientra tra
quelli previsti dal testo unico sugli enti locali (art. 141). Così come è indicata la possibilità
di revocare le dimissioni presentate dal sindaco entro il termine di 20 giorni (art. 53).
Dunque, entrambi gli atti che hanno caratterizzato la vicenda romana sono stati possibili ai
sensi di legge. Eppure, per via legale, si è prodotto un vulnus al sistema della
rappresentanza democratica.
Non aver coinvolto il consiglio comunale, non aver espresso il proprio dissenso in quella
sede, assumendosi — ciascun consigliere — la responsabilità politica della presentazione
di una mozione motivata di sfiducia, come indicato sempre dalla stessa legge (art. 52),
appare una scelta significativa della concezione di democrazia che ormai domina. Non è
solo il caso di Roma, bensì un modo di operare che rivela una cultura politica del tutto
insofferente al ruolo delle istituzioni. Una politica che si fa altrove, all’esterno dei palazzi
della politica, dentro le stanze chiuse dei potenti.
Basta ripercorrere le più rilevanti vicende degli ultimi mesi e ci si avvede come tutti i
passaggi più importanti si siano consumati fuori da ogni regola istituzionale e non nelle
sedi proprie. Anzitutto il cambio di governo, deciso dalla direzione di un partito, senza
alcun coinvolgimento parlamentare.
Ma anche l’accordo per la modifica della costituzione e sulla legge elettorale, prima
concordato in un incontro tra due leader (Berlusconi e Renzi) svolto in un luogo riservato
senza alcuna pubblicità e trasparenza, poi — a seguito delle convulse e note vicende —
rinegoziato tra pochi esponenti di un unico partito e con l’aiuto di una drappello di senatori
senza partito.
I riflessi di questo modo di procedere hanno portato ad un sostanziale svuotamento dei
luoghi della rappresentanza.
Si pensi al (non) dibattito parlamentare tanto sulla legge elettorale quanto sulla riforma
costituzionale: s’è fatto di tutto per evitare il confronto nel merito. In Parlamento, venute
meno le condizioni per una discussione sulle diverse visioni di democrazia che potevano
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portare a legittimare le singole proposte, ci si è limitati a interpretare il regolamento e ad
utilizzarlo nel modo più disinvolto (a volte ben oltre il possibile) al solo fine di conseguire il
risultato (le forze di maggioranza) ovvero limitandosi ad urlare alla luna (le forze di
opposizione).
Così abbiamo assistito ad un ben triste spettacolo: rimozioni in massa di parlamentari
dalle commissioni, richieste di disciplina in materie di coscienza, fissazione di tempi che
impedivano alle commissioni di svolgere il proprio ruolo istruttorio per arrivare direttamente
in aula senza relatori, senza testo base, senza parole meditate. In un arena ove l’unico
obiettivo era quello di sfidare la sorte dei numeri, facendo assegnamento sulla propria
capacità tattica, non certo confidando sulla forza della persuasione e sulla capacità di
conseguire un nobile compromesso parlamentare nel merito delle proposte.
D’altronde, anche l’opposizione ha mostrato il proprio sbandamento. Partecipando a
questa spettacolarizzazione anch’essa, a volte, non ha preso troppo sul serio la dignità del
Parlamento. Un po’ come Marino, anche l’opposizione si “dimetteva” a giorni alterni. Un
giorno un po’ di Aventino, il giorno dopo un po’ d’Aula. Non mi sembra si sia riusciti in tal
modo a far chiaramente emergere le reali ragioni di una battaglia politica di contrasto così
importante, a tutto vantaggio dell’uso retorico delle istituzioni perseguito dalla
maggioranza.
Due passaggi mi sembrano possano sintetizzare — anche in termini metaforici — lo stato
di crisi delle istituzioni rappresentative. Da un lato la presentazione da parte del senatore
Calderoli di milioni di emendamenti inconsulti elaborati da un algoritmo, dall’altro
l’interpretazione disinvolta (a mio parere illegittima) dei regolamenti parlamentari che
hanno impedito la discussione su tutto, in particolare con l’invenzione del cosiddetto
“canguro”. Una riforma costituzionale dunque affidata ad un metodo di calcolo e ad un
animale della famiglia dei macropodidi. Credo ci si sia fatti prendere la mano.
Eppure dietro tutte queste forzature c’è una spiegazione: la perdita del senso delle
istituzioni. Nessuno sembra più credere in esse. La politica si svolge altrove, non possiede
più forme. La decisione è assunta tra pochi, in luoghi e con mezzi indeterminati: sms,
dialoghi diretti, messaggi indiretti, affidamenti individuali o garanzie prestate da gruppi
d’interesse. Poi, fatta in tal modo la scelta, essa viene divulgata attraverso una strategia
ad effetto che non prevede passaggi istituzionali, bensì mero spettacolo. A questo punto, il
passaggio istituzionale, se non può essere evitato, diventa però unicamente un intralcio,
che deve essere gestito con qualche insofferenza. Sopportato come un “costo” della
democrazia, non certo come sua essenza e valore.
Un atteggiamento psicologico, caratteriale e culturale, prima ancora che espressione di
una consapevole strategia politica potenzialmente eversiva. Il nuovo ceto politico ha
costantemente teso ad eludere il confronto istituzionale, anche quello interno alle istanze
di partito. Primarie “aperte”, per sconfiggere le burocrazie e rovesciare gli equilibri interni;
direzioni in streeming, per parlare con l’opinione pubblica, non certo per tessere una
strategia condivisa entro una comunità politica; rapporti diretti con i politici locali da
sostenere (Pisapia e il “modello milanese” dell’Expo) ovvero da abbandonare (Marino e la
mancanza di anticorpi romani).
I comportamenti extraistituzionali diffusi, che caratterizzano il ritorno della politica oggi,
sono stati favoriti dalle politiche di ieri. Sono anni che si denuncia la crisi del Parlamento,
delle rappresentanze locali, del ruolo istituzionale dei partiti. Ciò nonostante, perlopiù, si è
preferito cavalcare l’insofferenza, raccogliere un facile consenso scagliando pietre contro i
Palazzi della politica, nessuno volendo raccogliere la sfida complessa di un reale
cambiamento delle istituzioni operando al loro interno, nel rispetto delle regole del gioco
democratico.
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Una sottovalutazione imperdonabile che rischia di svuotare di ogni ruolo la
rappresentanza. Ci si potrebbe alla fine chiedere perché tornare a votare per un consiglio
comunale che non conta nulla, nulla decide e nulla può fare. Meglio affidarsi ad un
commissario prefettizio. In fondo la storia ci ha già detto che esiste una “istituzione” in
grado di operare in situazioni di emergenza: il dictator commissario ha salvato più di una
volta Roma. Poi è arrivato Giulio Cesare e la dittatura è diventata sovrana, ponendo fine
alla repubblica.
del 05/11/15, pag. 3
Toscana
Corsa a ostacoli per depositare le firme
raccolte
Controriforme. Depositate, non senza fatica, le 55mila firme per
cancellare la discussa legge regionale che taglia personale e aumenta i
ticket, favorendo le strutture private. Voto possibile a giugno 2016, ma
c'è il rischio di "rallentamenti burocratici".
Riccardo Chiari
FIRENZE
Le oltre 55mile firme a sostegno del referendum abrogativo della legge regionale 28/2015
di “riordino” del sistema sanitario toscano sono state depositate. Ma quanta fatica. E’ stata
sfiorata anche l’occupazione dell’aula del consiglio regionale, a causa di un ordine di
servizio di una dirigente di palazzo Panciatichi, che con un cavillo burocratico imponeva
agli uffici di non accettare i 17 faldoni con le sottoscrizioni raccolte dal Comitato per la
sanità pubblica. Con il rischio di far slittare il referendum nel 2017, invece che nel
prossimo giugno.
L’impasse è stato superato solo grazie all’intervento della presidenza del consiglio
toscano: di fronte alla possibilità concreta di un’autentica figuraccia, l’esperto Eugenio
Giani ha preso in mano la situazione: “Non volevo che si creassero delle tensioni inutili su
questioni formali – ha poi spiegato — sulla riforma sanitaria e sul quesito referendario ci
sarà chi dirà una cosa, e chi ne sosterrà un’altra. Ma su questioni di sostanza, non su
aspetti di forma. Io ho preso atto che sono arrivate 55mila firme vere”.
Ad aiutare i referendari anche il presidente del Collegio di garanzia statutaria, il
costituzionalista Stefano Merlini, arrivato in consiglio regionale per garantire con la sua
presenza la regolarità del deposito. “Comunque sia anche stamani abbiamo vissuto una
giornata surreale – osservano peraltro Tommaso Fattori e Paolo Sarti, consiglieri regionali
di Toscana a Sinistra – e solo l’intervento diretto di Giani e del professor Merlini ha
sbloccato la situazione. Loro hanno dato prova di una trasparenza e di un buon senso che
altri non hanno dimostrato”.
Il riferimento alla burocrazia regionale è implicito. Esplicito invece l’ordine di servizio che
ha dato vita al caso: “Su indicazioni del dirigente, si danno disposizioni ai destinatari in
indirizzo che non devono assolutamente ritirare alcunché dalle persone che dovrebbero
presentarsi oggi per il deposito delle firme raccolte per il referendum sulla sanità”. Un
diktat che ha provocato le proteste non solo di Toscana a Sinistra ma anche di altri gruppi
politici consiliari, dal M5S alla Lega.
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Ora parte una corsa contro il tempo: “Il nostro impegno non finisce qui – ricordano
comunque Sarti e Fattori – chiederemo l’accelerazione delle procedure per lo svolgimento
dei referendum, motivo per cui abbiamo depositato una nostra proposta di legge già da
mesi, così da poter votare a primavera. Anche sulla sanità pubblica la parola deve tornare
ai cittadini, senza sotterfugi e senza invenzioni legislative dell’ultima ora, come
disperatamente sta provando a fare la giunta Rossi”.
Soprattutto ci sta provando l’assessora alla sanità Stefania Saccardi, che per bloccare il
referendum vuol portare all’approvazione del consiglio entro la fine dell’anno una ulteriore
legge regionale sul comparto sanitario. A soli sei mesi di distanza dalla discussa 28/2015,
votata nello scorso mese di aprile come ultimo atto della precedente legislatura toscana.
del 05/11/15, pag. 11
Per la Consulta c’è l’avvocato di Verdini
Corte costituzionale - Tra i possibili giudici il deputato Sisto: ha difeso
anche B.e Fitto
di Antonella Mascali
Mancano due settimane alla ventottesima votazione per l’elezione di tre giudici della Corte
costituzionale da parte del Parlamento, ma non c’è ancora un’intesa tra i partiti che possa
garantire alla Consulta di lavorare con l’organico completo. Mai accaduto un blocco simile.
Ci aveva provato Giorgio Napolitano, ci ha provato nei giorni scorsi il presidente Sergio
Mattarella a scrollare il Parlamento, ma i giochini di potere, usati anche per altre partite,
sono più forti della perdita della faccia di fronte a uno stallo del genere che costringe la
Consulta a lavorare a ranghi ridotti, 12 giudici su 15. Un numero pari che, in caso di
spaccatura a metà della Corte, ha come conseguenza una sentenza determinata dal
valore doppio del voto del presidente.
Nelle ultime ore, sono tornati a circolare i nomi del costituzionalista Augusto Barbera, per il
Pd e dell’avvocato Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia. Ma, soprattutto Sisto,
sembra difficile che la spunti.
Impossibile riesumare il patto del Nazareno per questa elezione, non ci sono i numeri e di
fronte allo sgretolamento del centrodestra e allo scontro interno al Pd i 130 voti di M5s
pesano come macigni.
“Ma al momento”, assicura al Fatto Danilo Toninelli, deputato di M5s in commissione
Affari costituzionali, “non ci è stato proposto alcun nome. Barbera e Sisto per noi solo solo
indiscrezioni”. Li votereste? “Aspettiamo proposte formali, però, una cosa la posso dire
subito, Sisto è invotabile, legato mani e piedi alla politica e quindi privo dei requisiti per
andare alla Consulta”.
M5s una rosa di nomi l’ha presentata già l’11 giugno dell’anno scorso e quella rimane:
Franco Modugno, professore emerito di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, Silvia
Niccolai, professoressa ordinaria di diritto costituzionale a Cagliari e l’avvocato Felice
Besostri, tra i legali che hanno vinto la battaglia contro il Porcellum.
Per i grillini tutti e tre i nomi, ci dicono in diversi, pari sono e dunque, sono disponibili a
candidare uno fra loro tre che venga accettato dalle altre forze politiche. Dal canto loro,
non appena riceveranno una proposta dalla maggioranza e da Forza italia “ma non uno
come Sisto, invotabile”, ribadisce Toninelli, lo sottoporranno al giudizio online.
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Il deputato è “ottimista” sull’esito della soffertissima elezione e ci spiega perché: “I nostri
voti sono diventati necessari e dunque, saranno costretti a proporre nomi credibili”. Se ha
ragione, Sisto, uno dei legali di Silvio Berlusconi, Raffaele Fitto e Denis Verdini non potrà
farcela. Non solo per il veto del M5s, ma anche per i mal di pancia – a quanto ci risulta – di
alcuni esponenti del Pd.
In Parlamento dal 2008, ex presidente della commissione Affari costituzionali, Sisto, dopo
la rottura del patto del Nazareno si è dimesso da relatore della riforma costituzionale. Ma il
22 settembre, prima del voto sulla delega in bianco al governo in materia di intercettazioni,
rivendica quel patto: “Noi questa riforma abbiamo cercato di farla in passato, ma non ci è
stato consentito. L’arrivo in aula di questo tema è un riconoscimento al lavoro svolto in
passato da Forza Italia”.
del 05/11/15, pag. 5
Manovre in vista, la Consulta rischia il buco
più lungo
Due settimane alla seduta comune del parlamento. Che può battere il
record negativo di stallo nella scelta dei giudici. Verso un accordo a tre
Pd, Forza Italia, M5S
Andrea Fabozzi
ROMA
Il 18 o il 19 novembre prossimi il parlamento tornerà a riunirsi in seduta comune per
eleggere tre giudici della Corte costituzionale. Non dovesse riuscire a eleggerne almeno
uno, batterebbe il record della più lunga «vacanza» alla Consulta. La casella che da più
tempo attende di essere riempita, infatti, è quella di uno dei due giudici (Mazzella e
Silvestri) cessati dall’incarico il 28 giugno 2014. Uno è stato rimpiazzato un anno fa con
l’elezione della giudice Silvana Sciarra in quota Pd. Nella stessa seduta Forza Italia auto
affondò la sua candidata, Stefania Bariatti (i franchi tiratori berlusconiani avevano
precedentemente bruciato Catricalà, Caramazza e il da poco scomparso Donato Bruno).
Dopo di allora, però, si sono aperti due nuovi buchi nel plenum della Corte, perché altri
giudici eletti dal parlamento hanno cessato il mandato. Sergio Mattarella, passato a
febbraio al Quirinale, e Paolo Napolitano, il 10 luglio scorso. Ai quindici giudici della Corte
ne mancano allora tre, e il buco diventa una voragine perché spesso si registra l’assenza
di un quarto giudice, anche questo eletto dal parlamento, e così la Consulta sta prendendo
le sue decisioni con il plenum al minimo legale, undici giudici.
Il record negativo è quello fatto segnare in occasione della sostituzione del giudice
Vaccarella, eletto in quota Forza Italia e dimessosi nel maggio 2007. Il parlamento riuscì a
sostituirlo solo nell’ottobre 2008, dopo 17 mesi e 17 giorni. Ci vollero però «solo» 22
scrutini, mentre con il prossimo saremo già al 27esimo scrutinio per il primo giudice (e 16
mesi e 20 giorni), mentre per gli altri due si tratterà del sesto e del quarto scrutinio. In tutti i
casi, dalla prossima occasione, il quorum necessario per l’elezione è più basso, servono i
tre quinti dei componenti, 571 voti. Un accordo tra i partiti è indispensabile, fin qui è stato
complicato dalle richieste del Pd e dall’indecisione di Forza Italia.
Guardando alla provenienza dei giudici che hanno lasciato l’incarico, il partito di Renzi ha
preteso altri due posti (per sostituire Mattarella e Napolitano), disponibile a concederne
uno ai berlusconiani (per Mazzella). I democratici si sono lungamente incaponiti sulla
candidatura di Violante, che secondo i 5 stelle manca persino dei requisiti formali per
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l’elezione, essendo sì «professore ordinario di materie giuridiche» come prevede la
Costituzione, ma nel frattempo collocato a riposo. Già impallinato in ripetuti scrutini,
Violante potrebbe essere sostituito da Anna Finocchiaro, la presidente della prima
commissione che ha condotto in porto la riforma costituzionale, che ha lasciato la
magistratura per la politica nel 1987 da pm a Catania, restando però in aspettativa e così
progredendo in carriera fino a giudice di Cassazione; dunque ha i requisiti. Per avere i voti
necessari e sbloccare l’impasse, il Pd dovrà cedere un candidato ai 5 stelle, che sono
disponibili a votare quello di Renzi «se degno», dopo averlo sottoposto al gradimento della
rete. In cambio il Pd potrebbe guardare nelle liste dei grillini, le uniche pubbliche, dove c’è
l’avvocato dei ricorsi contro la legge elettorale, Felice Besostri, l’anziano costituzionalista
Franco Modugno e la professoressa di diritto costituzionale a Cagliari Silvia Niccolai, la più
votata dai grillini nell’ultima seduta a ottobre. Resta da rompere l’indecisione dei
berlusconiani. Potrebbero convergere sull’avvocato e docente di sicurezza sul lavoro
Francesco Paolo Sisto. Il deputato pugliese era con la fronda di Raffaele Fitto. Ma
all’ultimo momento qualcosa l’ha convinto a restare con Berlusconi.
Del 5/11/2015, pag. 14
Lo scandalo
“Riciclaggio in Vaticano” banchiere sotto
accusa
Nuovo fronte dopo i corvi: indagato Nattino per i conti dirottati in
Svizzera I pm italiani sullo Ior: “Per quarant’anni ha operato senza
autorizzazioni”
MARCO ANSALDO
CITTÀ DEL VATICANO.
Per Vatileaks 2 non ci sono al momento altri indagati, dice il portavoce papale, padre
Federico Lombardi. Ma sulla trasparenza finanziaria un nuovo fronte si apre in Vaticano
per sospetto riciclaggio di denaro, insider trading e manipolazione del mercato. Il
promotore di giustizia pontificio ha avviato le indagini su operazioni di compravendita di
titoli e transazioni riconducibili a Giampietro Nattino, presidente di Banca Finnat
Euramerica. Un provvedimento scattato dopo un rapporto dell’Autorità di informazione
finanziaria. «Il medesimo ufficio — ha detto Lombardi — ha richiesto la collaborazione
dell’autorità giudiziaria italiana e svizzera mediante lettere rogatorie».
Il nome di Nattino era emerso martedì in un rapporto pubblicato dall’agenzia Reuters, su
possibili reati che avrebbero coinvolto l’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della sede
apostolica che gestisce finanze e immobili. Secondo il dossier di 33 pagine gli inquirenti
vaticani sospettano che Nattino abbia utilizzato conti Apsa con un saldo di oltre 2 milioni di
euro, poi spostati in Svizzera alcuni giorni prima che il Vaticano introducesse regole più
severe contro il riciclaggio. Il presidente di Finnat ha replicato: «Ribadisco di avere sempre
operato nel pieno rispetto delle normative in vigore con la massima trasparenza e
correttezza. Sono ovviamente a disposizione delle autorità competenti per ogni
chiarimento». Una nuova indagine è anche quella della procura di Roma sugli ex dirigenti
dello Ior, Paolo Cipriani e Massimo Tulli. Sono accusati di abusiva attività bancaria e
finanziaria per fatti avvenuti prima del 2011. Fino a quella data, infatti, lo Ior avrebbe
gestito fondi e finanziamenti senza esserne autorizzato.
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Prosegue intanto a fasi serrate l’inchiesta su Vatileaks 2, alla ricerca di altri corvi oltre a
quelli già individuati. Il sito cattolico spagnolo “Religion digital” sostiene che la
Gendarmeria vaticana starebbe indagando sul marito di Francesca Chaouqui, la pierre
arrestata assieme a monsignor Lucio Vallejo Balda. La ex esponente della Commissione
referente per l’Economia, che sta collaborando con gli inquirenti, era stata subito rilasciata.
Il marito, Corrado Lanino, è un informatico che ha contribuito alla realizzazione della rete
intranet del Vaticano. A questo proposito padre Lombardi ha detto che «una cosa è che
alla luce delle risultanze degli interrogatori si facciano altre verifiche, altro è che vengano
interrogate delle persone come indagate».
Sui due libri in uscita che pubblicano diversi documenti segreti il portavoce ha detto che le
rivelazioni di entrambi sono già superate dalle riforme del Papa: «La riorganizzazione dei
dicasteri economici, la nomina del revisore generale, il funzionamento delle istituzioni di
controllo delle attività economiche e finanziarie». Il Pontefice «va avanti molto sereno». Ma
è «assolutamente surreale » pensare che il Vaticano decida cosa fare, sulla riforma
economica e amministrativa, in base «ai libri di Nuzzi o Fittipaldi».
Ieri il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, ha anche rinnovato il consiglio direttivo
della Fondazione Bambin Gesù, al centro delle polemiche per i soldi destinati ai lavori
nell’attico del cardinal Bertone. Per garantire «trasparenza, solidarietà e innovazione»
sono stati nominati sei consiglieri i cui nomi più noti sono quelli di Ferruccio De Bortoli, ex
direttore del Corriere della Sera, Anna Maria Tarantola, ex presidente Rai, e il diplomatico
Antonio Zanardi Landi, già ambasciatore italiano presso la Santa Sede.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 5/11/2015, pag. 11
Il retroscena.
In quattro interrogatori le ammissioni sulla spartizione di appalti tra
coop attive nell’assistenza ai migranti
I verbali di Odevaine “Castiglione nel patto
degli affari sul Cara”
L’ex dirigente del Campidoglio inguaia il big dell’Ncd Mafia Capitale,
governo parte civile ma “salva” i dem
CARLO BONINI
Quattro verbali di interrogatorio resi tra settembre e ottobre alle Procure di Roma e
Catania, con la piena ammissione delle proprie responsabilità e la chiamata di correo che
spalanca le porte dell’abisso al sottosegretario all’agricoltura Ncd Giuseppe Castiglione
(indagato da mesi a Catania e sopravvissuto a una mozione di sfiducia in giugno), sono la
chiave che dopo 11 mesi di detenzione ha aperto le porte del carcere a Luca Odevaine,
uno degli imputati chiave del processo “Mafia Capitale” che questa mattina celebrerà la
sua prima udienza. Processo in cui, oltre al Comune, si costituirà parte civile anche il
Governo. Ma con un singolare distinguo. Solo nei confronti degli imputati di associazione
mafiosa. Il che escluderà, tra gli imputati, gli ex consiglieri e assessori capitolini del Pd e
comunque tutti i politici sin qui coinvolti (escluso il Pdl Luca Gramazio, perché accusato,
appunto, di mafia).
Ma torniamo a Odevaine. In quei quattro verbali (due dei quali, quelli con i pm romani,
verranno depositati oggi all’apertura del dibattimento), ampiamente “omissati” per
proteggere il segreto di un’indagine che, a Catania, ha come oggetto la gara per
l’affidamento al “Cara” di Mineo e, a Roma, l’accordo di cartello tra la coop 29 giugno di
Buzzi e la “Cascina” di Cl, si completa una collaborazione cominciata a metà luglio,
quando era detenuto a Torino, e proseguita nella sezione protetta di quello di Terni, che
ha lasciato per gli arresti domiciliari. Odevaine, infatti, non solo ha ammesso di aver
ricevuto denaro dalla “Cascina”, ma ha spiegato come quel denaro fosse funzionale a
pilotare la gara per l’affidamento della gestione del Cara di Mineo, della cui commissione
aggiudicatrice faceva parte. E questo con la piena consapevolezza dell’allora presidente
della Provincia di Catania e oggi sottosegretario Castiglione (preoccupato di incassarne un
ritorno politico). La gara per il Cara di Mineo – ha spiegato Odevaine ai magistrati di
Catania – rispondeva a un accordo di cartello che, a diverse latitudini, Roma come
Catania, prevedeva una spartizione aritmetica tra coop rosse (la “29 giugno” di Buzzi) e
bianche (la “Cascina”) del business dell’accoglienza. Con un ritorno politico per il partito
che delle coop bianche era riferimento: l’Ncd del ministro dell’Interno Angelino Alfano e
dell’ex ministro Maurizio Lupi. Un cartello che, per altro, nel caso di Mineo – stando a
quanto verbalizzato – avrebbe visto il coinvolgimento di interessi mafiosi (motivo per il
quale lo stesso Odevaine si sarebbe detto preoccupato con i pm della propria sicurezza e
di quella dei suoi familiari). Che gli appalti del cosiddetto “terzo settore” (welfare, migranti e
ambiente) destinati alle cooperative fossero del resto il piatto in cui si incrociavano
domanda e offerta del mercato della corruzione, senza distinzione di colore politico, è
circostanza che Odevaine mette a verbale anche con i pm romani. Nel 2008 – ricorda –
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uno dei primi atti del neosindaco Gianni Alemanno è spedirgli un’ambasciata di cui sono
latori Riccardo Mancini e Vincenzo Piso (oggi deputato Ncd e all’epoca capogruppo Pdl in
Campidoglio). Odevaine, in quel momento è ancora vicecapo del gabinetto che era stato
di Veltroni e quindi del commissario che gli era subentrato e la richiesta di Alemanno è che
riapra i termini di gare già chiuse per inserire cooperative nell’orbita della nuova
maggioranza. La risposta è un “ni”. «Solo se il sindaco me lo mette per scritto», dice
Odevaine a Mancini e Piso. Che, infatti, si ripresentano con una lettera del neosindaco. A
cui, tuttavia, Odevaine non dà corso per «non finire tutti nei guai». Ma c’è di più. Stando
agli interrogatori nel carcere di Terni, Alemanno vuole che Odevaine protragga la sua
presenza nel gabinetto del sindaco per almeno tre mesi, anche se la maggioranza ha
cambiato colore. Ipotesi che non si concretizzerà perché, come Mancini e Piso riferiranno
a Odevaine, «manca l’appoggio » di Umberto Marroni (oggi deputato Pd) e Francesco
Smedile (allora Pd, poi Udc). Per quale motivo dei consiglieri del Pd dovessero lavorare a
un accordo che prorogasse con una nuova giunta di destra l’incarico dell’uomo da cui
Alemanno voleva la riapertura delle gare non è dato sapere. Quello che ha documentato
l’indagine Mafia capitale lo lascia immaginare.
Del 5/11/2015, pag. 2
Colpo alle tesi dei pm così crolla il pilastro
del processo sul patto
ATTILIO BOLZONI
IL RETROSCENA
UNA prima sentenza, implacabile segna il destino del processo sulla trattativa Stato-mafia.
Con l’assoluzione di Calogero «Lillo» Mannino il dibattimento che si sta ancora celebrando
a Palermo sembra già chiuso, finito. L’ex ministro, potente di un’Italia che non c’è più —
sepolta dalle stragi e da Mani Pulite — non era un imputato qualunque. Ecco perché
questo verdetto, al di là delle acrobazie in punto di diritto per decifrarlo nelle sue pieghe
più nascoste e in attesa delle motivazioni del giudice, è un precedente decisivo per le sorti
in Corte di Assise dell’intero processo. È più che un duro colpo: è mortale.
E non tanto per l’assoluzione in sé, ma proprio per il ruolo che i pubblici ministeri hanno
attribuito a Mannino nella costruzione delle loro tesi. Era lui all’origine di quel dialogo fra
apparati e boss Corleonesi che si sarebbe concluso, nella primavera di ventitré anni fa,
con un patto. Era lui che era considerato un «traditore » da Totò Riina perché nel 1992, in
Cassazione, non aveva garantito un buon esito del maxi processo a Cosa Nostra. Era
sempre lui che, dopo l’uccisione dell’europarlamentare Salvo Lima, temeva per la sua vita.
E che si sarebbe quindi rivolto al generale dei reparti speciali dell’Arma Antonino Subranni
per agganciare l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, l’unica strada per evitare la ritorsione
dei boss tutti condannati all’ergastolo. Calogero Mannino incarnava nell’indagine il punto
d’inizio della trattativa Stato-mafia, la genesi. Con la sua assoluzione il processo è minato
alle fondamenta.
Se accordo c’è stato fra Stato e mafia tutto era cominciato con il suo input al generale,
Mannino era in qualche modo l’ispiratore della trattativa. Così si era messa in moto la
macchina investigativa e informativa per mercanteggiare con Riina e i suoi macellai, così
l’accusa è arrivata alla richiesta di nove anni di carcere per Mannino. Caduta per lui
l’imputazione del reato di «violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o
giudiziario» previsto dagli articoli 338 e 339 del codice penale, quali previsioni fare
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sull’epilogo processuale per gli altri dieci imputati — fra i quali generali come Subranni e
Mario Mori, mafiosi come Totò Riina e Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, ex senatori
come Marcello Dell’Utri, doppiogiochisti come Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito —
seguendo il filo dei ragionamenti del giudice nella sentenza di Mannino in questo rito
abbreviato? È evidente che la struttura accusatoria è stata disarticolata, anche se
quell’assoluzione «per non avere commesso il fatto» (adottata con la formula dell’articolo
530 che scatta quando la prova «manca, è insufficiente o è contraddittoria », per capirci la
vecchia insufficienza di prove) offre uno spiraglio ai pubblici ministeri per continuare a
sostenere in qualche modo le loro argomentazioni: il fatto, cioè la trattativa, esiste, c’è
stata. Ma è indubbio che se il personaggio principale dell’indagine — che al tempo ha
attivato pezzi dello Stato per portare a casa la pelle — esce dal processo, sarà molto più
difficile dimostrare il «patto» partendo solo dagli incontri segreti dei carabinieri con Vito
Ciancimino agli arresti domiciliari, dalle manovre di Dell’Utri intorno a Bernardo
Provenzano ancora latitante, dalle carte che raccontano come il ministro della Giustizia
Giovanni Conso non rinnovò la proroga del carcere duro a più di 400 mafiosi.
Calogero Mannino era il punto di forza dell’inchiesta e si è trasformato nel punto di fragilità
del processo. Un’assoluzione dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino — accusato di
falsa testimonianza — avrebbe sicuramente fatto oggi più clamore per la portata politica di
quelle polemiche di fuoco fra la procura e il Quirinale sulle sue telefonate con il Presidente
Giorgio Napolitano, ma non avrebbe scalfito così a fondo l’ipotesi accusatoria. Calogero
Mannino, uno dei ras della Sicilia fra gli anni ’80 e ’90, quattro volte ministro della
Repubblica, accusato di concorso esterno e assolto definitivamente nel 2010, arrestato e
detenuto per un anno e mezzo ma non risarcito «per l’ingiusta detenzione » per certi suoi
rapporti elettorali con i boss, probabilmente diventerà — o probabilmente lo è già diventato
— l’uomo-chiave dei grandi processi di Palermo.
Sono passati più di vent’anni dai massacri siciliani, da Falcone e Borsellino. E a questo
punto è necessaria — inevitabile — una profonda riflessione sulle indagini avviate subito
dopo quelle stragi del ’92, su un «metodo» giudiziario che non sempre riesce a
raggiungere gli obiettivi che insegue, su ricostruzioni innegabilmente coerenti e rigorose
ma difficili da dimostrare in una Corte di Assise. Bisogna prenderne atto, al netto di
convinzioni o di suggestioni. È l’assoluzione di Mannino nella trattativa Stato-mafia che lo
impone. C’è molta voglia di verità in un’Italia che conosce niente o quasi niente dei suoi
morti più eccellenti. Ma le vicende degli ultimi anni, a volte, costringono a pensare che il
cratere di Capaci sia troppo grande per entrare in una piccola aula di giustizia.
del 05/11/15, pag. 4
Operatori sociali a Roma: «Noi non lavoriamo
gratis»
Inchiesta. L'altra faccia di Mafia Capitale/5. Il caso della cooperativa «Il
Sorriso»: ritardo degli stipendi da 2 a 7 mesi
Roberto Ciccarelli
ROMA
Quello che conta è il servizio per i rifugiati, non il pagamento dei lavoratori. E’ la
contraddizione lancinante in cui vivono gli operatori della cooperativa «Il Sorriso» di Roma,
resa nota dagli attacchi ai rifugiati ospitati in una sua struttura a Tor Sapienza nel
dicembre 2014, mentre i vecchi vertici sono stati coinvolti nelle indagini di Mafia Capitale.
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Impegnati in alcuni progetti di accoglienza per migranti e rifugiati, da mesi molti di questi
lavoratori non ricevono lo stipendio. Il ritardo oscilla da due a sette mesi per una paga
bassa, ormai standard nel lavoro a progetto e precario in Italia: in media 7–800 euro netti
al mese. La loro mobilitazione, sostenuta dalle camere del lavoro autonomo e precario di
Roma (Clap), ha ottenuto dall’ex assessore al sociale Francesca Danese l’impegno di
verificare le condizioni dei lavorati impegnati nel servizio Sprar e in un progetto definito
«Casa delle mamme».
Ieri i lavoratori e le Clap si sono presentati negli uffici dell’Osservatorio sul mercato del
lavoro del comune di Roma e hanno organizzato un sit-in dove hanno distribuito un
volantino che racconta, più di ogni altra cosa, il lavoro nel sociale e non solo: «Non siamo
volontari! Il lavoro dev’essere retribuito». Alla vigilia dell’apertura sul processo al sistema
«Buzzi-Carminati», la cosiddetta «Mafia Capitale» che ha lucrato anche sul «business
dell’accoglienza», hanno scoperto che all’Osservatorio non è mai arrivata la richiesta di
verifica promessa dall’assessore. Nel frattempo alcune mensilità sono state recuperate,
ma non per tutti e non per tutte quelle arretrate. Dopo avere garantito la necessaria
continuità del servizio di accoglienza, molti lavoratori si sono dimessi, o non hanno avuto il
rinnovo del magro ma impegnativo contratto. La situazione si è fatta insostenibile, anche
perché è emersa una regola.
In un incontro avvenuto il 26 ottobre scorso, a una delegazione ha appreso dagli uffici
competenti che non c’è la relazione tra il pagamento della cooperativa, l’erogazione dello
stipendio ai lavoratori e la verifica delle condizioni in cui operano. Una volta accertata la
regolarità del certificato anti-mafia Durc, e liquidate le spettanze, è stato detto che
all’amministrazioni non spetta la responsabilità di accertare i pagamenti. Per i lavoratori e
le Clap dovrebbe essere invece responsabilità del Comune controllare il rispetto del diritto
più elementare: la retribuzione. Le difficoltà non finiscono qui. Per un altro progetto,
«Astra», che vede capofila il comune di Roma, i fondi sono stati bloccati perché il
ministero dell’Interno ha revocato il progetto dopo avere pagato il primo acconto.
Nel caos prodotto da «Mafia capitale», le vite di giovani psicologi, educatori, assistenti,
insegnanti restano sospese. Competenze necessarie per un compito delicatissimo, quello
di mediare tra le esigenze basilari dei migranti e la società di arrivo, si trovano imprigionate
nel sistema dei subappalti dei servizi sociali, soggette a condizioni di lavoro proibitive. I
lavoratori otterranno due tavoli di trattativa: uno per il servizio «case delle mamme»,
affidato a un’altra cooperativa, sulla quale c’è una trattativa con i sindacati che vedrà la
partecipazione anche delle Clap, e un altro ex novo con il dipartimento delle politiche
sociali e la loro cooperativa.
del 05/11/15, pag. 6
Le arance indigeste alle ‘ndrine
Calabria. A Monasterace bruciato il capannone di un’azienda biologica e
anti-mafia
Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti
Le “arance no ‘ndrangheta” danno fastidio eccome. Te ne accorgi camminando tra le
macerie di un capannone adibito a ricovero delle attrezzature agricole. I soliti noti,
nottetempo, e mentre dal cielo cadeva tanta acqua come in un anno, hanno appiccato il
fuoco e l’hanno distrutto. L’agriturismo biologico ” ‘a lanterna” di Monasterace,
nell’interstizio tra le province di Catanzaro e Reggio, è un modello di agricoltura etica e
solidale. Contro le ‘ndrine, la massoneria e per il cambiamento. E soprattutto per levarsi di
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dosso quella «mentalità del destino che tanto abbiamo combattuto in questi anni. Lo
dobbiamo all’Italia intera, che è ormai contagiata dall’espansione strisciante delle mafie e
dei poteri occulti, veri e propri tumori della democrazia e del bene comune: assumono
decisioni pubbliche in luoghi privati, trasformano la politica in Borsa degli interessi
individuali, ledono la concorrenza e il libero accesso ai mercati, si impadroniscono dei beni
pubblici sottraendoli alla collettività, emarginano chi non conta nulla e non ha potere da
scambiare» ci dice, amareggiato, Vincenzo Linarello, a capo del gruppo cooperativo Goel,
network di aziende agricole del territorio che si oppongono alla ‘ndrangheta.
È la settima volta in pochi anni che ” ‘a lanterna”, socia di Goel Bio, viene presa di mira
con atti intimidatori. Una vera e propria escalation mafiosa che tenta di soggiogare
quest’azienda che insieme a Goel Bio ha scelto un modello di sviluppo sostenibile e crea
valore sociale ed economico nel territorio. I danni sono ingenti e proprio alla vigilia della
raccolta agrumicola. Un trattore, il gasolio agricolo e l’attrezzatura meccanica sono ormai
inservibili. Il trattore era essenziale all’attività dell’azienda che stava per iniziare la
campagna di raccolta. Le pessime condizioni atmosferiche hanno reso particolarmente
complessa la stima dei danni che, ad una prima valutazione, sembrano aggirarsi intorno ai
30 mila euro. Dal 2009 con cadenza quasi annuale l’azienda di Monasterace è stata
oggetto di ripetute intimidazioni di natura incendiaria. Nel 2012 è stata distrutta la struttura
di accoglienza agrituristica. Lo scorso anno si è tentato di appiccare fuoco al ristorante.
Prima ancora erano stati distrutti l’uliveto, il quadro elettrico e la pompa per l’irrigazione, gli
alloggi della casa padronale. E sulla botte esterna alla locanda si sono accaniti ben due
volte. «Questo stillicidio di aggressioni va fermato. Ben 7 intimidazioni mafiose in 7 anni, e
tutte ad oggi impunite», continua Linarello, «questo ad una sola delle aziende agricole
socie di Goel senza cioè contare quel che hanno subito le altre aziende socie. Noi ci
sforziamo giorno per giorno di dare una concreta speranza di riscatto dalla ‘ndrangheta.
Ma se la reazione non sarà forte e incisiva il messaggio che può passare agli occhi della
gente è quello della disfatta e dell’impunità». L’impegno in prima linea e questa forma
originale di mutualismo economico in terra di ‘ndrangheta è malvista dal potere criminale.
E ha procurato attentati, intimidazioni, campagne diffamatorie, tentativi più o meno velati di
delegittimazione. Ma loro non si fermeranno e non subiranno inermi questi attacchi. Hanno
avviato una raccolta fondi per riparare i danni e sono pronti a ripartire dall’imminente
raccolta delle arance. Goel Bio raggruppa produttori della Locride e della piana di Gioia
Tauro che garantiscono una condotta aziendale etica e offrono prodotti tipici di alta qualità.
I prodotti commercializzati da Goel Bio sono certificati biologici e pongono al centro del
processo produttivo la produzione tipica regionale e il patrimonio di biodiversità,
restituendo al consumatore il diritto sovrano di scelta alimentare, messo a rischio
dall’agricoltura intensiva, dall’uso di Ogm, dalla globalizzazione e dalle multinazionali. La
storia di Goel è, tuttavia, una mosca bianca in Calabria. Dove il settore agrumicolo è una
narrazione di sfruttamento, mafie, minacce ed oppressione.
«Il corpo viene usato e mercificato a scopo di piacere o di lucro. Non possiamo tacere se
molti fratelli stranieri dormono su spiagge. Soprattutto a Schiavonea. E se dormono vicino
alle cucce dei nostri cani. Bisogna non tacere e denunciare. Mi chiedo se migliori
condizioni non avrebbero portato a sorte diversa i nostri fratelli romeni. Queste persone
non sono numeri. Prendiamo sul serio il fenomeno della globalizzazione. Nessuno è
troppo piccolo per non essere considerato umano». Fu chiaro e duro Santo Marcianò,
vescovo di Rossano, in provincia di Cosenza, durante i funerali dei sei braccianti agricoli
romeni, tre uomini e tre donne, travolti e dilaniati da un treno mentre tornavano da una
giornata di lavoro nei campi. Pare che fossero tra i pochi regolarmente assunti. Avevano
attraversato i binari delle ferrovia jonica varcando un cancello privato. Nella piana di Sibari
il tempo del raccolto di arance e clementine è tornato. Ma quasi nessuno ricorda più quella
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tragedia avvenuta tre anni fa, il 24 novembre 2012. Tutto passa in secondo piano, persino
il fenomeno del caporalato, quando a cadere sotto i colpi è un bambino di tre anni. Oggi i
check point sono scomparsi. Venti mesi fa, un triplice omicidio mafioso portò qui i media
mondiali, la Dda e papa Bergoglio. Un proiettile alla testa e una tanica di benzina
cancellarono le vite del piccolo Nicola “Cocò” Campolongo e di una ragazza marocchina,
Touss Ibtissam Touss, colpevoli solo di trovarsi in compagnia del bersaglio designato di un
agguato: Giuseppe Iannicelli, rispettivamente nonno e convivente dei due. Nelle settimane
successive sembrava di essere in Siria. Posti di blocco ovunque. Adesso sono in carcere
due dei presunti esecutori del più orribile dei delitti di ‘ndrangheta avvenuti nella Sibaritide.
La situazione sembra tornata alla normalità: il solito ordinario viavai di baschi verdi e
manette, truffe all’Inps, falsi braccianti e finti parenti di anziani che riscuotono pensioni.
Ormai di operazioni come queste se ne verifica almeno una all’anno. Migliaia le persone
coinvolte. In una simile cornice, chi volete che trovi il tempo di indagare sullo sfruttamento
e la schiavitù nei campi? Raccoglitori asiatici, jurnaturi locali e prostitute nere lavorano
gomito a gomito tra la SS 106 e le strade interne. Qualche volta i migranti scompaiono.
Nessuno li cerca. Sarebbe comunque impossibile individuarli in una zona così vasta, sotto
agrumeti, pescheti e oliveti. È successo pure che sono stati ritrovati sulle spiagge o lungo
gli argini dei numerosi torrenti, ormai cadaveri.
I caporali qui si autodefiniscono «caposquadra». Possono pescare in un ampio bacino di
reclutamento: sono 12 mila i lavoratori stagionali. Guadagnano 25 euro al giorno per la
raccolta degli agrumi. Non più di 35 euro a quintale sono disposti a pagare i grossisti alla
consegna delle olive. La malavita ha ideato una forma di dolce estorsione: impone ai
proprietari terrieri di lasciare aperti i cancelli dei terreni coltivati. Quindi, soprattutto nella
stagione delle pesche, ordina ai braccianti di raccogliere clandestinamente tonnellate di
frutta che viene immessa sul mercato approfittando di qualche distributore compiacente.
Nonostante tantissimi siano i distributori onesti che hanno trovato mercati nell’Europa
dell’est, la situazione generale rimane critica. «In provincia di Cosenza – dichiara il
responsabile della Direzione Territoriale del Lavoro Giuseppe Patania – ci sono società,
cooperative senza terra, nella Sibaritide, che apparentemente sono finalizzate ad altre
attività mentre in realtà forniscono illecitamente manodopera alle altre consorziate.
L’ispettore del lavoro verifica i presupposti e disconosce la cooperativa e contesta la
somministrazione. Ma il fenomeno è per noi solo giuridico». Nella scorsa stagione
agrumicola in provincia di Cosenza sono stati eseguiti controlli in due periodi. «Nel
gennaio di quest’anno – prosegue Patania — sono state ispezionate 14 aziende di cui 9
irregolari (64%), le posizioni lavorative verificate sono state 105, di cui 58 irregolari e 33
totalmente in nero (57%), in totale sono stati adottati 66 provvedimenti amministrativi per
sanzioni ammontanti a poco meno di 145 mila euro. Il secondo intervento è stato svolto a
febbraio con la verifica di 18 aziende di cui 15 irregolari (83,3%), le posizioni lavorative
verificate sono state 65 di cui 54 irregolari (72%) e 30 totalmente in nero (55%). I
provvedimenti amministrativi sono stati 91, per un importo delle sanzioni pari a 137 mila
euro».
del 05/11/15, pag. 9
Giornalisti, nel Lazio il primato delle minacce
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La regione con il più alto numero di minacce subite dai giornalisti è il Lazio. Lo ha reso
noto ieri l’Associazione stampa romana nel corso del dibattito “Diritto di cronaca e lotta alle
mafie”. L’anno chiave è il 2013, quando nella speciale classifica stilata da “Ossigeno” si
raggiungono le 105 minacce. Saranno 93 nel 2014 e ben 163 nel corso dell’anno ancora in
corso di cui 97 solo per la denuncia della Camera Penale di Roma relativa all’inchiesta di
Mafia Capitale. Proprio per questo, la Fnsi e il comitato No Bavaglio terranno un sit in
questa mattina al Tribunale: “Noi stiamo con i giornalisti denunciati – sostiene il Comitato –
contro il ddl sulle intercettazioni e i nuovi attacchi all’informazione. Così come nel 2010
contro il ddl Alfano, oggi siamo pronti a mobilitarci contro il ddl del governo Renzi”.“Fino a
qualche anno fa – dice il segretario di Assostampa, Lazzaro Pappagallo – le minacce
erano in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia. L’inchiesta ‘mondo di mezzo’ e sentenze
come quella di Ostia, hanno invece evidenziato una nuova realtà”. A finire nel mirino della
malavita “giornalisti che lavorano in testate prestigiose, ma soprattutto il “sottobosco del
freelance, del precariato più duro”.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 05/11/15, pag. 9
«Sconto migranti», cos’è e come si calcola
L'Italia e il Fiscal Compact. Cos’è e come si calcola il provvedimento del
governo italiano. Accettato dall’Unione europea, è fatto letteralmente
sulla pelle dei profughi
Grazia Naletto
Le dichiarazioni del Presidente della Commissione Europea Junker danno qualche
speranza al Governo italiano: la manovra effettuata con la legge di stabilità potrà forse
godere di un margine di flessibilità sul deficit aggiuntivo pari allo 0,2%, grazie alla
cosiddetta “clausola migranti” per un valore di 3,1 miliardi. Ciò sulla base degli art. 5.1 e
6.3 del regolamento CE 1466/97 e dell’art.3 del Fiscal Compact che consentono una
deviazione temporanea dall’obiettivo del raggiungimento del pareggio di bilancio in
circostanze “eccezionali” ovvero quando “concorrono eventi inconsueti non soggetti al
controllo della parte contraente interessata che abbiano rilevanti ripercussioni sulla
situazione finanziaria della pubblica amministrazione”.
Se riconosciuta, la possibilità di aumentare l’indebitamento netto di 3,1 miliardi, verrebbe
impiegata dal Governo per anticipare al 2016 la riduzione delle aliquote Ires (imposta sul
reddito delle imprese) dal 27,5 al 24% prevista per il 2017.
Un bel regalo alle imprese fatto, letteralmente, sulla pelle dei migranti.
Ma come ha giustificato il Governo la sua richiesta alla Commissione Europea? Ci aiuta il
Documento Programmatico di Bilancio 2016. I dati considerati si riferiscono agli anni
2011–2016. La Ragioneria Generale dello Stato presenta due stime della spesa riferita
alla «crisi migranti»: una prevede che i flussi restino costanti, l’altra che vi sia una crescita
degli arrivi nel 2016 di circa 66.500 persone l’anno.
Nel primo triennio la spesa stimata è di 1,326 miliardi, di cui 333,4 milioni per le operazioni
di soccorso in mare, 570,16 per l’accoglienza e 423,27 per sanità e istruzione.
Nel 2014 la spesa è stimata in 2,668 miliardi, di cui 670,68 per il soccorso in mare, 1,146
miliardi per l’accoglienza e 851,36 milioni per sanità e istruzione.
Nel 2015 si stima che la spesa raggiunga entro fine anno i 3,326 miliardi, di cui 835,96
milioni per il soccorso in mare, 1,429 miliardi per l’accoglienza e 1,061 miliardi per sanità e
istruzione.
Per il 2016 la stima è di 3,3 miliardi a flussi costanti e di 3,994 miliardi in uno scenario di
crescita. Il contributo UE alla spesa complessiva risulta per l’intero periodo 2011–2016 di
479,1 milioni di euro.
Qualche commento a caldo.
1. Nel 2015 la spesa per il soccorso in mare risulta superiore a quella registrata nel 2014,
anno in cui è stata operativa fino alla fine di ottobre Mare Nostrum, la missione avviata dal
governo Letta, dopo la strage del 3 ottobre 2013, in cui persero la vita almeno 366
migranti. Le polemiche sul funzionamento della missione italiana sembrerebbero non aver
fermato, per fortuna, l’investimento di risorse pubbliche nelle operazioni di soccorso e
salvataggio in mare.
2. Le spese per l’accoglienza raddoppiano nel 2014 e triplicano nel 2015 rispetto al
triennio precedente. Il costo medio al giorno per l’accoglienza nelle diverse strutture è
calcolato in 45 euro per i minori stranieri non accompagnati, in 32,5 euro per le persone
accolte nelle strutture di accoglienza governative e temporanee e in 35 euro per le
persone accolte nello SPRAR. La stima proposta nel Documento programmatico di
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bilancio differisce da quella contenuta nel Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati
in Italia. Aspetti, procedure, problemi pubblicato dal Ministero dell’Interno nell’ottobre 2015
che quantifica la spesa per l’accoglienza in 633 milioni nel 2014 e in 1,162 miliardi per il
2015: circa mezzo miliardo in meno nel 2014 e circa 267 milioni in meno per il 2015. Al
sistema di accoglienza ordinario per richiedenti asilo e rifugiati (lo SPRAR) va solo una
parte degli stanziamenti. Nei cosiddetti “centri governativi” (CARA, CDA, CIE e CPSA) e
nelle circa 1800 strutture temporanee (CAS) a settembre 2015 risultavano accolte 77mila
persone rispetto alle 26mila accolte nello SPRAR e ai più di 10mila i minori stranieri non
accompagnati accolti in strutture dedicate per un totale di circa 113mila persone accolte.
Anche in questo caso, i dati differiscono da quelli forniti dal Ministero dell’Interno che parla
di 99.096 “posti/presenze” nelle strutture di accoglienza al 10 ottobre 2015 (pag.28) di cui
70.918 assicurate da ben 3.900 Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Comunque sia,
il sistema di accoglienza italiano è in gran parte ancora oggi costituito da strutture di
accoglienza temporanee per le quali si procede con affidamento diretto agli enti gestori da
parte delle Prefetture in via straordinaria ed emergenziale. Con tutte le conseguenze del
caso, come ci ricorda purtroppo l’indagine «Mafia Capitale» per la quale si apre il processo
il 5 novembre. La stima delle spese comprende per altro anche i costi relativi ai CIE che
con l’accoglienza hanno ben poco a che fare.
3. Il Documento programmatico non fornisce dettagli sulla stima delle spese per
l’istruzione e la sanità che insieme supererebbero il miliardo di euro nel 2015 e nel 2016.
In uno studio del 2013 Lunaria aveva stimato la spesa sanitaria imputabile ai cittadini
stranieri in circa 5,1 miliardi di euro. Più recentemente la Fondazione Moressa le ha
stimate in 3,9 miliardi. Per l’istruzione i due studi hanno stimato una spesa di 4,8 miliardi
(Lunaria) e di 3,6 miliardi (Fondazione Moressa).
In entrambi i casi il dato è riferito all’intera popolazione dei cittadini stranieri stabilmente
residenti ovvero, secondo ISTAT, a 4,3 milioni di persone nel 2013. Difficile comprendere
come possa essere quantificata una spesa di un miliardo di euro l’anno per sanità e
istruzione riferita alla cosiddetta “emergenza migranti”, se i nuovi arrivi aggiuntivi sono
quantificati in 66.500 l’anno.
La Legge di Stabilità e gli allegati alla Legge di Bilancio 2016 non forniscono ulteriori
dettagli: la trasparenza di bilancio, sebbene siano stati fatti alcuni passi in avanti negli
ultimi anni, continua ad essere carente nel nostro paese. Speriamo che il futuro ci riservi
sorprese in questa direzione.
Nel frattempo, il dubbio che il fatidico “sconto” sia stato sovrastimato resta.
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WELFARE E SOCIETA’
del 05/11/15, pag. 9
Il rapporto 2015. Indietro su assistenza agli anziani e prevenzione .
Ocse: in Italia spesa sanitaria sotto la media
Spendiamo meno degli altri ma abbiamo cure di qualità superiore. La spesa sanitaria
italiana sia pubblica che privata – in discesa in termini reali già a partire dal 2011 – resta
infatti sotto la media Ocse anche nel 2013, con un valore pro capite pari a 3.077 dollari a
fronte di una media pari a 3.453 dollari. È quanto emerge dal Rapporto Ocse "Health at a
Glance 2015" diffuso ieri dall’organizzazione internazionale.
Un risultato ottenuto con un mix di misure di contenimento. Nel mirino dei tagli, la spesa
farmaceutica, che tra il 2009 e il 2013 è scesa del 3,2%. Un calo attribuibile in parte
all’introduzione di farmaci generici, quadruplicati dal 2000 ma che restano ancora sotto
tono rispetto alla media: in Italia coprono infatti il 19% del mercato farmaceutico totale in
volume e dell’11% in valore a fronte di medie Ocse rispettivamente del 48 e del 24%. La
spesa sanitaria italiana è relativamente bassa anche in termini di percentuale sul Pil con
una quota dell’8,8% a fronte di una media Ocse dell’8,9%. Ai primi posti svettano gli Stati
Uniti con il 16,4% seguiti da Olanda e Svizzera (11,1%).
I risultati in termini di salute della popolazione e di aspettativa di vita sono più che buoni,
ma l’Italia resta indietro su assistenza agli anziani e prevenzione. L’aspettativa di vita è di
82,8 anni (il quarto valore più alto dell'area Ocse). Ma dopo i 65 anni si vive peggio e
l’aspettativa di vita in buona salute è tra le più basse dei Paesi Ocse, con solo 7 anni
senza disabilità per le donne e circa 8 per gli uomini. Tra i motivi, un’offerta inferiore di
assistenza a lungo termine agli anziani rispetto alla maggior parte dei Paesi Ocse. Tra le
note dolenti, legate alla scarsa prevenzione, il primato di sovrappeso e obesità infantile
(tra i più alti al mondo) e un peggioramento degli stili di vita tra i giovani, che consumano
più alcol e tabacco. Cattive notizie anche sulle cure dentali: un italiano su 10 rinuncia al
dentista perché non se lo può permettere.
Rosanna Magnano
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 05/11/15, pag. 15
Processo alla Tav al Tribunale dei popoli
Diritti. Grandi opere e territorio, lobby e democrazia. Il modello
"coloniale" di decidere e costruire. I tre capi d’accusa di una sessione
del Tribunale dedicata alla Torino-Lione
Livio Pepino
La sessione del Tribunale permanente dei popoli dedicata a Tav, grandi opere e diritti
fondamentali dei cittadini e delle comunità locali che inizia oggi a Torino è un evento
importante, anche oltre il caso concreto. Il tema centrale è, ovviamente, la Nuova linea
ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione: un’opera ciclopica devastante, di grande impatto
ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa pubblica,
giustificata solo da una cultura sviluppista ormai anacronistica, da interessi economici
lobbistici di breve periodo e dalla disperazione di un sistema politico ed economico
incapace di dare alla crisi vie di uscita razionali.
Un’opera inoltre – sarà questo il punto principale dell’analisi del Tribunale dei popoli –
decisa in modo autoritario, provocando un movimento di opposizione profondamente
radicato e capace di manifestazioni con decine di migliaia di persone. Orbene questo
movimento, in tutte le sue articolazioni (anche istituzionali), è stato sistematicamente
escluso da ogni confronto reale e da ogni decisione. Esattamente come sta avvenendo in
diverse località della Francia, del Regno Unito, della Spagna, della Germania, della
Romania e dell’Italia (per limitarsi alle realtà che saranno esaminate dal Tribunale).
L’esclusione delle comunità locali da decisioni cruciali riguardanti il loro habitat, la loro
salute, le stesse prospettive di vita attuali e delle generazioni future, è avvenuta e avviene
in Val Susa in un modo esemplare di un sistema che si ripete con sostanziale identità per
tutte le grandi opere inutili e imposte e che si articola in tre fasi fondamentali:
la sistematica estromissione dei cittadini e delle istituzioni interessate dalle decisioni e
dal controllo sulla effettiva utilità e sull’iter delle opere, realizzata escludendo, di fatto e/o
mediante provvedimenti legislativi e amministrativi ad hoc (come la “legge obiettivo” o il
decreto “sblocca Italia”), ogni procedura di informazione, consultazione e confronto e/o
adottando procedure di consultazione puramente apparenti (come quelle adombrate con
la costituzione, nel 2006, di un Osservatorio presto rivelatosi un organo propagandistico a
favore del Tav o con il nuovo tavolo proposto ai sindaci della Valle, nei giorni scorsi, dal
ministro delle infrastrutture Del Rio, finalizzato a discutere di tutto, ma non della utilità della
nuova linea…);
il condizionamento e lo sviamento delle valutazioni delle comunità interessate,
dell’opinione pubblica e talora degli stessi decisori politici mediante la elaborazione e la
diffusione di dati inveritieri sulla saturazione della linea ferroviaria storica e sulla
conseguente necessità del nuovo collegamento (a fronte dei quali il metodo Volkswagen,
recentemente emerso alla ribalta, sembra opera di maldestri dilettanti) e di previsioni prive
di ogni seria base scientifica, amplificati in modo martellante da organi di stampa spesso
controllati da soggetti interessati all’opera;
la permanente e totale impermeabilità a richieste, appelli, sollecitazioni ed esposti di
istituzioni territoriali, comitati di cittadini, tecnici e intellettuali e la parallela gestione della
protesta e dell’opposizione come problemi di ordine pubblico demandati al controllo
militare del territorio (finanche con truppe dell’esercito già utilizzate in missioni all’estero) e
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all’intervento massiccio degli apparati repressivi, addirittura con la contestazione di
fattispecie di terrorismo e la reviviscenza di reati di opinione (come accaduto con
riferimento a Erri De Luca).
Tutto ciò – lo si è già accennato e sarà al centro dell’esame del Tribunale – realizza un
vero e proprio sistema di governo di pezzi di società che ha a che fare con i diritti
fondamentali delle persone e delle comunità e di partecipazione. Di democrazia si
potrebbe dire, se il termine non fosse sempre più spesso utilizzato a copertura di scelte
che vanno in direzione esattamente opposta e di istituzioni e regimi che tutto sono meno
che democratici. Perché la logica sottesa a questo sistema è – non sembri eccessivo il
termine – una logica neocoloniale, fondata sulla pretesa di lobby economiche e finanziarie
nazionali e sovranazionali e delle istituzioni con esse collegate di disporre senza limiti e
senza controlli delle risorse del territorio estromettendo le popolazioni interessate
(considerate portatrici di interessi particolaristici e non apprezzabili), trasferita nel cuore
dell’Europa.
Parlo di logica ovviamente, essendo ben consapevole che essa si manifesta in Occidente
con modalità e caratteristiche incomparabili in termini di uso della violenza e di
sopraffazione. Ma il segnale è chiaro. Nelle società contemporanee, percorse da derive
decisioniste e autoritarie accade che la verità si intraveda dai margini, dalle periferie, da
vicende riguardanti parti limitate della società che anticipano, peraltro, fenomeni di
carattere generale. Come hanno dimostrato – tra le altre – le ricerche, ormai classiche, di
Enzo Traverso sul nazismo e la sua genesi, la mancata percezione e l’omessa analisi di
molti segnali premonitori pur facilmente avvertibili hanno prodotto nel secolo scorso lutti e
disastri indicibili.
La speranza è che il Tribunale permanente dei popoli, da sempre in anticipo sui tempi,
sappia, anche in questo caso, assumere decisioni e chiavi di letture utili non solo per la
Val Susa ma per le prospettive dell’intera Europa.
Del 5/11/2015, pag. 22
I 5mila morti e i 448 miliardi di danni che lo
Stato non è riuscito a evitare
Abusivismo, superficialità, incuria: non investire in prevenzione
provoca costi enormi
«Se ti addiviene di trattare delle acque consulta prima l’esperienza e poi la ragione»,
spiegava Leonardo: è la storia dei disastri già avvenuti che dice dove si corrono rischi
gravissimi. Macché: mai ascoltato. Né a Messina, come dimostrano le cronache di oggi,
né in tutto il Paese. L’avessero fatto non avremmo pianto migliaia di morti e non avremmo
speso almeno 49 miliardi per le sole frane e alluvioni. Quattro nel solo 2014.
Va temuta, l’acqua. E il genio da Vinci l’aveva capito bene: «L’acqua disfa li monti e
riempie le valli, e vorrebbe ridurre la terra in perfetta sfericità, s’ella potessi». Va rispettata,
l’acqua. Temuta e rispettata. Ce lo ricorda un libro che esce oggi, «Un Paese nel fango»,
edito da Rizzoli e firmato da Erasmo d’Angelis, direttore dell’ Unità ma fino a pochi mesi fa
capo a Palazzo Chigi della Struttura di missione sul dissesto idrogeologico. Ruolo che gli
ha permesso di raccogliere numeri, statistiche, studi e dossier per tracciare un quadro
d’insieme dell’Italia. Quadro a tinte fosche.
Certo, non siamo gli unici ad avere stuprato la natura né gli unici a subirne le vendette.
«Dieci anni fa l’economista Sir Nicholas Stern, già responsabile finanziario della Banca
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Mondiale», spiega D’Angelis, seminò il panico «con il suo report The Economics of
Climate Change , dimostrando ai signori della finanza che se i mutamenti climatici non
verranno arginati costeranno tanto da mettere in ginocchio l’economia mondiale».
L’Intergovernmental Panel on Climate Change, un’organizzazione scientifica dell’Onu, «ha
da poco quantificato l’impatto delle catastrofi future in oltre mille miliardi di dollari. Nel 1980
il costo ammontava a 50 miliardi l’anno, oggi a 200».
Noi, però, stiamo messi perfino peggio degli altri. Basti dire che le nostre 499.511 frane
censite (di cui 2.940 attive) rappresentano il 69% di tutte quelle mappate in Europa. O che
21,8 milioni di italiani vivono in 5 milioni e mezzo di edifici privati (la metà del totale: 11,2)
«ubicati in zone a pericolosità sismica». E che «nelle stesse condizioni ci sono altri 75.000
edifici pubblici strategici come scuole, ospedali, caserme, municipi…».
Va da sé che, con un patrimonio immobiliare così esposto alla violenza della natura
aggravata da decenni di incuria, abbiamo pagato prezzi altissimi. Almeno 200 mila morti
dall’Unità a oggi sotto le macerie di 43 terremoti principali e decine di «minori». Almeno
«5.455 morti, 98 dispersi, 3.912 feriti e 752.000 sfollati» in 2.458 comuni nei disastri
causati nell’ultimo mezzo secolo dall’acqua.
Per non dire degli altri costi. «Gli economisti dicono che i fiumi di denaro versati dallo Stato
attraverso i ministeri, le tesorerie comunali, provinciali, regionali, i consorzi di bonifica, le
aziende di servizi pubblici e le donazioni private, e gli ulteriori costi per i danni e i disagi
alle famiglie a fronte dei gap infrastrutturali e dei servizi, e per le perdite delle attività
produttive private, superano la cifra attendibile di 7 miliardi l’anno dal dopoguerra a oggi».
Fate i conti. Partissimo pure dal 1951 segnato da alluvioni disastrose, sarebbero 448
miliardi di euro. Con una accelerazione di anno in anno più marcata.
Ovvio: anno dopo anno si è continuato a costruire, costruire, costruire. Spessissimo
abusivamente. In aree a rischio. Spiega uno studio di Bernardino Romano e Francesco
Zullo, che per il report 2014 del Wwf «Riutilizziamo l’Italia» hanno messo a confronto la
cartografia dell’Istituto geografico militare 1949-1962, le carte dei suoli regionali del 2013 e
la crescita della popolazione, che dal censimento del 1951 gli abitanti sono cresciuti del
26% scarso e l’urbanizzazione del 367%. Ancora più impressionante (nonostante la crisi)
la quota di cemento pro capite dopo il 2000: 369 metri quadri a testa. Il consumo di suolo è
di 73 ettari al giorno. O, come dice d’Angelis, «8 metri al secondo».
Nelle pianure, che rappresentano meno di un terzo del territorio e coincidono in pratica
con la Val Padana, «se negli anni Cinquanta, dei 2.489 comuni 571 erano sotto il 2% di
urbanizzazione e solo 11 sopra il 45%, nel 2015 troviamo solo 3 comuni sotto il 2%,
mentre 163 sono sopra il 45% e 14 oltre il 75%». L’Istat conferma: siamo di fronte a un
«impatto ambientale negativo in termini di irreversibilità della compromissione delle
caratteristiche originarie dei suoli, dissesto idrogeologico e modifiche del microclima».
Accusa D’Angelis: «Sono stati ricoperti di asfalto e cemento persino 34.000 vietatissimi
ettari all’interno di aree protette e il 9% delle zone a pericolosità idraulica». Racconta l’ex
governatore pugliese Nichi Vendola: «Eletto presidente nel 2005, chiesi a tutti i comuni le
mappe del rischio idrogeologico. Li convocai, e mi portarono solo le vecchie carte
pluviometriche del 1911. Dico: il 1911! Mancavano almeno tre quarti di aree urbanizzate.
Nessuno le aveva mai aggiornate». Avete presente Olbia, che nell’alluvione del 2013 vide
morire tutte quelle persone e a ogni acquazzone va sotto? «Tutti i problemi nascono dai
tre condoni edilizi degli ultimi trent’anni, che hanno sanato situazioni di palese e pericolosa
illegalità (…) con case costruite nell’alveo dei fiumi», si sfoga nel libro il sindaco Gianni
Giovannelli, «la città ha sedici quartieri abusivi: sedici. Dovrei espropriare le case di
migliaia di persone e abbatterle: è impossibile». Matteo Renzi, nella prefazione, ostenta
ottimismo. E dice che i cantieri come quello genovese del Bisagno sono stati sbloccati e
«oggi vediamo al lavoro operai e ingegneri e non più solo avvocati e giuristi» e «girano
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betoniere e camion e non soltanto le carte dei ricorsi e dei controricorsi». C’è da sperarlo.
Perché, come scrive D’Angelis, «anche in una visione strettamente ragionieristica,
sarebbe stato salutare per le casse dello Stato e l’occupazione investire in prevenzione.
Quante vite, strazi, rovine, vergogna ci saremmo risparmiati?».
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INFORMAZIONE
del 05/11/12, pag. 16
Sistema tv. Il Consiglio di Stato rimanda alla Corte di giustizia la gara
per l’assegnazione dei diritti d’uso
Frequenze, l’Italia ricorre alla Ue
La pronuncia anche su annullamento del beauty contest, attesa tra diciotto mesi
L’annullamento del Beauty contest, la gara per l’assegnazione delle frequenze televisive e
lo stesso Piano delle frequenze saranno sottoposti al vaglio della Corte di Giustizia
dell’Unione europea. Lo ha deciso il Consiglio di Stato nell’ordinanza depositata il 16
ottobre di quest’anno sul ricorso presentato da Europa Way, operatore di rete di Europa 7
e da quello analogo presentato da Persidera (società costituita da Telecom Italia Media e
dal gruppo l’Espresso) contro il Tar Lazio.
Si torna davanti a quella Corte di giustizia che, nel gennaio 2008 si pronunciò, sempre su
ricorso di Francesco Di Stefano, proprietario di Europa 7. Secondo la Corte le direttive
comunitarie «ostano» al fatto che un operatore titolare di concessione non possa
trasmettere, in mancanza di frequenze di trasmissione, assegnate con criteri obiettivi,
trasparenti, non discriminatori e proporzionati. Nell’udienza preliminare a quella sentenza,
che metteva in mora diverse parti sia della legge Maccanico del 97 sia della legge
Gasparri del 2004, l’Avvocatura di Stato, che rappresentava il Governo Prodi, difese la
legge Gasparri. Questo, nonostante che l’allora ministro delle Comunicazioni, Paolo
Gentiloni, segnalò, con una lettera alla Presidenza del Consiglio, l’esigenza di avvertire
l’Avvocatura circa la mutata posizione del Governo e della maggioranza sulla legge
Gasparri. Una lettera di Antonio Di Pietro sollevò il problema delle “analogie” tra la
memoria dell’Avvocatura dello Stato e quella presentata da Mediaset.
Sentenza che non venne ratificata e fatta propria dal governo Prodi, unica tra quelle della
Corte di Giustizia, subito prima delle elezioni politiche, poi vinte dal centro-destra guidato
da Silvio Berlusconi.
L’ordinanza attuale nasce quando la Commissione europea, nel 2006, avviò una
procedura d’infrazione contro lo Stato italiano, a seguito di un esposto dell’associazione
Altroconsumo. Nel luglio 2007 la Commissione fece una serie di rilievi circa
l’incompatibilità comunitaria di alcune disposizioni delle leggi nazionali (la 66 del 2001, la
Gasparri e il Testo unico). La normativa nazionale, in contrasto con il diritto comunitario,
«garantiva agli operatori già attivi in tecnica analogica una chiara e sostanziale protezione
dalla concorrenza nel mercato radiotelevisivo in digitale terrestre».
Il Governo varò allora la procedura di beauty contest, con accesso gratuito alle frequenze
a chi aveva determinati requisiti, per far chiudere la procedura d’infrazione. Tre multiplex
furono riservati ai nuovi entranti, due a qualsiasi offerente. Il bando venne pubblicato nel
luglio 2011. Per un lotto, composto dai canale 6 e 7 VHF, presentò la domanda solo
Europa 7. Il Governo Monti sospese e poi annullò il beauty contest e lo sostituì con una
gara pubblica onerosa, dopo alcuni ordini del giorno approvati in Parlamento. Si utilizzò un
decreto sulla semplificazione tributaria, convertito con la legge 44 del 2012. Alla gara
partecipò solo il gruppo Cairo: si aggiudicò un lotto per 31,6 milioni di euro. Il Tar Lazio
respinse i ricorsi di Europa 7 e Persidera contro l’annullamento dei relativi atti.
Il Consiglio di Stato da una parte ha respinto le questioni di legittimità costituzionale
sollevate da Europa 7 e Persidera sulla legge 44 del 2012. Dall’altra ha deciso di
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sottoporre alla Corte di giustizia diverse questioni. Tra queste, se il diritto dell’Ue “osti” o
meno all’annullamento del beauty contest - procedura «indetta per rimediare all’illegittima
esclusione di operatori dal mercato» e alla sua sostituzione con una gara onerosa dove si
prevede «l’imposizione di requisiti e obblighi non richiesti in precedenza agli incumbents».
Un altra questione riguarda la revisione del Piano delle frequenze con riduzione delle reti
nazionali da 25 a 22 e «la conservazione agli incumbents della stessa disponibilità di
mux». La Corte di Giustizia dovrebbe pronunciarsi tra un anno e mezzo.
Marco Mele
del 05/11/12, pag. 16
Audiovisivo. Indagine Ericsson
La Tv on demand cresce e «strega» il 60%
degli italiani
Chi si azzarderebbe oggi a pensare a una Tv tradizionale imperitura nei secoli? Forse
nessuno. E sicuramente a ragione, a guardare i dati che provengono da diverse ricerche
in cui un comune denominatore è facilmente individuabile: il consumo on demand sta
prepotentemente bussando alla porta della cara, vecchia Tv.
Il roboante sbarco di Netflix in Italia, lo scorso 22 ottobre, ha ulteriormente richiamato
l’attenzione su un fenomeno che qui da noi ha già un substrato “industriale”. Nel nostro
Paese sono infatti operativi e stanno affilando le armi Skyonline, Infinity di Mediaset e
Timvision che operano nello Svod (on demand con sottoscrizione mensile), con Chili Tv,
iTunes e Wuaki.tv nel Tvod (si paga per ogni visione) con Google Play e Amazon. Il
mercato nel 2015 vale 53 milioni. Quali prospettive di sviluppo? Secondo alcune stime che
circolano fra gli operatori il valore del mercato dovrebbe raddoppiare nel 2016 per salire
oltre i 250 milioni nel 2018.
Non si fa fatica a crederci, almeno a giudicare da indagini come il Tv & Media Report 2015
di Ericsson. Lo studio del ConsumerLab Ericsson è basato su interviste fatte a oltre 22.500
persone nel mondo rappresentative di 680 milioni di consumatori. In Italia l’indagine va a
coprire uno spettro che abbraccia 25 milioni di italiani, tutti con una connessione internet a
banda larga (anche Adsl per intendersi e non necessariamente fibra) e che guardano
contenuti tv una volta a settimana. Insomma, si tratta in verità solo di una parte dell’Italia
affezionata a contenuti televisivi e piccolo schermo. Ma sicuramente quello preso in
esame è il novero dei trendsetter cui guardare con attenzione per le prospettive di
sviluppo.
E quindi si vede che quasi il 60% degli intervistati, quindi più di un italiano su due, dichiara
di guardare video on demand in streaming almeno una volta al giorno. Nel 2012 questa
percentuale era del 45%. Gli italiani poi spendono in media 6 ore la settimana a guardare
contenuti on demand in streaming, in particolare serie Tv (2,6 ore a settimana), show (1
ora a settimana) e film (2,4 ore a settimana).
Attenzione però a generalizzare perché la Tv rimane pur sempre il “focolare domestico”
attorno al quale si trova il 75% degli intervistati di età compresa fra i 60 e i 69 anni
(percentuale che comunque scende al 65% sui “millennials”: 16-34 anni). Un’importanza,
questa della Tv, legata senz’altro agli eventi live, fra cui quelli sportivi. Ma l’on demand
ormai è la modalità prevalente fra i giovani: sono 8 su 10 i teenager che guardano questo
tipo di contenuti ogni giorno.
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In questo quadro la Tv si guarda sempre più su smartphone: 45% del tempo che arriva
fino al 60% nel caso dei teenager. E soffermandosi sul numero degli utilizzatori, oltre il
65% degli intervistati dichiara di guardare contenuti Tv su smartphone (base settimanale),
in crescita del 125% rispetto al 2012. «C’è un emergere della società connessa che sta
trasformando tutte le industrie. E la convergenza fra telecomunicazioni, It e media sta
continuando a trasformare l’industria delle Tv nel mondo e, come si vede dal nostro report,
con grande velocità anche in Italia», commenta Aurelio Severino, direttore TV e Media di
Ericsson in Italia.
Il Report di Ericsson ha messo in luce anche la crescita del numero di Tv connesse a
Internet e l’intenzione degli italiani di non fermarsi davanti a questa barriera tecnologica.
Cosa possibile anche con strumenti “esterni” come Google Chromecast o Apple TV (quasi
un italiano su cinque nei prossimi mesi ha intenzione di acquistare un dispositivo così).
Andrea Biondi
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CULTURA E SPETTACOLO
del 05/11/15, pag. 1/21
Salviamo Pasolini dai pasoliniani
Luigi La Spina
Per carità, salviamo Pasolini dai pasoliniani, soprattutto quelli dell’ultima ora. La montagna
d’insulti che ha costretto il regista Gabriele Muccino, reo di aver osato esprimere dubbi
sulla qualità dei suoi film, a chiudere la pagina Facebook potrebbe restare certamente
confinata nell’aneddotica, già amplissima, della consueta valanga di intolleranza e di
volgarità che si rovescia su coloro che, sui social network, imprudentemente sfidano il
vigliacco gusto del ludibrio generalizzato.
Ma l’episodio è sintomatico di quella assurda «santificazione» del grande intellettuale
friulano che, in coincidenza dell’anniversario della sua tragica morte, lo ha fatto vittima
proprio del peccato che in tutta la sua vita ha cercato di combattere: il conformismo.
La stessa ipocrisia, questa volta di segno opposto, continua ad offendere il ricordo che gli
italiani hanno di lui e il rimpianto di chi gli ha voluto bene. Il bigottismo moralistico con il
quale molti leggevano i suoi scritti o guardavano i suoi film dal meschino angolo della
riprovazione per la sua «scandalosa» vita privata si è rovesciato, ora, nell’ossequio
all’obbligato omaggio, politicamente corretto, non solo alla sia figura, ma a tutte le sue
opere. Come se all’orrenda morte a cui Pasolini è andato incontro sulla spiaggia di Ostia
non ci si debba avvicinare con il dovuto dolore, con il dovuto rammarico per non aver più
potuto ascoltare la sua voce sulla società italiana e con il desiderio di accertare le ancora
oscure complicità del delitto, ma come a un turibolo fumigante d’incenso, capace di
annebbiare qualsiasi giudizio critico, di qualsiasi genere, di qualsiasi valore.
Una pena, proprio del dantesco contrappasso, che colpisce anche la contrastata
personalità di Pasolini, tanto esuberante, provocatorio e persino irritante nelle sue
espressioni pubbliche, attraverso i suoi scritti e le sue opere, tanto misurato, gentile,
laconico nelle parole che scambiava in privato. Adesso, le critiche, le accuse, le irrisioni, i
sarcasmi contro di lui vengono sepolte nel retroterra indicibile dei pensieri e delle parole
proibite dalle opportunità d’occasione e tutta la sua straordinaria opera di scrittore, poeta,
polemista, filologo, regista subisce l’affronto di una lode pubblica generalizzata.
Toccherà alla competenza dei critici letterari stabilire se il grande valore polemico e quasi
profetico degli «Scritti corsari», la prosa poetica sulla scomparsa delle lucciole o la poesia
in prosa della sua solidarietà ai poliziotti di Valle Giulia, sia comparabile con i romanzi, dai
«Ragazzi di vita» allo stesso incompiuto «Petrolio». Se l’incanto delle poesie scritte nel
dialetto di Casarsa o raccolte nelle «Ceneri di Gramsci» sia lo stesso di quelle pubblicate
nella maturità, come quelle di «Trasumanar e organizzar». E si può, e si deve, distinguere
anche nella sua produzione cinematografica. Basti ricordare la geniale invenzione di Totò,
fuori dall’abusato registro comico, in «Uccellacci e uccellini» o la potenza emozionale del
«Vangelo secondo Matteo», contrapposti alla cupa, terribile, ma anche algida e persino
ambigua rappresentazione di «Salò o le 120 giornate di Sodoma». Un giudizio che sarà
affidato alla sapienza dei critici e degli storici del cinema, ma che ogni spettatore deve
avere la libertà di poter esprimere, senza censure o, ancor più grave, autocensure.
Insomma, a 40 anni dalla morte, Pasolini ha il diritto di non essere ammazzato una
seconda volta, sotto le pietre di quello che più odiava, il vittimismo.
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del 05/11/15, pag. 25
Muccino critica i film di Pasolini
Pioggia di insulti in rete
Il regista chiude il profilo Facebook: “È ancora un diritto dire cosa si
pensa?”
Fulvia Caprara
Si chiama «public shaming», è una trappola dei nostri tempi, in cui di solito ci si infila da
soli, proprio come capita agli animali inseguiti dai cacciatori. La gabbia si chiude in un
attimo. Basta un tweet, un post su Facebook, una momentanea sovraesposizione
mediatica o un semplice giudizio, come è accaduto l’altra notte a Gabriele Muccino. Al
culmine dell’enfasi per le celebrazioni legate al quarantennale della scomparsa di Pier
Paolo Pasolini, il regista dell’«Ultimo bacio» spezza il coro delle lodi postume dicendo la
sua sul cinema dell’autore di «Uccellacci e uccellini»: «Non basta essere scrittori per
trasformarsi in registi. Così come vale il contrario. Il cinema pasoliniano aprì le porte a
quello che era di fatto l’anti-cinema, in senso estetico e di racconto».
Secondo Muccino il degrado della cinematografia italiana sarebbe iniziato proprio lì, nelle
sequenze di film idolatrati dalla critica di tutto il mondo, analizzati da fiumi di recensioni,
attaccati semmai, solo e unicamente, da detrattori che ce l’avevano con Pasolini per motivi
politici. Il parere apparso su Facebook ha scatenato un uragano di polemiche, accuse,
insulti, a cui Muccino ha risposto per le rime, prima di chiudere il suo profilo social: «Ma
per favore - invoca l’autore nella notte -, popolo di Facebook che insulta prima ancora di
leggere e cercare di comprendere quello che ho veramente scritto, è ancora un nostro
diritto dire cosa pensiamo? A quanto pare no, meglio dare del mediocre, dell’arrogante,
della nullità, insulti a destra e a manca, una sassaiola da vandalismo intellettuale contro
colui che ha osato dire che forse la Terra non era al centro dell’Universo. Non mi scalfisce
ciò che leggo, ma il giudizio che esce fuori con tanta rabbia, e che, inconsapevolmente,
date di voi stessi e della violenza che esternate, e che non era affatto presente in quanto
da me scritto».
Ormai, però, il dato è tratto, e la valutazione mucciniana, per quanto spiegata con ragioni
da uomo di cinema, non serve a placare gli animi: «Tutti in fila... uno due, uno due... ironizza l’autore - chi non la pensa come voi, olio di ricino». Viene da pensare che se
Pasolini fosse ancora vivo, darebbe ragione a Muccino, non per i contenuti della critica,
ma per il tono delle reazioni suscitate. I tribunali del popolo, anche se on-line, fanno
sempre una certa impressione. E dire che Muccino ne conosce bene i pericoli, talmente
bene da far immaginare, che anche stavolta, alla base, ci sia una foga autolesionista. La
stessa che, qualche anno fa, lo aveva spinto a pubblicare su Facebook la sua valutazione
su Carla Vangelista, divenuta ispiratrice delle pellicole del fratello Silvio. Anche allora
l’eccesso di chiarezza aveva fatto passare dalla parte della ragione sia Vangelista che
Muccino jr e, per la definizione di «scrittrice senza talento», l’interessata aveva sporto
querela.
Ma Muccino non impara, e si espone di nuovo, come ha fatto anche agli ultimi David di
Donatello, serata clou per il cinema made in Italy, dove, dopo aver ricevuto un premio, si è
sfogato con una mitragliata di tweet: «Sembrava che volassero più coltelli che in una
macelleria». E anche: «Premiano i più simpatici (a loro), i più sconosciuti, o i migliori?».
Dubbi personali che, una volta online, aprono immediati processi sommari.
La rete è anche questo. Su Paolo Sorrentino, soprattutto dopo l’Oscar, si sono scatenati
commenti al veleno, riguardanti tutto, dal «thank you» del regista napoletano,
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beffardamente tradotto in «denghiù», causa accento partenopeo, al «Generatore
automatico di scene per il prossimo film di Sorrentino» istituito sul blog «Libernazione»
durante l’ultimo festival di Cannes, all’indomani della presentazione di «Youth». Un perfido
sfottò per mettere all’indice la tendenza aulica dei dialoghi sorrentiniani e ironizzare sul
talento dell’autore premio Oscar.
Più si è in vista, più si ha successo all’estero (questo vale soprattutto per il mondo del
cinema) e più cresce l’accanimento. Vite terremotate per un pugno di clic in più. Tra le
altre cose, Muccino ha scritto che «dalla metà degli Anni 70 il cinema italiano è morto a
causa di improvvisati registi che non sapevano come comunicare con il pubblico». Pasolini
non c’entra nulla, ma sul tema, oltre il web, si potrebbe discutere. Prima di scandalizzarsi.
Del 5/11/2015, pag. 1-36
Suscita polemiche in Francia il film “Il figlio di Saul” dell’ungherese
László Nemes. Lanzmann lo difende
Ma si può ridurre Auschwitz a una fiction?
BERNARDO VALLI
È arrivato nelle sale, a Budapest e a Parigi, dopo essere stato premiato a Cannes in
maggio, “Il figlio di Saul”, film del giovane ungherese László Nemes. E subito suscita
critiche passionali e riaccende gli interrogativi sull’opportunità di rievocare l’ Olocausto
attraverso fiction spettacolari. Per gli uni un Auschwitz di cartapesta, ricostruito in uno
studio sia pure con grande realismo non è una scena da esibire sullo schermo. Al
contrario, per gli altri, un regista abile e sensibile, quale è il regista ungherese, può
compiere un’impresa
esemplare nel raffigurarlo. Ridurre la Shoah a una fiction? Già Steven Spielberg, che
aveva affrontato l’Olocausto con La lista di Schindler , basandosi su una vicenda vera, era
incorso nei fulmini di Claude Lanzmann, uno dei più autorevoli e severi esperti della
tragedia ebraica. Anzitutto autore di Shoah , il celebre documentario- testamento. Ma
questa volta Lanzmann, 89 anni, ha difeso la fiction di Nemes. Perché nel suo film non fa
vedere la morte degli ebrei, ma la vita di coloro che erano costretti a condurli alla morte.
Per lui, per Lanzmann, il regista ungherese non ha voluto dunque mostrare l’impossibile,
vale a dire quello che avveniva nelle camere a gas. In Shoah Lanzmann raccoglie
testimonianze dirette, non esibisce immagini che possono essere contestate sempre più
col tempo. La questione è essenziale. Come trasmettere un avvenimento una volta
esauritasi la memoria dei contemporanei e moltiplicandosi il numero dei negazionisti?
Ci sono tanti modi di vedere la Shoah. Di viverla. È impossibile non ricordare due grandi
sopravvissuti allo sterminio. Uno scrittore e un poeta. Primo Levi e Paul Celan. Due
opposti sguardi. Levi fa un racconto razionale dell’esperienza personale. Celan scrive
versi ermetici, avvolti in una tragica nebbia da cui affiora il senso di colpa per non avere
subito la sorte dei suoi. Entrambi si sono suicidati.
Il personaggio principale del film, Saul, è un ebreo ungherese, membro del
Sonderkommando di Auschwitz nell’autunno del 1944. In quella tarda stagione della
guerra, con l’arrivo dei tedeschi, quattrocentomila ebrei, salvati fino allora, vengono uccisi
in Ungheria con la decisiva partecipazione alla strage dei collaborazionisti locali. Quelli del
Sonderkommando sono prigionieri incaricati dai nazisti di partecipare allo sterminio:
devono spoglia- re i compagni, recuperare e riordinare abiti e oggetti, portare i cadaveri
dalla camera a gas al crematorio, e poi disperderne le ceneri. Sanno che dovranno morire
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a loro volta. Sono testimoni da sopprimere. Il figlio di Saul, che forse non è il vero figlio, ma
un giovane sul quale il deportato ha posato uno sguardo paterno, esce dalla camera a gas
che respira ancora. È un miracolo cui mette fine un medico nazista. Saul cerca allora di
proteggere il cadavere, vuole evitare che finisca nel crematorio, e tenta di sepellirlo
secondo il rito ebraico. Salvando il morto Saul salva se stesso, condannato all’orribile
sorte di condurre la gente della sua stessa religione al supplizio finale. Nella folla dei
prigionieri vorrebbe trovare un rabbino che possa recitare il kaddish. Ma scoppia una
rivolta che fa fallire il progetto. La machina da presa segue la ricerca disperata di Saul
puntando ogni tanto l’obiettivo su quel che accade attorno a lui. Sono gli scorci di
Auschwitz.
Lanzmann considera Il figlio di Saul l’ anti Lista di Schindler .
L’opposto. Il film di Spielberg era a suo avviso condannabile perché si arrogava il diritto di
mostrare i morti, ossia quel che accadeva nell’indescrivibile intimità dell’orrore. Lazlo
Nemes non mostra invece la morte, ma appunto la vita di coloro che sono costretti a
condurre i correligionari alla morte.
Ricorda Jacques Mandelbaum ( Le Monde ) la disputa tra Claude Lanzmann e lo storico
Clément Chéroux in occasione di una mostra, promossa da quest’ultimo sulla «Memoria
dei campi». Nell’esposizione figuravano quattro fotografie prese clandestinamente da uno
del Sonderkommando di Birkenau nell’agosto del ’44, in cui si vedevano file di ebrei
ungheresi diretti alle camere a gas. Le immagini e il testo che le accompagnava
avvalorava l’indiscutibile prova di quelle immagini. E contrastava con la tesi di Lanzmann
sulla impossibilità di raffigurare l’Olocausto e di provarne l’autenticità attraverso immagini,
sempre più discutibili col passare del tempo. Per questo nella sua Shoah ci sono soltanto
incontestabili testimonianze dirette di sopavvissuti o di contemporanei.
Il premio di Cannes è meritato. Le sale ungheresi si riempiono da settimane. E quelle
parigine erano ieri affollate per la prima visione. Ma non mancano le proteste. Un
quotidiano ( Libération ) si interroga sull’opportunità di fare di Auschwitz uno spettacolo. E
non mancano i critici che ritengono eccessivo lo sforzo (“amorale”) di un bravo regista nel
rappresentare una delle più grandi degenerazioni della storia. Ma non è facile stabilire i
confini da non superare nel rievocare la tragedia umana.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 5/11/2015, pag. 35
Il mistero del linguaggio infantile ci interroga da sempre. Perché peri più
piccoli parlare non è uno strumento ma un incontro che “crea” il mondo
e apre all’Altro
Quanto realismo magico nelle parole dei
bambini
MASSIMO RECALCATI
I bambini non sono minorati che necessitano di un padrone che li guidi, ma soggetti di
parola, inventori di teorie, sognatori, incarnazioni viventi della speranza. È questo il ritratto
che di loro ci offre il bel libro di Angela Maria Borello, direttrice didattica di una Scuola
d’infanzia di Torino. Il lettore che lo incontrerà farà una esperienza nuova.
Non dovrà sorbirsi le dottrine psicopedagogiche più paludate o più in voga, spesso anni
luce distanti dall’esistenza singolare dei bambini e destinate fatalmente a morire esangui
in qualche scaffale di una biblioteca universitaria. Il lettore farà l’esperienza dell’incontro
con le parole viventi dei bambini.
La parola dei bambini trova la sua matrice prima nel grido. Lo sappiamo: la vita viene alla
vita attraverso il grido. Il piccolo dell’uomo è sempre, all’inizio della vita, un grido, solo un
grido, un grido perduto nella notte. Questo grido è una invocazione rivolta all’Altro affinché
l’Altro risponda. È questa la prima responsabilità (il cui etimo deriva appunto da “risposta”)
che l’esistenza di un bambino attribuisce alla vita di coloro che si occupano di lui. È
questa, se volete, una definizione primaria della genitorialità ma, più in generale, della
funzione di chi deve promuovere l’umanizzazione della vita: non lasciare la vita sola,
persa, non abbandonarla alla notte, rispondere al grido. L’accesso alla lingua sposta i
bambini dall’universo chiuso della famiglia a quello aperto del mondo. La lingua per loro
non è solo uno strumento che devono imparare ad usare, ma un incontro generativo che
apre a mondi sconosciuti prima; la lingua dei bambini sa essere incantevole perché fa
risorgere ogni volta l’atto mitico della prima nominazione quando fu la parola a fare
esistere le cose. È così: le parole dei bambini aprono e ci aprono al mistero del mondo. È
la pioggia la prima pioggia, è la lumaca schiacciata sotto la pietra la prima lumaca
schiacciata sotto la pietra, è la scoperta del proprio corpo la prima scoperta del proprio
corpo. Manca in queste parole l’interrogazione inquieta, forsennata, acida e assetata,
dell’adolescenza; manca il pensiero critico che vuole ribaltare le convenzioni, manca la
necessità spasmodica della contestazione dell’Altro. Il mondo appare al loro sguardo
come un puro fenomeno ancora sottratto alle griglie corrosive della teoria critica. Il loro
sguardo non è teoretico. Si posa semplicemente sulle cose del mondo con meraviglia. Per
questo le parole dei bambini assomigliano a quelle dei grandi mistici. Si adagiano sulle
cose trasformando le cose in parole. Facendo esistere le cose come cose; la rosa come la
rosa, la pietra come la pietra. Non c’è ancora l’ansia — che irromperà con l’adolescenza
— di cambiare il mondo, di trasformarlo, ma la visione del mondo come un miracolo che si
ripete sempre nuovo: «Maestra lo sa che oggi la scuola è proprio bella? Grazie ma è
proprio come ieri. Sì ma io ieri non l’avevo capito», dice una bimba stupita.
Le parole non servono solo a comunicare. I bambini ci insegnano che le parole servono
innanzitutto a fare esistere le cose. «In bagno — Mi passi il phon? — Quale phon? —
Inventalo no! Non vedi che stiamo giocando!». «Maestra, vogliono sempre farmi fare il
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cane... dice Paolo — Ma tu sei un cane... risponde Giacomo e ride ». «No! Io non sono un
cane e mi sono stufato di fare il cane, anzi adesso il cane lo devono fare un po’ anche
loro, se non non è valido, vero maestra?». «Maestra, lo sai che mi è venuta un’ape sul mio
prosciutto ma io gli ho detto che se ne voleva ne poteva mangiare un po’ e lei ha mangiato
e poi mi ha fatto zzzz che era un grazie e poi è volata via? Che bello! Eh sì, adesso quella
è una mia amica». Anche la morte non ha uno statuto separato dalla parola, ma è
innanzitutto una parola: «Maestra, lo sai che io avevo un nonno che prima era vivo e poi è
morto e da quando è morto non l’ha più visto nessuno?».
I bambini trasfigurano costantemente la realtà perché hanno una necessità vitale
dell’illusione. Non solo di pane vive, infatti, l’essere umano, ma di parole, segni, gesti,
desideri. L’illusione è come un secondo pane, un altro alimento, un lievito che separa la
vita umana da quella meramente animale. Il bambino si nutre di fantasia per non restare
ustionato dal carattere osceno del reale. La scoperta del mondo, della vita e della morte,
del reale del sesso, della violenza e dell’amore, deve poter avvenire attraverso il velo
dell’illusione. Altrimenti la luce senza schermi del reale potrebbe bruciare le fragili pupille
dei bambini. Ce ne ha dato una immagine indimenticabile Roberto Benigni n e La vita è
bella : l’orrore del campo di sterminio è filtrato dalla parola di un padre capace di inventare,
raccontare, generare una storia dentro la quale il proprio figlio può trovare riparo dal
trauma violento e illegittimo del reale. Per questo il fondamento del mondo per loro resta
sempre l’amore dei genitori. L’affidabilità dell’Altro — il suo amore — rende affidabile il
mondo. La vita riceve sempre un senso dall’Altro. Nessuno può farsi da sé il suo nome.
«Io so che non sono nato dalla pancia di mia madre, però sono nato nel suo cuore, l’ho
seguito e lei mi ha trovato». Anche l’interrogazione sul mistero del mondo non assume mai
le forme critiche che ritroveremo con lo sviluppo adolescenziale del potere acuminato del
ragionamento astratto. Non c’è astio verso il mondo, non c’è odio verso l’essere, non c’è
rivendicazione risentita. Il pensiero di Dio non è mai un pensiero fanatico. «Dio è forte
come Star Trek?» chiede un bimbo alla sua maestra. L’umano non è in competizione con
Dio, non lo combatte, non lo sfida ancora. Il sapere dei bambini mostra che c’è un limite al
sapere, che non si può sapere tutto il sapere. È il mistero stesso della loro esistenza fa
risuonare questo limite. C’è un impossibile da sapere che i bambini sanno custodire con
cura perché sanno di essere figli, cioè di non poter bastare a se stessi. Loro sanno che
senza l’Altro sprofonderebbero nella notte più fredda. Sanno bene che solo l’amore
dell’Altro può dare fondamento al carattere infondato del mondo. Per questo la parola
evangelica affida proprio a loro il destino del Regno.
del 05/11/15, pag. 13
Il 95% dei dodicenni ha uno smartphone e si
racconta in rete
Condividere immagini è un modo per affermarsi La scuola punta a farne
uno strumento didattico
Francesco Zaffarano
All’ingresso di una scuola media qualsiasi non troverete facilmente un 12enne senza uno
smartphone in mano. Se questo vi stupisce, c’è un problema. Il 95% dei ragazzi di
quell’età ne possiede uno, secondo l’Università di Firenze, e probabilmente non è neanche
il primo: che i vostri figli abbiano un telefono non è un fenomeno, è la normalità. Come
tale, quindi, dovrebbe essere affrontata da chi ha più anni sulle spalle: scandalizzarsi ogni
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volta che una bravata finisce in rete non risolverà di certo il problema, come pensare che
uno smartphone in mano a un ragazzino possa essere solo fonte di guai. I vostri figli lo
usano più e, forse, meglio di voi. Quel che è certo è che non ne possono fare a meno, e
porre argini lascia il tempo che trova. Meglio provare a capire. Chi a scuola non vuole
neanche sentir parlare di tablet, si può anche trincerare dietro gli studi della London
School of Economics, che ha dimostrato che, nelle classi in cui viene vietato l’uso dei
cellulari, il rendimento degli studenti migliora: limitando le distrazioni originate dal flusso
continuo di chat e selfie, i punteggi nei test migliorano del 6,41%, mentre chi normalmente
non raggiunge la sufficienza registra un incremento del 14%. Il problema è che non si
rende conto che l’uso del telefono non può essere relegato alla dimensione della condotta
scolastica: se gli adolescenti sono sempre connessi c’è un motivo, non per forza futile.
C’è un’altra ricerca della stessa università londinese, che dice che i giovani sono sì
sempre connessi, ma il 33% di questi indica tra le attività principali svolte in rete quelle
legate all’attività didattica e allo svolgimento dei compiti. Può sembrare poco se
confrontato con il tempo speso sui social network o sulle app di messaggistica (indicate tra
le atttività principali rispettivamente dal 63 e 49%) ma è un dato in crescita che parla di un
internet che non è solo fonte di distrazione ma anche di informazione.
Il potere dell’immagine
Gli studenti fanno foto durante le lezioni? Oltre a preoccuparsi di quanto questo possa
distrarli, forse è il caso di interrogarsi su cosa ci sia di così bello da fotografare nelle aule
della scuola pubblica. Forse le foto non sono solo qualcosa di bello da vedere: postare
un’immagine significa raccontarsi, dare forma alla propria identità in rete, che ci piaccia o
no. Non è un caso che il secondo social network più utilizzato dai teenager, dopo
Facebook (scelto dal 71% secondo il Pew Research Center), sia Instagram: nasce e ruota
escluisvamente attorno alle fotografie, oltre a essere scelto per chattare visto che permette
di mantenere una maggiore privacy. A seguire Instagram, poi, c’è Snapchat, che permette
di inviare messaggi che si autodistruggono (evidentemente i ragazzini al proprio privato ci
tengono più di quanto pensino i grandi). Questo è il social giovane per eccellenza: il 50%
degli utenti ha tra i 15 e i 17 anni, mentre solo il 19% supera i 25. Lì dentro non ci avete
certo messo piede ed è un peccato: serve a capire come passano il tempo i ragazzini.
Scuola protagonista
È evidente cosa interessa a quell’età: condividere e comunicare sono le priorità degli
adolescenti, non perché devono fare branco ma perché cercano solo un loro spazio tra gli
altri. E allora perché non farglielo fare anche a scuola? Un esempio? Usare il cloud e i
documenti condivisi per collaborare in classe a progetti di studio, o le chat di Whatsapp
per facilitare le comunicazioni tra insegnanti e studenti. In poche parole, rendere le scuole
più a misura di ragazzi smettendo di guardare quei telefoni come se fossero la fonte di tutti
i mali. Perché non lo sono, è ora di farsene una ragione.
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