Agricoltura Pastoralismo Ambiente
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Agricoltura Pastoralismo Ambiente
PASTORIZIA AGRICOLTURA AMBIENTE LA SARDEGNA E L’AREA DEL MAGHREB CONVEGNO CAGLIARI 19 NOVEMBRE 2016 1 2 Associazione ex Parlamentari della Repubblica Coordinamento della Sardegna Sito web: sardegna.exparlamentari.it Col patrocinio della: Col Patrocinio del Presidente del Consiglio Regionale della Sardegna PUBBLICAZIONE A CURA DI: Sito web: www.taulara.com 3 Sommario INTRODUZIONE - 9 On. Giorgio Carta, Coordinatore Associazione ex Parlamentari della Sardegna SALUTI ISTITUZIONALI - 11 Dott. Carlo Salis, Consigliere di Amministrazione Fondazione di Sardegna L’AGRICOLTURA NEL PROCESSO DI SVILUPPO DELLA SARDEGNA 15 - On. Pietro Maurandi, Prof. Università di Cagliari PERCHÉ C'È BISOGNO DI UNA POLITICA AGRICOLA «COMUNE» A LIVELLO DELL'UE? 36 - On. Salvatore Cicu, Europarlamentare LA PASTORIZIA SARDA FRA PASSATO E FUTURO - 44 Prof. Giuseppe Pulina, Ordinario di Agraria Università di Sassari 4 PASTORALISMO IN EVOLUZIONE, DAL MODELLO TRADIZIONALE A QUELLO MULTIFUNZIONALE 73 - Prof. Benedetto Meloni e Prof.ssa Domenica Farinella, Sociologia del Territorio e dell’Ambiente Università di Cagliari L’AGRICULTURE EN TUNISIE ET LES POSSIBILITÉS DE PARTENARIAT AVEC LA REGION AUTONOME DE SARDAIGNE 118 - Prof. Mohamed Habib Jemli, Ecole Nationale de Médecine vétérinaire Tunisie - Dott. Abdelbaki Rouabeh, UGMVT LATTE, CEREALI, CARNE, ORTOFRUTTA: CRISI DI MERCATO E CROLLO DEI PREZZI 139 - Dott. Martino Scanu, Presidente CIA Sardegna UNA BUONA POLITICA PER USCIRE DALLA CRISI - 149 Sig. Felice Floris, Movimento Pastori I CAMBIAMENTI CLIMATICI E AMBIENTALI GLOBALI QUALE IMPATTO SULL’AGRICOLTURA E SULLA PASTORIZIA DELLA SARDEGNA E QUALI STRUMENTI ADOTTA LA REGIONE 155 - Dott.ssa. Elisabetta Falchi, Assessore Regionale dell’Agricoltura e Riforma Agropastorale 5 LO SPOPOLAMENTO DELLE ZONE INTERNE DELLA SARDEGNA 188 - Prof. Pietro Ciarlo, Ordinario Diritto Costituzionale Università di Cagliari AGRICOLTURA, PASTORIZIA E AMBIENTE IN SARDEGNA E NEL MEDITERRANEO 196 - Dott.ssa Anna Rita Poddesu, Segretaria Regionale FLAI Sardegna LA PASTORIZIA E L’AGRICOLTURA NELL’ECONOMIA DELL’ISOLA. - SARDA 217 On. Luigi Lotto, Presidente Commissione Attività Produttive del Consiglio Regionale della Sardegna DOTT. PIETRO TANDEDDU, COORDINATORE REGIONALE COPAGRI SARDEGNA 222 AGRICOLTURA, PASTORIZIA E AMBIENTE IN SARDEGNA E NEL MEDITERRANEO 232 - Dott. Raffaele Lecca, Presidente Regionale ALPAA MON TÉMOIGNAGE ENTANT QUE BÉNÉFICIÈRE DE LA BOURSE D’ÉTUDE DU PROJET «FORMED» 245 - Dott. Saad Fikri, Gestione dell’Ambiente e del Territorio 6 L’AGRICOLTURA NEL PROCESSO DI SVILUPPO DELLA SARDEGNA 247 - Prof. Aldo Accardo, Ordinario Storia Contemporanea Università di Sassari LA SFIDA DEL FUTURO DELLA SARDEGNA NEL MEDITERRANEO 268 - On. Angelo Rojch, ex Presidente Regione Sardegna PROF.SSA MARIA ANTONIETTA MONGIU, PRESIDENTE FAI SARDEGNA 274 AGRICOLTURA, PASTORIZIA E AMBIENTE IN SARDEGNA E NEL MEDITERRANEO 282 - On. Pietro Soddu, ex Presidente Regione Sardegna CONCLUSIONI - 332 On. Giorgio Carta 7 On. Giorgio Carta: Coordinatore Associazione ex Parlamentari – Sezione Sardegna 8 Introduzione On. Giorgio Carta, Coordinatore Associazione ex Parlamentari della Sardegna La crisi che attanaglia, l’Occidente, l’Europa, l’Italia e in particolare la Sardegna, ha indotto l’Associazione degli Ex Parlamentari, a proporre alle diverse Istituzioni politiche e sociali, una giornata di lavoro sulle prospettive di sviluppo della nostra isola e dei paesi del Mediterraneo. Il confronto con le regioni del Maghreb su uno dei segmenti più importanti dell’economia (l’agricoltura e l’ambiente), non come semplice excursus storico, ma come punto di partenza per un programma, che induca a riflettere anche, su cosa sia necessario fare, per consentire alla Sardegna di modificare un modello di sviluppo industriale andato in crisi per molteplici cause e procedere verso alternative, che possono trovare un indolore mutamento degli schemi fino a qui praticati. La tutela dell’ambiente, lo sfruttamento delle risorse naturali, la possibilità di interagire con i mercati che offrono i paesi mediterranei, può rappresentare la svolta necessaria per un nuovo piano di rinascita, ormai non più dilazionabile. La politica deve ipotizzare con una visione globale le modalità per poter operare in quei settori, che oltre a dare 9 lavoro potrebbe, frenare lo spopolamento delle aree interne e risolvere anche i problemi creati da un inurbamento tumultuoso e disorientato. A me solo il compito di introdurre il dibattito e ringraziare tutti i presenti per la partecipazione e il contributo che vorranno dare ai nostri lavori. Un saluto ai rappresentanti Tunisini ed un grazie per la loro presenza. Grazie ai relatori, all’Assessore all’agricoltura… Non ci stancheremo mai di ringraziare la Fondazione di Sardegna che ci consente annualmente di svolgere la nostra attività e il presidente del Consiglio Regionale per il patrocinio. 10 Saluti istituzionali Dott. Carlo Salis, Consigliere di Amministrazione Fondazione di Sardegna La Fondazione di Sardegna è lieta di aver sostenuto questa iniziativa che giudichiamo di grande interesse e ricca di prospettive. Ci auguriamo esito di diffusione larga di questo dibattito. Al centro di questo dibattito due parole chiave: pastorizia e Mediterraneo. Consentitemi allora di illustrarvi una iniziativa della Fondazione su questi temi e di dirvi anche qualche mia opinione in proposito, perché quelle due parole - pastorizia e Mediterraneo – sono state così profondamente al centro della mia formazione prima e del mio impegno civile poi, che vorrei pubblicamente sostenere la necessità che la Sardegna cerchi la sua crescita economica sociale e culturale nell’ambito di relazioni coi paesi mediterranei profondamente innovate e rinvigorite rispetto al presente e al recente passato. Qui voglio dunque ricordare che l’attuale presidente e il consiglio di amministrazione della FdS, non appena insediatisi, hanno avviato la realizzazione di un progetto – che mi è particolarmente caro – consistente nell’offrire cento borse di studio universitarie triennali per studenti meritevoli e di modeste condizioni economiche, provenienti da Tunisia, Algeria e Marocco. 11 Borse triennali significa un intero corso di studi universitario. Per incassare la borsa (modesta, per la verità, ma preziosissima per i beneficiari) è espressamente previsto l’obbligo di sostenere gli esami dell’anno in corso e di risiedere stabilmente nella sede universitaria. Cioè in Sardegna. Vorremmo che queste ragazze (sorprendentemente molte) e questi ragazzi apprendessero la lingua e la cultura della nostra terra. Vorremmo creare una amicizia non episodica ma intimamente legata al momento formativo più importante nella vita di una persona. La nostra speranza è contribuire a creare fili che aiutino a sviluppare una relazione culturale e umana ma anche economica e sociale con i loro paesi di provenienza. Il progetto è ormai al suo secondo anno. Possiamo dire con soddisfazione che ha avuto successo. Le ragazze e i ragazzi nostri ospiti hanno superato difficoltà e diffidenze burocratiche, sono giunti in Sardegna, si sono iscritti all’Università, hanno frequentato con impegno le lezioni, superando serie difficoltà iniziali di tipo linguistico (nessuno di loro aveva studiato l’italiano negli anni del liceo) ed hanno sostenuto i primi esami con esiti più che soddisfacenti: la media conseguita ha raggiunto i 27/30mi. Un risultato davvero brillante che non era facile prevedere! Con questo progetto intendiamo perseguire anche alcuni obiettivi per noi molto chiari. 12 Il primo consiste nell’aiutare le Università sarde ad internazionalizzarsi. Questa caratteristica è richiesta nell’ambito della valutazione di ogni Ateneo moderno. Su questo terreno – comprensibilmente – le nostre Università registrano croniche difficoltà. Il nostro aiuto consiste nel portare studenti stranieri a studiare in Sardegna. Va sottolineato che portiamo studenti fortemente motivati, che ci sono riconoscenti per l’opportunità che viene loro offerta. Uno di loro è qui fra noi invitato dalla vostra associazione, e porterà un’esperienza positiva sia dal punto di vista umana che culturale. Il secondo obiettivo raggiunto consiste nell’aver portato in Sardegna ragazze e ragazzi a cui non si chiede di allontanarsi dalla loro cultura e tradizione, ma di integrarsi in una realtà simile per ambiente, clima ed economia recando il contributo di apertura che la loro sola presenza rappresenta. Per parte nostra siamo orientati a confermare il progetto per un successivo triennio e ad allargarlo puntando a coinvolgere le autorità governative italiane ed europee: intessere relazioni fra le due sponde del Mediterraneo è infatti necessità e pressante interesse sia italiano che europeo. Non solo sardo, quindi. Vorremmo inoltre imprimere una curvatura indirizzata ai temi della economia e società mediterranea, privilegiando le discipline agro-industriali e ambientali che guardano alla specifica realtà delle nostre terre. Dunque pastorizia millenaria attività che accomuna le sponde mediterranee –, 13 agricoltura tipica, silvicoltura, contrasto alla desertificazione (tema che riguarda drammaticamente anche la Sardegna) e pesca. O meglio, come mi fanno precisare gli esperti ricercatori così come gli operatori economici, “coltivazione del mare in un quadro sostenibile”. La nostra ambizione è di formare tecnici e dirigenti di un domani prossimo capaci di affrontare e governare i problemi comuni, mediterranei appunto, in una logica di conoscenza, amicizia e collaborazione. Per noi sardi sarebbe un passo verso il superamento di quel “maledetto incantesimo dell’isolamento” che Emilio Lussu indicava amaramente come causa di provincialismo e rassegnazione. Antichi mali, certamente, ma che ancora oggi ci affliggono. 14 L’agricoltura nel processo di sviluppo della Sardegna On. Pietro Maurandi, Prof. Università di Cagliari L’agricoltura è stata spesso oggetto di interventi pubblici e provvedimenti legislativi, nazionali, regionali ed europei, rivolti a modificare l’assetto fondiario, a migliorare le condizioni di redditività per gli addetti, ad aprire prospettive e sbocchi di mercato. Per restare al secondo dopoguerra in Italia, si possono citare i decreti Gullo – allora Ministro dell’Agricoltura – e la riforma agraria del 1950, volti all’eliminazione del latifondo, diffuso in Sicilia e nel Mezzogiorno continentale, e alla nascita della piccola proprietà contadina. Per quanto riguarda la Sardegna, le prime analisi e i primi interventi vanno collocati nella fase di gestazione della prima legge di Rinascita, in attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, che recita “Lo Stato con il concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola”. Dopo anni di incertezza, nel 1951 venne insediata una Commissione consultiva che cominciò a lavorare nel 1954 e nel 1958 stese un Rapporto conclusivo sugli studi per il Piano di rinascita, che sosteneva un programma di investimenti pubblici e privati, riguardanti l’agricoltura e l’industria. 15 Nel 1959 venne istituito un nuovo organismo, denominato Gruppo di lavoro, che in tre mesi elaborò un Rapporto conclusivo, che assegnava un ruolo preponderante alla programmazione, da attuarsi nel territorio per zone omogenee, e attribuiva un ruolo strategico allo sviluppo del settore industriale. L’aumento del peso dell’industria, nella formazione del reddito regionale e nella struttura dell’occupazione, diventava la fondamentale manovra di politica economica per modificare in profondità la struttura dell’economia regionale e per innescare un processo di sviluppo. Un mutamento rilevante di prospettiva. Che cosa era successo nel frattempo? Vi era stata, nella cultura economica e nella politica italiana, la svolta industrialista per quanto riguarda il Mezzogiorno, sostenuta con vigore fra gli altri dall’allora presidente della SVIMEZ (Istituto di Studi per lo Sviluppo del Mezzogiorno), il professor Pasquale Saraceno. Si era passati dalla cosiddetta “vocazione agraria” del Mezzogiorno e delle isole alla politica delle infrastrutture come precondizione per lo sviluppo, che aveva visto la nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Per giungere poi alla svolta industrialista. L’industria era un corpo estraneo rispetto al Mezzogiorno e alla Sardegna. Nell’isola era presente l’industria estrattiva, ma non l’industria manifatturiera se non per scarsi episodi. Ma proprio questa estraneità, rispetto al tessuto economico e sociale dell’isola, veniva assunta 16 come la miglior cosa per fare dell’industrializzazione la strategia per lo sviluppo. In quel periodo circolavano le teorie di diversi economisti di prestigio internazionale che sostenevano sul piano teorico quelle posizioni. L’industrializzazione della Sardegna non era quindi una idea della politica e nemmeno nasceva – almeno all’inizio – da interessi precostituiti. Era il risultato di una diffusa opinione, sostenuta da illustri economisti. Si possono citare Gunnar Myrdal, Otto Hirshmann e Francoise Perraux, per i quali lo sviluppo di un’area sottosviluppata si sarebbe innescato come effetto di shock esogeni. In questo clima e con questi riferimenti culturali, si giunse alla prima legge di Rinascita, in attuazione dell’articolo 13 dello Statuto. Anche l’agricoltura era naturalmente contemplata nella prospettiva adottata: l’enfasi posta sull’industria manifatturiera nasceva da un vuoto rilevante in questo settore; l’intento era quindi di instaurare un accettabile equilibrio fra agricoltura e industria. Ma nella fase di attuazione gli interventi per l’industria prevalsero e travalicarono gli altri. La prima legge sul Piano di Rinascita fu approvata dal Parlamento nel 1962: L. n. 588/1962, Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, in attuazione dell’art.13 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n.3. 17 Successivamente la Regione approvò la LR n. 7/1962, che fissava i compiti della Regione in materia di sviluppo e indicava le modalità da seguire. Successivamente, si elaborò lo Schema generale di Sviluppo, che è in senso proprio il Piano di Rinascita, cioè la definizione degli obiettivi da perseguire, degli strumenti da utilizzare e delle risorse da impiegare in un arco di tempo di 12 anni. Da questo momento incominciò, dal punto di vista economico, una storia davvero nuova per la Sardegna, che inciderà profondamente sulla sua struttura economica e sul suo tessuto sociale. Si può dire che la storia moderna dell’economia sarda incomincia con la legge 588 e con il Piano di Rinascita. Le condizioni del sistema economico regionale erano allora caratterizzate da un livello di reddito pro capite fra i più bassi d’Italia, anche se il più elevato fra le Regioni meridionali, probabilmente a causa della scarsità relativa di popolazione in Sardegna. Il reddito per abitante collocava la Sardegna al 12°-13° posto fra le Regioni italiane, rispetto al dato medio nazionale oscillava, nel corso del decennio che precede la politica di rinascita, fra il 70% dell’inizio e il 60% della fine del periodo. L’attività produttiva si concentrava in settori scarsamente dinamici e utilizzava tecniche produttive tradizionali e consolidate. Il sistema economico era quindi del tutto tagliato fuori dall’imponente processo di trasformazione e 18 di sviluppo che in quegli anni investiva l’economia italiana. Questa situazione si rifletteva in tre aspetti fondamentali. In primo luogo un basso livello di accumulazione di capitale, sensibilmente inferiore rispetto alla media nazionale, con investimenti concentrati in opere pubbliche, in abitazioni e in opere di sistemazione e di trasformazione agraria. In secondo luogo un basso livello di produttività, che si ridusse drasticamente nel decennio dall’83 al 73% della media nazionale, in conseguenza della crisi dell’attività mineraria. Infine, un flusso migratorio interno verso le città, ed esterno verso le regioni dell’Italia settentrionale e verso altri paesi europei. Il flusso migratorio, in dimensioni fino ad allora sconosciute in Sardegna, era la risultante del basso livello di reddito in agricoltura, che spingeva fasce mature di forza lavoro ad abbandonare il settore, e delle scarse possibilità di trovare occupazione, che le spingeva ad abbandonare l’isola. La scelta che venne fatta con la legge 588, e che si concretizzò in termini operativi con il Piano dodecennale, fu quella dell’intervento pubblico nell’economia regionale e della programmazione come metodo di intervento. Questa scelta nacque dalla consapevolezza che i meccanismi e i comportamenti spontanei del mercato non fossero in grado di innescare un processo di sviluppo in un’area arretrata come la Sardegna. 19 Con gli interventi previsti, l’azione pubblica non si limitò più alle infrastrutture, come era accaduto fino ad alcuni anni prima per il Mezzogiorno, ma l’intervento si proponeva di realizzare determinati interventi per lo sviluppo e di predisporre a questo scopo gli strumenti e le risorse necessarie. Interventi di programmazione settoriale si erano già avuti negli anni Cinquanta. In particolare, la legge 646 del 1950 e la legge 634 del 1957 possono intendersi come prime leggi di programmazione in Italia. La prima riguardava l’infrastrutturazione del Mezzogiorno, la seconda riguardava, sempre per il Mezzogiorno, le agevolazioni finanziarie per lo sviluppo di attività industriali. Ma si trattava pur sempre di leggi di carattere settoriale, oppure di programmazione di interventi pubblici o di interventi delle partecipazioni statali. Il Piano di Rinascita per la Sardegna era invece un intervento intersettoriale, che si proponeva obiettivi di sviluppo generale relativi all’intero sistema economico regionale. Si trattava quindi della prima esperienza di programmazione organica condotta in Italia. Il modello adottato per la politica di intervento pubblico nell’economia regionale fu quello dello sviluppo squilibrato, che si concretizzò nella politica dei poli di sviluppo. La teoria identifica il processo di sviluppo con la creazione di una serie di shock esogeni, che mettono in crisi l’equilibrio di sussistenza e le sue circolarità, e contemporaneamente creano nel tessuto economico un 20 vuoto di iniziative che può essere colmato da nuove intraprese, esogene rispetto al sistema originario. Una volta sconvolto l’equilibrio di sussistenza, e una volta aperte le relazioni economiche con il resto del mondo, il sistema economico sottosviluppato si specializzerà nelle produzioni in cui possiede un vantaggio comparato. I nuovi insediamenti di attività produttive così sorti daranno luogo ad altri insediamenti, grazie agli effetti di collegamento “in avanti” e “all’indietro” con altre attività. In tal modo si realizza un processo di sviluppo che investe numerosi settori economici e vaste aree territoriali. La rottura dell’equilibrio di sussistenza, attraverso la nascita di imprese di dimensioni adeguate, è quindi il necessario presupposto affinché il processo di sviluppo si verifichi e si generalizzi. Il modello dei poli di sviluppo, che venne prescelto con la programmazione regionale degli anni Sessanta è caratterizzato da una sorta di tensione fra due elementi contradditori: gli effetti diffusivi e gli effetti di polarizzazione, che avrebbero drenato risorse dagli altri comparti a favore dei “poli”. La possibilità che lo sviluppo possa effettivamente diffondersi su tutto il territorio e che possa investire altri settori oltre quelli degli interventi originari, resta affidata alla semplice eventualità che gli effetti diffusivi siano maggiori degli effetti di polarizzazione. Il Piano di Rinascita del 1962 esprimeva, in modo organico e dettagliato, una concezione dirigista 21 dell’intervento pubblico, già presente nella formulazione dell’articolo 13 dello Statuto, secondo la quale “lo Stato con il concorso della Regione” deve determinare le trasformazioni strutturali necessarie per innescare un processo di sviluppo. Significa che gli investimenti pubblici non devono limitarsi a fornire sostegno alle attività produttive ma devono provocarne la nascita e lo sviluppo sul territorio. L’idea sottostante è che il mercato non fosse in grado di innescare un processo di sviluppo, e che i capitali necessari per farlo non esistessero in Sardegna, dato il basso livello di accumulazione. Era un’idea corrente negli anni sessanta e pervadeva le scelte relative alla programmazione. Si tratta di un dirigismo forte, che permea il Piano di Rinascita e che sta in buona misura alla base delle difficoltà che si incontreranno. Si trattava infatti di una concezione sostanzialmente anomala rispetto alle condizioni di un’economia di mercato, che alla prova dei fatti si dimostrò velleitaria: benché capace di modificare in profondità l’economia e la società sarda, si rivelerà impotente a realizzare gli obiettivi così come erano stati prefissati, che era proprio la logica e la natura stessa del Piano. Tuttavia, se era velleitario pensare di realizzare meccanismi di accumulazione non di mercato in un’economia di mercato, l’intervento pubblico ha avuto effetti rilevanti e duraturi, come l’aumento del reddito e l’espansione dei consumi, solo che essi non erano quelli 22 previsti e ricercati dalla programmazione regionale. Inoltre, in assenza di un tessuto economico adeguato all’interno dell’isola, la domanda di beni di consumo si rivolgeva in grande misura a beni e servizi prodotti al di fuori della regione. Il più importante effetto fu proprio quello di introdurre nel sistema economico regionale un meccanismo anomalo di accumulazione di capitale, poiché l’intervento pubblico si innestò in una situazione di fallimento dell’iniziativa privata nel generare un processo di sviluppo. L’intervento pubblico rappresentò una forma di accumulazione surrogata, nel senso che si diffuse per sopperire all’assenza del meccanismo di accumulazione tipico delle economie capitalistiche. L’assenza di accumulazione privata in Sardegna, va collegata all’assenza di borghesia imprenditoriale che, a sua volta, deriva dalle vicende storiche dell’isola, in particolare dalla sconfitta di Giovanni Maria Angioy alla fine del Settecento. Angioy e il suo movimento erano portatori delle idee dell’Illuminismo, che nell’Europa centrale avrebbero creato il clima sociale per lo sviluppo e l’egemonia della borghesia. In Sardegna la sconfitta di Angioy, e la distruzione di ciò che costituiva il suo movimento, ha ucciso sul nascere un clima ideale e culturale favorevole alla nascita e alla espansione di una classe borghese, lasciando campo libero al consolidarsi di un’economia legata ad attività e modalità arcaiche di produzione e di distribuzione della ricchezza. 23 Il carattere anomalo dell’accumulazione di capitale in Sardegna, portava con sé due effetti. In primo luogo il meccanismo non era ripetibile; si trattava infatti di scelte che erano affidate a decisioni politiche consapevoli e perciò destinate a ripetersi solo se si fossero ripetute le condizioni socio-politiche che le avevano rese possibili. In secondo luogo, in assenza della borghesia protagonista dell’accumulazione, questa funzione venne svolta da nuove categorie sociali, che assunsero una funzione centrale nel processo di sviluppo. Questa circostanza rappresenta una modificazione strutturale della società, dei suoi equilibri e delle sue relazioni interne. Verso la fine degli anni Sessanta si approfondì e si diffuse la consapevolezza della difformità fra obiettivi del Piano di Rinascita e dati macroeconomici, che non erano dati meramente statistici ma assumevano i tratti di un disagio sociale profondo, spia del fatto che le trasformazioni della società sarda non avevano assunto il carattere dinamico che ci si proponeva e che probabilmente nuove tensioni e nuovi disagi si erano aggiunti agli antichi. La spia macroscopica di questa situazione fu il riemergere, nel corso degli anni Sessanta, di fenomeni di criminalità che sembravano scomparsi. In particolare i sequestri di persona, che fra il 1966 ed il 1968 furono 33 contro una media di 1 all’anno nel decennio precedente. Mentre la mappa dei luoghi dei sequestri copriva quasi tutta l’isola, 24 la mappa dei luoghi dei rilasci dei sequestrati coincideva con le zone interne ad economia agro-pastorale. Un’attività di riflessione e di indagine fu condotta, all’inizio degli anni Sessanta, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna, istituita con la legge 755 del 1969 e presieduta dal senatore Giuseppe Medici. La conclusione della Commissione fu che le origini profonde delle forme di criminalità tipiche delle zone interne della Sardegna andavano ricercate nelle condizioni della pastorizia nomade. Storicamente il banditismo sardo nasceva dal conflitto fra regole e valori della società pastorale e le leggi degli Stati conquistatori. Anche l’avvento dello Stato italiano, l’approvazione della Costituzione repubblicana, la costituzione della Regione autonoma e l’avvio della politica di industrializzazione, non avevano dato luogo al rinnovamento delle campagne nelle zone interne. La criminalità aveva modificato i propri metodi e spostato i propri obiettivi, dalle forme tradizionali dell’abigeato e dei danneggiamenti di colture, alle estorsioni e ai sequestri di persona. L’ostilità del mondo pastorale nei confronti dello Stato, il sentimento di comprensione e di solidarietà verso i fuorilegge da parte delle popolazioni, richiedeva trasformazioni radicali dell’ambiente economico, neutralizzando o riducendo i fattori che favorivano la persistenza delle forme tipiche di criminalità dell’isola. La soluzione presentata dalla Commissione stava quindi nella trasformazione della pastorizia nomade in attività di 25 allevamento stanziale. Bisognava fornire al pastore quella stabilità e quella sicurezza che possono derivare dalla certezza dei pascoli, attraverso attività di allevamento in imprese moderne. Premessa per ottenere questo risultato era affrontare il problema della proprietà dei pascoli, che solo per il 40% appartenevano ai pastori, favorendo in tal modo la persistenza di una pastorizia nomade e seminomade. Erano quindi necessari processi profondi di riforma, che portassero a far coincidere l’impresa pastorale con la proprietà dei pascoli. Ciò comportava il reperimento di terreni da accorpare e da migliorare, per essere poi assegnati in proprietà o in godimento ai pastori, singoli o associati. Il frutto di questa riflessione fu la legge 24/06/1974 n. 268, che aveva come asse portante la riforma agropastorale, nella convinzione che trasformare il pastore in allevatore e il passaggio dallo sfruttamento della fertilità naturale del terreno alla sua coltivazione razionale per sostenere il bestiame, fossero le chiavi di volta per modificare radicalmente l’economia delle zone interne e la cultura ad esse legata. Di conseguenza, agricoltura e pastorizia acquistano un ruolo centrale nella nuova programmazione derivante dalla L. 268. Si trattava di innescare un processo di modernizzazione e di razionalizzazione di un settore fondamentale dell’economia regionale. Nel 1975, la pastorizia 26 rappresentava il 25% della produzione agricola regionale e occupava il 33% degli addetti all’agricoltura. Anche le esportazioni ragionali erano alimentate in misura elevata dai vari tipi di formaggio: nel 1973 l’esportazione di prodotti zootecnici, ma in gran parte di formaggio, era aumentata del 411% rispetto al 1960. Rilevante era anche il peso dell’allevamento ovino e caprino nel quadro dell’economia nazionale. La Sardegna infatti era la regione con il maggior numero di ovini e caprini: si andava dal 23,5% e dal 22,7% rispettivamente del 1951, al 30,5 e 25,4 del 1961, al 23,5 e 29,1 nel 1975. Si trattava quindi di incidere profondamente su di un settore che produceva una quota rilevante del reddito regionale. La legge 268/1974 prescriveva la formazione di un “monte dei pascoli”, con terreni acquistati o espropriati, dando la priorità per gli interventi alle zone omogenee a prevalente economia pastorale, che erano state individuate con la legge del 1971. Per dar luogo ad una più estesa e più articolata partecipazione alla definizione dei programmi, voluta dalla L.R. n 33/1975, fu indetta una conferenza regionale, nell’aprile del 1976, cui parteciparono rappresentanti degli enti locali, delle organizzazioni sindacali, imprenditoriali e professionali, per discutere la proposta di programma predisposta dalla Giunta regionale. La conferenza fu preparata da una capillare consultazione popolare, che aveva avuto in Sardegna un unico 27 precedente: l’assemblea del popolo sardo organizzata dalle Camere del Lavoro nel 1950. Il programma triennale 1976-1978 rappresenta il primo intervento di aggiornamento del Piano di Rinascita e comprende, oltre al programma di intervento sui fondi della L. n. 268, politiche e azioni di coordinamento di risorse finanziarie provenienti dal bilancio ordinario della Regione, dai provvedimenti anticongiunturali del governo centrale, dalla Cassa per il Mezzogiorno e da altre assegnazioni dello Stato. L’asse portante della legge 268 era tuttavia rappresentato dalla riforma agropastorale, che fu specificata in termini operativi dalla LR n. 44/1976. Si individuò una superficie di 400.000-450.000 ettari suscettibili di sviluppo agropastorale, dislocati per il 46% in provincia di Nuoro, il 19% in quella di Cagliari, il 18% in quella di Oristano, il 17% in quella di Sassari. L’enorme complessità del processo di trasformazione della pastorizia si manifestò immediatamente attraverso le difficoltà sorte per la formazione del “monte dei pascoli”. Difficoltà che si possono rilevare dal fatto che la riforma agro-pastorale incise in misura minore proprio nelle zone interne. Infatti, nel 1986, a più di dieci anni dalla L 268, risultavano acquisiti al “monte dei pascoli” circa 16.000 ettari ed esistevano programmi di acquisizione per altri 26.000 ettari. Inoltre, la distribuzione provinciale dei terreni acquisiti vedeva al primo posto la provincia di Cagliari (75%), seguita dalla provincia di Nuoro (17%), da 28 quella di Sassari (8%), e da quella di Oristano (1%). La situazione non era molto diversa nel 1996, a più di venti anni dalla 268. In quell’anno i terreni acquisiti al “monte dei pascoli” ammontavano a circa 20.000 ettari, il 69% in provincia di Cagliari e il 17% in provincia di Nuoro. L’aspetto più rilevante di questo fallimento della riforma agro-pastorale sta nella difficoltà di rendere compatibili due obiettivi: quello politico-sociale di trasformazione della pastorizia da nomade in stanziale, e quello strettamente economico della nascita di aziende di allevamento efficienti. Il tentativo di conciliare questi due obiettivi, in una realtà caratterizzata da modelli sociali arcaici e da un assetto fondiario polverizzato e frantumato, fu un progetto ardito e ambizioso, che da un lato esprime un alto livello di progettualità, dall’altro rappresenta la causa ultima delle difficoltà incontrate. Con la politica di intervento pubblico, attuata mediante gli incentivi, l’apparato politico-amministrativo della Regione diventa arbitro della penetrazione delle risorse finanziarie pubbliche nel tessuto dell’economia regionale. Su di esso ricade il potere di individuare i canali attraverso i quali le risorse si diffondono nel sistema economico: si determinano cioè i settori interessati, le singole iniziative da incentivare, le aree territoriali da privilegiare, gli obiettivi da perseguire. Naturalmente vi sono vincoli da rispettare: il volume complessivo di spesa da destinare a determinati settori, o a determinati territori, che sono posti da leggi e dai diversi 29 livelli di contrattazione. Ma se si considera l’attività complessiva della Regione come un insieme di scelte, legislative da parte del Consiglio Regionale, esecutive da parte della Giunta e degli Assessori, operative da parte degli organi amministrativi, il quadro che emerge è quello di un apparato politico-amministrativo che controlla la spesa pubblica e la sua destinazione. Questa situazione comporta che l’intervento pubblico nell’economia regionale, al di là degli effetti strettamente economici, ha modificato radicalmente la società sarda, i rapporti sociali e politici, le relazioni fra ceti e classi sociali e la distribuzione del potere fra essi. Dato il ruolo essenziale che i trasferimenti hanno assunto nel determinare il livello degli investimenti e dei consumi in Sardegna, il controllo e la gestione di essi, assegna all’apparato politico-amministrativo un ruolo centrale nel determinare gli assetti economici, sociali e politici della società sarda. In precedenza, il livello dei consumi ed il tasso di accumulazione era sempre stato assai limitato a causa del basso livello di produttività del sistema economico regionale. In quelle condizioni, il reddito proveniva essenzialmente dall’agricoltura, dalla pastorizia, dall’attività mineraria e dal commercio. Consumi e accumulazione, sia pure in misura limitata, derivavano in gran parte da un elevato tasso di sfruttamento delle popolazioni agricole e successivamente dei minatori. Le classi che controllavano il limitato processo di accumulazione erano le classi dominanti della società 30 sarda, cioè la nobiltà feudale fino alla prima metà dell’Ottocento e successivamente i proprietari terrieri e la borghesia commerciale delle città. Con la politica dei trasferimenti pubblici, è possibile che il processo di accumulazione si sia ulteriormente depresso. I trasferimenti hanno assunto un peso preponderante, anche perché nel frattempo era entrata in crisi l’agricoltura tradizionale e l’attività mineraria. Questa circostanza, unita alla tradizionale debolezza della borghesia manifatturiera, ha comportato che agli agrari e alla borghesia commerciale come classi egemoni si sia sostituito l’apparato politico-amministrativo, una nuova classe, che sinteticamente si può chiamare classe politica. Il termine classe è giustificato da due circostanze: il personale politico-amministrativo esercita funzioni differenziate ma combinate per coprire l’iter complessivo dei trasferimenti; l’apparato politico-amministrativo controlla il grosso degli investimenti nell’economia regionale e quindi l’impiego dei mezzi di produzione. La trasformazione dell’apparato politico-amministrativo in classe politica è l’effetto più rilevante sul piano sociale dell’intervento pubblico nell’economia, certamente più duraturo degli affetti rilevabili con gli indicatori macroeconomici. Questa trasformazione ha sconvolto la struttura economica e gli assetti sociali e politici della società sarda, ha posto su nuove basi le relazioni fra l’apparato politico-amministrativo e le altre formazioni della società. 31 Questa situazione è il risultato dell’intenso processo storico-sociale che si è sviluppato nel corso degli anni dell’Autonomia, con aspetti notevoli di sviluppo economico e di progresso sociale. Le vecchie classi egemoni erano l’espressione di una economia e di una società arretrata, di cui era vistosa spia l’assenza di una borghesia manifatturiera. Per queste ragioni le vecchie classi egemoni non sono mai riuscite a innescare un processo di sviluppo per l’isola, paragonabile al livello medio di accumulazione dell’Italia postunitaria. É proprio dalla consapevolezza di questa situazione che derivò la politica dell’intervento pubblico nell’economia regionale. Lo sconvolgimento dei rapporti di classe, della natura delle classi e il ruolo della classe politica è entro certi limiti un risultato voluto dall’intervento pubblico, o perlomeno è strettamente conseguente ad esso. La situazione della Sardegna di oggi è ovviamente molto diversa non solo dal periodo dell’intervento pubblico nell’economia regionale ma anche dagli anni immediatamente successivi all’esaurirsi dei suoi effetti. Fra le modifiche intervenute si possono citare l’avvento dell’Unione Europea, i processi di globalizzazione che obbligano a confrontarsi con il resto del mondo, la finanziarizzazione dell’economia occidentale, la crisi che oggi attraversa le economie mature. Situazioni che complicano la nostra vita. Ma c’è anche la presenza in Sardegna di una borghesia manifatturiera, dotata anche di 32 attività con punte di eccellenza, in grado di competere su mercato nazionale e internazionale. Nell’immediato dopoguerra fu la classe dirigente a reinventare la questione sarda e a dotarla di strumenti operativi. La classe dirigente attuale, pur così diversa da quella per composizione e per ruoli svolti, ha nuovamente la responsabilità di ridefinire l’autonomia come progetto di autogoverno dei sardi, in presenza di mutate condizioni in Italia e nel mondo. Quello della classe dirigente regionale è più un problema di oggi che del recente passato. Nel dopoguerra regioni povere e regioni ricche erano alle prese con lo stesso problema, quello di innescare un processo di sviluppo; quindi le classi dirigenti delle diverse regioni avevano gli stessi obiettivi. Oggi le regioni economicamente forti hanno il problema di competere con altre aree forti dell’Europa e del mondo. La Sardegna e le altre regioni deboli, oltre a dover competere con altre economie, sono ancora alle prese con il problema dello sviluppo. Da ciò deriva la necessità di selezionare una classe dirigente che sia in grado di svolgere il proprio ruolo, di esprimere un nuovo progetto di autonomia, analogamente a ciò che fece la classe dirigente del dopoguerra. C’è anche un nuovo clima col quale deve misurarsi la classe dirigente regionale. Ci sono innanzitutto sono forti pulsioni accentratrici da parte dello Stato. C’è anche la diffusa idea che le Regioni a statuto speciale non servono a niente e bisogna 33 eliminarle. Gli esempi recenti di privilegi e corruzione in diverse Regioni, servono a corroborare questa idea. Tuttavia è bene chiarire una circostanza. La specialità nasce formalmente da un riconoscimento della Costituzione repubblicana, quindi da una concessione dello Stato. Ma sostanzialmente la specialità non è una concessione ma una realtà che esiste prima e a prescindere dal riconoscimento costituzionale. Essa nasce dalla struttura, dalla storia e dalla cultura delle Regioni speciali, quelle di confine e le altre. Nessuno può pensare di togliere la specialità senza una forzatura che altererebbe il patto che lega, attraverso la Costituzione, tutti i cittadini. Molte delle situazioni che hanno caratterizzato il periodo delle leggi di Rinascita non ci sono più; molte alternative sono venute meno, quelle positive e quelle negative. Ne cito 3: 1. La politica meridionalistica non c’è più; 2. La pianificazione/programmazione/ i poli di sviluppo, insomma la strategia per la crescita-sviluppo non esiste più; 3. L’UE è ancora presente e importante ma è indubbio che l’asse Nord/Sud per le politiche di sviluppo si indebolisce sempre più, si veda il caso della Grecia, e viene sostituito dall’asse Ovest/Est In queste condizioni, l’unica possibilità, piaccia o non piaccia, è la mobilitazione di forze endogene. All’interno di esse l’agricoltura e l’agroindustria acquistano 34 ovviamente un ruolo centrale. Diventa centrale il problema dell’assetto fondiario, della pastorizia nomade, dell’innovazione, della qualità dei prodotti, degli sbocchi di mercato. Per questo abbiamo scelto questo tema. La mia relazione ha solo il compito di richiamare le esperienze storiche recenti, di collocare la situazione attuale all’interno di un processo che non ha creato il vuoto, ma esperienze consolidate, negative e positive, errori e successi, ma da cui è necessario partire per delineare prospettive possibili per il presente e per il futuro della nostra terra. Per questo abbiamo interpellato alcuni attuali protagonisti dell’agricoltura e della pastorizia in Sardegna e abbiamo deciso di dare ad essi la parola. *Il presente testo è la riproposizione, con alcune revisioni, rielaborazioni e aggiornamenti, di uno scritto da me pubblicato nel 1998: L’avventura economica di un cinquantennio, in Aldo Accardo (cur.), L’isola della rinascita, Editori Laterza, Bari, 1998. 35 Perché c'è bisogno di una politica agricola «comune» a livello dell'UE? On. Salvatore Cicu, Europarlamentare Nell'UE sono presenti 12 milioni di agricoltori a tempo pieno. Complessivamente l'agricoltura e l'industria agroalimentare — che dipende in larga misura dal settore agricolo per i suoi approvvigionamenti — rappresentano il 6% del PIL dell'UE, 15 milioni di imprese e 46 milioni di posti di lavoro. Le aree rurali coprono oltre il 77% del territorio dell'UE (il 47% è infatti rappresentato da terreni agricoli, il 30% da foreste) e i loro abitanti, comunità agricole e altri residenti, rappresentano circa la metà dell'intera popolazione dell'Unione. L'agricoltura è un settore sostenuto praticamente esclusivamente a livello europeo, contrariamente alla maggior parte degli altri settori oggetto di politiche nazionali. È importante avere una politica pubblica per un settore che assicura la nostra sicurezza alimentare e che pertanto svolge un ruolo chiave nell'utilizzo di risorse naturali e nello sviluppo economico di zone rurali. Per assicurare condizioni eque attraverso un insieme comune di obiettivi, principi e regole, occorre una politica definita a livello europeo. Una politica collettiva consente di utilizzare i fondi disponibili in modo molto più 36 efficiente rispetto a un insieme disparato di politiche nazionali. Oltre alla gestione del mercato unico, vi sono altre questioni che vanno affrontate a livello transnazionale: la coesione tra i paesi e le regioni europee, le emergenze ambientali transfrontaliere, le sfide globali come i cambiamenti climatici, la gestione delle risorse idriche, la biodiversità, senza dimenticare problemi più specifici come la salute e il benessere degli animali, la sicurezza degli alimenti e dei mangimi, le questioni fitosanitarie, la salute pubblica e gli interessi dei consumatori. La politica agricola comune dell'UE vuole sostenere un'agricoltura che garantisca la sicurezza alimentare (nel contesto dei cambiamenti climatici) e promuovere uno sviluppo sostenibile ed equilibrato nell'insieme delle zone rurali europee, comprese quelle in cui le condizioni di produzione sono difficili. L'agricoltura è quindi chiamata a svolgere più funzioni: venire incontro alle esigenze dei cittadini per quanto riguarda l'alimentazione (disponibilità, prezzo, varietà, qualità e sicurezza); salvaguardare l'ambiente e assicurare agli agricoltori un tenore di vita dignitoso. Al tempo stesso, occorre preservare le comunità rurali e i paesaggi in quanto componente preziosa del patrimonio europeo. Contrariamente alle opinioni diffuse in alcuni paesi, l'attività agricola non è una miniera d'oro, anzi. L'investimento in tempo e denaro degli agricoltori è sempre alla mercé di fattori economici, sanitari ed atmosferici che sfuggono al loro controllo. L'agricoltura 37 richiede investimenti pesanti, sia umani che finanziari, che producono risultati solo diversi mesi, se non anni, più tardi e possono costantemente essere vanificati. Senza il sostegno pubblico, per gli agricoltori europei sarebbe estremamente difficile competere con gli agricoltori di altri paesi e continuare a soddisfare le esigenze specifiche dei consumatori europei. Inoltre, con l'accentuarsi dei cambiamenti climatici, il costo di un'agricoltura sostenibile è inevitabilmente destinato a crescere. La politica agricola comune permette agli agricoltori europei di soddisfare le esigenze di 500 milioni di persone. I suoi obiettivi fondamentali sono assicurare agli agricoltori un tenore di vita adeguato e garantire ai consumatori la costante disponibilità di prodotti alimentari sicuri, a prezzi accessibili. Oggi la Politica Agricola comune (PAC) tende a raggiungere 3 obiettivi: 1. una produzione alimentare efficiente; 2. una gestione sostenibile delle risorse naturali; 3. uno sviluppo equilibrato delle zone rurali nell'insieme dell'UE. I fondi della PAC sono impiegati per tre scopi principali: 1. Il sostegno al reddito degli agricoltori e al rispetto di pratiche agricole sostenibili: ricevono pagamenti diretti purché condizionati al rispetto di norme severe in materia di sicurezza degli alimenti, protezione dell'ambiente e salute e benessere degli animali. Questi pagamenti sono 38 interamente finanziati dall'UE e corrispondono al 70% del bilancio della PAC. La riforma del giugno 2013 prevede che il 30% dei pagamenti diretti sono legati al rispetto, da parte degli agricoltori europei, di pratiche agricole sostenibili, benefiche per la qualità dei suoli, la biodiversità e, in generale, per l'ambiente, come, ad esempio, la diversificazione delle colture, il mantenimento di prati permanenti o la conservazione di zone ecologiche nelle aziende agrarie. 2. Misure di sostegno al mercato: attività, ad esempio in caso di destabilizzazione dovuta a condizioni climatiche sfavorevoli. Questi pagamenti rappresentano meno del 10% del bilancio della PAC. 3. Le misure di sviluppo rurale: misure destinate ad aiutare gli agricoltori a modernizzare le loro aziende e diventare più competitivi, proteggendo nel contempo l'ambiente, a contribuire alla diversificazione delle attività agricole e non e alla vitalità delle comunità rurali. Questi pagamenti sono parzialmente finanziati dai paesi membri e corrispondono al 20% circa del bilancio della PAC. Questi tre ambiti sono strettamente legati e devono essere gestiti coerentemente. Ad esempio, i pagamenti diretti, che assicurano agli agricoltori un reddito stabile, costituiscono anche un compenso per i servizi da loro resi per l'ambiente, nell'interesse pubblico. Analogamente, le misure per lo sviluppo rurale favoriscono la 39 modernizzazione delle aziende incoraggiando la diversificazione delle attività nelle zone rurali. La Politica Agricola Comune 2014-2020 rappresenta una grande opportunità per l’agricoltura Italiana, in particolare per i giovani agricoltori e per chi si appresta ad avviare un’attività agricola. Il Bilancio della Politica Agricola Comune ammonta a ben 420 Miliardi di euro per il periodo di programmazione 2014-2020. Una tale politica è seconda solo alla Politica di Coesione dell’Unione Europea che vanta un bilancio di 508 Miliardi. In Italia, sempre nel corso del periodo 2014 - 2020 le aziende agricole potranno fare affidamento su ben 52 miliardi di euro tra Primo e Secondo Pilastro, così ripartiti: 27 miliardi circa destinati ai pagamenti diretti, quasi 21 per lo sviluppo rurale e 4 circa diretti agli interventi di mercato. Al bilancio della Politica Agricola comune si aggiungono inoltre le opportunità che l’Europa offre attraverso l’allocazione dei fondi a gestione diretta, vale a dire quei fondi che l’Unione Europea concede direttamente ai cittadini e che attraverso l’elaborazione di progetti rappresentano un potenziale di crescita, di innovazione e di creazione di nuovi posti di lavoro che certamente non possono essere trascurati. I più importanti per la regione Sardegna sono certamente i bandi diretti per le misure di promozione riguardanti i prodotti agricoli. 40 Ma vediamo più nel dettaglio cosa sono i bandi di promozione e quali obiettivi intendono perseguire. Il 22 ottobre 2014 il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato il regolamento (UE) n. 1144/2014 relativo ad azioni di informazione e di promozione riguardanti i prodotti agricoli realizzate nel mercato interno e nei paesi terzi. L’obiettivo generale delle azioni di informazione e di promozione consiste nel rafforzare la competitività del settore agricolo dell’Unione. Gli obiettivi specifici delle azioni di informazione e di promozione sono i seguenti: migliorare il grado di conoscenza dei meriti dei prodotti agricoli dell’Unione e degli elevati standard applicabili ai metodi di produzione nell’Unione; aumentare la competitività e il consumo dei prodotti agricoli e di determinati prodotti alimentari dell’Unione e ottimizzarne l’immagine tanto all’interno quanto all’esterno dell’Unione; rafforzare la consapevolezza e il riconoscimento dei regimi di qualità dell’Unione; aumentare la quota di mercato dei prodotti agricoli e di determinati prodotti alimentari dell’Unione, prestando particolare attenzione ai mercati di paesi terzi che presentano il maggior potenziale di crescita; 41 ripristinare condizioni normali di mercato in caso di turbative gravi del mercato, perdita di fiducia dei consumatori o altri problemi specifici. Pubblicazione in italiano dei bandi Il bando integrale per i PROGRAMMI SEMPLICI 2016 (una o più organizzazioni dello stesso Stato Membro) per azioni di informazione e di promozione riguardanti i prodotti agricoli realizzate nel mercato interno e nei paesi terzi è pubblicato sulla gazzetta ufficiale al seguente indirizzo: http://eur-lex.europa.eu/legalcontent/it/TXT/PDF/?uri=OJ:JOC_2016_041_R_0003 Il bando integrale per i PROGRAMMI MULTIPLI 2016 (organizzazioni di diversi Stati Membri) per azioni di informazione e di promozione riguardanti i prodotti agricoli realizzate nel mercato interno e nei paesi terzi è pubblicato sulla gazzetta ufficiale al seguente indirizzo: http://eur-lex.europa.eu/legalcontent/it/TXT/PDF/?uri=OJ:JOC_2016_041_R_0004 I bandi per il 2017, saranno pubblicati a gennaio 2017, e successivamente ogni anno. 42 Prof. Giuseppe Pulina, Ordinario di Agraria Università di Sassari 43 La pastorizia sarda fra passato e futuro1 Prof. Giuseppe Pulina, Ordinario di Agraria Università di Sassari Premessa Il pastoralismo è uno degli aspetti distintivi della Sardegna. Rimasto quasi immobile per millenni, il mondo agropastorale isolano ha subito una repentina evoluzione a partire dalla fine del secolo XIX, con l’introduzione della tecnologia di trasformazione del latte ovino in Pecorino Romano, e una ulteriore accelerata dal secondo dopoguerra per effetto delle grandi trasformazioni economiche e sociali che hanno interessato l’Isola. Recentemente sono stati pubblicati due libri sull’argomento: il primo scritto da me, in collaborazione con Gavino Biddau, dal titolo “Pascoli, pecore e politica: 70 anni di pastorizia in Sardegna (EDES, Sassari 2015), dal quale è stata estratta la prima parte di questo scritto; il secondo, di gran lunga più corposo e completo, “Formaggio e pastoralismo in Sardegna” edito dalla ILLISSO (Nuoro, 2015), al quale si rimanda per ogni 1 Lavoro effettuato nell’ambito delle attività della Commissione di studio dell’Associazione per la Scienza e le Produzioni Animali (ASPA) “Scenari zootecnici” [ZooScenari Lab.0] di cui G. Pulina è coordinatore nazionale. 44 doveroso approfondimento del tema. Il secondo capitolo di questo scritto, tratterà degli scenari futuri del settore agropastorale della Sardegna in riferimento a quello italiano, con specifico riferimento alla produzione di latte ovino. 1. Breve storia recente del pastoralismo in Sardegna La Sardegna è un’Isola il cui paesaggio è forgiato dall’attività pastorale. Ampie superfici a pascolo erbaceo, estese aree occupate dai Meriagos, fitto reticolo di muri a secco, emergenze architettoniche primordiali, latte ovino e suoi derivati quale principale produzione agricola sono elementi che tendono a identificare l’immagine della Sardegna con quella dei suoi pastori. Se la pastorizia ha rappresentato, fin dalle epoche protostoriche, una delle principali, se non la principale, attività degli abitanti dell’Isola, il secondo dopoguerra e le profonde trasformazioni sociali ed economiche che si sono succedute fino ai nostri giorni hanno comportato un’evoluzione, non sempre positiva, ma carica di significati, del pastoralismo e degli assetti sociali a esso legati. La Sardegna che riemerge dalla guerra è una terra che non ha subìto le devastazioni che hanno interessato gran parte dell’Europa e quasi tutta l’Italia. A parte i bombardamenti su Cagliari e dintorni del 1943 e quelli su Olbia e Alghero del maggio dello stesso anno, le campagne e gli altri centri 45 abitati non limitrofi ai bersagli principali, furono risparmiati. Il che significò che il sistema agricolo e il tessuto urbano, invero molto povero, potettero immediatamente riprendere l’attività interrotta dall’evento bellico. I cittadini avevano riscoperto il mondo pastorale durante la guerra per effetto del fenomeno dello “sfollamento”: i rifugiati, provenienti soprattutto da Cagliari, furono ospitati nei centri della Barbagia e si sfamarono nel lungo e freddo inverno del 1943, rimasto famoso negli annali della Sardegna come “s’annu ‘e su famine”, con carni e formaggi soprattutto ovini. Gli anni ’50 furono, per il mondo della pastorizia, un susseguirsi di sogni e delusioni, legati principalmente ai moti per la distribuzione delle terre ai contadini, che sfociarono, nelle aree migliori, nella confisca, bonifica, appoderamento e consegna dei poderi da parte dell’Ente di Trasformazione Fondiaria e Agraria della Sardegna (ETFAS), che cambiò letteralmente il volto di vaste plaghe dell’Isola e consentì l’accesso alla terra di una cospicua frazione di contadini e pastori che iniziarono un nuovo percorso di vita, i cui risultati sono visibili ancora oggi nelle zone di Arborea e della Nurra di Alghero. Contemporaneamente, la lotta alla malaria, promossa dalla fondazione Rockefeller e condotta dall’Ente Regionale Lotta Anti Insetti della Sardegna (ERLAAS), liberava l’Isola dalla millenaria plaga consentendo, con la bonifica di vaste aree paludose, l’instaurarsi di una agricoltura e di un insediamento umano in zone fino ad allora considerate insalubri. Ѐ il periodo delle prime transumanze senza ritorno in quanto 46 nuclei familiari provenienti dall’interno iniziarono a colonizzare e a stabilirsi nelle aree dei Campidani, della Nurra e delle piane di Olbia. La pastorizia uscì dal primo decennio postbellico sostanzialmente immutata rispetto agli assetti anteguerra, ma con un anelito di modernizzazione che si rivelerà il fattore chiave dell’esodo dalle imprese armentizie e che sarà uno dei motivi portanti della dinamica del settore agropastorale dei successivi lustri. Il decennio è anche caratterizzato dalla vasta emigrazione che colpì soprattutto i ceti meno abbienti e, fra i pastori, le storiche figure bracciantili dei servi pastori i quali, agli albori degli anni ’70, saranno praticamente scomparsi dagli ovili della Sardegna. Il decennio del boom economico italiano è stato caratterizzato da varo di due piani di rinascita. Per quanto riguarda il primo, la logica dell’intervento, basata sul concetto dei poli di sviluppo, aree a elevata concentrazione industriale che sarebbero dovute servire da volano per lo sviluppo complessivo del territorio regionale, si mostrò immediatamente insufficiente a innescare la rivoluzione industriale che, a oltre 150 anni dal resto dell’Europa, avrebbe dovuto investire la Sardegna. La scelta di impiantare l’industria petrolchimica, struttura produttiva ad alto investimento di capitale ed elevato impatto ambientale, quale impresa leader, comportò una momentanea sensazione di benessere, registrata dal forte inurbamento delle cittadine di Sarroch e Porto Torres, ma saturò immediatamente l’esigenza di nuovo lavoro, anche a causa dell’elevata 47 specializzazione richiesta alle maestranze e difficilmente riscontrabile nelle aree rurali della Sardegna. Il polo di Ottana, l’ultimo nato nell’ordine e sopranominato da subito Cattedrale nel Deserto, più degli altri registrò un reclutamento delle maestranze nel mondo pastorale: le cronache di allora raccontano del disagio di molti pastori che, venduto il gregge, si rinchiudevano per 8 ore al giorno in un ambiente malsano, costretti dal sogno di un tenore di vita subitaneamente (e purtroppo in modo effimero) diventato consono ai tempi che cambiavano rapidamente ed esigevano modernità. Negli stessi anni si affermava un fenomeno delinquenziale noto con il nome di banditismo. I fermenti degli anni ’50 e la mancata rivoluzione industriale dei primi anni ’60 generarono un profondo senso di malessere in gran parte della società rurale delle zone interne dell’Isola tagliata fuori, se non isolata, dai processi di modernizzazione che investivano repentinamente le due maggiori città dell’Isola, i comuni costieri interessati dalla nascente industria turistica e gli assi di comunicazione fra le grandi concentrazioni urbane. La figura del pastore, una volta cardine degli assetti sociali delle aree interne della Sardegna, divenne un epiteto da indirizzare verso coloro che si mostravano meno proni ad assecondare la modernità dilagante, tanto da isolare la comunità degli allevatori di pecore e capre dal resto della società. Su questo substrato si sviluppò l’industria del sequestro di persona, solitamente gestita da esponenti della piccola o media borghesia inurbata e praticata da manodopera 48 reclutata negli ambienti pastorali. L’estensione del fenomeno e il ripetersi degli episodi criminali, diversi dei quali si risolvettero purtroppo con la morte o la scomparsa dell’ostaggio, obbligarono lo stato a una reazione feroce che portò a una vera e propria occupazione militare dell’Isola e finì con conflitti a fuoco sanguinosi e l’arresto di noti esponenti del banditismo, da molti anni latitanti. I fenomeni malavitosi e la reazione dello Stato indussero il Parlamento, nell’autunno del 1969, ad approvare una legge per la costituzione di una commissione di inchiesta sul fenomeno del banditismo in Sardegna presieduta dal Senatore Giuseppe Medici. Gli esiti dell’indagine, dopo due anni e mezzo di lavori, sancirono che soltanto "un integrale piano di sviluppo capace di investire in pieno il mondo agro-silvopastorale", che interessasse "tutta la vita culturale e sociale delle comunità barbaricine", sarebbe stato l’antidoto al dilagare dei fenomeni malavitosi nell’Isola. Fu così varato il secondo piano di rinascita, nel 1974, con al centro la riforma agro-pastorale e con una dotazione finanziaria di 600 miliardi di lire. Alla denominazione dell’assessorato per l’agricoltura fu da allora aggiunta la qualifica “e riforma agropastorale” che oggi, a distanza di quasi mezzo secolo dal varo e dal fallimento della stessa, ancora mantiene. Ma altre trasformazioni hanno in quegli anni interessato il mondo agropastorale isolano. La pastorizia in Sardegna è stata per lungo tempo esercitata su terreni di proprietà collettiva o su terreni privati per i quali i pastori pagavano 49 un canone annuo (o mensile, nel caso delle stoppie di cereali), di solito corrisposto sotto forma di prodotti dell’allevamento. La proprietà fondiaria era una forma di possesso poco diffusa e non consona alle modalità di conduzione degli allevamenti che prevedeva la monticazione (spostamento degli animali fra pianura e montagna nella stessa area) e la transumanza (spostamento delle greggi per lunghe distanze) per assicurare alle pecore la risorsa foraggera stagionale in grado di sostenerne la produzione di latte. La riforma agraria e la creazione della Cassa per la formazione della proprietà contadina (istituita nel 1948) consentirono anche in Sardegna la nascita di numerose piccole proprietà coltivatrici e l’ingrandimento delle dimensioni delle proprietà, soprattutto di quelle pastorali. Negli anni ’60 si verificò una sensibile estensione delle aree pascolive che incorporarono quelle un tempo destinate alla cerealicoltura e quelle pianeggianti irrigabili o potenzialmente tali; ciò fu dovuto anche al favorevole andamento dei prezzi dei prodotti ovini, come meglio esposto nei successivamente. Poiché sino agli anni ’60 i latifondisti pretendevano un affitto pari a una remunerazione fondiaria del 7% circa, al pastore comprare conveniva più che prendere in affitto un terreno, in quanto la Cassa per la proprietà contadina consentiva di acquisire le terre in 30 anni a un tasso annuo pari a metà del valore d'affitto. Comprarono, però, solo quelli più informati sui contributi e sovvenzioni pubbliche. Ѐ tuttavia con la legge sugli affitti dei fondi rustici del 1971, nota come De 50 Marzi-Cipolla, che il secolare conflitto di interessi tra i proprietari della terra e i proprietari delle greggi mostrò una svolta fondamentale. Con tale legge, infatti, centinaia di migliaia di ettari cambiarono proprietario e molti pastori si stabilizzarono nelle pianure formando aziende moderne. Questa sedentarizzazione degli allevamenti permise l’avvio degli investimenti aziendali (i cosiddetti miglioramenti fondiari), costituiti soprattutto dalla costruzione di ovili razionali e dal miglioramento dei pascoli, dall’introduzione della meccanizzazione per la messa a coltura di superfici prima occupate dalla macchia mediterranea, ma soprattutto per la coltivazione dei cereali foraggieri (erbai di orzo e avena) a ciclo autunnoprimaverile più produttivi del pascolo naturale. Gli erbai, infatti, mostravano un utilizzo versatile per le aziende pastorali, in quanto durante l’inverno rappresentavano un’importante fonte di approvvigionamento di erba da pascolare direttamente con gli animali e in primavera potevano essere destinati alla produzione di granella, oppure alla produzione di fieno come scorta foraggera. Queste trasformazioni agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso portarono alla maturazione di un processo di apprezzamento del latte iniziato circa un secolo prima con l’avvio della produzione su larga scala del Pecorino Romano. Infatti, alla fine del XIX secolo l’arrivo in Sardegna dei primi industriali romani comportò per la pastorizia un radicale cambiamento: in quegli anni, infatti, si allargò all’Isola la produzione industriale di un formaggio salato laziale, il Pecorino Romano, fatto 51 esclusivamente con il latte di pecora, venduto molto bene negli Stati Uniti e in Argentina. Questo prodotto si impose immediatamente come una commodity in quanto facilmente trasportabile e conservabile e disincentivò i pastori dalla trasformazione domestica del latte per la produzione del tradizionale formaggio ovino, il Fiore Sardo. Il Pecorino Romano subì nel corso del XX secolo varie crisi di sovrapproduzione e conseguentemente di prezzo, ma la semplicità del processo caseario e il consolidamento dei mercati transoceanici lo resero, nel secondo dopoguerra, il prodotto di riferimento dell’industria casearia privata e cooperativa della Sardegna. L’inserimento del Pecorino Romano fra i prodotti dell’UE per i quali era prevista una restituzione all’esportazione, il ciclo economico espansivo, trainato dalla new economy digitale, che caratterizzò l’economia americana degli anni ’90, congiuntamente al rafforzamento del valore del dollaro sulla lira dovuto alla crisi finanziaria dell’Italia, contribuirono a spingere il prezzo del latte ovino verso valori mai raggiunti prima. La conseguenza fu un accelerarsi dei processi di acquisto di terre da parte dei pastori con un contemporaneo forte rialzo dei valori fondiari e il drenaggio di parte degli utili dal reinvestimento per l’ammodernamento degli allevamenti ad altri settori, in particolare quello edilizio. I pastori ristrutturarono le loro case nei paesi di residenza, cambiandone il volto, e acquistarono immobili nelle maggiori città per destinarli principalmente a residenza 52 per lo studio dei figli. Il periodo delle vacche grasse però non durò a lungo. La buona posizione di mercato del Pecorino Romano, che spostò ingenti masse di latte verso questo prodotto e ne causò una sovrapproduzione, e la riforma della PAC, che inizialmente ridusse e poi abolì le restituzioni alle esportazioni, esposero la stragrande maggioranza della produzione del latte ovino della Sardegna a un crollo dei prezzi che raggiunse il minimo storico agli albori del nuovo millennio. I sistemi politico e produttivo cercarono di reagire con il varo di un massiccio piano di investimenti strutturali che comportò l’ammodernamento degli edifici e degli impianti aziendali per renderli coerenti con le nuove norme sulla qualità del latte. Ma l’investimento di maggiore rilevanza fu quello diretto all’introduzione degli impianti di mungitura meccanizzata e della refrigerazione del latte. In pochissimi anni si assistette all’abbandono della modalità primigenia di estrazione del latte ovino, la mungitura a mano (molte volte operata all’aria aperta in recinti di frasche), per passare a quella meccanizzata capace di migliorare il benessere del pastore e di garantirne l’aumento dell’operatività. Dalle 120-150 pecore mungibili giornalmente a mano, si passò alle 250-300, con importanti ripercussioni sulle consistenze aziendali dominabili dalla singola unità operativa e l’avvio di importanti processi di accorpamento di imprese o di acquisizione di greggi dismessi da pastori ritiratisi dall’attività. 53 Fu anche un periodo di grave malessere per il sistema lattiero-caseario sardo, crisi aggravata dal flagello della blue tongue che si abbatté sull’Isola agli albori del nuovo millennio e che comportò la morte o la soppressione di mezzo milione di capi ovini e caprini, malessere che sboccò in manifestazioni e proteste dei pastori, inizialmente sostenute dalle organizzazioni tradizionali (Coldiretti, Confagricoltura e Confederazione Italiana Agricoltori - CIA) e successivamente sfociò in movimenti autonomi di rivendicazione, il più rilevante dei quali fu il Movimento Pastori Sardi di Felice Floris e Fortunato Ladu. Nato alla fine degli anni ’90 del XX secolo, sulla scia dei COBAS del latte che avevano infiammato le campagne lombarde per combattere il trust delle quote latte europee, il Movimento mostrò subito ambizioni politiche, tanto da sganciarsi immediatamente dalle grandi confederazioni rappresentative del mondo agricolo e agire motu proprio nei confronti della politica regionale e nazionale. I leader del Movimento si resero subito conto dell’importanza dei media, tradizionali e nuovi, per il sostegno e la propaganda a favore del movimento: qualsiasi iniziativa, e tante se ne contano nella pur breve vita del sodalizio, fu da allora accompagnato da un clamore mediatico, sia tradizionale per mezzo di una bravissima addetta stampa, sia innovativo con l’apertura di pagine su Internet e su Facebook. L’eclissarsi delle rivendicazioni pastorali non ha spento i riflettori sui leader del MPS, presi dalla tensione di formare una rappresentanza politica, almeno di spessore 54 regionale, o di unirsi alle frange indipendentiste che sempre più ne agitano il panorama politico. Se un risultato è stato raggiunto dal Movimento in oltre due decenni di battaglie, è stato il riconoscimento ufficiale del pastore sardo quale elemento politico attivo e la sua collocazione fra i portatori di interessi reali organizzati nel panorama sempre frastagliato delle rappresentanze sociali isolane. La profonda crisi del Pecorino Romano, stretto fra sovrapproduzione e cancellazione delle restituzioni all’esportazione, comportò un crollo del prezzo del latte ovino che, a metà del decennio, si attestò a valori vicini ai 50 cent al litro (circa la metà del massimo prezzo raggiunto nel decennio precedente). Le analisi dei bilanci delle imprese agropastorali mostrarono che tale livello era insostenibile in quanto rappresentava circa la metà del costo medio di produzione del litro di latte. Il rischio di default per il sistema era diventato reale. Lo schiacciamento del reddito da lavoro, vero ammortizzatore dei momenti di crisi del prezzo del latte, non sembrò ai tempi sufficiente per arginare un crescente indebitamento delle imprese pastorali verso i fornitori e verso le banche. I debiti a breve termine raggiunsero il 75% della produzione lorda vendibile e, sommati a quelli a medio termine, superarono di gran lunga il fatturato annuo delle aziende. L’Assessorato all’Agricoltura colse il suggerimento che arrivò dal Dipartimento di Scienze Zootecniche dell’Università di Sassari: proporre, nell’ambito del Piano di Sviluppo Rurale in corso, una misura sul benessere animale tarata in modo tale da 55 consentire un premio pari a 19,4 euro per pecora. La misura, predisposta dal suddetto Dipartimento con l’ausilio dell’agenzia regionale LAORE Sardegna e gestita di concerto con l’Associazione Regionale Allevatori della Sardegna (ARAS), si rivelò un successo e consentì, nella temperie delle crisi, la sopravvivenza delle aziende armentizie, il miglioramento della salute degli animali (soprattutto la riduzione delle mastiti subcliniche) e l’adeguamento tecnologico di migliaia di impianti di mungitura sparsi per il territorio regionale. La riuscita dell’intervento fu tale da indurre l’Assessorato per l’Agricoltura a vararne nel 2010 una nuova versione, sempre sotto consiglio degli studiosi dell’Università di Sassari, tutt’oggi in fase di piena attività. Uno degli effetti più rilevanti della misura sul benessere animale, unitamente alla efficacia dell’azione dell’ARAS, è stato il miglioramento della qualità del latte ovino che, a oggi, si trova allineato agli standard europei di carattere sanitario e tecnologico. Tale miglioramento ha consentito, tra le altre cose, un’apertura alla diversificazione delle produzioni lattiero-casearie che consentono a tutto il settore la possibilità di modulare le produzioni anche in relazione al contingentamento del Pecorino Romano auspicato da più parti. Tuttavia, per certi versi inaspettatamente, le quotazioni del Pecorino Romano hanno iniziato a crescere nel biennio 2013-2015, fino a superare nei mercati internazionali quelle di formaggi italiani più blasonati quali il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano. Se questo evento 56 da un lato ha portato un effimero sollievo a un comparto compresso dalle decennali diseconomie, dall’altro ha richiamato ingenti quantità di latte verso questo latticino: già alla fine della stagione 2015/16 il prezzo del Pecorino Romano registrava fortissime flessioni (-27% sul mercato nazionale) e l’allarme lanciato dalle confederazioni sindacali degli allevatori, Coldiretti in testa, sfociava in un contenzioso con i trasformatori, ancora in corso, sul prezzo del latte. Poiché la Sardegna è stata per molto tempo, e resta tutt’ora, la regione del mondo a più alta specializzazione ovina da latte, il futuro della pastorizia sarda sarà legato inscindibilmente alla capacità che avrà la filiera agropastorale di rinnovarsi e consolidare la propria leadership sui mercati internazionali. Il prossimo capitolo sarà dedicato a questa analisi, in una prospettiva nazionale. 2. Le prospettive del sistema ovino da latte Sardo nel contesto italiano e internazionale L’Italia, e la Sardegna, sono indiscutibilmente leader mondiali nell’esportazione di formaggi ovini (Figura 1) Il grafico mostra anche alcune anomalie legate agli importanti volumi di export dell’Olanda e il saldo commerciale elevato e paritario del Lussemburgo, a dimostrazione che quote rilevanti di pecorino prodotto nel nostro Paese sono commercializzate da piattaforme residenti in altri Stati dell’Unione. 57 USA e Germania si presentano quali maggiori importatori mondiali (Figura 2), relegando ad un ruolo marginale gli altri Paesi. Tuttavia, occorre rilevare che metà circa del latte ovino mondiale è prodotto in Cina e una quota importante in Turchia; ma che queste sono destinate esclusivamente all’autoconsumo. Figura 1 – Import-export di formaggio pecorino nei Paesi europei. 58 Figura 2 – Principali importatori di formaggio ovino nel mondo. Il mercato mondiale del pecorino si mostra finora fortemente polarizzato (due players, Italia e Francia e due importer, USA e Germania); tuttavia, recentemente la Cina sta iniziando una campagna di apertura di mercati in Nuova Zelanda, in cui stanno nascendo nuove imprese ovine da latte, e anche in Sardegna, per acquisire quote di prodotto disidratato da destinare all’alimentazione infantile; la Spagna, inoltre, con una aggressiva campagna commerciale incentrata sul formaggio Manchego, sta conquistando importanti quote di prodotto da tavola sul mercato nordamericano. La Sardegna è la regione italiana di gran lunga più specializzata nella produzione del latte ovino: la metà del patrimonio nazionale è allevata nell’Isola (Figura 3) e in essa si producono circa i 2/3 del latte nazionale (Figura 4). 59 La consistenza dei capi allevati, dal trend storico, sembra destinata a calare al 2025 sia in Italia che in Sardegna. A questo trend si adegua anche la produzione del latte che soltanto nelle ultime annate ha risentito di una leggera inversione a causa del miglioramento del prezzo del prodotto. Figura 3 – Andamento del patrimonio ovino nazionale e proiezione al 2025 60 Figura 4 – Andamento della produzione di latte ovino in Italia Pur rappresentando il latte ovino una quota pari al 3,5% di quella di latte bovino nazionale, i due settori mostrano una profonda differenza, analizzata nella Tabella 1. Se il bovino da latte è una economia a prevalente carattere nazionale, tecnologicamente avanzata, concentrata in alcune aree e che soffre della concorrenza internazionale, l’ovino è un allevamento diffuso sul territorio, a bassa tecnologia e a forte inclinazione all’esportazione. Purtroppo, la fragilità degli assetti agropastorali italiani e la mancanza di politiche specifiche di settore, stanno portando all’abbandono degli allevamenti e alla conseguente diminuzione della potenzialità produttiva del sistema. 61 Tabella 1 – Raffronto fra settori bovino e ovino da latte in Italia. Il prezzo del latte ovino all’ovile è senz’altro uno dei temi più caldi del dibattito agricolo della Sardegna. É importante anche sul piano nazionale per le pesanti influenze che il prezzo praticato sull’Isola ha per i contratti chiusi nelle altre regioni. Il primo approccio per la definizione di un prezzo di una materia prima quale è il latte, è la determinazione del prezzo di succedaneità, che rappresenta il valore al quale due beni simili possono essere sostituibili. Nel nostro caso, essendo una quota di produzione di pecorino (semicotti e i freschi) in concorrenza con analoghi latticini vaccini nella grande distribuzione organizzata, questo esercizio indica il punto di equilibrio fra i due latti. L’analisi del prezzo di 62 succedaneità fra latte ovino e latte bovino, calcolata sui valori medi delle sostanze casearie utili (SCU; grasso e proteine) è la seguente: a) Il latte bovino contiene mediamente 70 g/L di SCU (Grasso + Proteine) b) Il latte ovino contiene mediamente 125 g/L di SCU (Grasso + Proteine) Il valore di succedaneità fra i due latti è perciò di 125/70 = 1,8, il che significa che se il prezzo del latte bovino è di 40 cent/L, quello ovino dovrebbe essere di 0,72 cent. Se superiore, rappresenta il “valore proprio” del latte ovino, se inferiore, denuncia l’inefficienza del sistema pastorale. Il Pecorino Romano rappresenta, come abbiamo detto, il principale formaggio ovino prodotto nel mondo. La sua importanza risiede nel fatto che alla sua produzione è indirizzato circa il 30% del latte ovino munto in Italia e che dai suoi corsi dipende, pertanto, in maniera determinante il prezzo del latte italiano. Purtroppo, come è possibile verificare dalla Figura 5, gli andamenti delle produzioni di Pecorino Romano hanno subito oscillazioni elevate, chiaro risvolto della totale mancanza di una minima programmazione. 63 Figura 5 – Andamento della produzione di Pecorino Romano. A queste oscillazioni ha fatto eco la quota di latte ovino sardo destinata a questo latticino, che ha mostrato lo stesso andamento. Il che significa che non sono stati gli allevatori a creare problemi di sovrapproduzione, come è evidente dalla produzione calante registrata nelle Figura 4, ma la mancata programmazione della fase di trasformazione (Figura 6). Come già accennato nel capitolo precedente, ad una breve fase di prezzi alti della vendita di Pecorino Romano, e di relativi prezzi elevati per il latte ovino, è seguita recentemente una fase di rapida recessione, con il crollo del prezzo del 27% negli ultimi mesi della campagna 2015/2016 e l’apertura delle contrattazioni per il latte 64 dell’annata 2016/2017 attestate a meno della metà dei saldi ottenuti nelle due annate precedenti. Tuttavia, il mondo vuole sempre più latte. Dalle proiezioni FAO, riportate nella Figura 7, risulta che la domanda di questo alimento è in forte crescita e che si prevede ne siano necessarie 230 milioni di tonnellate in più da oggi al 2035. Il che, tradotto in termini di latte ovino, che rappresenta il 3,5% della produzione mondiale, significa che ci sarà necessità di un quantitativo ulteriore di circa 8 milioni di tonnellate, pari a 2,5 volte l’attuale produzione di latte della Sardegna. Una prateria sconfinata da conquistare, a patto che si sappia prendere per tempo questo treno in corsa. Figura 6 – Quota di latte ovino sardo destinato alla produzione di Pecorino Romano 65 Figura 7 - Andamento delle produzioni mondiali di alimenti di origine animale dal 1967 e proiezione al 2030 (FAO, 2015). Al fine di valutare il trend di produzione del latte ovino nazionale (del quale, ricordiamolo, il latte sardo è la quota preponderante), ho elaborato una proiezione sulle serie storiche, tenendo conto delle variabili rilevanti che hanno influenzato nel passato l’andamento produttivo di questa derrata: il patrimonio di pecore da latte, il PIL, la popolazione residente e la % trasformata in Pecorino Romano. L’equazione che è risultata, calcolata con la tecnica StepWise, è la seguente: LATTE (q/anno) = 0,353 PECORE (n.) – 101,8 POPOLAZIONE (X1000) + 4,44 PIL (€x1000) + 16947 PECORINO ROMANO (% latte) [Sqr = 82%; Sqr pred = 52%]. Ho sviluppato l’equazione al 2025 applicando due livelli (alto e basso) di proiezione della popolazione residente 66 italiana, ottenuti dal modello DEMO dell’ISTAT, utilizzando il trend decrescente del patrimonio ovino ottenuto dalla serie storica, risolvendo per tre livelli di incremento annuo del PIL (basso 0,5%, medio 1% e alto 2%) e ipotizzando due valori della quota di latte trasformata in Pecorino Romano a livello nazionale (40% e 50%). I risultati della proiezione sono riportati nella Figura 8, per sviluppo della popolazione basso, e nella Figura 9, per lo sviluppo alto. Figura 8 – Proiezioni della produzione del latte ovino nazionale al 2025 con scenario ISTAT di sviluppo della popolazione basso (PIL B,M,H = PIL 0,5%, 1%, 2% anno; PR 40,50 = quota di latte destinato a Pecorino Romano) 67 Il modello dice che PIL e quota di latte destinato a Pecorino Romano sono i principali drivers dell’evoluzione produttiva e che con uno sviluppo della popolazione alto, le prospettive produttive tendono a peggiorare per tutti gli scenari indagati. Tuttavia, in tutti i casi la tendenza generale delle curve è in crescita, il che significa che il settore ha ancora margini di espansione anche in relazione alle sole variabili di natura interna. Figura 9 – Proiezioni della produzione del latte ovino nazionale al 2025 con scenario ISTAT di sviluppo della popolazione alto (PIL B,M,H = PIL 0,5%, 1%, 2% anno; PR 40,50 = quota di latte destinato a Pecorino Romano) Ho infine esplorato tre scenari di tipo qualitativo, con previsione al 2025 dello stato di salute del sistema ovino 68 da latte italiano: business as usual, che configura condizioni future simili a quelle storiche recenti; open market, che ipotizza una ulteriore apertura dei mercati internazionali; regionale, che preconizza una chiusura progressiva dei mercati internazionali e una frammentazione a livello regionale degli stessi. Il primo esercizio è riportato nella Tabella 2. Tabella 2. Primo esercizio di scenario per il latte ovino italiano al 2025 con tre ipotesi. La tendenza generale, per un settore fortemente dipendente dalle esportazioni, non può che essere negativa se non in presenza di una ulteriore apertura dei mercati (il che significa che anche in presenza di un trend generale di chiusura, la ricerca specifica di nuovi mercati diventa una priorità). La governance dei sistemi di trasformazione, in questa prospettiva diventa cruciale, così come la necessità di maggiore competitività del settore, soprattutto sul versante della produzione unitaria per capo e 69 dell’efficienza delle imprese pastorali. Uno schema di governo della filiera è riportato nella Figura 10. In sintesi, il patrimonio ovino da latte italiano può orientarsi alle produzioni tipiche locali (in Sardegna il Pecorino Sardo e il Fiore Sardo), sfruttando le razze locali (in Sardegna anche gli ecotipi della razza Sarda specifici delle regioni geografiche interne) con sistemi di allevamento pascolivi estensivi e le relative politiche di sostegno del reddito tipiche dei programmi rurali per le aree svantaggiate; sul versante dei formaggi industriali, occorre trovare il continuo punto di equilibrio fra quote destinate al Pecorino Romano, per le quali sono adeguati i sistemi produttivi semiestensivi basati sul pascolamento e da adottarsi idonee politiche per l’export, e le quote destinate ai formaggi in competizione con i vaccini, per i quali è indispensabile sviluppare forme anche intensive di allevamento di alta efficienza e produttività. Figura 10 – Schema di governo del sistema ovino da latte Italiano 70 3. Conclusioni La pastorizia sarda ha subìto, dal dopoguerra a oggi, tali trasformazioni che le condizioni di origine sembrano tanto remote quanto incredibili. I drivers principali sono stati la stabilizzazione aziendale, l’aumento, a volte anche notevole, del capitale bestiame dominato dal singolo allevatore, la mercantilizzazione quasi totale della produzione, la meccanizzazione aziendale, l’introduzione delle tecnologie alimentari, sanitarie e di gestione in grado di migliorare decisamente il livello di vita dei lavoratori e l’apertura della pastorizia verso ambiti di servizio una volta esclusivo appannaggio dei compendi naturalistici o dei parchi. Sul versante delle prospettive va rilevato che il latte ovino rappresenta una quota limitata della produzione mondiale e che l’Italia, all’interno della quale la Sardegna gioca il ruolo determinante, è leader mondiale nell’export dei formaggi pecorini Tuttavia, il settore soffre di arretratezza e mancanza di politiche specifiche, per cui il futuro è legato a scelte chiare e di sistema per cui da ultimo dei sistemi agricoli, la pastorizia con l’ovinicoltura da latte può diventare uno degli asset strategici dell’agroalimentare italiano. Il futuro della professione pastore in Sardegna si presenta migliore del cinquantennio appena passato: un mercato del formaggio in via di espansione, nonostante i corsi delle esportazioni congiunturalmente in flessione, fanno ben 71 sperare per la conservazione del più importante settore produttivo agricolo isolano. La condizione è che la pastorizia rientri al centro dell’attenzione collettiva della Società sarda e che non sia relegata ai fatti di cronaca nera o alle proteste, a volte violente, degli allevatori per reclamare il sostegno per la loro sopravvivenza. 72 Pastoralismo in evoluzione, dal modello tradizionale a quello multifunzionale Prof. Benedetto Meloni e Prof.ssa Domenica Farinella, Sociologia del Territorio e dell’Ambiente Università di Cagliari 1. Il modello agro-pastorale tradizionale Il saggio2 ripercorre a grandi linee l’evoluzione dei sistemi agropastorali della Sardegna, focalizzando l’attenzione soprattutto sull’evoluzione dal secondo dopoguerra, 2 Il saggio si colloca nel lungo dibattito sulla pastorizia mediterranea e sarda, tra gli altri Le Lannou 1979; Salzman e Galaty 1980; Ortu 1981; Manconi e Angioni 1982; Ravis-Giordani 1983; Meloni 1984; Da Re 1982; Angioni 1989; Murru Corriga 1990; Fabietti e Salzman 1996; Bandino 2006; Mienties 2008; Mattone e Simbula 2011 ed il recente Mannia 2014. Le analisi presentate si basano su un lungo lavoro di ricerca empirica realizzato a partire dagli anni ottanta da Meloni in alcune aree interne (Barbagia centrale, Cixerri e Sarrabus-Gerrei) e su diverse ricerche attualmente in corso presso il Dipartimento di Scienze Sociali e delle Istituzioni dell’Università di Cagliari, dirette da B. Meloni e cui partecipano D. Farinella, E. Cois, M. Locci, E. Sois, M. Salis, C. Locci. Queste ricerche riguardano i cambiamenti nel pastoralismo contemporaneo e nella filiera agroalimentare, così come l’emergere di nuove imprese contadine e sono finanziate da diversi enti, tra cui la Fondazione Banco di Sardegna, la Regione Sardegna, la Camera di Commercio di Cagliari, il Ministro per la Ministro per la coesione territoriale. Si tratta di ricerche su ambiti micro (comunità locali o regioni storiche specifiche) realizzate a partire dalla costruzione di profili sociografici e dalla raccolta di storie di vita ed etnografie di casi aziendali. La raccolta di una grande mole di dati qualitativi su studi di comunità consente di generalizzare alcuni modelli idealtipici, estrapolando elementi di carattere generale e alcune tendenze del processo di cambiamento dei sistemi locali analizzati. 73 evidenziando le pratiche di gestione dello spazio e delle risorse, le forme di produzione economica, così come i fattori endogeni ed esogeni che hanno causato mutamenti nelle modalità di regolazione sociale, modificando i rapporti tra le diverse componenti delle comunità locali. A grandi linee, è possibile tracciare un processo di cambiamento dei sistemi agropastorali scandito dal susseguirsi di tre modelli di gestione delle risorse, in cui si verifica la transizione dal sistema tradizionale a quello attuale, attraverso meccanismi di disarticolazione di vecchie componenti e riassesto su nuove. Mediante un’analisi dell’evoluzione dei sistemi economici locali d’uso ed accesso alle risorse, intendiamo cogliere i mutamenti e le strategie messe in atto a livello locale, partendo dal presupposto che, sebbene esistano dei vincoli esterni, le forme di aggiustamento sono sempre specifiche dei diversi contesti territoriali. Le modalità con cui questi fenomeni avvengono mostrano continuità, non solo rottura, rispetto al sistema produttivo e riproduttivo tradizionale che si riorganizza, offrendo nuove opportunità rispetto al passato. Il termine “tradizionale” non assume qui contenuti valutativi, ma fa riferimento a una relativa stabilità nel tempo (fino agli anni ’50), dei sistemi economici locali, a una certa lentezza dei processi di trasformazione prima di quegli anni. In linea di massima è possibile affermare, con qualche approssimazione ed ai fini dell’individuazione di 74 modelli, che il sistema agricolo-pastorale si può definire tradizionale perché ha mantenuto caratteri di continuità e persistenza, tali per cui è possibile osservarne i tratti distintivi fino agli anni 50, sia attraverso i profili statistici che mediante i dati qualitativi (analisi delle storie di vita ed etnografie di casi aziendali). L’analisi del modello tradizionale diventa cioè essenziale per comprendere i modi della trasformazione e permette di porre al centro le “differenze originarie”, le specificità dei modi di produzione di determinate aree o sub-aree regionali così come si sono andate sedimentandosi attraverso estesi periodi storici (la lunga durata di cui parlava Braudel), come fattori fondamentali per comprendere i sistemi socio-economici distinti. L’approccio diacronico rivela poi la persistenza, anche se in forme mutate, di tratti peculiari dell’organizzazione socio-economica locale. Sebbene le rapide modificazioni intervenute a partire dal secondo dopoguerra sono profondamente connesse a pressioni macro-sociali esterne e sempre più inglobanti (ad esempio l’intervento dello stato o l’andamento dei prodotti nei mercati internazionali, come nel caso del latte ovino), questi elementi non sono in grado determinare meccanicamente e dall’esterno il cambiamento: l’evoluzione dei sistemi locali è il frutto di una combinazione originale tra fattori esterni e preesistente struttura socio-economica locale, in cui permangono pezzi, anche ampi, di economia locale che si 75 sottraggono a queste pressioni e che mostrano una certa capacità di resistenza e resilienza dei territori. Il punto di partenza è il sistema agropastorale tradizionale, in cui policoltura e complementarità tra allevamento ed agricoltura si saldavano con meccanismi regolati di gestione delle risorse basati su usi civici e terre comuni, e una gestione familiare dell’unità aziendale, organizzata secondo una divisione di genere del lavoro (con il pastore transumante che provvedeva al reddito, mentre il coniuge stanziale si occupava di riproduzione, all’interno di un quadro di economia domestica e di autoconsumo). Si trattava di un sistema rivolto essenzialmente alla sussistenza delle comunità locali. Il modello agropastorale tradizionale è stato prevalente nelle zone interne e centrali della Sardegna per tutto l’ottocento fino agli anni cinquanta del novecento. Come si evince dall’Angius (1853 in Puggioni 2010) per la Barbagia, lungi dall’avere un carattere marcatamente monopastorale, queste aree si contraddistinguevano per la policoltura e la complementarità tra un’agricoltura estensiva (con la prevalenza di cereali, soprattutto grano ed orzo, ma anche vite e, in misura molto più trascurabile, ulivo) e l’allevamento di ovicaprini, cui si affiancava in minore misura quello di bovini, suini ed equini (Meloni 1984; Bandinu 2006; Mienties 2008; Ortu 2011). Per esprimere la compresenza di agricoltura ed allevamento basta qui evidenziare la centralità della 76 coltivazione di seminativi anche in zone più interne e/o periferiche: ad esempio il comune collinare di Armungia, nella regione storica del Gerrei, nel 1929 destinava ben 2353 ettari, il 43% della superficie agraria disponibile ai seminativi, mentre erano dedicati al pascolo soltanto il 3,6% dei terreni (199,74). Nello stesso anno, Siliqua, nel Cixerri, riservava ai seminativi 8511 ettari, il 45,5% della SAU, mentre i prati e pascoli si fermavano a un 1,8. Infine Austis, nel Mandrolisai, al centro della Sardegna barbaricina e a forte vocazione pastorale, dedicava comunque ai seminativi il 17,2% della superficie agraria utilizzata. L’utilizzo dei suoli prevedeva una differenziazione in tre cinture che si allargavano per cerchi concentrici attorno al comune: la prima cintura, prossima alle zone centrali, era la più fertile e per questo destinata agli orti familiari, rigidamente delimitati da alte siepi in rovo. La seconda era costituita dai chiusi, recintati con muri a secco e siepi ed utilizzati sia per colture arboree che per la semina dei cereali. I chiusi erano coltivati con un sistema di rotazione ed erano ripuliti da cardi, rovi e pietre prima dell’aratura, in tardo autunno. La terza e più esterna fascia, chiamata salto, comprendeva le terre non chiuse (comunali ma anche private) e soggette a usi comunitari. Veniva utilizzata per lo più come pascolo, ma vi si praticavano anche forme di agricoltura estensiva. 77 Pastorizia e agricoltura si integravano reciprocamente per garantire l’ottimizzazione delle risorse disponibili e la sopravvivenza economica. Questa complementarità garantiva alla pastorizia vantaggi: - - Diretti, perché la messa a coltura dei suoli permetteva l’integrazione dello stock foraggiero spontaneo che era alla base dell’alimentazione del bestiame: a fine estate, quando il pascolo naturale scarseggiava le granaglie come l’orzo, ma anche le stoppie, il fogliame della vite e degli orti, i prodotti di scarto (pere, castagne, vinacce) permettevano il sostentamento degli animali. Indiretti: le operazioni connesse al ciclo agricolo, come l’eliminazione e bruciatura autunnale della macchia mediterranea (in particolare stoppie, cisto e cardi), l’aratura e l’estrazione delle radici di erica e corbezzolo, miglioravano la capacità produttiva dei suoli e la qualità delle erbe spontanee, contenevano poi l’espansione della macchia mediterranea, ostacolo al passaggio delle greggi. La complementarità era inoltre connessa all’uso delle terre comuni: siano esse comunali o gravate da usi civici, queste terre erano soggette a diritti di godimento da parte degli abitanti di un paese (Meloni 1984; Masia 2011; Mattone 2011), che riguardavano vari tipi di sfruttamento comunitario e promiscuo delle terre, con diritti di accesso 78 (a volte a titolo individuale, spesso a titolo collettivo), in particolare semina, pascolo, legnatico e ghiandatico. Fino agli anni ’50, mediante i Regolamenti d’uso comunali, si definiva annualmente la destinazione d’uso delle terre secondo un sistema di rotazione annuale che le divideva in coltivabili (il vidazzone, destinato alla semina) e pascolabili (il paberile, messo a riposo per un turno agrario) (Le Lannou 1979; Ortu 1981; Day 2004). Si delimitavano zone, tempi e percorsi, si fissavano le aree di sverno del bestiame e l’uso delle stoppie. La semina era preceduta dalle attività di bruciatura autunnale; ultimato il raccolto, i terreni del seminerio erano aperti al pascolo. La presenza di aree boschive non era un limite al pascolo, quanto una risorsa integrativa (legnatico e ghiandifero per i maiali). Sebbene il regolamento d’uso riconoscesse a tutti gli abitanti parità di diritti d’accesso ed uso, si era lontani da forme di egalitarismo; nella pratica questi diritti non erano godibili da tutti allo stesso modo ed erano connessi a forti stratificazioni sociali (Meloni 1984; 1996); ad esempio, solo poche famiglie erano in grado di coltivare i terreni comunali, spesso lontani dal centro abitato e per i quali era necessario possedere mezzi adeguati come il giogo, l’aratro, il carro e la manodopera. Ma le stesse famiglie non rivendicavano su quei terreni né diritto di recinzione, né di pascolo individuale. Si trattava cioè di terre aperte con diritto di sfruttamento agricolo individuale e familiare fino al raccolto, che tornavano indivise a raccolto 79 ultimato. Stesso discorso per il diritto di pascolo: soltanto chi disponeva di greggi medio grandi poteva attrezzarsi per pascolare in aree non limitrofe al paese, procurandosi mezzi di trasporto e manodopera sufficiente per la custodia del bestiame in terre aperte confinanti con quelle coltivate, oltre che mezzi per costruire un ovile. Nelle terre comunali esistevano ovili di famiglia che passavano di padre in figlio (diritto d’ovile), spesso collocati nei pascoli migliori vicino alle fonti d’acqua. I diritti che i singoli avevano ottenuto ed esercitavano, erano trasmessi ai discendenti, ma non erano un attributo esclusivo dell’appartenenza, variavano a seconda della posizione dei singoli gruppi familiari, in una scala che andava da coloro che possedevano diritto di semina e di ovile a coloro che, pur non essendo esclusi dal diritto sulla terra, non disponevano né di bestiame, né di mezzi di produzione né di alleanze sufficienti ed andavano quindi a lavorare alle dipendenze di altri. In virtù del complesso meccanismo di scambio, la pastorizia, soprattutto di ovicaprini, ma anche di maiali, era mobile. Accanto agli spostamenti verso i diversi saltus nelle aree di pertinenza del proprio comune (che comportavano l’assenza in paese del pastore anche per settimane), si realizzavano transumanze (brevi e lunghe), in genere nei periodi invernali dalle zone più alte e interne verso quelle meno fredde di pianura e/o costiere (Ortu 1988; Angioni 1989). Come osserva Le Lannou (1979), le transumanze servivano a preservare l’integrità degli ovini 80 sardi, fragili alle intemperie, ma anche a garantire terreni aggiuntivi per il pascolo, sopperendo così all’insufficienza tipica delle aree interne. La gestione della transumanza e la necessità di rispondere a bisogni ed imprevisti che potevano verificarsi lungo il tragitto, portava il pastore a costruire legami, alleanze più o meno stabili e forme di cooperazione (Meloni 1984). Oltre ad accordi informali, basati su amicizia e relazioni di reciprocità, esistevano meccanismi di regolazione più formali che istituzionalizzavano per periodi limitati la collaborazione, come le compagnie di pascolo, attraverso le quali pastori proveniente da famiglie diverse univano le proprie greggi, per raggiungere una dimensione ottimale di impresa e coordinare le complesse operazioni connesse alla transumanza. Alle compagnie si affiancavano vari tipi di contratto che legavano le famiglie di pastori e stabilivano gradi differenziati di messa in comune delle risorse disponibili. Terra, lavoro e bestiame si combinavano secondo modalità contrattuali molto articolate, volte a garantire l’autonomia dei singoli gruppi familiari. Contrariamente all’immaginario stereotipato del pastore individualista, solu ca fera (Pigliaru 2006), i pastori erano consapevoli dell’importanza di condividere risorse che isolatamente erano antieconomiche. La messa in comune avveniva dentro assetti regolativi specifici (Meloni 1984), simili a quelli individuati dalla Ostrom (1990) volti a contenere l’opportunismo e il free-riding: una chiara definizione dei confini; una struttura 81 appropriata di gestione saldata su una congruenza tra regole di appropriazione/fornitura a partire dalle condizioni locali; canali formali ed informali di relazioni; metodi di decisione collettiva e sistemi di monitoraggio; norme e sanzioni efficaci e progressive; meccanismi di risoluzione dei conflitti; relazioni autonome interne al gruppo, con un livello di riconoscimento del diritto di autorganizzarsi. Si trattava tuttavia di una regolazione temporanea (scandita ad esempio dalla durata del contratto), che non originava strutture permanenti. Alcuni di questi caratteri originari sono traslati in modo diverso nell’allevamento odierno e nel sistema della cooperazione. Come vedremo nel par.3, le modalità di appoderamento lungo le vie della transumanza e il sistema delle relazioni che ne consegue sono in qualche modo tirati «fuori dal modello tradizionale della mobilità pastorale» (Meloni 1997, p.228). 2. Dal sistema agropastorale tradizionale al pastoralismo estensivo Tra la fine degli anni ’50 e gli anni ‘70 del novecento si delinea un processo di profonda trasformazione del sistema economico tradizionale che ha cause interne ed esterne. Tra i fattori esogeni, la concorrenza di cereali importati dall’esterno dell’isola e la modernizzazione agricola, mettono in crisi la cerealicoltura tradizionale tipica delle aree interne. Scompaiono velocemente le coltivazioni di 82 grano, orzo e leguminose. Contadini, carbonai, artigiani, vedono venir meno i meccanismi che permettono la loro sopravvivenza. L’abbandono della coltivazione nelle campagne comporta una progressiva estensione dei boschi e della macchia mediterranea, che causa a sua volta un aumento degli incendi, usati come mezzo di contenimento della macchia (Meloni e Podda 2013). Nello stesso periodo, la crescita della domanda di latte ovino per la produzione industriale di pecorino romano da esportazione da parte delle industrie locali, porta gli allevatori a dilatare la consistenza del patrimonio zootecnico: l’espansione della pastorizia si realizza tutta a scapito dell’agricoltura. In questa fase, molti contadini disoccupati, si riciclano nell’allevamento, numerosi pastori emigrano in altre regioni, alla ricerca di terre pascolabili. La pastorizia diventa il modo più diffuso di utilizzare le risorse foraggere spontanee ed i terreni abbandonati, senza operare trasformazioni fondiarie. Basti qui sottolineare che nelle terre comunali non si semina più a partire dagli anni sessanta e che anche le terre private vengono utilizzate solo per i pascoli, tanto che questi ultimi arrivano a coprire più del 90% della superficie agricola. Non diminuiscono solo le colture cerealicole ed ortive, ma anche quelle connesse alle attività di allevamento (orzo e foraggere). Cresce cioè il prelevamento delle risorse spontanee e decresce l’attività di trasformazione dei suoli, inclusa quella utile a rafforza le risorse pascolabili. Il risultato di questi mutamenti è la trasformazione dell’economia agropastorale in pastorale estensiva. 83 Nell’insieme non si verifica una riconversione strutturale delle modalità di utilizzo delle risorse spontanee e dei processi culturali zootecnici tramandati; al contrario, la permanenza e l’espansione pastorale avviene all’interno di un riassetto dell’economia, che perde una sua componente fondamentale, l’agricoltura, così come già anticipato nel precedente paragrafo. La scomparsa dell’agricoltura cerealicola e la dominanza pastorale sono cioè due facce di uno stesso fenomeno. Si osservi ad esempio come negli stessi comuni menzionati a titolo esemplificativo nel paragrafo precedente, si registri al Censimento dell’Agricoltura del 1970 una sistematica contrazione delle superficie agrarie destinate ai seminativi che segnala la crisi della cerealicoltura, accompagnata da una notevole crescita delle superfici a pascolo e prato permanente e del numero di ovini. Ad esempio nel comune di Armungia si passa dai 2353 ettari in seminativi del 1929 ai 55,7 del 1970 (97,6%), determinando la scomparsa di questa tipo di coltura nell’area; parallelamente diminuisce la superficie agraria utilizzata che si riduce dai 5472,1 ettari del 1929 ai 4878,3 del 1970 (-10,9%) e si incrementa esponenzialmente la superfice dedicata a prati e pascoli permanenti: dai 199,73 ettari del 1929 si arriva ai 4.712,23 del 1970 (+2259,3%). Fenomeni analoghi investono anche altre zone interne; il comune di Austis che tra il 1929 ed il 1970 vede decrescere la superficie in seminativi da 830 84 ettari a 166,7 (+80%) ed incrementarsi sia i prati e pascoli permanenti che da 3229 ettari si ampliano fino a 4240,4 (+31,3%), così come vede triplicare il numero di ovicaprini (da 3737 capi a 9378). O ancora, sempre tra il 1929 e il 1970, a Siliqua si registra una riduzione dei seminativi da 8511 ettari a 2267,4 (-73,4%), accompagnata da un ampliamento dei prati e pascoli permanenti da 331 a 11363,75 ettari (+3333,3%). Sebbene caratterizzati da diverse configurazioni dei sistemi locali (con maggiore o minore presenta di superfici vitate, boschi, specie diverse allevate, presenza o meno di attività minerarie, ecc.), tutti i paesi sembrano contraddistinguersi nel secondo dopoguerra per la drastica diminuzione dei seminativi e la parallela ascesa delle superfici a pascolo, decretando il passaggio dal modello agro-pastorale al pastoralismo estensivo. Il modello tradizionale entra in crisi anche per cause interne, arrivando nel corso del tempo a un livello di saturazione, legato soprattutto alla durevole scarsità di terra agricola disponibile da un lato, ed alla mancanza di investimenti fondiari e di innovazione tecnologica dall’altro. La divisione delle terre demaniali avvenuta dopo la metà dell’Ottocento con l’editto delle chiudende, le forme di appoderamento che ne sono conseguite (Bulferetti 1964; Ortu 1981; Mattone 2011), l’aumento delle terre messe a coltura, hanno contribuito a regolare, per un lungo arco di 85 tempo, il rapporto tra risorse disponibili prodotte a livello locale e popolazione presente, in assenza di fenomeni migratori. In altri contesti, i fenomeni migratori cominciano prima e l’allontanamento della popolazione eccedente è un elemento di regolazione per la sopravvivenza di quelle economie contadine caratterizzate da maggiore mobilità sociale e sistemi di eredità preferenziali: se il fondo non viene diviso e un solo figlio maschio eredita, tutti gli altri devono trovare lavoro altrove. Al contrario, in Sardegna il rigido sistema di divisione egualitario ha contribuito a mantenere nella comunità una popolazione più che raddoppiata nell’arco di cento anni, da metà dell’Ottocento fino al 1950. Il frazionamento progressivo era assorbito dall’aumento della superficie seminativa e dalla diversificazione delle attività, che così potevano soddisfare la domanda di terra connessa all’incremento della popolazione (Meloni 1984). Questo rigido sistema di divisione e l’aumento delle coltivazioni hanno influito sul sistema demografico e sulle modalità di utilizzo delle risorse, cosicché nell’arco di tre generazioni – tante sono quelle intercorse dalla divisione delle terre demaniali – l’emigrazione è stata trattenuta dalla ridistribuzione e dall’aumento relativo delle risorse. Tuttavia, nello stesso periodo, il ciclo espansivo è culminato con un estremo frazionamento dei terreni agricoli in proprietà, collegato a una elevata crescita della popolazione: in assenza di condizioni di lavoro alternative, la densità di forza lavoro sulla superficie agraria disponibile è diventata eccessiva, il sistema locale non è 86 riuscito più a garantire la sussistenza a tutti i suoi membri, anche per i cambiamenti negli stili di consumo (sempre più orientati al consumo di massa). Lo spopolamento e l’emigrazione, contadina prima e pastorale poi, hanno costituito a questo punto uno degli elementi di regolazione interna del rapporto risorse/popolazione, soprattutto in assenza di interventi miranti al miglioramento della struttura produttiva. Schematizzando, tra l’ottocento e la metà del novecento si osserva una relazione tra crescita demografica ed espansione delle colture cerealicole fino a un punto di saturazione, a partire dal quale si innesca una connessione tra regressione demografica, abbandono dell’agricoltura ed espansione della pastorizia. Dopo il 1960, con l’abbandono dell’agricoltura, i pastori si trovano a utilizzare da soli l’intero patrimonio di terre comuni. L’emigrazione e la contrazione degli occupati in agricoltura provocano l’isolamento del pastore dal contesto familiare e l’affievolirsi delle relazioni comunitarie. I pastori risentono della mancanza dell’agricoltura sia perché non dispongono di prodotti agricoli per il bestiame, sia perché peggiora la produzione e la qualità dei pascoli; senza l’intervento umano di ripulitura dei terreni, bruciatura annuale e aratura periodica si diffondono cisti, cardi, rovi e più in generale la macchia mediterranea. I Regolamenti d’uso perdono significato ed i pastori si impadroniscono delle zone senza 87 apportarvi miglioramenti fondiari; si accentua l’appropriazione individuale e si crea una situazione di assenza di regolazione, che favorisce il free-riding. Gli incendi, che aumentano esponenzialmente negli anni ’70, diventano così uno strumento di contenimento della macchia mediterranea ed un mezzo per aprire al pascolo i terreni abbandonati (Camba et al. 1973; Beccu 1986: Meloni e Podda 2013). Essi sono cioè utilizzati nella gestione del suolo nella transizione al sistema di allevamento estensivo come mezzo agronomico a basso costo che procura vantaggi immediati: permette alle pecore di nutrirsi dei semi contenuti nelle teste dei cardi rimaste a terra dopo il passaggio del fuoco, prepara i terreni per l’autunno quando le pecore possono nutrirsi dell’erba che rispunta dopo le piogge senza essere disturbate né dai residui dei pascoli estivi né dalla macchia. In questa fase di transizione dal modello agropastorale a uno pastorale estensivo, la crisi dell’agricoltura (e delle attività connesse di trasformazione dei suoli) provoca la rottura del tradizionale scambio reciproco tra questa e la pastorizia, sul quale si basava la ricostituzione delle risorse ambientali, il mantenimento degli spazi pascolabili, la produzione di foraggere ed altri alimenti integrativi del pascolo naturale, il contenimento della macchia mediterranea. Si verifica un deterioramento della qualità e quantità della foraggiera spontanea ed un aumento del prelevamento spontaneo, con un aggiustamento al minimo 88 del modello. Tuttavia, la persistenza e l’espansione pastorale evidenzia i suoi tratti resilienti, ovvero la sua capacità di adattarsi in modo flessibile ai mutamenti, riorganizzando le risorse ecologiche a disposizione in modo originale, senza snaturare la propria base strutturale (Holling 1973). Come evidenziato da Meloni (1984, p.138-40), iniziano a emergere forme di aggiustamento economico-sociale, in cui coesistono autonomia e dipendenza, continuità e mutamento, resistenza ed adattamento, all’interno dei quali la pastorizia si dimostra una soluzione adeguata per la valorizzazione dei suoli in aree marginali ed interne, abbandonate dai contadini. La domanda di prodotti agricoli da parte di consumatori sempre più esigenti delle grandi città, l'esistenza di un mercato locale e la vendita diretta, l'esportazione all'estero dove gli emigrati italiani hanno mantenuto le tradizioni alimentari dei luoghi d'origine hanno incentivato lo sviluppo di questo, come di altri settori di produzione, che richiedono forme tradizionali di lavoro e bassa intensità di capitali, fornendo rese che possono talvolta risultare competitive con i settori più sviluppati. Si creano in questo modo zone di produzione apparentemente anti-economiche, ma che sono in grado di occupare uno spazio in termini di appropriazione di risorse a basso costo e di mercato lasciati liberi dalle grandi aziende. L'aspetto fondamentale di questo nuovo assetto è costituito dalla possibilità di occupare mano d'opera familiare a tempo pieno o parziale. In questa 89 situazione le due caratteristiche che rendono scarsamente competitivo il settore contadino (bassa intensità di capitale e sopra-lavoro familiare) possono trasformarsi in elementi «positivi», qualora esista una situazione di mercato favorevole e la possibilità di usare risorse a basso costo. La «novità» di questo modello, come di altri analoghi, sta dunque nella capacità di riutilizzare tecniche tradizionali, risorse a basso costo o comunque a bassa intensità di capitale e mano d'opera familiare in un contesto mutato dall'economia di mercato (Meloni 1984, p.138-40). Lo sviluppo economico si configura così come un processo complesso, in cui non è possibile tracciare un’evoluzione lineare da forme e tecniche tradizionali contadino-pastorali a quelle capitalistiche; al contrario, le prime non soltanto sopravvivono, ma riescono persino a ritagliarsi degli spazi interstiziali, in cui le aziende imprenditoriali e standardizzate, ponendo le basi per quella riemersione del modello contadino di cui parleremo nel par. 4. 3. La pastorizia, tra sedentarizzazione e dipendenza dall’industria lattiero-casearia La pastorizia sarda, in concomitanza con i processi descritti nei paragrafi precedenti, negli anni ’70 è attraversata da cambiamenti strutturali profondi che portano a un processo di sedentarizzazione ed appoderamento dei pastori 90 transumanti, con la stabilizzazione del modello di pastoralismo estensivo. Tale processo è il risultato di fenomeni interni ed esterni, come l’emigrazione dei contadini sardi e l’abbandono delle terre collinari, il consolidarsi dell’industria lattiero-casearia, la maggiore stabilità del mercato internazionale dei prodotti lattierocaseari ed un incremento della domanda (anche per effetto delle politiche della CEE), che permettono una buona remunerazione del latte e l’accumulo di capitale da parte dei pastori. Questi si stanziano nelle pianure e nelle colline una volta cerealicole, formando aziende moderne; migliaia di ettari cambiano proprietario (Cubeddu 2003). In risposta alla stabilizzazione fondiaria e all’acquisizione di terre migliori i pastori si dedicano a pratiche agricole. Si conclude così quel processo di conquista del mondo pastorale, già individuato negli anni ‘40 da Le Lannou (1979). L’appoderamento viene poi incoraggiato anche da alcune politiche pubbliche della seconda metà del novecento. Dapprima la legge sulla piccola proprietà contadina del 1954, quindi la legge De Marzi Cipolla del 1971, infine le politiche previste dal nuovo Piano Rinascita del 1974 (Sechi 2002). Il piano assume alcuni risultati della Commissione d’inchiesta Medici del 1969 che vedeva nel modello socioeconomico agro-pastorale transumante, non soltanto la causa del mancato sviluppo e dell’arretratezza delle comunità, ma anche l’emergere dei fenomeni criminali che si verificano in quegli anni (Pinna 1970; Brigaglia 1971; Pigliaru 2006). Per questo, l’obiettivo prioritario del piano era la riforma del 91 sistema agro-pastorale, anche mediante il finanziamento di progetti che favorissero la trasformazione dell’allevamento ovino da nomade a stanziale, stabilizzando di fatto il fenomeno dell’appoderamento. In seguito a questa riforma, aumentarono ulteriormente i terreni usati a pascolo brado, portando il numero degli ovini sardi dai 2.500.000 circa della metà degli anni Sessanta ai 4.500.000 degli anni Ottanta (Brigaglia, Mastino e Ortu 2002). Un ruolo fondamentale nell’appoderamento è giocato dalla crescita dell’industria di trasformazione lattierocasearia (Le Lannou 1979; Idda, Pulina e Furesi 2010; Sassu 2011). La nascita dei primi caseifici industriali specializzati nella produzione del pecorino romano è databile nella seconda metà dell’Ottocento alcuni imprenditori laziali, in seguito alla crisi della pastorizia abruzzese, spostano in Sardegna le proprie industrie (Ruju 2011; Sassu 2011). Già agli inizi del Novecento si contavano nella regione più di 160 caseifici (Ruju 2011; Le Lannou 1979); accanto ai caseifici industriali si sviluppano quelli cooperativi, come tentativo di emancipazione delle aziende pastorali dal settore industriale, in seguito alle prime tensioni tra allevatori e produttori sul prezzo del latte (Porcheddu 2004; Di Felice 2011). I caseifici cooperativi mettono in atto strategie isomorfiche nei confronti delle esistenti aziende industriali, producendo quasi esclusivamente Pecorino Romano da esportazione, venduto a grossisti per la commercializzazione o agli stessi industriali, non avendo 92 contatti diretti con i mercati (Di Felice 2011, Pulina et al. 2011; Ruju 2011; Porcheddu 2004). I caseifici cooperativi rappresentano una realtà importante della trasformazione industriale isolana, basti qui ricordare che negli anni ‘70 producevano ormai il 40 % del Pecorino Romano in Sardegna (Ruju 2011), sebbene il loro andamento sia stato altalenante nel corso del Novecento: dopo gli anni ‘30 sono diminuiti; nel 1953 erano attive in Sardegna 15 cooperative, 13 latterie sociali e 17 Gruppi pastori, ma pochissimi possedevano stabilimenti di salatura e stagionatura propri. Nel 1956 si contavano 18 cooperative casearie che svolgevano l’intero ciclo di lavorazione, di queste quattro erano concentrate nell’Alto Oristanese (le Latterie sociali di Bonarcado e Ghilarza e i Gruppi pastori di Seneghe e Santu Lussurgiu) (Gentile 1954). Con il piano di Rinascita, i caseifici sociali tornano a crescere: nel 1967 arrivavano a 120; tra le cooperative fondate in quegli anni vi è anche la oristanese CAO (Cooperativa Allevatori Ovini), che sarà destinata a diventare il più grande caseificio cooperativo sardo. L’introduzione della lavorazione industriale rivoluziona la filiera produttiva e il processo di commercializzazione del formaggio (Le Lannou 1979, Pulina et al. 2011). Cambiano il tipo di produzione e i mercati di destinazione. La principale produzione diventa il pecorino romano, un formaggio a pasta dura, di grande pezzatura (circa 20 kg), ricco di sale marino, grazie alle richieste che arrivano dal resto d’Italia e dall’estero, soprattutto dagli Stati Uniti, un 93 mercato che cresce lungo tutto il novecento, nel quale il pecorino viene utilizzato come formaggio da mescola per insaporire altre preparazioni. Secondo Ruju (2011, p.957), tra il 1919 e il 1928 la Sardegna ha ricavato in media 200 mila euro annui dall’esportazione. Cambiano anche le modalità di produzione: in passato pastore effettuava la trasformazione del latte direttamente nell’ovile, producendo per lo più il tradizionale fiore sardo, formaggio a latte crudo a pasta dura, affumicato e stagionato dai 16 ai 18 mesi, dal peso di 2-3 Kg, destinato alla vendita nell’isola e in misura minore nei mercati italiani, soprattutto meridionali, e francesi. Con l’avvento dell’industria casearia, i pastori smettono di trasformare il latte e diventano conferitori di latte agli industriali, non senza tensioni sul prezzo: «Da allevatore, produttore e commerciante il pastore si riduce quasi esclusivamente a mungitore; restano sulle sue spalle gli aspetti passivi dell’allevamento, ma quelli dai quali può trarre guadagno, la trasformazione e la vendita, sono ormai controllati prevalentemente da altri. Sarà il pastore d’ora in poi a subire le conseguenze di ogni crisi di mercato, crisi che l’industriale potrà affrontare con la manovra del prezzo del latte contro il pastore» (Porcheddu 2003). La pastorizia va incontro in quegli anni a una grave perdita di expertise artigianale connesso alle attività di trasformazione, mitigata da un lato da un relativo mantenimento di piccole produzioni per autoconsumo familiare, dall’altro da alcune eccezioni rappresentate da 94 pastori di montagna che continuano, soprattutto nei mesi estivi, la produzione di fiore sardo. Nello stesso periodo si rafforza nell’isola la selezione delle razze da latte, che ha come esito una pecora specializzata nella produzione di latte (Coinu 1964; Pulina et al. 2011). Tra gli anni ’70 e i primi anni ’90, la crescita sostenuta del Pecorino romano nei mercati e la buona remunerazione del latte (Idda, Pulina e Furesi 2010) comporta un rafforzamento dell’industria lattiero-casearia ed un aumento del patrimonio zootecnico ovino che si accompagna al consolidamento del modello estensivo di allevamento, non senza alcune ombre. Il modello industriale perseguito si basa sulla realizzazione di economie di scala, attraverso la produzione di elevate quantità di questo formaggio, altamente standardizzato ed a basso costo. Si tratta di un modello al ribasso, in cui i margini di profitto sono dati dalla concorrenza sul costo che, a sua volta, implica la necessità di aumentare il livello delle produzioni. Per non erodere i livelli di produttività, le industrie avviano processi di concentrazione che permettano di valorizzare le economie di scala (produrre di più a un minor costo). Tuttavia, l’eccesso di offerta finisce alla lunga per originare un circolo vizioso: il prezzo del latte (e del formaggio) tende ad abbassarsi, producendo una rincorsa continua al gigantismo, per contrastare l’erosione del reddito. Questa dinamica di incremento dimensionale è visibile sia nelle aziende di trasformazione che in quelle di 95 allevamento (aumento del gregge) ed è favorita anche dalle politiche agricole settoriali e dai meccanismi di incentivazione degli anni ottanta, che veicolano una concezione della qualità del latte legata alla pastorizzazione, alla standardizzazione e all’abbattimento della carica batterica. Inoltre, sebbene dal secondo dopoguerra, nascano diverse aziende private di dimensione medio-piccola e si rafforzino alcune cooperative di trasformazione create da allevatori, sono le grandi aziende di trasformazione a dettare le condizioni di produzione. Le imprese più piccole, cooperative e private, restano dipendenti dalle grandi aziende, per le quali operano in conto terzi ed alle quali vendono la maggior parte del prodotto; non arrivano ai mercati finali, non sviluppano marchi propri ed autonomi né politiche di commercializzazione, restano concentrate sulla sola fase di produzione. Si tratta di una grave carenza di cui il settore lattiero-caseario risente ancora oggi. Questo comparto dagli anni ’70 in poi si fossilizza in una monoproduzione (pecorino romano) ed in un monomercato (prevalentemente gli USA) basati su una concorrenza di costo che tende a fragilizzare gli attori più deboli della filiera (piccoli trasformatori ed allevatori), sui quali, a partire dagli anni ’90 si scaricheranno gli andamenti altalenante del prezzo del latte sul mercato globale (Meloni e Farinella 2015; Idda, Pulina e Furesi 2010). 96 Dalla metà degli anni novanta, il settore lattiero-caseario è stato colpito da una persistente crisi, determinata sia da un’elevata volatilità delle commodity agricole sul mercato globale3, che da una tendenza a un costante decremento del prezzo, laddove i costi di produzione (mangimi, elettricità, gasolio…) sono aumentati, soprattutto in seguito alla crisi economica del 2008. La crisi è stata aggravata negli ultimi anni (fino al 2013) dal crollo delle esportazioni nel mercato storicamente più importante, quello americano. Come sintetizza Sassu (2011, p.1038 e ss.) «il mercato americano del pecorino romano è cresciuto a ritmi sostenuti per oltre trent’anni, passando ad esempio da 14,9 Miliardi di Dollari del 1990 ai 26, del 2005, con un saggio di crescita del formaggio sul mercato americano del 44,4% nel periodo 1995-2005». In quegli stessi anni, la Sardegna conquista una quota sempre maggiore delle produzioni di pecorino romano (a discapito del Lazio), diventando maggiormente dipendente da questo tipo di produzione. Tuttavia, dal 2000 inizia una lenta parabola discendente per il pecorino romano che perde quote di questo mercato sia per la competizione con prodotti analoghi provenienti da altri paesi europei (Francia, Spagna, Grecia e Bulgaria), sia per la sua sostituzione con un prodotto in parte realizzato con latte vaccino dalle imprese locali. Tra il 2006 ed il 2009, il pecorino romando DOP italiano importato nel mercato 3 La commodificazione dei beni agricoli sul mercato globale produce il fenomeno dello schiacciamento del reddito agricolo (McMicheal 2013) 97 americano passa da 18.200 tonnellate a 13.000 (-28,3%) (Idda, Furesi, Pulina, 2010). Dal 2010 inizia una lenta ripresa delle esportazioni, ma il prezzo del latte continua a scendere intorno ai 60-65 centesimi medi al litro, causando il ridimensionamento e la chiusura di molti allevamenti (già provati dai ripetuti focolai dell’epidemia di lingua blu). Soltanto a partire dal 2012 il prezzo del latte inizia una leggera ripresa, attestandosi nel 2013 con quotazioni attorno ai 72-75 centesimi, che sono ulteriormente cresciute negli ultimi due anni, fino ad arrivare in qualche caso anche a un euro al litro. Va tuttavia sottolineato che il recente aumento del prezzo del latte è un effetto della diminuzione delle quantità circolanti provocato dal ridimensionamento del settore che si era verificato negli anni precedenti. Il rallentamento delle esportazioni sul mercato americano degli ultimi anni aveva cause strutturali, come il cambiamento degli stili di consumo (minori quantità di formaggio consumate e più attenzione ai formaggi freschi e molli), la fine del cambio favorevole dollaro/lira, con l’introduzione dell’Euro, il progressivo venire meno del meccanismo delle restituzioni comunitarie per le esportazioni destinate al mercato americano e canadese che aveva in passato stabilizzato artificialmente il prezzo. Tuttavia è stata la scelta di una via bassa alla competitività aziendale, incentrata su aumento dei volumi produttivi ed abbassamento del prezzo a generare quel circolo vizioso che è culminato con una caduta del prezzo del latte, 98 l’erosione del reddito delle aziende pastorali e la conseguente espulsione di quelle più deboli dal mercato. Molte aziende di allevamento e trasformazione che hanno rincorso il gigantismo per sostenere una concorrenza basata sul costo, hanno visto crescere i costi fissi dell’azienda e la dipendenza dagli input esterni (come carburante, elettricità, spese di irrigazione dovute a periodi di siccità, ecc.), sono inoltre andate incontro a problemi di commercializzazione. L’erosione del reddito pastorale e le tensioni sul prezzo del latte sono state al centro delle rivendicazioni del Movimento dei Pastori Sardi (Pitzalis e Zerilli 2013; Colombo 2013). 4. Verso un agropastorale nuovo modello multifunzionale ed La crisi tuttavia ha in un certo senso accelerato il riassesto del sistema produttivo, dimostrando ancora una volta una grande capacità di resilienza e riaggiustamento del modello pastorale. Questi aspetti emergono anche da un’analisi dell’andamento dell’agricoltura e del settore zootecnico regionale tra il Censimento dell’Agricoltura 2000 e quello 2010. Seguendo un trend italiano (Fanfani e Spinelli, 2012), la Sardegna si è caratterizzata per un processo di concentrazione ed ammodernamento aziendale delle imprese agricole e zootecniche in particolare: diminuisce 99 il numero di aziende, ma aumenta la Superficie Agraria Utilizzata che nel periodo 2000-2010 passa da 1 019 958 a 1 152 756 ettari (+13,1%, contro un -2,5% nazionale). Si incrementa inoltre in media la SAU per azienda, che nel 2010 è di 19 ettari, contro gli 8 nazionali; sono proprio le imprese di piccolissime dimensioni (e quindi più fragili) a ridursi, segno di una ottimizzazione della dimensione aziendale. Continuano a essere prevalenti le aziende individuali ed a conduzione diretta da parte del coltivatore (il 97,4%), con prevalente ricorso a manodopera familiare. Si amplia il numero di aziende a conduzione femminile che passano dal 19,8% del 2000 al 23,9% del 2010. Inoltre, seppure continuino a essere prevalenti le fasce più elevate di età tra i conduttori, si osserva un incremento dei giovani (fino ai 49 anni, che si aumentano dal 28,5& al 32,1%), così come cresce il livello di istruzioni dei conduttori. La naturale vocazione del territorio all’allevamento si è rafforzata al punto da individuare la principale specializzazione produttiva regionale: nel 2010 ben l’83% della SAU era riservata ad attività connesse all’allevamento. In particolare, oltre ai 35896,9 ettari di terreni a riposo, 228.258 ettari sono riservati alle foraggere avvicendate, che sono cresciute sensibilmente negli ultimi 30 anni (+53,4% nel periodo 2010-1982 e +11,9% tra il 2000 e il 2010). Esteso anche il terreno utilizzato come prati e pascoli permanenti che nel 2010 era pari a 692 781 ettari, registrando un +32% rispetto al 2000. Le aziende zootecniche rappresentano il 33,8% delle aziende agricole 100 (ben al di sopra della media italiana, ferma al 13,4%), che pongono al quarto posto la Sardegna nella graduatoria nazionale che valuta il peso delle aziende zootecniche su quelle agricole. A questo si aggiunga che il 37,8% le aziende che possiedono pascoli e prati permanenti ed il 27,8% dedica parte della propria SAU alla produzione di foraggere avvicendate. Da un lato quindi si rileva un incremento di attività agricole connesse all’allevamento, dall’altro il numero di aziende zootecniche si è molto contratto tra i due censimenti, ma la diminuzione si è accompagnata a una crescita della dimensione media aziendale e, nel caso ovicaprino, del numero dei capi. Questi elementi quindi esprimono un rafforzamento del settore che è stato trainato in grande misura dall’allevamento ovino: mentre la consistenza del patrimonio bovino resta pressoché stabile nel decennio 2000-2010 (252 658 +0,9% dal 2000)4, mentre diminuisce a livello nazionale (-4,5%), quella ovina si incrementa di +7,8% nello stesso periodo e di ben il 27,7% rispetto al 1982: con 3 028 373 di ovini al 2010 la Sardegna copriva il 43,4% del patrimonio ovino nazionale. La riduzione del numero di aziende ha comportato un allargamento del numero medio di capi ovini per azienda che sono passati dai 132 del 1982 ai 239 del 2010, un valore molto più alto dei 132 italiani. 4 Va tuttavia considerato che a livello nazionale si assiste a una diminuzione del numero di capi bovini del 4,5%. 101 Sul piano qualitativo si sono realizzati alcuni fenomeni concatenati. Da un lato, il ridimensionamento del numero di imprese di allevamento e la modifica delle strategie produttive delle aziende di trasformazione che hanno prestato una maggiore attenzione alla diversificazione produttiva ed alla produzione di pecorino romano dop e di qualità. Ne è derivata una certa ripresa del mercato del pecorino romano (e di conseguenza un aumento del prezzo del latte), stimolato dalle minori quantità circolanti. Dall’altro la crisi ha finito per produrre un processo di selezione delle aziende di allevamento: le aziende più fragili ed esposte finanziariamente sono state espulse, mentre quelle più solide sul piano patrimoniale ed organizzativo sono riuscite a resistere, ma si sono anche trovare di fronte alla necessità di ripensare il proprio modello organizzativo, per renderlo meno dipendente dal mercato globale e dalla trasformazione industriale, attraverso la strada della multifunzionalità agricola (Wilson 2007) che permette la differenziazione delle fonti di reddito. Le nostre recenti ricerche iniziate dal 2012 in diverse aree della Sardegna ed ancora in corso (cfr. nota 1), mostrano che sono diverse le aziende pastorali collocabili all’interno del fenomeno di riemersione del modello contadino di cui parla Ploeg (2008; Meloni e Farinella 2015) Dall’analisi delle storie di vita degli allevatori e dalle etnografie su casi aziendali specifichi, è emerso che le 102 aziende analizzate hanno proceduto a diverse innovazioni, spesso anche utilizzando gli incentivi e le opportunità legislative a disposizione: hanno acquistato i terreni (ad esempio con la Legge sulla piccola proprietà) e proceduto a miglioramenti fondiari (aumento della superficie irrigua del pascolo), hanno costruito le stalle per gli animali, comperato le mungitrici meccaniche, i refrigeratori per il latte ed altre attrezzature per accelerare il lavoro agricolo, hanno migliorato le tecniche di cura del bestiame, stimolati dall’opportunità di accedere ai contributi sul benessere animale (asse 2 del PSR)5. Molte di esse hanno smesso di conferire agli industriali per ritornare alla trasformazione diretta del latte, con il recupero di tecniche di lavorazione a mano (Salis 2013) e la costruzione di minicaseifici aziendali (grazie all’introduzione di nuove tecnologie che, come accaduto per le piccole imprese manifatturiere dei distretti industriali, rende competitiva la produzione artigianale, Meloni e Farinella 2013). I formaggi realizzati, prevalentemente a latte crudo, sono fortemente destandardizzati e territorialmente connotati, si qualificano e si distinguono per aspetti come la qualità del pascolo, il periodo di mungitura, il tipo di lavorazione eseguita (spesso certificata da appositi marchi riconosciuti, come la DOP, Slow Food, il biologico). 5 Fenomeni analoghi sono stati sottolineati anche da altre ricerche che hanno avuto per oggetto la Sardegna, in particolare cfr. tra gli altri cfr. dda, Pulina e Furesi 2010; Mannia 2014. 103 Molte aziende hanno poi avviato strategie di multifunzionalità: dall’approfondimento delle attività (con la chiusura della filiera produttiva tramite trasformazione e vendita diretta), all’ampliamento (con lo spostamento verso attività no-food che privilegiano la produzione di ruralità e di beni collettivi), fino al riposizionamento, con diverse meccanismi di integrazione e diversificazione del reddito, basate su pluriattività ed economie di reciprocità. Il rafforzamento delle attività multifunzionali ha il duplice obiettivo di permettere la diversificazione delle fonti di reddito (diminuendo la dipendenza dal mercato delle commodity) ed abbassare i costi aziendali. Tra le attività avviate a questo scopo si ritrovano l’autoproduzione di energia pulita tramite impianti fotovoltaici, la coltivazione di foraggere per integrare l’alimentazione degli animali, l’affiancamento all’allevamento ovino di altre forme di allevamento, la trasformazione del formaggio e/o di servizi rurali di vario tipo, mercificabili e non, come le attività agrituristiche, le fattorie didattiche, i servizi di pet therapy o di agricoltura sociale, il mantenimento della biodiversità e la cura del paesaggio. Le innovazioni sono state realizzate conservando la caratteristica peculiare ed identitaria dell’allevamento sardo che individua un vero e proprio vantaggio comparato rispetto ad altri territori: il sistema di allevamento estensivo e diffuso sul territorio, basato sul pascolamento a cielo aperto con integrazione di erbai. 104 Questo modello estensivo di allevamento ha diversi pregi: - - - - funge da presidio del territorio, caratterizzandolo sul piano paesaggistico; sta contribuendo a creare una nuova complementarità tra pastorizia ed agricoltura, come rilevato dall’ultimo censimento dell’Agricoltura che registra per la Sardegna un incremento della superficie media aziendale, accompagnato dalla crescita delle superfici dedicate a pascolo permanente e delle colture connesse all’allevamento; individua un sistema ecocompatibile sia in termini ambientali che economici; si tratta infatti di un modello adatto alle aree marginali ed interne (abbandonate dall’agricoltura “moderna”), in quanto parsimonioso nel consumo di risorse; coniugando l’attività di allevamento col rispetto dell’ambiente, può essere una risposta antica a problemi del futuro ed individua un vantaggio competitivo naturale della Regione (Meloni 2011); nelle zone più collinari e montane, dove il pascolo è più ricco e variegato, il pascolamento a cielo aperto permette una elevata qualità del latte, materia d’elezione per la produzione di formaggi particolarmente pregiati a latte crudo. Le aziende studiate valorizzano appieno le caratteristiche del modello di allevamento estensivo, aiutando a 105 preservare la biodiversità dei pascoli e dei prodotti, l’omologazione della produzione ed ad avviare strategie di competizione basate sulla distinzione qualitativa (Ploeg 2008), legata ad aspetti come le specificità territoriali e l’identificabilità d’origine dei prodotti, la qualità organolettica, i contenuti di innovazione, ma anche di expertise artigianale. Questi fenomeni sommariamente descritti presentano tratti analoghi a quanto sta avvenendo in molte agricoltura europee in risposta alla crisi ed alla contrazione dei redditi, in cui sono centrali i processi di differenziazione e la pluralità delle culture produttive, la multifunzionalità dell’agricoltura e la sua capacità di creare beni collettivi e attività no-food, rapporti diretti tra produzione e consumo, fondati su alternative food network, filiere corte e territorializzate (Renting, Marsden e Banks 2003; Farinella e Meloni 2013), così come i circuiti di reciprocità, l’autoconsumo, la pluriattività e l’economia informale e domestica (che creano valore “vivo” e reale in azienda). I “nuovi contadini” sono spesso piccole imprese agricole, a vocazione artigianale e conduzione familiare, auto-organizzate che massimizzano la resa del capitale lavoro e ecologico, attraverso un ancoraggio nella produzione del reddito complessivo dell’attività aziendale al territorio che riduce la dipendenza dal mercato globale sia per il reperimento degli input (autoproduzione, laddove possibile, dei fattori di produzione) che per gli output (costruzione di canali diretti di vendita con i consumatori che bypassano il mercato convenzionale). 106 Continuano tuttavia a persistere difficoltà di commercializzazione perché un’elevata qualità del prodotto non apre in modo automatico adeguati mercati di sbocco. Da un lato, quando queste aziende si rivolgono a quelli convenzionali della GDO, finiscono per restare schiacciati da quella competitività di costo; dall’altro non sempre riescono a inserirsi in filiere corte e di qualità o sui mercati locali. Come sottolineano i diversi casi aziendali raccolti, la capacità di trovare uno spazio sul mercato è legata non tanto alla genuinità della produzione ed al suo grado di innovatività, quanto piuttosto alle storie personali dei singoli produttori. Nei casi analizzati è stata riscontrata la presenza di un soggetto, un familiare o il conduttore stesso, con particolari attitudini relazionali che sopperiscono alla mancanza di skill manageriali e che lo portano a costruirsi il mercato di riferimento lentamente, pezzo per pezzo, con un procedere per tentativi ed errori. Un tale sistema è sicuramente inadeguato a supportare la crescita del settore, perché si fonda esclusivamente sulla sporadica capacità dei singoli di attivare iniziative personali. Tuttavia la scelta della multifunzionalità agricola esprime l’importanza che queste aziende assegnano alla necessità di sganciare una parte del reddito aziendale dalla volatilità del mercato globale, per ancorarla a processi reali, territorialmente localizzati e inseriti all’interno di un sistema di relazioni fiduciario e consolidato. Si tratta ovviamente di una lotta per l’autonomia che, per usare le parole di Ploeg, 107 richiede un grande impiego di lavoro vivo, da parte di tutto il nucleo familiare, così come l’attivazione di diverse forme di compensazione (in cui figurano il lavoro non monetarizzato dei membri, la produzione per l’autoconsumo e lo scambio di reciprocità, così come le integrazioni derivanti da altre fonti di reddito, come sussidi, pensioni, ecc.). Per questi motivi, anche a causa dell’assenza di politiche finalizzate alla promozione ed al supporto della multifunzionalità, queste aziende sono spesso a rischio di disattivazione, pur presentando degli alti livelli qualitativi. In conclusione, sebbene con qualche difficoltà, si sta lentamente assistendo alla nascita di un nuovo sistema agropastorale, diverso da quello tradizionale, secondo un modello in cui l’allevamento estensivo e stanziale è centrale, ma viene sostenuto anche dalle attività agricole di trasformazione delle foraggere realizzante dentro la stessa azienda. La trasformazione dell’agricoltura da cerealicola per il mercato e l’autoconsumo a foraggera per l’allevamento zootecnico costituisce l’elemento più interessante di questa evoluzione produttiva, in quanto permette un adattamento dinamico: essa individua un’integrazione dei pascoli naturali, che garantisce, tramite le rotazioni, il mantenimento degli spazi pascolabili e il contenimento della macchia mediterranea, riproponendo in termini mutati il rapporto tra agricoltura e allevamento, caratteristico del sistema tradizionale. Il modello agropastorale attuale evidenzia 108 così una elevata capacità adattiva e si dimostra particolarmente resiliente. Bibliografia Angioni, G. 1989 I pascoli erranti. Antropologia del pastore in Sardegna, Liguori, Napoli. Angius V. 1853 Geografia, storia e statistica dell’Isola di Sardegna, voll. XVIII bis, XVIII ter, XVIII quater, in Dizionario geografico-storico-statisticocommerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, G. 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Caractéristiques foncières Les terres à vocation agricole couvrent une superficie de l’ordre de 10 millions d’hectares réparties ainsi : cinq millions d’ hectares de terres labourables, utilisées en majorité pour les grandes cultures et l’arboriculture, quatre millions d’hectares de parcours naturels utilisables par les cheptels et un million d’hectares de forêts ou garrigues. Les terres labourables sont pour leur immense majorité des terres privées exploitées par 516 000 agriculteurs. La taille moyenne des exploitations est de 10,2 hectares mais il existe une grande hétérogénéité autour de cette moyenne : 54 % des exploitations disposent de moins de cinq hectares et détiennent 11 % des superficies agricoles alors que 3 % seulement font plus de cinquante hectares et possèdent 34 % des surfaces. Les surfaces équipées pour l’irrigation sont de 420 000 hectares. Bien que ne représentant que 8 % de la surface agricole utile, ce secteur irrigué contribue à 35 % de la valeur agricole totale. 119 Principales productions agricoles La structure de la production est dominée par l'élevage, suivi par l'arboriculture (olives, dattes, agrumes), le maraîchage et les céréales. Huile d’olive En 2014, l'oliveraie occupe plus de 1,8 millions d'hectares, pour 80 millions d'oliviers, soit plus du tiers des terres labourables du pays. La Tunisie est classée au deuxième rang, après l'Espagne, avec près de 20 % de la superficie mondiale oléicole. Sur la décennie 2003-2013, la Tunisie a produit en moyenne 169 500 tonnes d’huile d’olive, ce qui la situe au quatrième rang mondial après l’Espagne, l’Italie et la Grèce. En 2015, la production s’éleva à 350 000 tonnes, ce qui situe la Tunisie à la deuxième place mondiale des pays producteurs d'huile d'olive après l'Espagne. Pour la campagne 2015-2016, la production de l’huile d’olive est estimée à 150 000 tonnes. La principale raison de cette baisse est le manque de pluies. La production ne va pas s'améliorer en 2016-2017 puisqu'on s'attend à une baisse de 29 % par rapport à l'année précédente soit une production de 100 000 tonnes. La baisse est cependant générale parmi les grands producteurs mondiaux d'huile d'olive. 120 310 000 exploitants agricoles sont concernés par cette production, ce qui souligne son importance économique et sociale. Adapté aux conditions climatiques de la Tunisie, l’olivier à huile génère entre vingt et quarante millions de journées de travail par an. La Tunisie a exporté 129 000 tonnes d’huile d’olive en moyenne sur la décennie 20032013. En 2015, 311 000 tonnes sont exportées, ce qui situe le pays au premier rang mondial dans ce domaine. On peut souligner que 120 000 hectares d’oliviers sont conduits en agriculture biologique, ce qui ouvre de nouvelles perspectives en matière d’exportation. L’oliveraie tunisienne compte environ 140 variétés et écotypes locaux d'oliviers. Les deux principales variétés d'oliviers à huile sont le Chemlali, qui occupe près de 85 % de la superficie oléicole, principalement dans le Centre et le Sud du pays, et le Chétoui qui occupe près de 15 % de la superficie oléicole, principalement dans le Nord. Les principales variétés d'oliviers de table sont la variété Meski (62 % des plantations d'oliviers de table), la variété Picholine (14 % des plantations) et la variété Beldi (11 % des plantations). 121 L'huile d'olive tunisienne doit être labellisée officiellement à partir de 2016. Les producteurs qui veulent obtenir ce label doivent remplir les critères du cahier des charges et se soumettre à l'ensemble des procédures d'habilitation et de contrôle relatives à ce label. Céréales Les céréales occupaient 1,4 millions d’hectares en moyenne. Elles sont représentées essentiellement par le blé dur et l’orge, et dans une moindre mesure par le blé tendre. Il s’agit en grande majorité d’une production de type pluvial ; seuls 100 000 hectares peuvent bénéficier de l’irrigation en cas de sécheresse. Les rendements sont étroitement dépendants des aléas climatiques, et donc très variables. La production totale a été de 23 millions de quintaux pour la campagne 2013-2014, mais seulement de 13 millions pour la campagne 2014-2015 où les conditions climatiques ont été beaucoup plus défavorables. Bien qu’occupant près du tiers de la surface agricole utile, les céréales ne contribuent en moyenne qu’à hauteur de 13 % à la valeur ajoutée agricole. La production céréalière ne couvre pas les besoins du pays, le taux de couverture étant de 40 % en année moyenne. Les importations de céréales sont coûteuses en devises pour le pays. 122 Agrumes Les superficies consacrées aux agrumes sont de 23 600 hectares. En 2013-2014, la production a été de 330 000 tonnes dont 39 % d’oranges de la variété maltaise. Le cap Bon, avec plus de 70 % de la production est la première région agrumicole du pays. Le marché local absorbe 80 à 90 % de la production ; le reste est exporté, essentiellement des maltaises qui sont appréciées sur les marchés européens et notamment français. Cependant, la Tunisie subit une forte concurrence des agrumes d’Espagne et du Maroc et on a observé un recul des exportations au cours des dernières années. Dattes Le palmier dattier occupe une superficie de l’ordre de 41 000 hectares, pour un effectif total de 5,5 millions de pieds dont 66 % de deglet nour. La phoeniciculture est pratiquée par 60 000 exploitants sur de petites structures : 50 % des exploitations font moins de 0,5 hectare et 24 % disposent d'une superficie comprise entre 0,5 et 1 hectare. Les palmeraies se situent principalement dans les gouvernorats de Kébili (58 %), Tozeur (21 %), Gabès (16 %) et Gafsa (5 %). La production a atteint 196 500 tonnes en 2013. 123 Pour la saison 2015-2016, la Tunisie exporte 100 800 tonnes de dattes pour une valeur totale de 423,3 millions de dinars, se plaçant à la première place mondiale des pays exportateurs en valeur. La première destination des dattes tunisiennes est l'Europe occidentale avec 37 800 tonnes. Vignes Le vignoble tunisien a une double finalité : la production de raisin de table et la production de raisin de cuve. Pour la campagne 2013-2014, la récolte de raisin de table cultivé sur 11 000 hectares environ est estimée à 137 000 tonnes. La production de vin élaboré à partir de 9 750 hectares de vignes est estimée à 270 000 hectolitres. Le vin tunisien est un vin d’excellente qualité pouvant générer des recettes non négligeables à l’exportation. Par exemple, en 2009 où 40 % de la production est exportée, les recettes d’exportation atteignent 40,4 millions de dinars. 70 % de ces vins sont des vins d’appellation d’origine contrôlée (AOC) dont 20 % bénéficient de la mention « premier cru ». 124 Cultures maraîchères Les cultures maraîchères occupent une superficie de 167 000 hectares répartis sur 90 000 exploitations. La production moyenne entre les campagnes 20092010 et 2013-2014 est estimée à 3,2 millions de tonnes. Elle représente 16 % de la valeur de la production agricole totale du pays. Les espèces les plus cultivées sont la tomate (39 % du tonnage produit), la pastèque et le melon (15 %), l’oignon (12 %), la pomme de terre (11,5 %) et le piment (10 %). La tomate est cultivée sur 29 000 hectares qui produisent 1,2 million de tonnes environ. Il s’agit essentiellement de tomate de plein champ, mais une partie est cultivée sous serres froides ou sous serres chauffées par les eaux géothermales dans le sud du pays. Ces dernières ont une qualité gustative spécifique, très appréciée du consommateur du fait du microclimat et de la composition minérale des eaux de la région. Les exportations demeurent faibles, mais enregistrent une hausse régulière. En 2016, elles sont de l’ordre de 15 000 tonnes. Le piment est une culture très répandue en Tunisie (20 000 hectares) en raison de son utilisation dans la cuisine locale. La production est de l’ordre de 340 000 tonnes; 125 une partie est consommée en frais, une autre est acheminée vers les conserveries pour la fabrication de harissa et une troisième est séchée pour faire de la poudre d’assaisonnement ou de la harissa traditionnelle. Elevage Le secteur de l'élevage contribue, en Tunisie, à hauteur de 40% de la valeur agricole totale. Il procure plus de 51 millions de journées de travail par an. A ce sujet, ce secteur constitue un important pilier de l'économie nationale. Il joue également un rôle social et écologique considérable. Au fil de ces dernières années, le secteur de l'élevage tunisien a fait état d'environ 150.000 éleveurs de bovins, 300.000 éleveurs d'ovins et de caprins ainsi que 2.300 éleveurs de camélidés. L’élevage bovin laitier (constitué exclusivement de races pures) est un élevage intensif avec plus 35% dans des structures organisées e 65% chez des petits et moyens éleveurs. Concernant l’élevage bovin de viande ce sont ou de races locales ou locales croisées améliorées dans un système semi intensif. 126 L’élevage des petits ruminants est conduit d’une manière traditionnelle dans un système d’élevage extensif dans le centre et sud et dans un système périurbain au nord et nord ouest. La production nationale de viandes rouges a atteint, en 2012, une progression remarquable de 102.000 tonnes. Parmi ces dernières «95% sont des viandes provenant des espèces bovines, ovines et caprines et 5% des viandes de camélidés et d'équidés». La viande ovine est fournie par un cheptel de 4,2 millions d'unités femelles. La race Barberine, à queue grasse adaptée aux conditions tunisiennes, représente 65% du cheptel national alors que la race à queue fine issue des pays limitrophes représente 32% et la Noire de Thibar 1,8%. Il est à noter que la production de viande rouge couvre 95% de la demande nationale. La production de viande blanche est passée de 113 900 tonnes en 2003 à 202 700 tonnes en 2013, soit une augmentation de 78 % en dix ans. Il s’agit pour 61 % de poulet de chair et pour 31 % de dinde. La consommation se situe à 18,6 kilos par habitant et par an, 127 ce qui en fait la viande la plus consommée dans le pays en raison de son prix bien inférieur à celui de la viande rouge. La production d’œufs est de 1,78 milliards d’unités par an. Quant à la production laitière, elle est estimée à près de 1 milliard de litres et fait l'objet d'un programme d'amélioration de la qualité en vue d'un alignement sur les normes européennes, avec un projet de payement à la qualité. En fait, la totalité du lait stérilisé consommé en Tunisie est un produit de l'élevage tunisien ainsi qu'une grande partie des produits laitiers : yaourts, fromages… Pour la production de viande de volailles, elle est de l'ordre de 120.000 tonnes. Le poulet est de bonne qualité et est apprécié autant par le consommateur tunisien que par le consommateur étranger. Passons à l'élevage d'escargots dont 95% de la production totale ramassée est destinée à l'exportation sous forme d'escargots vivants ou de chair d'escargot, congelée. En outre, les exportations tunisiennes d'escargots ont atteint une moyenne d'environ 420 tonnes par saison. Il y a lieu de noter que la collecte en Tunisie reste la principale source d'approvisionnement en escargots. 128 Finalement, il faudrait mentionner aussi le secteur de l'élevage apicole qui compte 12.000 apiculteurs avec 163.000 ruches produisant en moyenne 1.750 tonnes de miel. Notre pays exporte en moyenne 1,2 tonne de miel par an particulièrement vers les pays voisins (Algérie, Libye). Pêche : Les côtes tunisiennes s'étendent sur 1350 Km; Il existe 41 ports de pêche (un port tous les 30 Km en moyenne); La flottille est constituée de: Plus de 10 mille barques côtières dont la moitié équipée de moteurs 875 embarcations pour la pêche en haute mer. La main d'œuvre active dans le secteur de la pêche est d'environ 60 mille personnes ; La production halieutique est estimée à 105 000 tonnes dont: - 24 000 tonnes proviennent de la pêche côtière; 22 000 tonnes de la pêche au chalut; 129 - 51 000 tonnes de la pêche aux poissons bleus. Industries agroalimentaires Le secteur des industries agroalimentaires contribue à 3 % du PIB et à 20 % de la valeur ajoutée industrielle. En 2012, il compte 1 063 entreprises employant dix personnes et plus. Parmi elles, 201 sont totalement tournées vers l’exportation. 115 sont réalisés en partenariat, c’est-à-dire avec des capitaux étrangers dans leur capital. L’ensemble de ces entreprises emploient plus de 72 000 personnes, soit 14 % des emplois manufacturiers du pays. Il s’agit en majorité de petites et moyennes entreprises, mais il existe également de grands groupes. Elles sont réparties sur le territoire national, avec toutefois une localisation plus importante sur le littoral proche des grands centres de consommation. Les branches les plus importantes sont les céréales et dérivés, les huiles et corps gras et les fruits et légumes. Le secteur des industries agroalimentaires connaît une croissance relativement élevée de l’ordre de 6 % par an entre 2008 et 2012. Ceci s’explique par l’accroissement de la demande intérieure et l’augmentation des exportations des produits transformés. Le gouvernement a élaboré une stratégie de développement de l’industrie agroalimentaire. Cette stratégie repose sur les axes suivants: 130 Libéralisation progressive du commerce des intrants et des produits finis; Augmentation et diversification de la production agroalimentaire, afin d’accroître la valeur ajoutée du secteur et de satisfaire les besoins du marché, aussi bien intérieur qu’international; Modernisation et restructuration du secteur par la mise à niveau des entreprises, l’introduction de nouvelles technologies et la promotion de la qualité. Echanges agricoles par produit en 2013 Principaux produits exportés Valeur (millions de dinars*) Huile d’olive 820,2 Poissons, crustacés et mollusques 223,7 Dattes 379,9 Agrumes 19,0 Principaux produits importés Valeur (millions de dinars) Céréales 1657,7 131 Huiles végétales 459,5 Sucre 303,0 Tourteaux de soja 91,3 *1Euro = 2,6 dinars tunisiens B-Environnement de partenariat Italie-Tunisie Les investissements italiens en Tunisie représentent 14,4% de l'ensemble des investissements directs extérieurs dans le pays. Ceci positionne l'Italie comme le second partenaire commercial de la Tunisie. La Tunisie offre de nombreuses opportunités, on peut s’apercevoir qu’il y a déjà énormément de petits et moyennes entreprises (PME) italiennes présentes en Tunisie, concentrées essentiellement sur les secteurs du textile, agroalimentaire, électricité, mécanique, du cuir et chaussures La proximité géographique, et la main d'œuvre qualifiée à un coût raisonnable sont des facteurs qui ont fait de la Tunisie le pays méditerranéen où l’économie italienne compte le plus grand nombre d’entreprises implantées (environ 800) et plus de 40.000 tunisiens salariés. L’environnement politique en Tunisie est jugée comme stable et qui présente, par conséquent, un risque 132 d’investissement minime ; puis sur le constat que la spécialisation de production tunisienne est très similaire à celle du système italien ; et enfin parce que l’industrie italienne occupe en Tunisie une des premières positions en terme de capacité d’internationalisation. Les relations économiques et commerciales bilatérales entre l’Italie et la Tunisie sont régulées par accords bilatéraux et européens d’entreprenariat. Ces avantages que présente la Tunisie attirent les entreprises et les investisseurs italiens dans notre pays, et cet intérêt pour notre territoire ne cesse de s’amplifier dans l’espoir de voir naître des projets communs en élevage et la transformation de ces produits (lait). L’élevage n’a pas attiré beaucoup d’investisseurs italiens, nous espérons que la région de Sardaigne sera au premier rang d’investissement dans l’élevage en Tunisie ; par le transfert de sa technologie laitière et de son système pastoral sarde, dans différentes régions de la Tunisie. Par ailleurs, cette coopération s’est renforcée ces dernières années par la création de projets européens en commun tels : Le projet Italie-Tunisie sur la pêche artisanale qui avait pour but le développement socio-économique et intégration régionale des territoires avec une action conjointe finalisée au développement, à la qualification et 133 à l’intégration de la filière de la pêche artisanale et du tourisme en Italie et en Tunisie. Ce projet a été cofinancé dans le cadre du programme Instrument Européen de Voisinage et de Partenariat (IEVP) – Coopération Transfrontalière (CT)-ItalieTunisie-2007-2013. Le Projet intégré pour la protection du lac de Bizerte contre la pollution. A travers une approche intégrée luttant contre les sources de pollution, le projet vise à réhabiliter l'environnement et la qualité de l'eau du lac de Bizerte grâce à des efforts de dépollution et l'amélioration de la vie aquatique, ainsi que les conditions de vie des populations environnantes. Ce projet va durer six ans à partir de 2016. ll est cofinancé par l’UE et l’Union pour la méditerranée. Prochainement, une occasion se présentera aux investisseurs italiens pour rencontrer leurs homologues tunisiens au forum d’investissement du 29 au 30 novembre 2016. Relations de partenariat entre la Tunisie et la région autonome de Sardaigne (Sassari) dans le domaine vétérinaire Historique: Depuis le congrès vétérinaire mondial tenu en 2002 à Tunis, une collaboration scientifique s’est tissée entre les 134 vétérinaires tunisiens et sardes par la réalisation du premier congrès Femesprum* à Tunis en 2002. (*Federación Mediterránea de Producción y Sanidad de Rumiantes) Entre 2004 et 2009, plusieurs activités de collaborations ont été réalisées, entre les deux partenaires, basées essentiellement sur: des visites bilatérales de vétérinaires, d’étudiants et d’universitaires. La formation de 2 vétérinaires tunisiens en thèse d’université (PhD) à Sassari. L’appui technique de la région de Sassari à une association d’éleveurs de brebis laitières à Béja. Année 2016 : Les activités de coopération ont repris par la visite d’une délégation italienne à l’Ecole Nationale de Médecine vétérinaire de Sidi Thabet et dans la région de Kairouan en mars 2016. Deux mois après, Mr. Le Doyen de la faculté de médecine vétérinaire (Université de Sassari) a participé à une journée internationale à Tunis sur le concept de l’OIE «Un Monde, Une Santé». En juin 2016, une délégation tunisienne avait visité plusieurs organismes à Sardaigne. Elle a eu l’honneur de 135 rencontrer Monsieur Le président de la région autonome de Sardaigne. Plusieurs projets de collaboration ont été discutés lors de cette visite, nous signalons particulièrement: Un projet de jumelage de l’enseignement vétérinaire entre l’Ecole Nationale de Médecine vétérinaire de Sidi Thabet (Tunisie) et la faculté de Médecine Vétérinaire de Sassari est inscrit actuellement à l’OIE. Un avant projet méditerranéen, par le biais de l’instrument européen de voisinage, est encours d’élaboration entre l’Italie (Sardaigne), la Tunisie, l’Egypte et l’Algérie. Et l’inscription de quelques étudiants tunisiens à la faculté vétérinaire de Sassari. vétérinaires Projets futures : Les deux partenaires vétérinaires tunisiens et sardes sont entrain de travailler sur plusieurs projets porteurs dans le domaine de l’élevage des petits ruminants et le développement de la filière lait en Tunisie. Conclusion Lors de cette phase de transition démocratique, la Tunisie passe par une conjoncture politique et économique difficile qui a une répercussion directe sur l’emploi des jeunes et en particulier les diplômés du supérieur. Ces 136 derniers vont essayer de migrer de certaines régions de l’intérieur principalement vers la capitale et les régions côtières plus attrayantes faute d’emplois locaux. L’élevage est un secteur porteur d’emploi et peut être une solution intéressante pour la Tunisie à travers une coopération solide avec nos partenaires sardes. 137 Dott. Martino Scanu, Presidente CIA Sardegna 138 Latte, cereali, carne, ortofrutta: crisi di mercato e crollo dei prezzi Dott. Martino Scanu, Presidente CIA Sardegna Nonostante alcuni deboli segnali di ripresa del PIL, l’andamento economico altalenante dimostra e sottolinea come gli effetti negativi della profonda crisi economica e finanziaria di questi ultimi anni, stentano a tramontare. La caduta del prodotto interno loro nel periodo di crisi 2008/2015 ha determinato una forte contrazione dell’economia del Paese, con pesanti ripercussioni anche sulla Sardegna. Gli effetti della crisi di questi anni sono ben lontani dall’essere riassorbiti, sia a livello nazionale che a livello sardo. In questo quadro economico non entusiasmante le prospettive della Sardegna lo sono, purtroppo, ancora meno. Le esportazioni agricole della Sardegna nel 2016 rimangono in contrazione, secondo i dati ISTAT. Permangono le difficoltà del sistema economico regionale nell’espandere la propria presenza sui mercati internazionali, al netto del settore petrolchimico. L’attività agricola regionale in questi anni ha operato in condizioni difficili, aggravati da limiti strutturali e organizzativi che connotano l’offerta agricola, dalle difficoltà socio-economiche e dai ritardi infrastrutturali 139 che condizionano i collegamenti dell’Isola con il resto del Continente europeo. Tutto ciò condiziona negativamente lo sviluppo competitivo del settore agro-alimentare. In questo quadro il crollo dei prezzi, dal latte al frumento, dalle carni all’orto-frutta, allarga sempre più la forbice tra costi e ricavi. I prezzi riconosciuti alle nostre produzioni sono quasi dimezzati rispetto a un anno fa e la speculazione selvaggia e l’import in costante aumento dimostrano che il governo dei mercati è tendenzialmente orientato al raggiungimento dell’obiettivo: smantellare i prodotti di qualità riconosciuti come quelli isolani e nazionali. Sardegna import – export alimentari anni 2010_2015 - dati ISTAT (€.000) Anno 2010 2011 2012 2013 2014 2015 Esportazioni 2.872 4.554 4.356 6.321 7.929 8.372 Importazioni 119.243 171.574 154.687 141.759 163.412 175.319 Saldi 116.371 167.020 150.331 135.438 155.483 166.947 140 I produttori agricoli sono in piena crisi e coinvolti tutti, cerealicoltori, allevatori, ortofrutticoltori, senza eccezione alcuna. Il tracollo dei prezzi alla produzione e l’aumento a dismisura del valore di vendita al dettaglio rende la differenza insostenibile, ciò è maggiormente evidente in produzioni come il grano dove 100 kg di grano hanno pari valore a 5 kg di pane: ciò è surreale e fuori dall’immaginario collettivo. Alcuni esempi colti nella provincia di Cagliari di seguito narrati sono esplicativi: - grano duro, nella piazza di Cagliari periodo luglio 2016 è pagato una media di 20-21 €/q.le contro i 32 €/q.le registrato nel 2015, con una perdita netta di 12 €/q (-33%). In Sardegna nel 2016 sono stati coltivati 42.000 ettari di grano con una resa media di circa 29 q.li/ha , per una produzione totale 1. 218.000 q.li; a prezzi 2015 le aziende cerealicole avrebbero realizzato 38.976.000 euro, a prezzi 2016 realizzeranno 24.360.000 euro con una perdita netta di 14.616.000 euro; - il latte ovino è prodotto in Sardegna da 3.500.000 capi distribuiti in circa 13.000 aziende. Il comparto ovino regionale ha una produzione media annua di 350.000.000 litri di latte che pagati al prezzo medio praticato alle aziende pastorali nella stagione 2014-2015 raggiunge un valore complessivo 367.500.000 di euro, il quale, ripartito tra le aziende produttrici ha consentito di realizzare una PLV di 28.270 euro. Nella stagione 2015-2016, causa la mancata invernalità, si è stimato da più parti una presunta 141 crescita delle quantità di latte prodotto di circa il 30% che tradotto in produzione reale significa circa 455.000.000 di litri con un aumento di 105.000.000 rispetto alla stagione precedente (le stime sono elaborate sulla base delle dichiarazione del Consorzio di Tutela del Pecorino Romano in sede di approvazione di bilancio consuntivo al 31/12/2015). È noto il comportamento del mercato che ha registrato, a partire dal mese di febbraio, una riduzione del prezzo del formaggio pecorino di circa il 29% passando da 9.20 €/Kg a 6.50 €/kg e tornando alla situazione di mercato del luglio 2013 che pagava il pecorino a 6.56 €/kg. Tale andamento, caratterizzato da un eccessivo rallentamento della commercializzazione gestita dagli acquirenti, per tenere i magazzini pieni ed imporre un ulteriore flessione del prezzo, ha giustificato la preoccupazione dei trasformatori e la richiesta avanzata agli allevatori di procedere alla sola mungitura mattutina, per contenere la produzione di latte ed evitare livelli di difficoltà tali da rendere insostenibile la trasformazione. In questo quadro il prezzo del latte riconosciuto agli allevatori si attesta mediamente a 0,82 €/litro (la stima del valore è fatta sulla base di fatture pervenute ai CAF, accompagnate dalla comunicazione fatta dai trasformatori ai produttori di latte); - Il mercato dell’orto-frutta, dagli agrumi alle albicocche, dai fagiolini ai pomodori, melanzane e altre, è fondamentalmente dominato dalle produzioni che arrivano soprattutto dalla Spagna. Il consumo relativo alle produzioni isolane non è superiore a una media del 30%, 142 con una ulteriore riduzione segnalata nel sassarese che arriva fino al 18%. I prodotti isolani, nonostante la scarsa rilevanza della loro presenza, sono stati spinti verso valori commerciali sempre più bassi, rendendo le loro produzioni insostenibili. Di fatto i prodotti isolani nel 1°semestre 2016, rispetto a quanto pagato nello stesso periodo del 2015, hanno subito una perdita sia nelle quantità che nel prezzo pari a circa il 36%. Andare oltre si può. In Sardegna manca da un ventennio almeno una seria politica di programmazione delle diverse produzioni agricole. Si rende necessario riorganizzare il settore primario attraverso alcune misure importanti e indispensabili: STRUMENTI DI GESTIONE E RIORGANIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE Affrontare il problema dell’organizzazione della produzione, fortemente polverizzata, affinché sia in grado di esprimere un’offerta coordinata e di utilizzare gli strumenti di copertura dei rischi di prezzo (per altro già esistenti: futures, mercati a termine, contratti a prezzo chiuso, ecc.) col fine di rafforzare la struttura economica dell’offerta, in particolare delle Op e Aop, è un passo obbligato. Per cui si auspica che si proceda a: favorire la nascita delle interprofessionale (O.I.) in tutti 143 organizzazione comparti più rappresentativi del settore primario. L’O.I. si può definire come uno strumento di autodeterminazione, si costituisce e sviluppa per prodotti specifici (anche Dop e Igp), con lo scopo di migliorare la conoscenza e la trasparenza della produzione e del mercato; contribuire ad un efficace coordinamento dell'immissione sul mercato dei prodotti, in particolare attraverso ricerche e studi; accrescere la valorizzazione, nell’ottica di un’equa ripartizione del valore tra i soggetti della filiera; concorrere in modo determinante alla costruzione di strumenti di stabilizzazione dei prezzi e dei mercati; - attivare i piani di settore nei quali, per i diversi comparti di produzione, sia delineata una seria strategia di difesa, valorizzazione e ampliamento delle produzioni, in funzione del superamento del deficit produttivo denunciato dalla bilancia Import-Export dei prodotti alimentari, vedasi la tabella sopra riportata, ma anche orientati verso nuovi sbocchi di mercato; - sostegno alla logistica, nei centri di stoccaggio, nella trasformazione per la creazione di valore aggiunto, andando anche oltre le azioni contenute nel PSR 20142020, essendo evidente la loro insufficienza. STRUMENTI DI GOVERNO ECONOMICO, DI CREDITO E DÌ FINANZA: - potenziamento delle funzioni da attribuire alla SFIRS per lo sviluppo d’interventi finanziari in agricoltura, supportati dal fondo regionale di rotazione da costituirsi e 144 dal F.do Regionale di Garanzia, per favorire l’accesso al credito a breve e medio termine. Alla SFIRS è richiesta la gestione diretta dei fondi a supporto delle aziende agricole che soffrono la mancanza di liquidità derivante dalle condizioni di mercato : in considerazione delle gravi ristrettezze imposte alle imprese agricole dal sistema bancario e creditizio; quale strumento fondamentale per rimettere nel circuito economico risorse finanziarie: ad esempio attraverso l’anticipazione dei pagamenti derivanti da impegni delle aziende agricole rispetto alla PAC e PSR come avviene nel Veneto ad esempio; gestione le risorse dei fondo di mutualità a garanzia del rischio; - favorire la creazione di nuovi strumenti assicurativi, anche potenziando le funzioni dei Consorzi di Difesa, che necessariamente vanno riformati, in funzione della tutela dei produttori dalle crisi di mercato e della stabilizzazione del reddito (Reg.(UE) 1305/2013 art.39). Va istituito il fondo finanziario a partecipazione pubblico/privata; -garantire la capacità valorizzativa del marchio qualità Sardegna, di recente istituzione, quale strumento identitario, di distinzione delle produzioni, gestito dalle imprese agricole e agroindustriali regionali; - favorire, tra i soggetti interessati, la stipula di accordi di filiera e contratti di coltivazione e/o di produzione, anche utilizzando lo strumento degli accordi interprofessionali; - favorire l’ammasso e/o il ritiro dal mercato dell’ortofrutta, del latte, dei formaggi o di altri prodotti eccedenti nei periodi di crisi, con un aumento dal 30 al 40% del prezzo medio calcolato dall’UE, in caso di 145 distribuzione gratuita; e dal 20 al 30% per le altre destinazioni (questa è già la proposta della Commissione europea, che fa seguito all’annuncio che il Commissario Phil Hogan ha fatto ai Ministri dell’Agricoltura il 18 luglio scorso). La proposta, che vede inserito nell’elenco di prodotti destinatari d’indennità di ritiro quasi tutte le produzioni sensibili per la Sardegna, pesche, nettarine, albicocche, pere e mele e il pomodoro fresco e altre, va allargata anche alle altre nostre produzioni tradizionali, quali, per esempio, il carciofo. La base giuridica su cui si forma tale ipotesi è negli Articoli da 38 a 44 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (trattato FUE), regolamento (UE) n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio (GU L 347 del 20.12.2013) e regolamento (UE) n. 1370/2013 del Consiglio (GU L 346 del 20.12.2013); - una perdita di reddito importante deriva dall’assenza di controllo della fauna selvatica per la quale sono sostenibili invece apposite misure di prevenzione, controllo e risarcimento dei danni provocati alle attività degli agricoltori dalla fauna selvatica, da pochi giorni dichiarate espressamente ammissibili dalla Commissione europea, nel rispetto delle condizioni fissate dagli “Orientamenti dell’Unione europea per gli aiuti di Stato nei settori agricolo e forestale e nelle zone rurali 2014-2020” e dal Regolamento (UE) n. 702/2014 della Commissione del 25 giugno 2014 che dichiara compatibili con il mercato interno, in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea, alcune categorie 146 di aiuti nei settori agricolo e forestale e nelle zone rurali e che abroga il regolamento della Commissione (CE) n. 1857/2006, entrambi pubblicati sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 1° luglio 2014. Nondimeno la Confederazione Italiana Agricoltori – Sardegna sollecita e chiede alla Regione e al Governo Nazionale: - interventi urgenti per la lotta alla siccità e alla desertificazione, compresi i collegamenti interbacino e i collaudi per autorizzare la massima capacità di invaso delle dighe; - un piano finanziario straordinario per sostenere la continuità territoriale delle merci e delle persone con la compensazione degli svantaggi , riconosciuti dall’U.E., dovuti all’insularità. Agricoltori e allevatori ! La nostra azione è volta a recuperare il giusto reddito per un settore fondamentale per l’economia dell’Isola, che non può che comportare ricadute positive per il generale contesto economico e sociale. Per questo chiediamo al sistema Istituzionale, Regione, Governo Nazionale e Parlamento di attivarsi per risolvere questo difficile contesto economico che grava sugli agricoltori e allevatori sardi, adottando misure atte a salvaguardare e rilanciare un settore strategico per favorire lo sviluppo dell’economia dell’Isola. 147 Sig. Felice Floris, Movimento Pastori 148 Una buona politica per uscire dalla crisi Sig. Felice Floris, Movimento Pastori Nel corso degli ultimi due secoli, spesso i governanti hanno cercato di limitare e ridurre l'espansione della pastorizia in Sardegna. Ciononostante, non ci sono mai riusciti. Non c’è riuscita la Legge delle Chiudende. Non c’è riuscita l'industrializzazione forzata. La pastorizia è sopravvissuta a tutte le crisi congiunturali ed economiche che puntualmente si sono succedute fino ai nostri giorni. E ha sormontato le difficoltà determinate da fenomeni naturali, come le alluvioni e le siccità. In Sardegna, la pastorizia esiste e resiste. Coniuga tradizione e progetto. Costituisce un elemento dell’immaginario collettivo sulla Sardegna e della Sardegna. La pastorizia oggi è nello stesso tempo tradizione, innovazione e sperimentazione. Non solo dentro i confini dell’Isola ma anche nel Continente. Nelle altre regioni italiane, ciò che rimane del pastoralismo parla sardo. I pastori sardi hanno ridato vitalità e cura a territori spesso marginali in regioni come l’Umbria, Lazio, Toscana, Emilia, Liguria. 149 Sul piano economico, la pastorizia crea ricchezza diffusa. Basti pensare all’indotto che in maniera diretta o indiretta è collegato al mondo pastorale. Pensate a tutto ciò che gira attorno alla pastorizia: i caseifici, i mangimifici, i trasporti, i mattatoi, il settore meccanico e delle costruzioni fino ad arrivare al terziario. La presenza di questo settore giustifica l’esistenza di migliaia di posti di lavoro: veterinari, biologi, impiegati delle ASL di enti regionali. E anche due facoltà universitarie – quelle di Agraria e di Veterinaria - girano attorno a questo comparto. Chi sottovaluta questo insieme di relazioni, non è capace di cogliere la complessità dei processi economici. Nonostante l’importanza economica del pastoralismo, la pastorizia in Sardegna non va misurata soltanto in termini di punti percentuale del PIL prodotto ma anche e soprattutto per il suo valore sociale, culturale e ambientale. La pastorizia produce dunque un valore più importante di quello economico. La pastorizia ha un inestimabile valore ambientale. Le ventimila aziende pastorali distribuite nel territorio ne garantiscono infatti la cura e il controllo. 150 Che cosa costerebbe alla società questo controllo? Non soltanto è questione di tenere i terreni puliti per prevenire gli incendi e le devastazioni, ma soprattutto conservare il paesaggio che abbiamo costruito in secoli di lavoro nelle campagne. Quel paesaggio non è solo il frutto della natura, ma del lavoro dei pastori sulla natura. Quel paesaggio è la nostra storia e la nostra cultura. Il Pastore è il giardiniere della Sardegna. Un giardiniere inconsapevole. Ma non per questo il suo ruolo è meno importante. La pastorizia ha infine un valore sociale, essa mantiene in vita l’interno della Sardegna, i suoi paesi, offre un senso all’esistenza di decine di migliaia di persone. E costituisce anche un elemento fondamentale della nostra identità. Davanti al presidente della Cina, i nostri governanti hanno voluto mostrare le tradizioni della nostra storia pastorale. Queste costituiscono una parte del nostro “brand” e quindi hanno un potenziale simbolico che produce ricchezza. Anche per questo va preservato. Che cosa ne sarebbe dei piccoli comuni colpiti dal continuo spopolamento senza la sopravvivenza delle aziende pastorali? Soltanto la presenza dei pastori dà loro una speranza di sopravvivenza. I Pastori sono dei resistenti e rappresentano una Sardegna che resiste e che esiste. 151 Ha resistito alla criminalizzazione operata dalle commissioni parlamentari, come la Commissione Medici che indagò nel 1969 sulle cause del banditismo in Sardegna. Le conclusioni di tale commissione costituirono uno dei fondamenti ideologici del cosiddetto Piano di Rinascita e dell’industrializzazione della Sardegna. Questa è oramai una storia nota. Si utilizzò il malessere del mondo pastorale in una fase di forte espansione demografica, per riciclare un’industria vecchia e inquinante che ormai nessuno più voleva, un'industria che la crisi di ristrutturazione degli anni 70 imponeva invece di rottamare. Questa è stata una cattiva politica, costruita contro i pastori e non per favorirne l’integrazione e il benessere. Al contrario, un esempio positivo di politiche per la pastorizia è rappresentato dalla Legge De Marzi-Cipolla. Questa legge ha trasformato profondamente la vita dei pastori e l’economia pastorale. Ha punito la rendita parassitaria e ha imposto ai proprietari terrieri canoni di affitto bassi. Di fatto, obbligandoli a svendere, grazie alla possibilità di accedere a dei mutui trentennali, i pastori hanno potuto costruire le loro aziende mettendo fine alla dura transumanza. Le cose sono cambiate molto dunque. La pastorizia di oggi è completamente cambiata rispetto a quella di cinquanta anni fa. 152 Nonostante le profonde trasformazioni, oggi la situazione della pastorizia non è delle migliori. Certamente questa responsabilità non è dei pastori. Questi hanno fatto la loro parte. Hanno trasformato le loro aziende e hanno migliorato i sistemi di produzione. Al contrario, è chiara la responsabilità dell’industria casearia, sia privata che cooperativistica, nel determinare uno stato di crisi permanente. Le industrie private e cooperative casearie hanno continuato a produrre in maniera statica, di fatto costituendo una sorta di rendita parassitaria data da un mercato drogato prima dalle restituzioni comunitarie e poi dal basso costo del latte. La Politica Agricola Comunitaria (PAC) non ha certo aiutato a migliorare la situazione. Con l’Agenda 2000, la PAC ha introdotto il cosiddetto “premio disaccoppiato”, cioè svincolato dalla produzione. In questo modo si sta creando nuovamente una situazione simile a quella che precedeva la Legge De Marzi-Cipolla. Oggi emergono nuovi proprietari che vivono di rendita parassitaria. Anche la più recente PAC non ha offerto alla Sardegna tutte le opportunità che prometteva. Per la prima volta dal dopo-guerra, la politica europea prometteva di riequilibrare la distribuzione delle risorse a favore di 153 un’agricoltura sostenibile ed estensiva come quella sarda e mediterranea. Ciononostante, la Sardegna non ne ha tratto i benefici attesi. Anche qui c’è una precisa responsabilità delle élite politiche e sindacali sarde. Forse perché si accontentano di dominare in Sardegna, ma sono subalterne sul piano nazionale. Forse perché le élite del Nord Italia dominano sui sindacati, sui partiti e sulla macchina amministrativa dello stato. Forse perché non studiano abbastanza. In ogni caso, il risultato è che scandalosamente il flusso principale delle risorse è stato deviato ancora una volta verso le regioni del Nord. Per concludere, è ora che emerga una buona politica capace di correggere il tiro. Occorre fare pressione sui governanti affinché si torni a un aiuto legato alla produzione. Se non conseguiremo questo obiettivo, la capacità di sopravvivenza dei pastori si indebolirà ancora. E la crisi della pastorizia trascinerà con sé le aree interne e centinaia di migliaia di persone che intorno alla pastorizia vivono. 154 I cambiamenti climatici e ambientali globali quale impatto sull’agricoltura e sulla pastorizia della Sardegna e quali strumenti adotta la regione Dott.ssa. Elisabetta Falchi, Assessore Regionale dell’Agricoltura e Riforma Agropastorale Premessa I cambiamenti climatici rappresentano una importante sfida per l’agricoltura e la pastorizia sia a livello locale che globale. Le pratiche agricole e pastorali e le loro produzioni quindi risentono degli effetti dei cambiamenti climatici in atto e attesi, ma al tempo stesso rappresentano anche una fonte di emissioni di gas serra, e pertanto devono contribuire agli sforzi di mitigazione globali, sia diminuendo le proprie emissioni, sia sfruttando il proprio potenziale naturale di serbatoio di carbonio nei suoli e nelle biomasse. Nell’agenda politica comunitaria, le politiche di mitigazione e adattamento disegnate per affrontare tale sfida hanno un importante rilievo ed è nella PAC (Politica Agricola Comune) e soprattutto nella politica di Sviluppo Rurale che sono declinate a livello locale. Si evidenzia quindi come tali politiche trovino localmente e quindi nel nostro territorio regionale, naturale attuazione nel PSR 155 2014-2020 (Programma di Sviluppo Rurale) e come gli strumenti proposti dalla programmazione regionale dal PRS 2014-2019 (Programma Regionale di Sviluppo della XV legislatura) possano contribuire alla mitigazione sugli effetti del clima su agricoltura e pastorizia e come nel contempo possano favorire la competitività delle produzioni. La Sardegna è in prima linea su questi temi, tanto che in occasione della conferenza globale dell’ONU sui cambiamenti climatici svoltasi nello scorso mese di novembre a Marrakech, ha contribuito a sostenere la scelta europea per un'attuazione rapida dell'Accordo stretto tra i Governi alla COP21 di Parigi e portare la voce dei territori per rendere la nuova governance del clima globale più inclusiva, trasparente ed efficiente. Obiettivo della COP22 di Marrakech, definita "la COP dell'azione", era infatti dare struttura all'attuazione dell'Accordo di Parigi, con il quale è stato preso l'impegno comune di operare concretamente perché l'aumento della temperatura del pianeta si mantenga al di sotto dei 2 gradi da qui al 2030. Per raggiungere gli obiettivi fissati a Parigi, gli Stati hanno bisogno di accelerare l'azione sul clima con una strategia nuova, che abbia un approccio territoriale al problema attraverso l'applicazione di politiche di mitigazione e adattamento e con il coinvolgimento in un'azione più ampia le città e le regioni, 156 che a loro volta, mettono in moto i cittadini, le aziende, le comunità locali. Gli impatti e le conseguenze dei cambiamenti climatici sono problemi che pesano in maniera importante su tutta l'area mediterranea e sono comunque correlati a quelli ancora più urgenti della gestione dei flussi migratori, della coesione e della sicurezza. Per affrontarli e vincerli servono più integrazione e cooperazione: la politica euromediterranea deve andare verso un maggior pragmatismo, che insieme ai principi e i valori condivisi tenga conto degli interessi comuni espressi e condivisi dalle autorità locali e regionali anche e soprattutto attraverso la cooperazione transfrontaliera. Il tema quindi diventa di più ampio respiro, anche in considerazione del ruolo assunto dalla Regione Sardegna come Autorità di gestione del Programma ENI CBC Med che coinvolge 13 Paesi ed oltre 130 Regioni che si affacciano sul Mediterraneo, e ci porta a ragionare sul compito che la nostra regione può svolgere in futuro in queste dinamiche strategiche. Geograficamente, l’Italia, e quindi anche la Sardegna, sono crocevia di culture e popoli e storicamente terre di emigrazione, da anni di forte immigrazione. Il nostro è un Paese che, in ragione dei principi costituzionali che ne reggono l’ordinamento e per la sua natura di grande economia di trasformazione a forte apertura esterna, è sempre stato impegnato in favore della pace, della crescita 157 e di un sistema internazionale stabile e giusto. Il sostegno allo sviluppo e la partecipazione attiva al dibattito sulle nuove forme di governance globale sono strumenti fondamentali per raggiungere questi obiettivi e per contribuire a creare attorno al Paese un’area di stabilità politica e di crescente benessere. Da molti anni le linee guida della cooperazione hanno ribadito come fondamentale il contribuito allo sviluppo nei Paesi partner, linea che per il nostro Paese costituisce, oltre che un imperativo etico di solidarietà, anche un investimento strategico. In sintesi, per svolgere pienamente questo ruolo e fare la nostra parte come Regione dobbiamo lavorare con attenzione ai temi sopra menzionati, costruendo politiche e strategie regionali che derivano dagli indirizzi programmatici europei ma che siano in grado di attivare oltre alle risorse comunitarie, strumenti strutturali aggiuntivi capaci di perseguire questi obiettivi. Impatti dei cambiamenti climatici sul settore agricolo e possibili soluzioni L’evoluzione del clima ha conseguenze dirette sul settore agricolo. Gli effetti variano da regione a regione e da coltura a coltura. La crescita demografica mondiale prevista per i prossimi decenni comporta un ulteriore problematica mondiale da affrontare subito: l’approvvigionamento di cibo (food security). La FAO 158 indica come necessario un incremento della produzione agricola mondiale del 60-70% al 2050 rispetto ai livelli produttivi attuali per soddisfare le esigenze alimentari. I cambiamenti climatici potrebbero causare riduzioni sensibili delle produzioni agricole, instabilità delle rese e degradazione dell’ambiente e proprio le aree a maggior rischio di insicurezza alimentare sembrerebbero quelle che potrebbero subire i maggiori danni. Il Bacino del Mediterraneo è una delle aree colpite da questi fenomeni ed è previsto che nei prossimi anni le condizioni per lo sviluppo e crescita delle colture potrebbero peggiorare: l’innalzamento delle temperature, l’aleatorietà delle precipitazioni e la maggiore richiesta evapo-traspirativa delle colture prevista per alcune aree sono condizioni ambientali meno favorevoli che possono determinare cali di resa consistenti. Non va poi dimenticato che l’agricoltura, che pure subisce danni dai cambiamenti climatici, è però anche responsabile di emissioni di gas serra: oltre ad essere il settore avente responsabilità nella deforestazione (cambiamento di destinazione dei suoli o “land use change”) e degradazione dei suoli (depauperamento del contento di sostanza organica dei suoli), infatti, è pure direttamente responsabile del 14% dell’emissione di gas serra. L’agricoltura, però, può anche essere parte della soluzione rispetto alle problematiche legate ai cambiamenti climatici tramite l’applicazione di strategie mirate a sviluppare 159 sistemi agroalimentari più produttivi e rispettosi delle risorse naturali. Cosa si può fare in ambito agricolo per rispondere a queste sfide globali che però necessitano di strategie localizzate e diversificate regione per regione? Occorre sviluppare sistemi agricoli capaci di rispondere efficacemente ai cambiamenti climatici. La FAO definisce questo approccio con il termine “Climate-Smart Agriculture” (CSA o Agricoltura “climaintelligente”), che ha l’obiettivo contemporaneo di ottenere 3 risultati: 1. Ridurre le emissioni “agricole” di gas serra e contribuire alla “cattura” di carbonio. 2. Rafforzare la “resilienza” (o adattamento) cambiamenti ed alla variabilità del clima; ai 3. Incrementare la sostenibilità (produttività e reddito); Benché sul fronte della mitigazione la Sardegna, con la prevalenza di pascoli arborati e le foreste possa essere considerata una regione virtuosa, in sede di programmazione agricola e quindi anche delle risorse comunitarie abbiamo posto grande attenzione a questi temi. Questo perché la nostra sfida è quella di far posizionare la Sardegna come terra che produce qualità. La Sardegna dal punto di vista agricolo è un vero e proprio continente. Abbiamo aree di pianura irrigua vocate a un’agricoltura intensiva in cui si producono riso e ortive 160 di elevata qualità accanto a aeree collinari, a prevalente vocazione paesaggistica e ambientale dove si applicano tecniche di coltivazione e di allevamento estensive. Come si può evincere da un attenta analisi, c’è però un filo conduttore che accomuna le diverse vocazioni agricole dell’Isola: la grande qualità dei suoi prodotti. Non possiamo certo e non vogliamo competere con i grandi sistemi agricoli dei paesi extra UE ma anche europei come Spagna e Francia, che producono grandi quantità di cibo equiparata a commodity, ma puntiamo a produrre speciality. “Sardegna, isola della qualità della vita” è lo slogan con il quale abbiamo caratterizzato la nostra presenza a EXPO, e tra i principali fattori che determinano la qualità della vita in Sardegna c’è sicuramente la naturalità e il valore nutrizionale e salutistico dei nostro cibo. Gli effetti sulla longevità del nostro Canonau, dei nostri formaggi e in generale della nostra dieta sono stati abbondantemente dimostrati da numerosi studi scientifici. Quindi prodotti e cibi che anche attraverso idonee politiche di internazionalizzazione, siano in grado di intercettare quei consumatori sempre più numerosi e esigenti che richiedono e cercano nel cibo che consumano, specialità, sicurezza alimentare, tracciabilità, rispetto per il benessere degli animali e per l’ambiente che produce. É infatti ormai un dato consolidato che aumenta nel mercato globale la richiesta di prodotti di eccellenza le cui caratteristiche di qualità organolettica e nutrizionale siano 161 certificate e che raccontino la storia di un territorio e di una agricoltura sana e rispettosa dell’ambiente. Si tratta di nicchie, comunque in grado di assorbire una buona parte delle nostre produzioni, e che hanno l’ulteriore vantaggio di un'alta propensione alla spendita. L’espansione nei mercati esteri, sia in quelli consolidati come per esempio il nord-america per il pecorino, che in quelli nuovi, ha dunque per la Sardegna una duplice valenza. Da un lato gli ovvi vantaggi diretti legati alla collocazione dei prodotti in mercati remunerativi dall’altra la possibilità di utilizzare le nostre eccellenze come volano per promuovere il nostro territorio e incrementare la quota di visitatori turistici al di fuori del classico periodo estivo. C’è infatti una quota in costante crescita di consumatori che una volta gustato un prodotto vogliono visitare la località da cui proviene e magari conoscere i dettagli delle tecniche di produzione e trasformazione. Quindi produrre eccellenze e esportarle è strategico per la nostra economia. Gli strumenti messi in campo dalla regione Sardegna per lo sviluppo agricolo Al fine di produrre eccellenze ed esportarle nel mondo sarà necessario un approccio globale al potenziamento del comparto agroalimentare che preveda interventi programmatori basati sull’utilizzo delle varie risorse disponibili comunitarie ma anche di quelle del bilancio regionale che si basino su questi punti: 162 1. L’adozione delle più innovative tecniche di allevamento e produzione. 2. L'innovazione di processo oltre che di prodotto. 3. La formazione e le connessioni tra attori delle filiere. 4. La programmazione di un piano di infrastrutture materiali a supporto delle imprese (per esempio, strade rurali, elettrificazione e reti irrigue). 5. La creazione di strumenti che attraverso la aggregazione delle imprese e la complementarietà tra distretti renda forte il nostro sistema produttivo. Sulla base di questi obiettivi abbiamo lavorato alla costruzione del Programma di Sviluppo Rurale (PSR) dando grande rilevanza, anche in relazione allo stanziamento di risorse, agli interventi che consentono di portare avanti pratiche agricole poco impattanti sull’ambiente. Il PSR è il principale strumento di finanziamento per il settore agricolo, agro-industriale e forestale e per lo sviluppo rurale dell’Isola, rappresenta un importante strumento di programmazione della politica di sviluppo rurale finanziata dal FEASR, che definisce, in coerenza con gli obiettivi della strategia Europa 2020, gli interventi regionali per il periodo di programmazione 2014/2020. Con il PSR sono state delineate le priorità della Sardegna per l’utilizzo di quasi 1.3 miliardi di euro di fondi pubblici 163 disponibili per il periodo di 7 anni 2014-2020. Il programma si concentra e finanzierà azioni nell’ambito di sei priorità dello sviluppo rurale, con particolare attenzione alla conservazione, ripristino e valorizzazione degli ecosistemi connessi all’agricoltura e alla silvicoltura, nonché alla competitività del settore agricolo e forestale, cosi come alla competitività dello sviluppo agricolo e della silvicoltura sostenibile, nonché la competitività dell'organizzazione della filiera alimentare e del benessere degli animali. Le sei priorità saranno attuate secondo la seguente articolazione: - Il trasferimento di conoscenze e l’innovazione nel settore agricolo e forestale e nelle zone rurali Il sistema di trasferimento delle conoscenze (attività dimostrative, azioni di informazione e scambi di visite) saranno rafforzate mediante una formazione specifica destinata agli agricoltori per quanto riguarda in particolare il cambiamento climatico, l’agricoltura sostenibile e la qualità degli alimenti. Sarà prestata particolare attenzione alla formazione dei nuovi imprenditori, specialmente dei giovani agricoltori. 9000 posti saranno resi disponibili in attività di informazione e il programma darà agli agricoltori la possibilità di accedere ai servizi di consulenza su temi relativi alle priorità del PSR. La Regione intenderà contribuire a lanciare più di 77 progetti di cooperazione, 6 dei quali saranno a beneficio dei Gruppi Operativi del Partenariato Europeo per 164 l’Innovazione per la sostenibilità e la produttività dell'agricoltura. Competitività dell’agricoltura e silvicoltura sostenibile Le richieste di sostegno agli investimenti agricoli e all’ammodernamento figurano al primo posto tra le misure del PSR attivate ed è data priorità ad imprese con potenziale innovativo, progetti di giovani agricoltori, agricoltura biologica e progetti integrati. La sostenibilità della produzione agricola è incentivata anche attraverso l'impiego razionale delle risorse idriche e l'uso efficiente delle fonti di energia rinnovabili. Saranno, inoltre, finanziate attività di diversificazione. - - Organizzazione della filiera agroalimentare, comprese la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti agricoli, il benessere degli animali e la gestione dei rischi nel settore agricolo Nell’ambito di questa priorità, la Sardegna sosterrà la promozione dei prodotti di qualità. Il PSR sosterrà 400 aziende per partecipare ai regimi di qualità. Il PSR intenderà, inoltre, sostenere lo sviluppo e il rafforzamento delle catene di approvvigionamento, comprese le filiere corte e i mercati locali, al fine di contribuire a raggiungere un reddito più elevato per gli agricoltori (500 aziende dovrebbero essere supportate). 165 Il sostegno per il benessere degli animali è ugualmente disponibile per gli agricoltori che si impegneranno ad applicare norme rigorose in materia di allevamento che vanno al di là dei pertinenti requisiti obbligatori (quasi 11.000 aziende agricole saranno supportate). - Preservare, ripristinare e valorizzare gli ecosistemi relativi all’agricoltura e alle foreste Nell’ambito di questa priorità, la Sardegna si concentrerà sugli investimenti rispettosi dell'ambiente e del clima, con particolare attenzione alla qualità dell’acqua, alla biodiversità e alla protezione del suolo. Quasi il 17 % delle terre agricole sarà oggetto di contratti di gestione a sostegno della biodiversità, il 15 % dei contratti volti a migliorare la gestione delle risorse idriche e un altro 19 % per gli appalti volti a migliorare la gestione del suolo. Un totale di 43 000 ettari riceverà un aiuto per convertirsi all’agricoltura biologica e un altro di 117 000 ettari per mantenerla. Inoltre, il PSR contiene una misura di cooperazione congiunta per l’adeguamento al cambiamento climatico e le azioni di mitigazione. - L’efficienza delle risorse e il clima Nell’ambito di questa priorità, il PSR Sardegna incrementerà la conservazione e il sequestro del carbonio principalmente sostenendo l’imboschimento, i sistemi agroforestali, la prevenzione e il ripristino delle foreste 166 danneggiate, il miglioramento della resilienza e il valore degli ecosistemi forestali nonché la loro conservazione. Inoltre, la misura alla cooperazione promuoverà il rafforzamento della sostenibilità attraverso il Partenariato Europeo per l’Innovazione e la cooperazione per l’adattamento e l’attenuazione dei cambiamenti climatici. - L’inclusione sociale e lo sviluppo locale nelle zone rurali Il PSR Sardegna presta particolare attenzione all’inclusione sociale e allo sviluppo economico nelle zone rurali. Tale priorità è attuata principalmente mediante l’approccio dal basso verso l’alto attraverso le strategie di sviluppo locale che dovrebbero essere elaborate dai previsti 13 gruppi di azione locale (GAL). Le strategie di sviluppo locale copriranno il 40 % della popolazione rurale e creeranno circa 500 posti di lavoro supplementari. Più di 245 beneficiari riceveranno un sostegno per investimenti in attività extra-agricole nelle zone rurali. Risulta evidente come il raggiungimento di standard più elevati di benessere nel settore zootecnico costituisca una delle principali sfide del PSR, per questo, ancora una volta sono state attivate le misure del benessere animale che, in questo ciclo, riguardano non solo gli allevamenti ovini ma anche altre tipologie zootecniche come bovino da latte, bovino da carne e suino con l’obiettivo di raggiungere 167 un’alta qualità igienico sanitaria delle nostre produzioni. Siamo inoltre riusciti a coniugare con le risorse europee quelle regionali e attraverso il PRS (Programma Regionale di Sviluppo) abbiamo posto le basi per uno sviluppo competitivo del sistema regionale. In sintesi la strategia regionale intende declinare le seguenti direttrici: - - - - - Supportare azioni specifiche di promozione e di internazionalizzazione delle produzioni , alla e a nuove forme di packaging; Rafforzare le filiere agroalimentari, in particolare favorendo l’aggregazione finalizzata alla trasformazione e alla commercializzazione, al fine di intraprendere un percorso articolato che valorizzi i processi produttivi e la promozione sui mercati locali e internazionali; Rafforzare le azioni di prevenzione delle malattie degli animali attraverso piani articolati al fine di garantire ai consumatori produzioni sane e sicure; Facilitare l’accesso al credito in agricoltura, anche per favorire il ricambio generazionale sostenendo nel contempo dei percorsi di professionalizzazione degli operatori; L’attuazione di tali strumenti è resa possibile grazie alla collaborazione tra il sistema delle Agenzie 168 Agricole che interagiscono con gli operatori locali e le istituzioni a vario titolo. Ad esempio, grazie alla collaborazione tra le Agenzie Agricole e l’Associazione Regionale Allevatori con il sistema sanitario, oggi la Sardegna è ai primi posti nel mondo per la qualità e la sicurezza alimentare del latte. Gli sforzi che stanno realizzando il sistema di assistenza tecnica di ARAS e LAORE, in termini di igiene zootecnica e assistenza veterinaria, e il sistema sanitario, in termini diagnostici e di profilassi anche vaccinale, devono essere valorizzati non solo in funzione della riduzione dei danni diretti e indiretti delle patologie animali ma anche nell’ottica di una certificazione di “qualità superiore” dei prodotti di origine animale della Regione. Gli effetti negativi diretti in termini di riduzione della produzione, maggiori costi e limitazione all’esportazione dovuti alla presenza di patologie sono noti. Basti pensare, ai vincoli all’esportazione delle carni suine a causa della PSA, alle limitazioni alla esportazione dei vitelli da ristallo a causa della Blue tongue ai rischi di blocchi dell’esportazione dei formaggi ovini per la presenza della Scrapie, sventati solo grazie all’esistenza del piano regionale di selezione. In questa ottica, tra gli obiettivi strategici per il 2015 vi sono quelli della eradicazione della PSA e dei ceppi di Blue Tongue maggiormente presenti nel territorio regionale. Come Assessorato intendiamo ulteriormente rafforzare queste azioni e abbiamo perciò annoverato tra gli obbiettivi 169 strategici del piano regionale di sviluppo quello di un monitoraggio sistematico di tutte le aziende zootecniche per incrementare ulteriormente i già importanti risultati raggiunti. Inoltre nel nuovo PSR è stata ulteriormente estesa a altre specie la misura pensata nelle precedenti programmazioni per il benessere animale negli allevamenti ovini. La Regione Sardegna sarà la prima in Europa a poter certificare che le proprie produzioni animali si realizzano facendo ricorso a pratiche zootecniche rispettose del benessere animale. Rilevante risulta inoltre l’attività delle Associazioni Provinciali Allevatori (AA.PP.AA.) riguardante la tenuta dei Libri Genealogici (LL.GG.) e lo svolgimento dei Controlli Funzionali (CC.FF.) del bestiame, mediante i quali vengono effettuate le valutazioni genetiche degli animali, che sono la base per gli schemi di selezione del bestiame. Queste attività rivestono particolare importanza in quanto hanno come conseguenza un aumento della qualità e delle produzioni unitarie, contribuendo a migliorare l’efficienza delle aziende; infatti maggiore è la produzione, più bassa è l’incidenza dei costi fissi per unità di produzione. I risultati finora raggiunti in Sardegna sia nel comparto bovino che ovino hanno ripagato ampiamente gli investimenti pubblici effettuati di provenienza nazionale e regionale, sia come aumenti quanti-qualitativi di produzione che in termini di occupazione. 170 Inoltre abbiamo rafforzato e ampliato i sistemi colturali che possono aderire alle misure agro-climatico-ambientali (misura 10 del PSR) che prevedono interventi di sostegno per gli impegni agro-climatico-ambientali e per la difesa del suolo. In particolare tali pratiche consentono la riduzione dei fenomeni di degrado del suolo e il mantenimento della sua produttività biologica su orizzonti temporali lunghi. Inoltre, si incentiva il metodo della "Produzione integrata" che consente un uso più sostenibile delle risorse idriche e migliora la gestione e la riduzione dei fertilizzanti e dei prodotti fitosanitari; Nell’annualità 2016 le domande pervenute relativamente alla tipologia di intervento “Difesa del suolo” risultano 3.753, corrispondenti ad una superficie pari a oltre 81.000 ettari, e con una stima di importo richiesto di oltre 20 milioni di euro. In riferimento alla “Produzione integrata” le domande pervenute risultano pari a 625 per una superficie di oltre 8 mila ettari e con una stima di importo richiesto superiore a 3 milioni di euro. In particolare, insieme al potenziamento delle misure di produzione integrata e biologica, il rafforzamento della misura sulla Difesa del suolo, che prevede incentivi agli agricoltori che puntano su coperture vegetali permanenti come i prati pascoli in alternativa ai seminativi (es. erbai autunno vernini nel caso delle foraggere) e all’agricoltura conservativa, può essere considerata una pratica “smart” di agricoltura. 171 Per rendere più efficaci l’adozione di sistemi produttivi che impattano in misura minore sull’ambiente è fondamentale diffondere sempre più le tecniche di agricoltura di precisione che, permettono, grazie anche ai Sistemi GNSS e di rilevazione delle rese e indici vegetazionali, un uso razionale e mirato dei concimi dei fitofarmaci e consentono un miglioramento delle rese e qualità delle produzioni. Per rispondere a queste esigenze, i bandi della misura 4.1 “Sostegno a investimenti nelle aziende agricole” di prossima uscita possono avere grande effetto. Tali bandi mettono a disposizione risorse ingenti per gli agricoltori pari a 70 milioni di euro per l’annualità 2016, e verranno attuati attraverso una procedura a sportello che si ritiene possa meglio rispondere alle esigenze specifiche delle nostre imprese in relazione al miglioramento dell'efficienza aziendale attraverso interventi di ammodernamento e innovazione. Inoltre, vista la scarsità di risorse destinate dal PSR per la gestione delle risorse idriche in agricoltura, particolare importanza viene data alla programmazione regionale che deve essere in grado di intervenire per dare valore aggiunto al sistema Sardegna. La gestione delle risorse idriche rappresenta da sempre per la Sardegna un tema centrale dello sviluppo economico e sociale. Il particolare contesto idrografico, povero di risorse idriche superficiali, è stato affrontato nei decenni passati con imponenti investimenti finanziari che oggi ci 172 consegnano una infrastrutturazione rilevante di sbarramenti artificiali e bacini di accumulo. In Sardegna ogni distretto irriguo è sotteso da uno o più bacini regolati dalle corrispondenti dighe, ma non per questo tuttavia possiamo affermare di avere garantite le necessarie scorte d’acqua per l’agricoltura e, addirittura in alcuni casi, per gli usi civili. La modificazione del clima ha infatti variato pesantemente l’andamento stagionale e diminuito i volumi complessivi del deflusso superficiale mandando letteralmente in crisi la base di calcolo che era stata a suo tempo assunta per il dimensionamento degli invasi e dei distretti dell’irrigazione. È inoltre da sottolineare lo stato della risorsa idrica sotterranea e della risorsa suolo, soprattutto nei contesti di irrigazione da falda sottoposte ad azione di forte emungimento con chiare evidenze di avanzamento del cuneo salino e sterilizzazione del suolo. A ciò si aggiunga il fenomeno noto come “estremizzazione degli eventi”, in ordine al quale a un deflusso medio annuo nettamente inferiore rispetto ai valori registrati fino agli anni ’70 del 900 (durante i cicli siccitosi si registrano aree con diminuzioni del 60%-80% del deflusso) si associano eventi intensi di natura alluvionale che danno vita alle catastrofi idrogeologiche. Ciò impone l’applicazione di rigide direttive che obbligano il gestore pubblico delle dighe a riservare preziose quote di invaso per la laminazione delle piene, con il paradossale risultato di sfiorare acqua a mare nelle stagioni piovose e al contempo soffrire le restrizioni 173 idriche, in primo luogo per l’agricoltura, nella successiva estate. Dobbiamo dunque più che mai affermare le produzioni agricole sarde nell’ottica di pianificare con cura quantità e qualità delle medesime in un contesto razionale di gestione complessiva del ciclo dell’acqua, dall’immagazzinamento delle scorte, all’erogazione e al possibile riuso dei reflui in agricoltura. Impostazione particolarmente complessa ma oramai obbligata e non ulteriormente eludibile. Molto rimane da realizzare ma le questioni nodali sono oramai focalizzate: occorre programmare con attenzione nuovi investimenti pubblici per il raggiungimento della piena capacità delle dighe e per l’efficientamento delle reti dalle perdite, occorre indirizzare l’utenza verso un’irrigazione responsabile mirata all’ottimizzazione dei consumi idrici. In sostanza, per costruire un modello gestionale di irrigazione sostenibile per i prossimi decenni in Sardegna, si rende necessaria un’efficace sinergia fra le politiche degli investimenti pubblici, delle tecniche colturali e degli investimenti aziendali dei privati, della corretta ed equa tariffazione del servizio irriguo, di una nuova gestione operativa della distribuzione dell’acqua da parte dei consorzi di bonifica migliorata dalle necessarie innovazioni tecnologiche e dai corretti modelli organizzativi di management industriale, del concorso diretto della ricerca applicata e dell’assistenza tecnica in agricoltura al raggiungimento di tali obiettivi. 174 Considerazioni conclusive Ci piace ricordare che naturalmente tutte le azioni fin qui richiamate intervengono in maniera impattante sulla produttività e il reddito delle attività agricole e che sul fronte tecnico le attività finora poste in campo sono importanti e vanno ulteriormente rafforzate ma la strada è tracciata e non temo ad affermare che la nostra Regione può essere considerata all’avanguardia, grazie anche alla attività svolta dalle agenzie regionali in sinergia con Università e centri di ricerca. L’ AGRIS, agenzia per la ricerca scientifica, la sperimentazione e l’innovazione tecnologica nel settori agricolo, agroindustriale, e forestale che ha il compito di favorire lo sviluppo rurale sostenibile, tutelare e valorizzare le biodiversità , accrescere la qualificazione competitiva nel campo della ricerca, e l’agenzia LAORE che interviene per l’attuazione dei programmi regionali in campo agricolo e per lo sviluppo rurale, promuovendo lo sviluppo integrato dei territori rurali e la compatibilità ambientale delle attività agricole . Grazie all’attività di questi enti la Sardegna anche nell’ottica della cooperazione con i paesi transfrontalieri ha sempre svolto un ruolo incisivo e fondamentale e nei prossimi anni è chiamata a un impegno notevole nella implementazione delle azioni con la partecipazione ai piani ENI e, nel prossimo futuro, ai progetti di collaborazione in corso con i paesi dell’area del Nord Africa e del Mediterraneo. 175 La presenza, al convegno odierno delle rappresentanze delle realtà produttive e della formazione della Tunisia, testimonia con particolare forza questo rapporto. Siamo particolarmente attivi nel impegno al trasferimento delle conoscenza e nella formazione di tecnici preparati per migliorare la gestione sanitaria produttiva e riproduttiva dei diversi allevamenti di animali marini e terrestri. Infatti, nelle aree del Maghreb, a fronte di notevoli miglioramenti nel settore zootecnico avvenuti negli ultimi 20 anni, molto ancora rimane da fare per poter ottenere una allevamento economicamente remunerativo e che soddisfi le esigenze della popolazione di queste aree. Negli ultimi decenni si assiste ad uno spopolamento delle aree rurali e all’immigrazione in quanto le attività agricole produttive di queste aree non possono garantire il sostentamento delle popolazioni che ci vivono. Inoltre, l’abbandono delle aree rurali porta sempre più all’avanzamento della desertificazione. Quindi alla luce di queste considerazione la collaborazione in tutte le attività di formazione e di ricerca nella gestione sanitaria, produttiva e riproduttiva può solamente creare un volano di sviluppo di queste aree, consentendo di individuare i punti critici della filiera di produzione e sviluppare le azioni di intervento più opportune rispondendo agli obiettivi più generali di dare risposte alla crescita e sviluppo di questi paesi. In queste azioni le Agenzie della Regione Sardegna le Università sarde, insieme alle Associazioni e gli Istituti di Ricerca attraverso l’impegno 176 dei propri ricercatori e dipartimenti, qualche anno fa hanno iniziato un percorso di collaborazione e saranno fondamentali non solo per la formazione ma anche per il potenziamento di piani idonei di azione e lo sviluppo di nuovi. Ma per candidarsi a un ruolo così strategico e fondamentale di un sistema vincente di Climate-Smart Agriculture” (CSA o Agricoltura “clima-intelligente”) nel bacino del mediterraneo e diventare punto di riferimento e modello di sviluppo abbiamo la necessità, noi per primi, di essere in grado di costruire sistemi sostenibili in termini di produttività e reddito oltre che in termini ambientali anche e soprattutto in termini economici. È da questa precisa volontà e dalla consapevolezza della grave debolezza strutturale e organizzativa del comparto agropastorale della Regione, nostro principale comparto produttivo, che abbiamo lavorato in questi anni per fare in modo che le nostre imprese crescessero e si dotassero di strumenti di livello europeo che gli possano consentire in futuro di affrontare le dinamiche sempre più imprevedibili dei mercati caratterizzati da improvvise e importanti oscillazione dei prezzi. Vale la pena ripercorrere l’evoluzione di questa situazione. Quando la Giunta si è insediata, 20 marzo 2014, il pecorino romano era quotato sulla piazza di Milano intorno ai 7,5 euro, in ascesa di oltre un euro e cinquanta rispetto allo stesso periodo dell’anno 177 precedente. All’epoca il latte ovino era quotato intorno agli 86 cent. Alla fine dell’estate il prezzo del Pecorino aveva superato gli otto euro sulla piazza di Milano e sul mercato USA, a settembre aveva quasi raggiunto gli 11 dollari. Le organizzazioni agricole stavano iniziando a rivendicare un prezzo per il latte superiore all’euro. Ci si trovava in quel tipo di scenario che classicamente si definisce roseo. E tuttavia non mancavano segnali di preoccupazione. I produttori storici del Pecorino Romano avvertivano l’esigenza di mettere sotto controllo le produzioni perché con prezzi così interessanti si poteva facilmente prevedere un “buttarsi a capofitto” su questo prodotto, con il rischio concreto di far saltare gli equilibri dei mercati. Per contro una parte della trasformazione era preoccupata del prevedibile aumento delle produzioni di latte che, in presenza di un limite alle produzioni di Pecorino Romano, avrebbero finito con il determinare eccedenze produttive a carico del segmento degli “altri formaggi”, con l’aggravante di un prezzo della materia prima più elevato a causa del prevedibile trascinamento verso l’alto del prezzo del latte causato dall’ipertrofia del Pecorino Romano. 178 Si era immersi in questa situazione quando, l’8 ottobre del 2014, si è riunito il primo “tavolo latte ovino” e in quel contesto forse per la prima volta, tutti gli attori della filiera hanno avvertito la necessità di affrontare una riflessione su come governare il comparto con una prospettiva che non si limitasse al superamento delle singole contingenze. A quel primo incontro ne sono seguiti numerosi altri, con una cadenza quasi regolare, scandita nel primo anno dal successo del Pecorino Romano e dall’esigenza di governarne la congiuntura per salvaguardarne il valore senza creare problemi al resto del sistema e segnata, nel secondo anno, dalla discesa sempre più rapida del valore del Pecorino Romano. In breve, in questi anni si è passati rapidamente da un eccesso all’altro senza mai smettere di sentire il fiato sul collo dell’emergenza, sempre ad inseguire, con buona pace delle riflessioni “su come governare il comparto con una prospettiva che non si limitasse al superamento delle singole contingenze”. Non è questa l’occasione per un cronogramma delle azioni messe in campo, tuttavia ripercorrere in una rapida carrellata quali disparati interventi si sono dovuti attivare, può aiutare a capire la vastità dei problemi che si è dovuto gestire. In uno scenario che ha fatto registrare l’embargo verso la Russia, la fine del regime delle quote latte, la 179 recrudescenza della blue tongue, l’imprevisto interesse dei mercati verso il Pecorino Romano nel 2014 e parte del 2015, e l’inarrestabile caduta dell’interesse dei mercati per il Pecorino Romano nella seconda metà del 2015 e nel 2016, si è passati dal come progettare e rendere attuabile una programmazione dell’offerta del Pecorino Romano, che fosse funzionale alla difesa del suo valore, in linea con le norme e non dannoso per le altre componenti del sistema, all’interlocuzione con il Ministero dell’Agricoltura per la rimodulazione dei “premi accoppiati”; dalle attività per portare il Pecorino Romano DOP alla vetrina del contesto di EXPO Milano 2015 come eccellenza nel panorama delle eccellenze DOP Italiane, all’urgenza di individuare prospettive per una efficace differenziazione delle altre produzioni; dal reperimento di risorse per attivare un programma di internazionalizzazione dei formaggi DOP regionali, alla individuazione di risorse percorsi e strumenti finanziari atti a supportare le imprese in una gestione delle giacenze che evitasse la svendita: Senza dimenticare nel frattempo i conflitti tra i diversi segmenti della filiera e le polemiche con la componente laziale della DOP Pecorino Romano che, anche per le modalità con cui sono state proposte, certamente non aiutano. Di tutta quest’attività, puntualmente condivisa e concertata con le rappresentanze che partecipano agli incontri del tavolo del latte ovino, si potrebbe fare una cronaca puntuale, citare provvedimenti, atti, cifre. 180 Ma in questo contesto quello che mi preme è invece restituire una sintesi concettuale che conferma e rafforza una consapevolezza: la filiera lattiero casearia ovina della Sardegna è sicuramente caratterizzata da una elevato livello di qualità ma è anche, e soprattutto, caratterizzata da una notevole fragilità di sistema. Dalla lettura di cosa è successo e di come si è reagito, emerge, a nostro parere, il tratteggio di un comparto che non è mai riuscito a coordinarsi e a fare realmente sistema. Un comparto che, andando oltre la lettura di questi ultimi anni, nel ciclico andare a singhiozzo tra eccessi di produzione e deficienze di produzione, nel perenne inseguimento di un equilibrio mai di fatto raggiunto, si è costantemente impoverito e non ha finora trovato una via di sviluppo. I nostri vicini sono nel tempo cresciuti noi no. Questa dinamica appare in tutta la sua evidenza se si analizza il dato storico delle produzioni di Italia Francia e Spagna, tre paesi per molti versi simili. I dati in serie storica da 1961 ci dicono che le produzioni complessive sono sostanzialmente invariate. Il peso relativo dell’Italia è però passato, in questo periodo, dal 60% al 32%. Non si dispone del dettaglio sulla Sardegna ma, considerata l’incidenza delle produzioni sarde sul totale Italia, crediamo che sia lecito desumere che buona parte di quelle quote di produzione che negli anni si sono si perse siano ascrivibili alla nostra regione. 181 Ed è sulla base di questa sintesi che riteniamo di poter asserire con convinzione che il lavoro più importante che in questo periodo è stato impostato e portato avanti è il progetto per la costituzione dell’Organizzazione Interprofessionale del latte Ovino per la Circoscrizione economica della Sardegna. Non ci sembra opportuno proporre un trattato sulle Organizzazioni Interprofessionali, ma per rendere esplicito il concetto è utile riportare quanto indicato nei considerata 131 e 132 del Reg. UE 1308/2013 che ha da ultimo normato la costituzione delle O.I: (art. 157) (131) Le organizzazioni di produttori e le loro associazioni possono svolgere un ruolo utile ai fini della concentrazione dell'offerta e del 182 miglioramento della commercializzazione, della pianificazione e dell'adeguamento della produzione alla domanda, dell'ottimizzazione dei costi di produzione e della stabilizzazione dei prezzi alla produzione, dello svolgimento di ricerche, della promozione delle migliori pratiche e della fornitura di assistenza tecnica, della gestione dei sottoprodotti e degli strumenti di gestione del rischio a disposizione dei loro aderenti, contribuendo così al rafforzamento della posizione dei produttori nella filiera alimentare. (132) Le organizzazioni interprofessionali possono svolgere un ruolo importante facilitando il dialogo fra i diversi soggetti della filiera e promuovendo le migliori prassi e la trasparenza del mercato. Questo strumento ci è sembrato perfetto per mettere rimedio e superare la fragilità del nostro comparto ovino. Ci è sembrato che potesse costituire non solo un luogo permanente di riflessione, sintesi e progettualità ma anche il soggetto più adeguato per interagire efficacemente con quell’ambiente - nel quale si sviluppano relazioni azioni e reazioni che, con le dinamiche che innescano, stanno ultimamente impattando in modo molto duro sui nostri sistemi sociali, produttivi economici… a cui abbiamo fatto riferimento in avvio di discorso. 183 Con questa forte convinzione abbiamo portato questo progetto all’attenzione del “tavolo” costituito, è importante sottolinearlo, dalle OO.PP.AA, dalle Centrali Cooperative, dalle Associazioni dell’industria e dell’artigianato, oltreché dai Consorzi di tutela dei formaggi DOP, tavolo che ne ha immediatamente recepito, con favore e interesse, gli obiettivi. Purtroppo, ma era inevitabile, quando si è scesi nel dettaglio sono emersi distinguo e distanze che hanno reso necessaria una lunga e faticosa azione di limatura e mediazione, tutt’altro che facile: in più di un’ occasione si è dovuta registrare qualche sedia vuota. Tanto ci è voluto che dal primo incontro dedicato all’argomento, datato al 20 luglio 2015, si è dovuto arrivare al mese di settembre 2016 per poter inviare al Ministero una prima bozza di statuto condivisa da tutti i soggetti. Attualmente il progetto è alle sue battute conclusive e sono stati già presi contatti con un notaio per la stipula ufficiale dell’atto costitutivo. Noi siamo convinti che il varo dell’Organizzazione Interprofessionale sia un traguardo storico per il comparto ovino regionale. Siamo stati tra i primi in Italia ad aver avanzato una proposta di Organizzazione Interprofessionale e rivendichiamo con orgoglio di averlo fatto per il comparto ovino. 184 Nulla può essere dato per scontato ma se l’Organizzazione Interprofessionale riuscirà a tradurre nei fatti la missione che si è data, il sistema potrà finalmente generare strategie produttive e di mercato efficaci e vincenti, e con ciò assumere quel ruolo di riferimento che gli compete per essere, di fatto, uno dei più rilevanti poli di produzione lattiero caseario ovino rispetto all’Italia, all’Europa, al bacino del Mediterraneo. E come tale potrà finalmente interagire con gli altri sistemi di riferimento avendo chiari obiettivi e strategie utili ad affrontare gli scenari che di volta in volta si presenteranno. E non è detto che debbano essere strategie necessariamente improntate alla competizione. Si possono anche immaginare percorsi di collaborazione finalizzati alla creazione di utili sinergie. Ritengo che questi orizzonti debbano essere valutati con attenzione proprio alla luce di scenari futuri che, per esempio, lasciano intravvedere un’espansione dei consumi - in conseguenza delle dinamiche demografiche - ma anche un forte aumento mondiale delle produzioni di latte vaccino che inevitabilmente genereranno aumento della pressione anche sul mercato lattiero caseario ovino. Così come, per fare un altro esempio che bene si sposa con il tema del convegno, una collaborazione con la sponda sud del Mediterraneo potrebbe forse aiutarci a prendere confidenza con problematiche veterinarie dovuti ad agenti patogeni che, visti cambiamenti climatici di cui tanto si 185 discute, potrebbero in futuro diventare ospiti fissi delle nostre latitudini. Forse, in quest’ottica, avviare un dialogo di prospettiva con i diversi sistemi ovini presenti nel Mediterraneo potrebbe rivelarsi quanto mai utile e opportuno. E comunque, riteniamo che sarebbe poco lungimirante non fare i conti con una realtà, quella del Nord Africa che, stando ai dati FAO, rappresenta circa il 15% della produzione mondiale di latte ovino, con paesi come l’Algeria che producono quanto la Francia e che pur producendo una quantità di formaggi ovini esigua, che si colloca intorno al 2% del valore mondiale, fa registrare ha una formidabile dinamica di crescita. 186 Certo sono situazioni che vanno lette con attenzione e debitamente approfondite. Non siamo i primi a dover gestire il dilemma tra cooperazione e competizione tra le due sponde del Mediterraneo, dove i sistemi agricoli sono strutturalmente diversi ma spesso, come nel nostro caso, dediti a produzioni simili. Bisogna però ricordare che ogni situazione comporta vincoli, condizionamenti e opportunità, ma mentre i vincoli e i condizionamenti ti arrivano comunque addosso le opportunità bisogna saperle riconoscere e essere in grado di coglierle. Dal dialogo con i paesi del nord Africa noi cogliamo opportunità di confronto, crescita e sviluppo comune in un percorso di collaborazione che unisca le due sponde dell’antico Mare nostrum. La Sardegna è pronta a fare la sua parte. 187 Lo spopolamento delle zone interne della Sardegna Prof. Pietro Ciarlo, Ordinario Diritto Costituzionale Università di Cagliari Lo spopolamento delle zone interne della Sardegna finalmente è diventata consapevolezza comune. Esso, evidente almeno dagli anni ’80, è stato a lungo rimosso, se non negato, dalla politica e dall’opinione pubblica. Come se evidenziare il problema fosse una sorta di offesa alla Sardegna e alla sardità. Ma è noto che ignorare le difficoltà porta solo al loro incancrenirsi. L’abbandono delle zone interne riguarda tutto il Paese. Lo spopolamento dell’ Appennino, dappertutto notevole, in alcune aree periferiche, come la Lucania e la Calabria ha assunto proporzioni drammatiche, ma mai quanto e come in Sardegna. La nostra è una regione del tutto particolare. Terza per superfice, a poca distanza da Sicilia e Piemonte, precede la Lombardia. É decima per numero di abitanti, un milione e 650.000, non pochi sulla scala italiana, circa 100.000 in più della Liguria, giusto per capirci. Ma ha una densità di soli 69 abitanti per Kmq, ci precede soltanto la Val D’ Aosta. Con la Basilicata siamo più o meno al pari. La media italiana è di 201. Siamo quasi a un terzo. Rispetto agli standard nazionali siamo una grande regione semideserta. Saremmo speciali già solo per questo. Ma 188 non solo. L’ andamento demografico è accentuato dalla concentrazione della popolazione nella fascia costiera. Le zone interne sono un deserto nel deserto. Nessuna regione italiana soffre di un analogo squilibrio. Finanche in Basilicata, la situazione è radicalmente diversa: le due maggiori città sono nell’interno. Viceversa, in Sardegna pian piano, uno alla volta, i comuni più piccoli, quasi tutti dell’ interno, vanno spegnendosi (cfr. a cura della Regione autonoma della Sardegna, Comuni in estinzione, Gli scenari dello spopolamento in Sardegna, Progetto IDMS, 2013). Peraltro tutto ciò accade in un contesto di demografia regionale nel suo complesso sfavorevole. Infatti, la Sardegna ha raggiunto il picco di popolazione residente nel 2010 con un 1.675.000. Per poi perderne subito circa 37.000 abitanti, riprendersi un pochino, ma perdere ancora nel 2014 e nel 2015 attestandosi a 1.658.000, ultimo dato ISTAT disponibile. Un andamento demografico cedente, intuibile già da molti anni, ma, dicevamo, a lungo poco evidenziato, se non occultato, ma che ormai incombe come un macigno sul nostro futuro. Ancora oggi, però, la drammatica e particolarissima questione dello squilibrio demografico interno viene considerata in forme inadeguate. La Sardegna rurale e in particolare quella interiore è il nostro cuore simbolico. É difficile ammettere che il cuore simbolico della Sardegna stia affievolendo i propri battiti. Ma è così. Oltre l’insularità, la principale altra ragione di specialità della nostra regione è ravvisabile proprio in questo particolarissimo andamento demografico e territoriale. 189 Bisogna arrestare uno spopolamento dell’ interno senza eguali in nessuna altra parte d’Italia. Il primo dei profili da affrontare è banalmente quello del reddito. Se le persone non hanno reddito, assistenziale o da lavoro che sia, non restano in un territorio. Se la politica si astiene e lascia andare le cose secondo il loro corso spontaneo nel giro di pochi anni il destino delle zone interne si compirà inevitabilmente. Stato, regione e comuni devono insieme o separatamente avviare azioni positive di lungo periodo tendenti a ridurre lo svantaggio residenziale delle persone, a partire dal reddito. Non si possono spendere parole di comprensione per i problemi delle zone interne, ma nei fatti considerarle come un mero costo. Certo le diseconomie nei servizi e nelle istituzioni sono del tutto evidenti. Ma chiudere scuole, uffici postali e quant’altro significa semplicemente assecondare la desertificazione. Cancellare consigli comunali e sindaci, significa privare le comunità locali del principale stimolo all’autopromozione. L’agone politico, il momento elettorale anche in un micro organismo è il principale momento di valutazione e proposizione. Senza di esso nessuna comunità vive, neanche un condominio. Gli strumenti d’intervento proposti sono stati tanti, molto meno quelli effettivamente praticati, pochissimi quelli che hanno sortito qualche effetto positivo. Credo sia essenziale porre al centro la questione della creazione di reddito da lavoro (vero o quasi vero che sia) nelle zone di spopolamento. Questo approccio non è sostitutivo di altri, 190 anzi spesso è l’altra faccia dello stesso fenomeno, si pensi solo alla dinamica dei servizi pubblici o privati. Se si tiene aperto un ufficio postale l’impiegato addetto forse sarà del territorio, comunque avrà legami con esso, lì spenderà una parte del proprio reddito. Ci sono dei costi e dei benefici. Purtroppo, però, quasi sempre i costi sono a breve e facilmente valutabili, mentre i benefici invece spesso sono a lungo termine e di difficile quantificazione. In questo senso il caso del nostro impiegato delle poste è del tutto significativo. In specie i benefici resteranno del tutto aleatori se il suo caso resterà isolato. Costi di questo tipo possono essere considerati alla stregua di costi da investimento, ma come tutti gli investimenti sono destinati a fallire se non sono inseriti in un piano, o almeno affiancati da altre pratiche assimilabili, ad esempio conservare la scuola comprensiva e così via. Ma questa strategia difensiva non basta: bisogna creare reddito non solo rinnovando le attività tradizionali, ma soprattutto creandone di nuove. Qui sta il discrimine. Innanzitutto, innovare agricoltura, allevamento, artigianato, agroindustria. Il settore primario e tutto ciò che ruota intorno ad esso è essenziale, ma non può da solo bastare. Peraltro ancora grandi sono i limiti delle politiche regionali e delle mentalità. Si pensi solo alle difficoltà che incontrano nell’ affermarsi i consorzi di produttori. Come non possono bastare i servizi tradizionali e quel po’ di manifattura sparsa qui e lì. La vera domanda è: oltre l’agricoltura e il terziario, per lo più pubblico, cosa può garantire reddito alle popolazioni dei territori dell’ 191 abbandono? Le domande sono tante, ma questa è ineludibile e prioritaria. Raramente essa viene posta in maniera così diretta perché le risposte sono veramente difficili e porre domande cui non si sa rispondere è un grande azzardo. Tuttavia bisogna provarci. In questo tentativo tante cose possono dirsi ma voglio concentrarmi su aspetti di carattere in senso lato culturale che ritengo prioritari. Innanzitutto non si può fare a meno di riscontrare un duplice atteggiamento contraddittorio. Quello della politica che dichiara di volersi far carico delle aree in corso di spopolamento, ma nei fatti fa troppo poco o addirittura le penalizza considerandole un costo. Il secondo è quello delle popolazioni residenti che troppo spesso sembrano essere condizionate da una pertinace psicologia immobilista. Certo, tante cose devono essere rifiutate. Ad esempio, l’opposizione al fotovoltaico su terreno agricolo credo debba essere la più netta. Ma il diniego non può divenire un atteggiamento preconcetto e generalizzato. Ad esempio l’accoglienza dei migranti, oltre ad essere un dovere morale, è anche un’attività che genera un giusto reddito. Spesso nei territori dello spopolamento esistono strutture edilizie idonee. Viceversa prevale un atteggiamento negativo. La mentalità secondo cui bisogna dir di no, nel caso dei territori dello spopolamento, non è assimilabile ad una strategia da veto player. Come è noto questa fortunata espressione è stata coniata all’ interno di quella teoria dei comportamenti denominata “strategia dei giochi”. Il veto 192 player è colui che per massimizzare il proprio interesse fa valere un potere interdittivo al fine di scambiare il suo consenso con una qualche utilità. Alla fine per alcuni si tratterebbe di un postulato ascrivibile alla mentalità delle cosiddette scelte razionali che si pensa caratterizzi le società dinamiche. Invece, nelle società statiche o peggio recessive domina la psicologia del ruolo. Naturalmente nella psicologia del ruolo le argomentazioni a sostegno e spiegazione dei comportamenti di ruolo sono molto variegate. Non a caso si parla di una psicologia e non di una strategia come nell’ elaborazione dei giochi. Tale psicologia si coniuga con una mentalità difensiva che tende a conservare le posizioni di ciascuno, piuttosto che correre qualche rischio legato all’ espansione e alle inevitabili variazioni di status. Nei territori in difficoltà spesso le ipotesi di nuove attività vengono percepite come una turbativa di un equilibrio, dei ruoli, piuttosto che come una opportunità. In Sardegna esistono 33 comuni in via di estinzione ovvero di spopolamento totale in cui cioè la densità abitativa tende ad essere di pochi abitanti per kmq. Perché sentirsi invasi da ospiti stranieri che peraltro si considerano solo in transito? Se ne fermasse qualcuno. Perché sentirsi sempre e comunque deturpati da pale eoliche che qualche cantiere e un po’ di manutenzione la portano. La tutela del paesaggio e dell’ ambiente è il bene primario e la stessa scarsa densità abitativa deve essere considerata come un’occasione imperdibile per valorizzare l’ambiente stesso. Ma questo non può significare il preconcetto rifiuto di ogni trasformazione 193 sociale e fisica. Le zone interne non devono porsi l’interrogativo di cosa devono respingere, ma di cosa possono realisticamente e dignitosamente attrarre per avere un po’ di lavoro e un po’ di reddito. 194 Dott.ssa Anna Rita Poddesu, Segretaria Regionale FLAI Sardegna 195 Agricoltura, pastorizia e ambiente in Sardegna e nel Mediterraneo Dott.ssa Anna Rita Poddesu, Segretaria Regionale FLAI Sardegna La crisi economica ha ormai messo in ginocchio l’apparato industriale della nostra isola: nessun territorio e nessun settore ne sono esclusi, le persone senza lavoro aumentano vertiginosamente, la disoccupazione ha raggiunto livelli di guardia cancellando il presente e il futuro di intere generazioni: 127.000 disoccupati, 73.000 Neet, oltre 20.000 lavoratori in ammortizzatori sociali e circa 8000 che sono usciti dal sistema che eroga i sussidi. Ma che prospettive ha una regione che ha tassi di disoccupazione giovanile vicini al 50%? Questi dati evidenziano le difficoltà che il modello di sviluppo su cui ha puntato la Sardegna nel passato non ha dato i risultati sperati, perché anziché mettere al centro delle attività economiche le risorse endogene, ha scelto di puntare su attività che hanno snaturato la vocazione del tessuto produttivo per impiantarne altre che alla fine si sono dimostrate non idonee a cambiare le sorti della Sardegna. E cosi nel tempo si è prodotto un impoverimento dei territori e forte un divario tra zone interne e zone costiere che è stato fino ad oggi la prova 196 evidente di politiche inefficaci che hanno pesantemente frenato lo sviluppo. É proprio dalla necessità di eliminare questo divario che dobbiamo ripartire, attraverso un maggior presidio del territorio e un freno allo spopolamento, per costruire un nuovo modello di sviluppo economico che parta dai bisogni e dalle aspettative del territorio. Cosa intendiamo per “nuovo modello di sviluppo?” Intendiamo la tutela e la salvaguardia del tessuto produttivo ed economico esistente, soprattutto quando questo crea ricchezza, lavoro e reddito, ma al contempo intendiamo lo sfruttamento di tutte le risorse endogene della nostra terra, di tutte le potenzialità offerte dal comparto agricolo e agroalimentare, e quindi la valorizzazione dei prodotti agricoli, lattiero caseari, della zootecnia, delle potenzialità offerte dal comparto della pesca, dello sfruttamento delle zone lacustri integrate. Tutte risorse da integrare ai valori della nostra cultura e delle tradizioni, alla valorizzazione dei saperi e dei mestieri, al mantenimento dell’identità dei luoghi e della loro storia, al perseguimento della qualità e della tipicità dei prodotti, alla capacità di integrazione e tenuta sociale, nonché presidio e valorizzazione del territorio e dell’ambiente. In un nuovo modello di sviluppo integrato e sostenibile tutto ciò è racchiuso nella valorizzazione dell’ambiente che anche se talvolta non ne è quantificabile 197 il valore economico prodotto, rappresenta il miglior investimento in salute e benessere delle popolazioni Siamo tutti consapevoli che la nostra terra ha enormi potenzialità grazie alla presenza di importanti risorse ambientali e produttive, ma anche quanto altrettanto siamo lontani da una condizione di reale valorizzazione di questo grande patrimonio, che potrebbe realizzare l’indipendenza economica della Sardegna. Proviamo ora a fare una fotografia di ciò di cui disponiamo, di cosa abbiamo per capire anche su quali settori e comparti possiamo agire. Nella nostra terra abbiamo un sistema ambientale che costituisce uno straordinario patrimonio che si distingue anche per una notevole differenziazione e diversificazione delle risorse: a distanza di pochi chilometri possiamo godere di un ambiente completamente diverso, mare, montagna, bosco, stagni, saline, deserto, siti minerari attivi e dimessi, siti archeologici di grande pregio, fauna e flora, con tutto ciò che ne potrebbe derivare sotto l’aspetto economico dall’integrazione con la storia, la cultura, le tradizioni e l’identità della Sardegna. Ecco perché le politiche legate ai fattori ambientali devono trovare una forte integrazione con lo sviluppo locale, devono costruire sinergie con lo sfruttamento delle risorse del territorio: lo sviluppo locale è centrale, è lo snodo fondamentale, deve essere il punto di partenza delle 198 politiche attive, da cui si sviluppano tutti i ragionamenti, partendo da bisogni, desideri e aspettative delle comunità locali, per costruire modelli di sviluppo condivisi e partecipati dalle popolazioni. L’agricoltura ha sempre avuto nella nostra società un ruolo primario, non solo dal punto di vista economicoproduttivo e di sussistenza, ma anche dal punto di vista sociale: ha in buona parte costituito la base della nostra cultura, delle nostre tradizioni, ha costruito le nostre radici e la nostra identità. In questo momento di crisi drammatica, di sistema, che colpisce in maniera ancora più violenta la Sardegna e il Mezzogiorno, date le condizioni di arretratezza strutturali, il settore agricolo funge da cuscinetto, mantiene un livello di produzione stabile, che si attesta comunque solamente al 30% del fabbisogno alimentare isolano e realizza una produzione assolutamente limitata pari al 4% dei PIL sardo. Perciò pur convivendo con altri settori produttivi, lo sviluppo del settore agricolo e agroalimentare, ha una importanza strategica, costituisce occasione straordinaria per ricostruire una reale opportunità di crescita economica, favorire opportunità di lavoro e realizzare un nuovo modello di sviluppo concreto sostenibile ed ecocompatibile della nostra regione. Il settore agroalimentare ha anche una funzione vitale nella nostra esistenza perché costituisce ciò di cui ci nutriamo e attraverso questo soddisfiamo il bisogno 199 primario dell’alimentazione: da ciò deriva la tutela della nostra salute, dell’ambiente, del miglioramento della qualità della vita per noi e per le generazioni future. Per questi motivi, ne siamo fortemente convinti, dobbiamo assolutamente cogliere l’opportunità che ci viene offerta dalla valorizzazione di questo settore, consapevoli che il sistema agricolo necessita da tempo di un intervento radicale, funzionale, per risolvere quei nodi strutturali che sino ad oggi hanno bloccato lo sviluppo, affinché possa compiere un salto di qualità verso la modernizzazione. Benché siamo usciti dall’obiettivo (1) e siamo considerati in transizione, si registra un forte ritardo infrastrutturale. In questa condizione generale, il settore agricolo vive alcune criticità che si vanno a sommare a quelle generali, che rendono ulteriormente più grave la situazione del comparto agricolo il cui superamento costituisce una condizione imprescindibile per lo sviluppo economico. Permane nel sistema agricolo e nel comparto una forte frammentazione aziendale, dove l’85% delle aziende non supera i 5 addetti, in cui la zootecnia che costituisce il 40% dell’agricoltura, risente eccetto che per il settore vacca da latte, della eccessiva frantumazione dell’offerta e di forti diseconomie di produzioni aziendali legate in particolare alle ridotte dimensioni aziendali. É ormai necessario definire politiche tese a rendere economicamente e culturalmente sostenibili le attività di 200 impresa nel settore, individuando percorsi di scelte chiare e coerenti che si richiamino ad una idea condivisa di agricoltura intesa come settore che può recuperare competitività e creare nuove opportunità di lavoro e come fattore di difesa ambientale e di conservazione della peculiare cultura sarda, con la finalità di costruire un progetto strategico per il rilancio e lo sviluppo del settore agroalimentare, attraverso due importanti opportunità complementari: lo sviluppo rurale e la multifunzionalità. Lo sviluppo della economia della Sardegna data la sua naturale vocazione agricola e l’alta caratterizzazione delle aree rurali pari all’85% passa necessariamente attraverso il rilancio e la valorizzazione della ruralità che può essere considerata la strategia vincente per la realizzazione di un nuovo modello di sviluppo integrato. Intendiamo lo sviluppo rurale come la valorizzazione delle risorse proprie di quell’area, delle produzioni, all’ambiente, delle risorse naturalistiche, del paesaggio della cultura delle tradizioni, anche gastronomiche che appartengono a quel contesto, la valorizzazione dei saperi e dei mestieri, il mantenimento della sua storia, il perseguimento della qualità e della tipicità dei prodotti, la capacità di integrazione e di coesione sociale, e soprattutto la valorizzazione dell’identità di quei luoghi e di quel popolo. Lo sviluppo rurale deve essere contestualizzato, non può essere erga omnes soprattutto su un territorio come la 201 Sardegna, che seppur piccola per dimensioni si caratterizza per una straordinaria differenziazione e diversificazione delle sue risorse: a distanza di pochi chilometri, possiamo godere di un ambiente completamente diversificato, mare, montagna, bosco, lago con tutto ciò che l’economia, le produzioni, la cultura, la gastronomia e l’identità che da quello specifico contesto deriva. Hanno un ruolo molto importante anche tutte le attività di ricettività e ospitalità rurale, bed & breakfast, fattorie didattiche, laboratori del gusto, ecc. quali veicoli di trasmissione e diffusione della cultura rurale. Ecco perché lo sviluppo rurale deve trovare una totale integrazione con lo sviluppo locale e deve necessariamente costruire una sinergia con le risorse proprie di quello specifico territorio: lo sviluppo locale è il baricentro, deve essere il punto di partenza delle politiche attive, solo attraverso uno sviluppo endogeno, attento e sensibile ai bisogni della popolazione possiamo costruire un modello di sviluppo integrato e sostenibile, condiviso e partecipato dalla popolazione. Lo sviluppo rurale si realizza anche attraverso la multifunzionalità. Con la Riforma Pac del 2003 si pone l’accento su un modello di sviluppo che si basa sul concetto di ruralità 202 fortemente integrata alla multifunzionalità. In Sardegna questa riforma assume carattere di grande importanza. Si mette così in evidenza la possibilità che attraverso l’attività agricola sia possibile assicurare funzioni collaterali di importanza strategica per la difesa del territorio e per la qualità delle vita: assetto idrogeologico con la manutenzione dei versanti dei corpi idrici, aspetti di forestazione sostenibile con lo sviluppo di un insieme di attività che possono essere connesse alla funzione di attività agricola, attività di trasformazione, attività turistiche, ecc. in cui la condizionalità, l’ecocompatibilità, l’ecosostenibilità costituiscono le principali linee guida che ci proiettano verso una nuova agricoltura non più basata sulla produzione di beni ma sulla valorizzazione di tutte le risorse endogene. Con l’agricoltura che diventa multifunzionale si costruisce un nesso fondamentale tra agricoltura sostenibile, equilibrio territoriale, conservazione del paesaggio e dell’ambiente attraverso la produzione di alimenti, la sicurezza alimentare, la tipicità dei prodotti, la biodiversità, il benessere animale, il sostegno all’occupazione, il mantenimento di attività economiche delle zone a basso insediamento e la costruzione di un modello di sviluppo rurale di qualità in grado di offrire alle nuove generazioni occupazione e sviluppo. Questo nesso prodotto-territorio oltre che essere l’elemento finale strategico della multifunzionalità ha una 203 straordinaria importanza: il territorio inteso nella sua globalità e complessità è all’origine della tracciabilità e rintracciabilità del prodotto agroalimentare e ad esso trasmette la propria identità contro ogni forma di contraffazione, quanto più questo nesso è forte, è consolidato, visibile e certificato, tanto più è elevato il prodotto e la sua qualità, e tanto più sono forti i produttori. Un ruolo quindi non più solo economico ma anche sociale dell’agricoltura. Qui sta la sostanza della multifunzionalità che costituisce per noi una grande opportunità: una nuova visione dell’agricoltura che intreccia funzioni produttive e di protezione e riproduzione delle risorse naturali, occupazione e sviluppo equilibrato del territorio, coesione sociale e sviluppo delle imprese. Perché dietro ogni prodotto proveniente dal quel territorio ci sono tutte le specificità, compresa la cultura, le tradizioni, l’identità di quel territorio e di quella popolazione. Ecco perché la vitalità del territorio rurale è essenziale per l’agricoltura cosi come l’attività agricola è essenziale per la vitalità del territorio. Abbiamo una grande criticità da affrontare a questo proposito: noi stiamo consumando il territorio, che non è una risorsa illimitata, con la cementificazione o non concedendo ai terreni coltivati la possibilità di rigenerarsi. 204 Ci viene in aiuto la legge, ormai in diritture d’arrivo, che ha la finalità di creare le condizioni per una riduzione del consumo indiscriminato del suolo, con la contestuale valorizzazione e tutela dei terreni agricoli, partendo da una regolamentazione che abbia una visione d’insieme del territorio, al fine di tutelarne la destinazione d’uso, sia per motivi di opportunità economica che di tutela del benessere della collettività. Una importante opportunità è costituita anche dalla integrazione tra agricoltura e turismo e tra zone costiere e zone interne. Attraverso la promozione delle produzioni agricole e agroalimentari integrate con tutte le opportunità dell’offerta turistica culturale e di svago legate alla valorizzazione del territorio montano o marino e le sue ricchezze ambientali, si può costruire un progetto integrato in grado di offrire un pacchetto vacanza che non comprenda solamente le zone costiere ma sia in grado di offrire opportunità culturali e di svago legate alla valorizzazione del territorio e delle sue ricchezze e specificità. Le masse di turisti che frequentano la nostra terra devono essere messe in contatto con le nostre produzioni agricole e il turismo deve essere il veicolo delle nostre produzioni sia nel momento dell’approvvigionamento da parte delle strutture ricettive, sia in quello della commercializzazione. 205 La Sardegna non è solo mare, come spesso viene rappresentata. La montagna e il bosco, infatti non sono solo territorio inospitale e non fruibile dalle popolazioni, ma sono luoghi dove possono essere sviluppate attività economiche capaci di creare reddito e benessere, possono favorire la crescita di attività assolutamente compatibili sfruttando tutto ciò che naturalmente l’ambiente del bosco fornisce nonché tutte quelle attività complementari turistiche e ricettive che sono in grado di offrire nuove opportunità di lavoro. Ecco perché il sistema agro-forestale deve diventare un traino per il comparto agroalimentare, per il settore turistico, per la tutela e salvaguardia ambientale, valorizzazione paesaggistica del territorio, per la qualità della vita, per l’affermazione di una forma di sviluppo capace di dare prospettive occupazionali a migliaia di lavoratori e per l’intera economia della Sardegna. Questi interventi possono essere la soluzione al problema sempre crescente dello spopolamento delle zone interne, perché potranno creare occasioni di lavoro per intere generazioni sinora costrette ad abbandonare le loro radici alla ricerca del posto di lavoro tanto auspicato e trasferirsi in città o emigrare alla ricerca di un posto di lavoro che spesso non c’è. Questo fenomeno negativo anche doloroso non solo ha provocato sinora lo sradicamento culturale e identitario delle persone, soprattutto giovani e lo svuotamento geografico delle aree, ha anche provocato 206 l’abbandono e il degrado ambientale e sociale delle aree rurali, oltre che la perdita del valore aggiunto a causa del mancato utilizzo delle risorse. É perciò molto importante favorire il ritorno dei giovani alla campagna, avviare una conversione e un ritorno all’agricoltura, riconoscendo il suo valore assoluto e strategico, non più marginale come sinora è stato. Cosi come è importante valorizzare tutte le risorse che dal settore agricolo possono derivare, prima fra tutte la zootecnia. Se parliamo di peculiarità ambientali parliamo anche di pesca e acquicoltura perché la valorizzazione dell’eccellente qualità dell’ambiente marino rappresentano una grande opportunità con ampie prospettive di sviluppo. Il territorio della Sardegna, come detto, è per l’85% rurale, ad esclusione di poche rilevanti estensioni urbane, arriva fino alle coste che si estendono per circa 1840 km e comprendono spesso gli stagni costieri e le lagune di cui la nostra isola è particolarmente ricca. La pesca soffre degli stessi limiti infrastrutturali che condizionano pesantemente il settore agricolo nel suo complesso, peraltro comuni alla generalità del sistema produttivo sardo (invecchiamento degli addetti, incapacità di fare sistema, difficoltà di penetrazione sui mercati, ritardi nella programmazione di sviluppo locale integrato, flotta inadeguata, peso e costi della burocrazia, assenza di 207 pianificazione) ed ha bisogno di crescere in competenza e capacità organizzativa, ma siamo ben consapevoli di una domanda crescente di prodotto ed una incapacità del sistema regionale di dare risposta assolutamente inadeguata pari a circa il 30%. Per queste ragioni, crediamo che il settore della pesca debba essere adeguatamente ripreso in considerazione nel momento in cui si decide di giocare la carta dello sviluppo fondato sulle potenzialità locali e sulle filiere di qualità. La scelta di Eni e Novamont di insediare a Portotorres il più grande impianto europeo di chimica verde, impone all’attenzione di tutti la questione del ruolo dell’agricoltura all’interno della green economy. Dopo il fallimento della cessione di Versalis ad un fondo americano il progetto sembra aver ripreso vigore ed esiste la concreta possibilità che venga portato a termine il progetto originario, anche se ridimensionato dalla quasi certezza della mancata costruzione della centrale a biomassa. La società nata dall’accordo tra Eni e Novamont, necessiterà per le sue produzioni e per l’alimentazione della centrale di una quantità rilevante di materia prima di origine agricola. Questa esigenza è presente fin dal primo momento, ma, forse non è stata adeguatamente presa in considerazione, quasi che si considerasse scontato che il mondo agricolo considerasse questa richiesta una straordinaria opportunità. In realtà non c’era e non c’è niente di scontato e la freddezza con 208 cui il mondo agricolo ha accolto il progetto e tutta lì a testimoniarlo. La FLAI, da subito ha posto l’accento su alcuni problemi ritenuti cruciali, che brevemente richiamo: l’opportunità di destinare terreni agricoli alla produzione di biomasse anziché di alimenti; i margini di remuneratività di tali coltivazioni per le imprese agricole; la necessità di tenere conto della penuria d’acqua in Sardegna; la possibilità di introdurre nel territorio regionale coltivazioni a base di OGM. Coerentemente con le affermazioni fatte finora in relazione alle possibilità di sviluppo dell’agricoltura sarda e all’importanza delle politiche di filiera noi riteniamo che sarebbe sbagliato destinare terreni irrigui alla coltivazione di biomasse per fini energetici ed industriali; l’uso ottimale di quei terreni è quello per produzioni alimentari, per cui le coltivazioni finalizzate ad alimentare centrale ed impianti dovranno insistere su terreni marginali, o, qualora sia possibile, entrare nel ciclo di rotazione delle colture. Ribadiamo la nostra opzione per la destinazione dei terreni ad attività di produzione agricola ai fini alimentari per l’uomo e gli animali, da collocare nella politica di filiera e di valorizzazione delle produzioni alimentari. Eventuali 209 coltivazioni non alimentari potranno aver luogo in terreni marginali, ferma restando l’inopportunità di introdurre in Sardegna coltivazioni a base OGM o ad alto consumo idrico. É fondamentale per le nostre produzioni l’adozione di politiche di filiera capaci di migliorare la qualità in una logica di tracciabilità, una chiara indicazione del luogo di produzione e trasformazione di un prodotto alimentare. Per poter competere sulla qualità, e non sul prezzo dati i costi di produzione, è assolutamente prioritario che i prodotti sardi siano tutelati non solo attraverso il sistema dei marchi, ma anche attraverso la tracciabilità che può essere garantita dalle organizzazioni dei produttori delle diverse filiere con l’adozione di disciplinari di produzione e parametri di qualità vincolanti ai quali tutti gli attori debbano obbligatoriamente attenersi pena l’esclusione dall’organizzazione. In un ragionamento di filiera ci si deve chiedere perché non siano mai state avviate politiche indirizzate a produrre nell’isola la quota possibile di alimentazione per le bestie allevate in Sardegna, ciò alla luce del dato in base al quale il 50% dei terreni irrigui non viene attualmente coltivato, ed è lasciato al pascolo brado pur in presenza di disponibilità d’acqua per il favorevole ciclo della piovosità e per le scelte infrastrutturali compiute negli scorsi anni. 210 É necessario perciò rimettere a coltivazione questi terreni con leguminose e foraggi destinate all’alimentazione animale in una corretta politica di tracciabilità: da ciò con cui l’animale si nutre fino al prodotto finito. Ciò costituisce una importante politica di filiera utile a creare i presupposti per il rilancio dell’attività di coltivazione e di allevamento. Perché queste politiche possano realizzarsi è necessario un forte governo pubblico capace di indirizzare e sostenere le produzioni, di favorire l’incontro tra le diverse categorie, di legare la complessiva valorizzazione del territorio a quella delle sue produzioni agroalimentari in una logica di sviluppo integrato e sostenibile. La debolezza commerciale che caratterizza attualmente il sistema delle imprese agricole in Sardegna la rende fortemente dipendente dagli intermediari con la conseguenza che le quote di valore aggiunto si disperdono in queste figure. Solo puntando sulla costruzione di questa immagine nel mondo, saremmo capaci di conquistare fette di mercato più ampie. Ci sono già esperienze di eccellenza sia nel settore dei vini, dei formaggi, dei pomodori, che ci indicano una buona prassi da seguire affinché le nostre produzioni possano incontrare il mercato sia locale che nazionale. 211 Una importante opportunità per la commercializzazione delle produzioni agroalimentari deriva anche dagli scambi con i paesi dell’area Mediterranea. Cagliari con il suo porto di transhipment, può rappresentare in questo processo uno snodo fondamentale per il commercio e gli scambi d’area nei confronti dei traffici che dai paesi dell’Oriente sono destinati al mercato americano. Una importante infrastruttura come il Porto Canale di Cagliari costituisce una interessante opportunità per la commercializzazione delle nostre produzioni con l’occasione di conquistare importanti mercati ora sconosciuti. I nodi strutturali che indeboliscono la capacità competitiva del sistema produttivo regionale producono i loro effetti negativi anche sul settore agricolo e agroalimentare, la soluzione dei problemi legati al costo dell’energia, all’efficienza ed economicità del sistema dei trasporti e della viabilità rurale, dell’acqua, del credito, della qualità e alla adeguatezza culturale della risorsa umana, alla copertura di tutto il territorio regionale con la rete informatica, al funzionamento adeguato della Pubblica Amministrazione non potrà che produrre risultati positivi sul mondo agricolo regionale. Questi nodi strutturali vanno affrontati con urgenza perché producono un forte ritardo nello sviluppo del sistema agricolo e gravi vincoli alle opportunità di crescita economica e occupazionale della Sardegna. 212 Un rilancio del settore agroalimentare richiede qualità ed adeguatezza della risorsa umana, capace di raccogliere l’eredità del passato con la salvaguardia dei tratti peculiari della nostra agricoltura, ma introducendo le innovazioni necessarie per essere competitivi in un mercato sempre più difficile. É fondamentale costruire cultura e capacità imprenditoriale dei produttori e favorire un modello nel quale essi acquisiscano coscienza e consapevolezza del valore del loro lavoro, fuori dalle logiche dell’assistenzialismo, e individuino forme e misure per poterlo valorizzare, superando l’individualismo attraverso la sinergia con forme di associazionismo. Soprattutto in Sardegna la bassa presenza dei giovani e delle donne nel mercato del lavoro, fa perdere l’apporto di capacità, intelligenze e conoscenze e quindi di una componente rilevante al processo di sviluppo e crescita tale da incidere negativamente sulle capacità competitive complessive. La disponibilità e i costi dell’acqua rappresentano un annoso problema. Non tanto relativamente alla disponibilità dell’acqua, che grazie ai notevoli interventi strutturali realizzati negli ultimi anni non si pone in termini restrittivi, quanto al costo dell’acqua per ettaro irrigato che raggiunge livelli che portano gli agricoltori ad abbandonare i propri terreni. 213 Emerge un quadro normativo di regolamentazione che sovrintende sia al funzionamento dei consorzi di bonifica che alla gestione della risorsa idrica multisettoriale. Le principali leggi di riferimento sono la L. 6 del 23 maggio 2008, Legge quadro in materia di Consorzi di bonifica, e la Legge n.19 del 6 dicembre 2006, Disposizioni in materia di risorse idriche e bacini idrografici. Quest’ultima nata dall’esigenza di dare corretta attuazione in Sardegna alla legge n. 183 del 1989 e al decreto legislativo n. 152 del 2006, nonché alla Direttiva 2000/60 della Commissione Europea che indica come obiettivo di riferimento, nella gestione della risorsa idrica, la sostenibilità, intendendola nelle sue tre accezioni di sostenibilità ecologica, economica e sociale. La Sardegna è stata la prima regione italiana a legiferare in materia, adeguando il proprio ordinamento alle direttive europee. L’aspetto di questa legge di riforma che interessa maggiormente l’agricoltura è la centralizzazione del governo della risorsa idrica multisettoriale presso la Regione, configurata come Autorità di Bacino, con l’affidamento della gestione ad un proprio ente strumentale costituito ad hoc. La Regione quindi pianifica l’uso dell’acqua e definisce le tariffe idriche all’ingresso per i tre diversi utilizzatori (Gestore servizio idrico integrato per uso civile, i Consorzi 214 di Bonifica per l’uso irriguo, i Consorzi industriali per l’uso industriale). Fissare le tariffe, prevedendo anche la possibilità di abbassarle col ricorso alla fiscalità generale, costituisce uno strumento di programmazione che la Regione può utilizzare in funzione delle proprie strategie generali di sviluppo. L’annosa carenza della risorsa irrigua è lì a testimoniare l’oculata scelte fatta nel 2006 di riformare il sistema idrico multisettoriale regionale e consentirà la programmazione di una agricoltura irrigua almeno nei terreni già infrastrutturati, ma non va mai dimenticato che la Sardegna è un’isola e quindi il suo sistema idrico è rigidamente delimitato, si trova al centro del Mediterraneo con un clima che la espone a periodici rischi di siccità, e quindi la risorsa va gestita con la massima attenzione e senso di responsabilità. La Sardegna è una regione del Sud e il destino del Mezzogiorno è legato all’Europa, non tanto e non solo perché la politica di coesione è l’unico strumento di programmazione delle risorse, capace di affrontare i divari e i differenziali di sviluppo, ma perché il Sud rappresenta una occasione unica. Infatti nel Sud, la Sardegna, con il porto di Cagliari abbraccia il Mediterraneo, luogo di cultura e contaminazione, di scambi e di accoglienza, rappresenta il 215 punto strategico della ridefinizione di uno sviluppo geopolitico oltre che commerciale ed economico di uno spazio euromediterraneo, in cui l’Europa può giocare un ruolo fondamentale guardando al continente africano in forte crescita, al Medio Oriente fino alle crescenti economie asiatiche. Certamente per cogliere questa opportunità è necessario uno spazio politico e sociale coeso e un ruolo attivo e concertativo da parte di tutti i livelli istituzionali coinvolti. Per questo è necessario che tutti gli attori sociali, ognuno nel proprio ruolo, consapevoli che un nuovo modello di sviluppo economico è possibile si adoperino proattivamente, con una adeguata strategia di governance, nel creare le condizioni per valorizzare tutte le straordinarie opportunità e potenzialità che la Sardegna offre. 216 La pastorizia e l’agricoltura sarda nell’economia dell’isola. On. Luigi Lotto, Presidente Commissione Attività Produttive del Consiglio Regionale della Sardegna Seppure con alti e bassi, il processo di ammodernamento della pastorizia e dell’agricoltura sarda, negli ultimi 70 anni, è andato avanti sia sul fronte organizzativo sia su quello produttivo. La meccanizzazione spinta da una parte e la selezione del bestiame dall’altra, accanto al processo di stanzializzazione delle imprese pastorali legato alla piccola proprietà coltivatrice, hanno segnato il cammino del comparto nella seconda metà del secolo scorso. Pur attraversato da momenti di crisi importanti legate alle difficoltà di mercato del Pecorino Romano o alla periodica ricomparsa del virus della lingua blu che ha spesso decimato le greggi, il comparto ha conservato intatto il suo peso nell’agricoltura sarda e nell’economia isolana. Con la produzione di formaggi da latte ovino, in prevalenza Pecorino Romano, di cui, come è stato magistralmente evidenziato nella relazione del professor Pulina, siamo i principali esportatori al mondo, il comparto pastorale è detentore dell’unico prodotto agricolo sardo veramente di massa che, se fosse meglio organizzato, può condizionare il mercato. Le produzioni lattiero casearie sarde, che rappresentano non meno del 40% della produzione agricola totale isolana, scontano 217 però una carenza di programmazione che ne offusca ogni prospettiva di sviluppo e ne determina una instabilità di fondo. Il rifiuto sostanziale delle imprese di trasformazione, privati e cooperative, di predisporre e realizzare un programma produttivo che salvaguardi l’intero comparto attraverso una virtuosa diversificazione produttiva e una valorizzazione dei prodotti a marchio di qualità (pecorino romano, pecorino sardo e fiore sardo) di cui il settore dispone ma che, per almeno due su tre, ignora, hanno determinato una debolezza complessiva del comparto. Paradossalmente, il comparto agroalimentare più forte per dimensione e per tipologie di prodotto, adatte alla commercializzazione senza le debolezze di altri prodotti agricoli (vedi orto frutta), appare incapace di garantire ai produttori di latte una prospettiva certa e lineare. La scelta dell’assessorato di promuovere la Organizzazione Interprofessionale tra gli attori dell’intera filiera del lattiero caseario dell’ovicaprino, va nella giusta direzione. Va incoraggiata con convinzione e nessuno deve sottrarsi al dovere di partecipare con tutto proprio peso e le proprie responsabilità. Potrà essere, questo, il primo passo verso un processo che porti ad un governo vero del comparto, dove ad ogni protagonista sia riservato il giusto spazio e assegnate le altrettanto giuste responsabilità. Solo in questo contesto, il pilastro principale del comparto, rappresentato dai pastori, potrà vedersi riconosciuto il proprio ruolo come anche assegnate le doverose responsabilità. 218 Un altro comparto, il viti vinicolo sardo, è stato protagonista di un significativo processo di riorganizzazione negli ultimi 20 anni. Un processo che può essere guardato con attenzione, visto come esempio e che, seppure ancora incompleto, lo ha accompagnato verso una valorizzazione delle produzioni di qualità e una razionalizzazione degli impianti. Un principio di “governo” del comparto. Negli interventi precedenti si è parlato di eccessiva concorrenza per il prezzo (il presidente Illotto) e di premi comunitari elargiti slegandoli dalla attività produttiva (Felice Floris), concordo con le preoccupazioni espresse. Certamente la filiera dovrà fare passi da gigante nella direzione di disinnescare le speculazioni, ma potrà farlo solo se nella Organizzazione Interprofessionale prenderà piede una vera regia di comparto. Sarà così possibile creare le condizioni affinché la concorrenza tra gli attori della trasformazione sia sulla qualità dei prodotti e servizi offerti più che sulla guerra del prezzo del formaggio e del latte, la cui formazione non può essere in mano alla OI ma dipende dal mercato del formaggio. Quest’ultimo però potrà essere positivamente condizionato dalla programmazione produttiva operata dalla OI, così come si potrà evitare che il soggetto su cui si scarica la fluttuazione del prezzo del formaggio, con il prezzo del latte, sia sempre e comunque il pastore. Credo però che il tema al centro della iniziativa di oggi si sposi bene anche con la questione più ampia che sta sullo sfondo della politica regionale. 219 Quale il ruolo della agricoltura e dell’agroalimentare sardo nel contesto economico isolano? E non è solo una questione di PIL, pur importante, ma anche di un ruolo sistemico che l’agroalimentare sardo di qualità può svolgere in sinergia con il mondo produttivo dell’artigianato, del turismo e più in generale del terziario. Una agricoltura sempre più integrata, sempre più legata, anche da ragioni di multifunzionalità, al resto dell’economia isolana di cui può essere importante volano ma dal quale può anche trarre motivo e ragione di crescita. Ma altre domande emergono con forza dai nostri ragionamenti. Quale il ruolo dei pastori negli equilibri sociali dell’isola? Quale il loro ruolo nel presidio del territorio e nella salvaguardia e valorizzazione del nostro patrimonio culturale e identitario? Quale il loro ruolo nel promuovere lo sviluppo sostenibile del territorio e nella salvaguardia e valorizzazione del nostro patrimonio paesaggistico e naturalistico, anche in ottemperanza alle buone pratiche relative ai cambiamenti climatici? L’agricoltura peraltro, e l’agro pastorale in particolare, ha un ruolo indiscutibile nel titanico sforzo cui è chiamato il governo regionale per arginare il fenomeno, apparentemente inarrestabile, dello spopolamento delle zone interne. Molto dovrà essere fatto in quella direzione a partire dalla salvaguardia dei servizi primari nelle comunità interne, passando anche per la promozione del 220 turismo enogastronomico, del turismo attivo, culturale archeologico etc. ma non si potrà prescindere dal presidio produttivo del territorio. A questo ultimo compito è chiamato in primis il mondo agro pastorale, i pastori. I pastori certo, chiamati anche essi però ad un ruolo più attivo nella promozione dell’ammodernamento del comparto, nella integrazione dello stesso con il resto della economia e nel pretendere una politica di filiera che valorizzi e stabilizzi le produzioni delle imprese pastorali. I pastori certo, che sono chiamati a garantire, non solo la sopravvivenza, ma il suo rilancio su nuove basi e alla luce delle nuove tecnologie oggi disponibili, della nostra attività produttiva più antica. Io non auspico una espansione ulteriore dell’allevamento ovino generalizzato e ancor meno nelle zone di pianura irrigua dove è auspicabile la crescita di altri comparti, è però essenziale la salvaguardia se non il rilancio della attività pastorale nelle zone interne. In questi luoghi, dove il pascolo brado è l’unica ma anche la più razionale ed economica utilizzazione delle unità nutritive. 221 Dott. Pietro Tandeddu, Coordinatore regionale Copagri Sardegna Dall’excursus storico sulla pastorizia isolana tracciato dall’On. Pietro Maurandi si rilevano i profondi mutamenti che hanno interessato le condizioni economiche e sociali dei nostri pastori, a partire dall’immediato dopoguerra. Pur mettendo in conto che l’orologio della storia, in una regione meridionale e insulare come la nostra, segna qualche ritardo rispetto alle regioni più avanzate e dinamiche, non vi è dubbio che le condizioni di vita del pastore sardo hanno registrato un netto miglioramento dagli anni cinquanta ai giorni nostri. Ciò è frutto di alcuni importanti interventi legislativi, che voglio richiamare io stesso, che hanno introdotto forti innovazioni nella conduzione dell’azienda agro-pastorale. In primo luogo, anche se in misura ridotta, la riforma agraria, più correttamente la cosiddetta “ legge stralcio “, approvata nel 1950, che prevedeva la possibilità dell’esproprio forzoso di terre per poi essere assegnate ai braccianti e piccoli contadini. Con la costituzione dell’ETFAS - Ente per la trasformazione fondiaria e agraria in Sardegna, furono acquisiti nella nostra Regione oltre 90.000 ha di terre, 222 oggetto di una grandiosa opera di miglioramento fondiario e teatro di realizzazione di grandi opere infrastrutturali. A partire dagli anni ’50 svolge un’azione altamente positiva la Cassa per la Formazione della Proprietà Contadina che, con la concessione di mutui quarantennali al tasso fisso dell’1%, consente a numerosi pastori transumanti delle zone interne di insediarsi stabilmente nelle pianure del Sulcis (prevalentemente i desulesi), della Nurra (fonnesi e altri barbaricini), di Olbia (Bittesi e orunesi) dei Campidani (fonnesi, gavoesi, pastori di Ovodda, ecc). Forse è bene ricordare che in quegli anni, la conduzione prevalente dell’impresa agricola pastorale era in affitto, cui si ricorreva per fare svernare nelle basse pianure le greggi che poi sarebbero salite in primavera, nella maggior parte dei casi, nei pascoli alti comunali gravati da uso civico. Con l’approvazione poi della L. 11 febbraio 1971 , n. 11, meglio nota come “De Marzi – Cipolla” , dai nomi dei parlamentari presentatori, si compie un ulteriore passo in avanti; la “ vituperata legge”, come fu definita dai suoi detrattori, pone termine, attraverso lo stabilirsi di una durata certa e pluriennale dei contratti e la fissazione di un canone automatico legato al reddito fondiario, alle assurde pretese dei proprietari assenteisti, sempre mal disposti ad investire qualche soldo nei loro terreni, che richiedevano 223 agli affittuari, per il solo periodo autunno-vernino, metà delle produzioni ottenute. Interviene poco dopo, la Legge regionale n. 44 di riforma agro-pastorale, derivazione della L. n. 268 (secondo Piano di Rinascita), frutto delle conclusioni della Commissione parlamentare di inchiesta sul banditismo in Sardegna. La legge n. 44 non esproprierà alcun terreno, nonostante l’obiettivo di mettere a disposizione della pastorizia sarda non meno di 400.000 ha di terreni, ma, attraverso acquisti e permute, costituirà un “ monte pascoli” che, per almeno 12.000 ha, sarà assegnato a singoli imprenditori e cooperative, spesso giovanili. Un maggior numero di ha, invece, sarà oggetto di piani di miglioramento agrario che interesserà diverse zone dell’Isola. La stabilizzazione dei pastori sul fondo favorirà il loro passaggio dalla condizione di semplice “guardiano di pecore” a moderno imprenditore, capace di coordinare sapientemente i fattori di produzione: terra, capitale e lavoro. Lo stesso era avvenuto con l’occupazione, da parte dei pastori sardi, dei poderi mezzadrili abbandonati in Toscana o l’acquisizione di numerose aziende nel Lazio , nell’Appennino emiliano ed in altre aree del Paese. Un altro fattore di miglioramento sarà costituito dalla nascita della cooperazione lattiero-casearia, già presente nei primi anni del novecento e organizzata nella 224 federazione FERLAC da parte del sardista Paolo Pili, poi passato al partito fascista, che riuscirà ad alimentare un buon flusso di esportazione di pecorino romano negli Stati Uniti. Pili sarà isolato dallo stesso fascismo e la cooperazione verrà messa in crisi come tutti i soggetti democratici organizzati. Di cooperazione si tornerà a parlare nel secondo dopoguerra ed essa servirà ad introdurre un regime di sana concorrenza tra i pastori associati e industria privata che, sino ad allora, la faceva da padrone imponendo prezzi del latte non remunerativi. Non saremmo onesti infine, se non facessimo cenno al lavoro prezioso svolto dagli enti pubblici di assistenza tecnica e di ricerca; penso soprattutto all’attività dell’Università, dell’istituto Zootecnico e caseario, oggi confluito in Agris. Va a loro il merito di aver guidato un’intelligente opera di selezione, di aver reso possibile il miglioramento dei sistemi di allevamento, di alimentazione, di aver diffuso le migliori tecniche volte a salvaguardare la salute animale. É per tutto questo che oggi disponiamo di una delle migliori razze ovine da latte, di vere e proprie “macchine da latte”. Possiamo ora dire di aver risolto tutto? No certamente; non mancano debolezze, criticità e contraddizioni. 225 Senza andare lontano, pensiamo ai giorni nostri. Il prezzo del latte ovino che, nella campagna lattiero-casearia 2013 2014 aveva avuto una remunerazione “storica” normalmente superiore all’euro/litro, ha subito una preoccupante e repentina caduta; gli industriali caseari avanzano timidamente ai pastori, per la prossima campagna, offerte di 50-55 centesimi /litro; si provi a immaginare la reazione di un lavoratore dell’industria cui si vada a proporre, improvvisamente, un calo di salario pari al 40%. Cosa è avvenuto? In parole povere si è violata la più elementare legge dell’economia che chiede equilibrio tra domanda ed offerta. Chiarito che la produzione di pecorino romano rappresenta la maggiore produzione (mediamente il 50%) di formaggio sardo, e che esso, purtroppo, per debolezza della produzione che non riesce ad imporre nuove regole in materia di contrattazione, determina il prezzo del latte, è successo che,a fronte di una produzione media, in tre annate precedenti e consecutive, di poco meno di 250.000 ql., che è esattamente la quota vendibile sul mercato mondiale, i caseifici sardi hanno prodotto, nella campagna 2014-2015, 301.000 ql. di romano e ben 356.000 ql nell’annata appena trascorsa, generando scorte difficili da smaltire. La quotazione del pecorino romano, che aveva raggiunto vette impensabili (€ 9.50/ Kg), superando addirittura la 226 quotazione del parmigiano reggiano, è attualmente di € 5.40/ Kg. Incontestabili i limiti culturali ed economici della nostra imprenditoria. Le cause del male non vanno ricercate all’esterno; sono all’interno della filiera stessa e fa specie che il passato non insegni nulla. Nella campagna 19941995, con una produzione di pecorino romano pari a oltre 384.000 ql, il prezzo del latte scese a 55 centesimi/litro e a 51 centesimi nell’annata 2003-2004, con una produzione di romano di 382.000 ql. circa. Che fare allora? Dar fiato alla protesta? La protesta può segnalare il disagio, ma di per sé non porta lontano. Ad una organizzazione professionale agricola responsabile compete il dovere della proposta, indicando soluzioni a breve, di emergenza, e strutturali, atte a costruire stabilità del sistema e determinare un’equa ripartizione del valore all’interno della filiera. Cosa debbono fare i trasformatori poiché il pastore è l’unico a non avere responsabilità, se non quelle del controllo sociale dei caseifici cooperativi? Va da sé che occorre il rispetto di una auto regolamentazione dell’offerta che sia dettata dalle reali condizioni di mercato, peraltro proposta e approvata all’interno del Consorzio di tutela del pecorino romano che fissava in 260.000 ql. la produzione di romano per la campagna 2015-2016. 227 Più attori devono concorrere al superamento della crisi: Ministero, Regione, Consorzio di tutela del romano e l’intera filiera. Il ministero, con la ricostituzione del tavolo nazionale di filiera lattiero caseario del comparto; con l’emanazione del decreto attuativo del regolamento comunitario che impone agli acquirenti di latte di comunicare mensilmente allo Stato quanti litri ricevono, e ciò al fine di avere finalmente dati certi sulla produzione di latte; con l’emanazione, in virtù di un altro regolamento UE, di un altro decreto che finanzi, con i promessi 6 milioni di euro, la macellazione di pecore di oltre 4 anni; con l’emanazione, infine, del bando atto a consentire ad AGEA di acquistare pecorino romano e pecorino sardo da destinare agli indigenti in quanto è prioritario alleggerire i magazzini dalle scorte. La Regione, con l’approvazione di un programma straordinario di acquisto di pecorino da destinare alle mense pubbliche e ai poveri della Sardegna; con l’accelerazione dell’iter di attuazione delle misure già approvate in materia di credito, sia quelle a favore delle imprese industriali, sia quelle relative al prestito di esercizio per le aziende agricole (i pastori potrebbero così sfuggire alle caparre e al ricatto degli industriali privati) ; con il finanziamento di un programma sperimentale di destagionalizzazione delle produzioni (oggi il latte si produce da dicembre a luglio, ben poco subito dopo) per 228 soddisfare, in estate e autunno, le esigenze dei caseifici che producono formaggi molli, nel momento, tra l’altro, di massimo afflusso dei turisti. Di grande utilità sarebbero, inoltre due provvedimenti di natura legislativa che consentano, l’uno, di legare i benefici regionali disposti per le industrie di trasformazione lattiero-casearie, al rispetto della programmazione produttiva del pecorino romano approvata in sede di consorzio di tutela, l’altro, di concedere un aiuto straordinario triennale agli allevatori, in regime "de minimis", per il tramite dei caseifici ai quali conferiscono il latte, con priorità ai caseifici sociali, alla sola condizione che non producano pecorino romano o che si impegnino, per le prossime campagne lattiero-casearie 2016-2017, 2017-2018 e 2018-2019 al rispetto del programma di autoregolamentazione dell’offerta. I caseifici sociali dovrebbero invece impegnarsi verso una maggiore aggregazione dell’offerta di pecorino romano con lo sviluppo di OP e costituzione di Associazioni di OP o altre forme giuridiche che possano sviluppare comuni azioni di marketing e commerciali attraverso un’unica organizzazione commerciale; Contestualmente, le produzioni casearie andrebbero concentrate, oltre che sul pecorino romano, su alcune tipologie; in primis, pecorino sardo a DOP, che ha oggi una produzione di poco superiore ai 18.000 ql (2014). Probabilmente la somma di tutte le etichette di formaggio 229 in commercio e prodotte nei caseifici sardi, ammonta a circa un migliaio; produzioni, queste, che solo in pochi casi possono affrontare il mercato nazionale, difficilmente quello estero. Al consorzio di tutela del pecorino romano spetta, a nostro modesto avviso, il compito di inasprire le penalità previste dal piano di autoregolamentazione dell’offerta per chi deborda dalla produzione assegnata di romano e la modifica del disciplinare dello stesso formaggio per introdurre un” romano da tavola” a basso contenuto di sale: non oltre il 3%. Qualcuno inizia a produrlo ma non trova tutela giuridica. Infine, compito dell’intera filiera è dare gambe immediatamente all’Organizzazione Interprofessionale del comparto, che si spera possa essere costituita entro il mese di dicembre davanti al notaio, perché rappresenta lo strumento (mai attivato in Sardegna) utile a costruire una politica di filiera tra tutti i soggetti interessati: produttori di latte, caseifici privati e cooperativi, distribuzione e l’apporto, come soci consultivi, delle organizzazioni di rappresentanza delle varie fasi della filiera, dalla produzione alla distribuzione, dei consorzi di tutela, della ricerca. All’Organizzazione Interprofessionale compete, a norma di legge, stabilire condizioni di trasparenza nel campo delle produzioni e dei mercati, promuovere la ricerca di nuovi mercati di sbocco, elaborare un contratto-tipo di 230 fornitura rispettoso di quanto previsto dall'art. 62 della L. n. 27/2012 che serva a regolare, in maniera uniforme sull’intero territorio regionale, i rapporti contrattuali tra chi vende e chi acquista latte, condividere i parametri da porre a base del pagamento del latte secondo qualità, stabilire tetti produttivi entro un’azione programmata di destinazione del latte, promuovere l’incremento dei consumi e la destagionalizzazione delle produzioni. Tutto ciò potrebbe effettivamente, entro un quadro di concertazione, attenuare i conflitti del passato e far fare al comparto quel salto di qualità da tempo auspicato. 231 Agricoltura, pastorizia e ambiente in Sardegna e nel Mediterraneo Dott. Raffaele Lecca, Presidente Regionale ALPAA La congiuntura internazionale relativa al mercato del Pecorino Romano sta creando forti tensioni tra allevatori e industria casearia sul prezzo del latte; il crollo del prezzo del pecorino nei mercati internazionali, aldilà di tante considerazioni, mette in difficoltà gli allevatori, che si vedono scarsamente remunerato il latte, e le aziende trasformatrici, che si ritrovano con le cantine piene di prodotto invenduto. Questo fatto ripropone una contrapposizione, mai sopita, che crea forti tensioni tra gli allevatori e l’industria casearia, e che costringe tutte le parti in causa a riflettere circa i correttivi da adottare. Sistematicamente, come se il tempo si fosse fermato, nei momenti in cui le vendite del Pecorino Romano entrano in sofferenza ritorna di attualità il fatto che le industrie casearie approfitterebbero della congiuntura negativa per innalzare i loro profitti a danno degli allevatori, i quali, a causa anche di mancate politiche associative, si presentano ai tavoli negoziali con estrema debolezza. Si fa un gran parlare di come è cambiato il mondo pastorale, di come si sia modernizzato, di quanta tecnologia sia entrata negli allevamenti (ovini) con le 232 mungitrici e con stalle super tecnologiche costruite per garantire benessere agli animali, insomma di quanto il vecchio pastore sardo sia diventato imprenditore che guarda al futuro pensando al proprio lavoro con speranza e fiducia. In parte tutto ciò è vero, però credo ci sia ancora molto da fare affinché vengano superate tutte le criticità che vive il comparto, e con esse, conseguentemente, una fetta importante del sistema economico e produttivo della nostra regione. La pastorizia è un mestiere antico, è stato per decenni l’unica fonte di guadagno per decina di migliaia di persone, e per decenni il popolo sardo è stato identificato, suo malgrado, con la pastorizia. Quindi a torto o a ragione la pastorizia e l’agricoltura non potevano e non possono essere un problema che riguarda solo gli addetti ai lavori, ma riguardano l’intera classe dirigente isolana, che ha il dovere di ritenerle a tutti gli effetti come elementi inscindibili dell’intero comparto economico e sociale della Sardegna. La classe politica e dirigente alla fine degli anni 60 inizio anni 70 ha ritenuto che il sistema economico e sociale della Sardegna fosse condizionato eccessivamente e negativamente dal comparto agro-pastorale, e che ciò sia stata la causa del malessere che ha vissuto la nostra isola. Nessuno allora contestò tale tesi, pensando che la panacea potesse essere la sostituzione di quel modello economico, 233 basato appunto su un’economia prevalentemente agropastorale, con una basata sull’industrializzazione. Così ci fu l’avvento di un’economia basata sull’industria e si ridimensionò, per ovvie ragioni, quella agricola e pastorale. Certo quella scelta consentì alla Sardegna di uscire da una condizione di arretratezza economica, però forse non si capì bene che l’industrializzazione si sarebbe potuta avere facendola convivere con il sistema precedente senza sostituirlo del tutto. Quel modello, finanziato con ingenti risorse di denaro pubblico mostra ora evidenti punti di criticità, al punto che si incomincia a ragionare su come e su cosa puntare per far uscire la Sardegna da una situazione di crisi preoccupante. Noi riteniamo che il comparto industriale, quello dell’agro-industria e quello dell’allevamento, possono in modo intelligente convivere, anzi si possono e si debbono sviluppare delle sinergie interessanti con gli altri settori produttivi del territorio e in grado di dare un forte contributo alla fuoriuscita della Sardegna dalla crisi che sta vivendo. So bene che il “fenomeno” agro-pastorale è stato analizzato in tutte le sue componenti, però spesso lo studio si è concentrato solo sugli aspetti di criticità abbastanza palesi senza soffermarsi sulle reali potenzialità che il comparto può esprimere. Riteniamo si debba ragionare su come il processo sta evolvendo per comprendere appieno 234 quale è il reale contributo che il comparto può offrire all’intero settore produttivo sardo. Le ricerche effettuate ci presentano una situazione in cui, in momenti diversi, la crescita del numero delle aziende di allevamento, così come il numero dei capi, ma anche la promiscuità delle specie allevate, ha coinciso con il venir meno di molte attività agricole, che hanno oggettivamente e per ragioni differenti, impoverito il mondo delle campagne. Infatti l’espansione della pastorizia si realizza tutta a discapito dell’agricoltura, pertanto molti contadini disoccupati si riciclano nell’allevamento trasformando l’attività economica svolta precedentemente. In tal modo è avvenuto un riassetto dell’economia che tuttavia ha perso una componente essenziale come quella dell’agricoltura che era, e secondo me rimane, una componente essenziale del processo produttivo dell’allevamento. Tuttavia la persistenza e il bisogno di espandere l’attività pastorale evidenzia la capacità degli allevatori nell’adattarsi in modo flessibile ai mutamenti, riorganizzando le risorse a disposizione senza snaturare la propria base strutturale. Iniziano così ad emergere forme di aggiustamento economico e sociale in cui coesiste una forte adattabilità nel saper individuare delle soluzioni adeguate per la valorizzazione dei suoli in aree marginali e interne abbandonate dagli agricoltori. Oggi viviamo in un contesto differente da quello in cui ci siamo trovati nell’ultimo decennio del secolo scorso, quando comunque era palpabile il bisogno di riconquistare porzioni di terreno 235 per il pascolo poiché in conseguenza del progressivo abbandono dell’agricoltura si faceva avanti il degrado dei terreni con l’aumento delle superfici boscate: per i pastori diventava al quel punto quasi fisiologico usare qualsiasi mezzo, anche l’incendio, per garantire i pascoli alle loro greggi, che avevano bisogno di spazi sempre più grandi per mantenere una certa redditività nell’attività pastorale. Oggi l’allevamento di bestiame viene praticato con metodi imprenditoriali differenti dal passato e l’alimentazione non è più solamente affidata a fattori climatici e alla crescita spontanea del pascolo. Infatti l’alimentazione animale non è più solamente affidata a fattori climatici e alla crescita spontanea del pascolo, ma alle coltivazioni di produzioni di foraggere ed altri alimenti integrativi del pascolo naturale quali i mangimi composti. Tale dato ha una certa rilevanza economica in quanto quelle produzioni sono quasi esclusivamente importate in assenza di tracciabilità dei prodotti e della sicurezza alimentare. Sarebbe pertanto opportuno che si lavorasse per riprendere i ragionamenti per la produzione di tutti gli elementi che concorrono a creare la filiera dall’allevamento fino alla commercializzazione, favorendo la pratica della multifunzionalità delle attività delle aziende del comparto agro-pastorale con ricadute in termini qualitativi delle produzioni. Purtroppo invece nonostante il contributo importante dei tecnici, tanti, troppi allevatori ritengono che sia indifferente produrre, prescindendo dalla qualità del 236 prodotto, e prestano invece più attenzione alla quantità della produzione. Detto quanto sia complesso il mondo agro-pastorale, quei processi produttivi vanno inseriti a pieno titolo all’interno di una programmazione complessiva del sistema economico sardo. Cosa Vogliamo dire con questa affermazione? Sappiamo benissimo che le dinamiche del comparto industriale hanno logiche e interessi che apparentemente non confliggono con il mondo agricolo, però alcune scelte fatte sulla industrializzazione, e ora reindustrializzazione, hanno condizionato e rischiano di condizionare l’individuazione di un nuovo modello di sviluppo dove tutte le componenti possono e devono coesistere. Non si tratta di far valere una supremazia di un comparto rispetto ad un altro, ma semplicemente decidere quali siano le priorità, nel rispetto della legge nazionale, sull’uso del suolo. Pertanto, ora il tema è come si può riequilibrare il sistema produttivo sardo superando le attuali storture. L’iniziativa odierna ci permette di affrontare il tema della pastorizia e ambiente nel mediterraneo, stando lontani dai luoghi comuni che ricorrono ogni volta che si affronta questo argomento. Negli ultimi 10 anni il comparto allevatoriale ha ricevuto oltre 600 milioni di Euro dalla Unione Europea che sono serviti a migliorare sensibilmente lo stato di salute degli animali, la qualità del latte, e hanno favorito 237 l’ammodernamento delle aziende; tra l’altro l’estensione della misura sul benessere animale, avrà, in positivo, importanti ripercussioni sulle aziende che hanno superato indenni i danni provocati dalla PSA (Peste Suina Africana). Il contributo comunitario teso a favorire il miglioramento delle condizioni delle aziende agro-pastorali, è stato però percepito più come un sostegno al reddito del singolo allevatore, piuttosto che come intervento per favorire l’ammodernamento dei sistemi organizzativi aziendali. E una parte importante delle ingenti risorse economiche erogate al comparto, sono finite anche ad alimentare una macchina costituita da enti strumentali che hanno drenato per anni ingenti risorse. Parallelamente, in un contesto in continuo movimento e a causa dell’abbandono della pratica della trasformazione del latte da parte dell’allevatore, si è consolidata sempre di più l’attività dell’industria lattiero-casearia, che unitamente ad una maggiore stabilità del mercato internazionale, soprattutto americano, e ad una buona remunerazione del latte, ha determinato una congiuntura favorevole che ha creato uno stato di benessere per l’intero comparto. Accanto al consolidamento dell’industria di trasformazione lattiero-casearia, è cresciuta la necessità di emancipazione degli allevatori, che attraverso la creazione di un sistema cooperativistico hanno sviluppato un’attività 238 di trasformazione che ha in qualche modo contrastato il così-detto strapotere dell’industria di trasformazione. La trasformazione del latte prodotto tramite sistemi industriali ha di fatto trasformato la figura dell’allevatore, che è passata da produttore, trasformatore e commerciante, a semplice mungitore con la conseguenza che gli elementi passivi dell’attività vengono scaricati tutti sul primario. Da allora in poi sarà il pastore a subire le conseguenze delle crisi che ciclicamente si abbattono sul prezzo del latte. Oggi, nonostante non tutti concordino, esiste un surplus di produzione del latte; alcuni Paesi europei, dove la pastorizia è molto diffusa, fanno una forte concorrenza ai nostri prodotti; alcune aziende del settore lattiero-caseario sardo sono andate a produrre formaggi fuori dalla nostra regione e, seppur non commercializzando il prodotto in Sardegna, la vendita di quei prodotti erode fette di mercato delle nostre produzioni. Altro aspetto non trascurabile è che ormai il pecorino romano, dopo alcuni anni molto favorevoli, subisce una contrazione delle vendite soprattutto nel mercato americano e se, sono azzeccate le previsioni di alcuni commentatori, con l’avvento alla presidenza americana di Donald Trump il nostro “Pecorino Romano” farà sempre più fatica a mantenere le quote di mercato degli anni passati. E qui si torna al punto di partenza e cioè, così come per tutte le monocolture, quando non si diversifica e ci si 239 affida ad un unico cliente il sistema va in crisi, con conseguenze pesantissime per tutto il comparto. Siamo in una fase completamente diversa persino rispetto al passato recente, e non è comprensibile che una parte del comparto continui a trascurare la necessità di intervenire sui fattori strutturali che, se non risolti, determineranno forti sofferenze per il comparto. Una parte importante degli allevatori ha dimostrato una grande capacità di cambiamento, rivedendo e riorganizzando il sistema produttivo. Infatti da un lato stiamo assistendo al ridimensionamento del numero delle aziende con la conseguente modifica delle strategie di allevamento, dall’altro ad una modifica delle strategie produttive delle aziende di trasformazione che prestano sempre di più attenzione alla diversificazione e alla lavorazione del prodotto pecorino romano che diventa sempre di più una produzione che ottiene il gradimento dei consumatori locali. Al punto in cui siamo diventa improcrastinabile puntare sulla qualità della materia prima, sulla diversificazione del prodotto, sull’aggregazione delle aziende, sulla politica di commercializzazione, sul ricambio generazionale. Tutto ciò è ancor più vero perché se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che esistono già, anche in Sardegna, delle esperienze nel mondo pastorale che sono considerate delle eccellenze nel comparto. Molte aziende hanno smesso di conferire agli industriali per tornare alla trasformazione diretta, riscoprendo le tecniche di lavorazione che si erano 240 perse nel tempo. I formaggi realizzati prevalentemente a latte crudo sono fuori dagli standard industriali e si connotano territorialmente, si distinguono per la qualità del pascolo, del periodo della mungitura e del tipo di lavorazione, e sono certificati con appositi marchi riconosciuti. Il lavoro sinergico degli Enti agricoli di assistenza e sperimentazione e delle Università e la disponibilità di allevatori a intraprendere la via della ricerca e sperimentazione, ha fatto sì che nei mercati e al consumatore arrivino dei formaggi di altissima qualità molto apprezzati sia per la bontà sia perché possono fregiarsi del valore dato dalla connotazione territoriale e del marchio Sardegna. Certo non siamo ai livelli di altre esperienze nazionali o comunitarie, dove esistono dei veri e propri distretti e il prodotto si identifica completamente con il territorio di provenienza, però anche da noi si incominciano ad intravedere dei piccoli segnali che vanno in quella direzione, e i prodotti presenti negli scaffali dei supermercati e nelle attività commerciali specializzate incontrano sempre di più il favore del consumatore. Proprio per le ragioni esposte, a nostro parere, la disputa tra industria casearia da una parte e pastori (allevatori) dall’altra non produce nulla di buono né per una parte né per l’altra. Sistematicamente su un tema come quello del prezzo del latte pagato dagli industriali del settore viene invocato l’intervento della politica, come se l’Assessore di turno possa decidere quanto debba essere pagato un litro di latte e quanto latte deve essere acquistato dalle 241 industrie. La polemica, anche recente su tali aspetti, rischia di essere strumentale e utile solamente a sollevare un polverone per nascondere le vere responsabilità dalle quali il mondo degli allevatori e delle Associazioni di rappresentanza non sono immuni. Con ciò non vogliamo dire che la politica non c’entri nulla con la crisi che vive il comparto, anzi bisogna che si prenda consapevolezza che il mondo della pastorizia e dell’agricoltura è un tassello fondamentale del nuovo modello di sviluppo previsto dal PRS (Piano di sviluppo regionale) presentato dalla Giunta del Presidente Pigliaru. La Regione però deve essere conseguente e mettere in campo azioni politiche e interventi legislativi che vadano nella direzione di supportare e tenere in vita le oltre 13000 aziende che costituiscono il comparto e le 34000 aziende del mondo agricolo. Bisogna che la Regione dia maggiore impulso alla crescita dell’associazionismo, deve favorire la costituzione delle OP, deve incentivare le produzioni di qualità, deve modificare la natura giuridica dei soggetti che hanno il compito di assistere gli allevatori, deve mettere in essere azioni che rendano distinti i nostri prodotti, deve incominciare a dire che probabilmente bisogna ridurre il numero degli ovini, e che si ritiene necessario aumentare gli allevamenti dei caprini, che tanto interesse stanno suscitando in alcuni gruppi che competono a livello globale e che stanno investendo in Sardegna cospicui capitali per garantire ai nostri prodotti nuovi mercati, inserendoli in scenari davvero interessanti 242 attraverso l’utilizzo delle loro reti commerciali e piattaforme distributive. Naturalmente la classe politica è chiamata anche a farsi carico di taluni aspetti che all’apparenza sembra che non c’entrino nulla con i ragionamenti fin qui sviluppati. É tanto faticoso e poco redditizio vivere in campagna; è complicato però immaginare la nostra terra senza la presenza degli allevatori e degli agricoltori. Sembra una banalità ma senza la loro presenza la nostra terra sarebbe un’altra cosa, perché verrebbe cancellata la nostra cultura, la storia, verrebbe conseguentemente penalizzato il turismo, le stesse industrie, come del resto succede per la trasformazione delle carni dei suini, verrebbero penalizzate in quanto non in grado di produrre prodotti distintivi. Siamo pure certi che, con il ridimensionamento delle produzioni del comparto agro-pastorale, la nostra bilancia commerciale sarebbe ancor più deficitaria. In sintesi noi continueremmo ad importare i prodotti alimentari, però vedremo accelerare il processo di spopolamento delle nostre zone interne. Crediamo esistano buone ragioni perché si debba continuare a sostenere il comparto con interventi economici a sostegno delle attività agropastorali. Del resto in tutto il mondo occidentale, e nel resto d’Italia, l’attività agricola è sostenuta economicamente con soldi pubblici, anzi in alcuni paesi europei gli aiuti, il sostegno legislativo a favore delle loro produzioni è pure più alto che da noi in Sardegna; sappiamo bene quanto sia difficile scrollarsi di 243 dosso l’etichetta di settore assistito, ma chiediamo e ci chiediamo per quale motivo si grida allo scandalo se si interviene a sostegno dell’agricoltura, mentre non si dice nulla quando sono altri comparti a godere di interventi e sostegni di pubblico denaro. I luoghi comuni hanno il sopravvento, però ci si dimentica del fatto che le risorse spese nel comparto agricolo aiutano le attività produttive del territorio, e così facendo si aiutano le produzioni tipiche, si presidia il territorio, lo si difende, e si contribuisce a mantenere e preservare l’incantevole paesaggio della nostra terra. L’agricoltura, la pastorizia, sono tratti distintivi della nostra terra; si può sicuramente produrre latte, carne, pomodori e tante altre cose fuori dai nostri confini regionali, ma l’aria, il sole, i profumi, il clima, la terra, non possono essere delocalizzati: questa è la nostra ricchezza che nessuno potrà rubarci e spetta a noi fare in modo che il mondo agricolo, quello pastorale, dell’industria agro-alimentare, diventino un comparto trainante del nostro sistema economico e produttivo. 244 Mon témoignage entant que bénéficière de la bourse d’étude du projet «Formed» Dott. Saad Fikri, Gestione dell’Ambiente e del Territorio Mes dames et messieurs bonjours, tout d’abords je tiens à remercier l’association des ex parlementaires et la fondation de la Sardaigne de m’avoir invité à cet événement très enrichissant et intéressent pour moi en tant qu’étudiant en sciences environnementaux. En effet je suis présent avec vous aujourd’hui pour vous témoigner du sucée d’un projet qui a été initier par la fondation de la banque de Sardaigne en collaboration avec l’union des universités de la méditerrané. Cette initiative appelé projet FORMED a étais lancer pour la première fois en 2015 et a permis à un grand nombre d’étudiants Marocain Algérien et Tunisien de venir commencer un cycle d’étude de master en Sardaigne, que ce soit à l’université de Sassari ou de Cagliari. En ce qui concerne ma promotion 2016/2017 on a été 13 étudiants marocains diplômé de l’université Mohamed 5 de rabat à venir continuer nos études de master à l’université de Sassari. Ce qui nous permet donc d’étudier dans les meilleures conditions possibles et cela grâce a une bourse d’étude 245 largement suffisante qui nous permet de résider à la cité universitaire et de nous restaurer à la Mensa. Le profil des jeunes étudiant est très divers, on compte parmi nous des naturalistes, des économistes etc. et tous d’autant que nous sommes on a réussi à nous intégrer dans la société italienne et plusieurs parmi nous peuvent déjà se vanter de parler couramment l’italien. J’espère que ce projet aboutira à bon port et aura un résultat satisfaisant tant aux attentes des organisateurs que des étudiants et je finirais mon témoignage par remercier infiniment tous ceux qui ont permis par un moyen ou un autre à me permettre de vivre cette expérience incroyable qui est de vivre et d’étudier en Sardaigne. 246 L’agricoltura nel processo di sviluppo della Sardegna Prof. Aldo Accardo, Ordinario Storia Contemporanea Università di Sassari L’agricoltura è stata spesso oggetto di interventi pubblici e provvedimenti legislativi, nazionali, regionali ed europei, rivolti a modificare l’assetto fondiario, a migliorare le condizioni di redditività per gli addetti, ad aprire prospettive e sbocchi di mercato. Per restare al secondo dopoguerra in Italia, si possono citare i decreti Gullo – allora Ministro dell’Agricoltura – e la riforma agraria del 1950, volti all’eliminazione del latifondo, diffuso in Sicilia e nel Mezzogiorno continentale, e alla nascita della piccola proprietà contadina. Per quanto riguarda la Sardegna, le prime analisi e i primi interventi vanno collocati nella fase di gestazione della prima legge di Rinascita, in attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, che recita “Lo Stato con il concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola”. Dopo anni di incertezza, nel 1951 venne insediata una Commissione consultiva che cominciò a lavorare nel 1954 e nel 1958 stese un Rapporto conclusivo sugli studi per il Piano di rinascita., che sosteneva un programma di 247 investimenti pubblici e privati, riguardanti l’agricoltura e l’industria. Nel 1959 venne istituito un nuovo organismo, denominato Gruppo di lavoro, che in tre mesi elaborò un Rapporto conclusivo, che assegnava un ruolo preponderante alla programmazione, da attuarsi nel territorio per zone omogenee, e attribuiva un ruolo strategico allo sviluppo del settore industriale. L’aumento del peso dell’industria, nella formazione del reddito regionale e nella struttura dell’occupazione, diventava la fondamentale manovra di politica economica per modificare in profondità la struttura dell’economia regionale e per innescare un processo di sviluppo. Un mutamento rilevante di prospettiva. Che cosa era successo nel frattempo? Vi era stata, nella cultura economica e nella politica italiana, la svolta industrialista per quanto riguarda il Mezzogiorno, sostenuta con vigore fra gli altri dall’allora presidente della SVIMEZ (Istituto di Studi per lo Sviluppo del Mezzogiorno), il professor Pasquale Saraceno. Si era passati dalla cosiddetta “vocazione agraria” del Mezzogiorno e delle isole alla politica delle infrastrutture come precondizione per lo sviluppo, che aveva visto la nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Per giungere poi alla svolta industrialista. L’industria era un corpo estraneo rispetto al Mezzogiorno e alla Sardegna. Nell’isola era presente l’industria estrattiva, ma non l’industria manifatturiera se non per scarsi episodi. Ma proprio questa estraneità, rispetto al 248 tessuto economico e sociale dell’isola, veniva assunta come la situazione migliore per fare dell’industrializzazione la strategia per lo sviluppo. In quel periodo circolavano le teorie di diversi economisti di prestigio internazionale che sostenevano sul piano teorico quelle posizioni. L’industrializzazione della Sardegna non era quindi una idea della politica e nemmeno nasceva – almeno all’inizio – da interessi precostituiti. Era il risultato di una diffusa opinione, sostenuta da illustri economisti. Si possono citare Gunnar Myrdal, Otto Hirshmann e Francoise Perraux, per i quali lo sviluppo di un’area sottosviluppata si sarebbe innescato come effetto di shock esogeni. In questo clima e con questi riferimenti culturali, si giunse alla prima legge di Rinascita, in attuazione dell’articolo 13 dello Statuto. Anche l’agricoltura era naturalmente contemplata nella prospettiva adottata: l’enfasi posta sull’industria manifatturiera nasceva da un vuoto rilevante in questo settore; l’intento era quindi di instaurare un accettabile equilibrio fra agricoltura e industria. Ma nella fase di attuazione gli interventi per l’industria prevalsero e travalicarono gli altri. La prima legge sul Piano di Rinascita fu approvata dal Parlamento nel 1962: L. n. 588/1962, Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, in attuazione dell’art.13 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n.3. 249 Successivamente la Regione approvò la LR n. 7/1962, che fissava i compiti della Regione in materia di sviluppo e indicava le modalità da seguire. Successivamente, si elaborò lo Schema generale di Sviluppo, che è in senso proprio il Piano di Rinascita, cioè la definizione degli obiettivi da perseguire, degli strumenti da utilizzare e delle risorse da impiegare in un arco di tempo di 12 anni. Da questo momento incominciò, dal punto di vista economico, una storia davvero nuova per la Sardegna, che inciderà profondamente sulla sua struttura economica e sul suo tessuto sociale. Si può dire che la storia moderna dell’economia sarda incomincia con la legge 588 e con il Piano di Rinascita. Le condizioni del sistema economico regionale erano allora caratterizzate da un livello di reddito pro capite fra i più bassi d’Italia, anche se il più elevato fra le Regioni meridionali, probabilmente a causa della scarsità relativa di popolazione in Sardegna. Il reddito per abitante collocava la Sardegna al 12°-13° posto fra le Regioni italiane, rispetto al dato medio nazionale oscillava, nel corso del decennio che precede la politica di rinascita, fra il 70% dell’inizio e il 60% della fine del periodo. L’attività produttiva si concentrava in settori scarsamente dinamici e utilizzava tecniche produttive tradizionali e consolidate. Il sistema economico era quindi del tutto tagliato fuori dall’imponete processo di trasformazione e 250 di sviluppo che in quegli anni investiva l’economia italiana. Questa situazione si rifletteva in tre aspetti fondamentali. In primo luogo un basso livello di accumulazione di capitale, sensibilmente inferiore rispetto alla media nazionale, con investimenti concentrati in opere pubbliche, in abitazioni e in opere di sistemazione e di trasformazione agraria. In secondo luogo un basso livello di produttività, che si ridusse drasticamente nel decennio dall’83 al 73% della media nazionale, in conseguenza della crisi dell’attività mineraria. Infine, un flusso migratorio interno verso le città, ed esterno verso le regioni dell’Italia settentrionale e verso altri paesi europei. Il flusso migratorio, in dimensioni fino ad allora sconosciute in Sardegna, era la risultante del basso livello di reddito in agricoltura, che spingeva fasce mature di forza lavoro ad abbandonare il settore, e delle scarse possibilità di trovare occupazione, che le spingeva ad abbandonare l’isola. La scelta che venne fatta con la legge 588, e che si concretizzò in termini operativi con il Piano dodecennale, fu quella dell’intervento pubblico nell’economia regionale e della programmazione come metodo di intervento. Questa scelta nacque dalla consapevolezza che i meccanismi e i comportamenti spontanei del mercato non fossero in grado di innescare un processo di sviluppo in un’area arretrata come la Sardegna. 251 Con gli interventi previsti, l’azione pubblica non si limitò più alle infrastrutture, come era accaduto fino ad alcuni anni prima per il Mezzogiorno, ma l’intervento si proponeva di realizzare determinati interventi per lo sviluppo e di predisporre a questo scopo gli strumenti e le risorse necessarie. Interventi di programmazione settoriale si erano già avuti negli anni Cinquanta. In particolare, la legge 646 del 1950 e la legge 634 del 1957 possono intendersi come prime leggi di programmazione in Italia. La prima riguardava l’infrastrutturazione del Mezzogiorno, la seconda riguardava, sempre per il Mezzogiorno, le agevolazioni finanziarie per lo sviluppo di attività industriali. Ma si trattava pur sempre di leggi di carattere settoriale, oppure di programmazione di interventi pubblici o di interventi delle partecipazioni statali. Il Piano di Rinascita per la Sardegna era invece un intervento intersettoriale, che si proponeva obiettivi di sviluppo generale relativi all’intero sistema economico regionale. Si trattava quindi della prima esperienza di programmazione organica condotta in Italia. Il modello adottato per la politica di intervento pubblico nell’economia regionale fu quello dello sviluppo squilibrato, che si concretizzò nella politica dei poli di sviluppo. La teoria identifica il processo di sviluppo con la creazione di una serie di shock esogeni, che mettono in crisi l’equilibrio di sussistenza e le sue circolarità, e contemporaneamente creano nel tessuto economico un 252 vuoto di iniziative che può essere colmato da nuove intraprese, esogene rispetto al sistema originario. Una volta sconvolto l’equilibrio di sussistenza, e una volta aperte le relazioni economiche con il resto del mondo, il sistema economico sottosviluppato si specializzerà nelle produzioni in cui possiede un vantaggio comparato. I nuovi insediamenti di attività produttive così sorti daranno luogo ad altri insediamenti, grazie agli effetti di collegamento “in avanti” e “all’indietro” con altre attività. In tal modo si realizza un processo di sviluppo che investe numerosi settori economici e vaste aree territoriali. La rottura dell’equilibrio di sussistenza, attraverso la nascita di imprese di dimensioni adeguate, è quindi il necessario presupposto affinché il processo di sviluppo si verifichi e si generalizzi. Il modello dei poli di sviluppo, che venne prescelto con la programmazione regionale degli anni Sessanta è caratterizzato da una sorta di tensione fra due elementi contradditori: gli effetti diffusivi e gli effetti di polarizzazione, che avrebbero drenato risorse dagli altri comparti a favore dei “poli”. La possibilità che lo sviluppo possa effettivamente diffondersi su tutto il territorio e che possa investire altri settori oltre quelli degli interventi originari, resta affidata alla semplice eventualità che gli effetti diffusivi siano maggiori degli effetti di polarizzazione. Il Piano di Rinascita del 1962 esprimeva, in modo organico e dettagliato, una concezione dirigista 253 dell’intervento pubblico, già presente nella formulazione dell’articolo 13 dello Statuto, secondo la quale “lo Stato con il concorso della Regione” deve determinare le trasformazioni strutturali necessarie per innescare un processo di sviluppo. Significa che gli investimenti pubblici non devono limitarsi a fornire sostegno alle attività produttive ma devono provocarne la nascita e lo sviluppo sul territorio. L’idea sottostante è che il mercato non fosse in grado di innescare un processo di sviluppo, e che i capitali necessari per farlo non esistessero in Sardegna, dato il basso livello di accumulazione. Era un’idea corrente negli anni sessanta e pervadeva le scelte relative alla programmazione. Si tratta di un dirigismo forte, che permea il Piano di Rinascita e che sta in buona misura alla base delle difficoltà che si incontreranno. Si trattava infatti di una concezione sostanzialmente anomala rispetto alle condizioni di un’economia di mercato, che alla prova dei fatti si dimostrò velleitaria: benché capace di modificare in profondità l’economia e la società sarda, si rivelerà impotente a realizzare gli obiettivi così come erano stati prefissati, che era proprio la logica e la natura stessa del Piano. Tuttavia, se era velleitario pensare di realizzare meccanismi di accumulazione non di mercato in un’economia di mercato, l’intervento pubblico ha avuto effetti rilevanti e duraturi, come l’aumento del reddito e l’espansione dei consumi, solo che essi non erano quelli 254 previsti e ricercati dalla programmazione regionale. Inoltre, in assenza di un tessuto economico adeguato all’interno dell’isola, la domanda di beni di consumo si rivolgeva in grande misura a beni e servizi prodotti al di fuori della regione. Il più importante effetto fu proprio quello di introdurre nel sistema economico regionale un meccanismo anomalo di accumulazione di capitale, poiché l’intervento pubblico si innestò in una situazione di fallimento dell’iniziativa privata nel generare un processo di sviluppo. L’intervento pubblico rappresentò una forma di accumulazione surrogata, nel senso che si diffuse per sopperire all’assenza del meccanismo di accumulazione tipico delle economie capitalistiche. L’assenza di accumulazione privata in Sardegna, va collegata all’assenza di borghesia imprenditoriale che, a sua volta, deriva dalle vicende storiche dell’isola, in particolare dalla sconfitta di Giovanni Maria Angioy alla fine del Settecento. Angioy e il suo movimento erano portatori delle idee dell’Illuminismo, che nell’Europa centrale avrebbero creato il clima sociale per lo sviluppo e l’egemonia della borghesia. In Sardegna la sconfitta di Angioy, e la distruzione di ciò che costituiva il suo movimento, ha ucciso sul nascere un clima ideale e culturale favorevole alla nascita e alla espansione di una classe borghese, lasciando campo libero al consolidarsi di un’economia legata ad attività e modalità arcaiche di produzione e di distribuzione della ricchezza. 255 Il carattere anomalo dell’accumulazione di capitale in Sardegna, portava con sé due effetti. In primo luogo il meccanismo non era ripetibile; si trattava infatti di scelte che erano affidate a decisioni politiche consapevoli e perciò destinate a ripetersi solo se si fossero ripetute le condizioni socio-politiche che le avevano rese possibili. In secondo luogo, in assenza della borghesia protagonista dell’accumulazione, questa funzione venne svolta da nuove categorie sociali, che assunsero una funzione centrale nel processo di sviluppo. Questa circostanza rappresenta una modificazione strutturale della società, dei suoi equilibri e delle sue relazioni interne. Verso la fine degli anni Sessanta si approfondì e si diffuse la consapevolezza della difformità fra obiettivi del Piano di Rinascita e dati macroeconomici, che non erano dati meramente statistici ma assumevano i tratti di un disagio sociale profondo, spia del fatto che le trasformazioni della società sarda non avevano assunto il carattere dinamico che ci si proponeva e che probabilmente nuove tensioni e nuovi disagi si erano aggiunti agli antichi. La spia macroscopica di questa situazione fu il riemergere, nel corso degli anni Sessanta, di fenomeni di criminalità che sembravano scomparsi. In particolare i sequestri di persona, che fra il 1966 ed il 1968 furono 33 contro una media di 1 all’anno nel decennio precedente. Mentre la mappa dei luoghi dei sequestri copriva quasi tutta l’isola, 256 la mappa dei luoghi dei rilasci dei sequestrati coincideva con le zone interne ad economia agro-pastorale. Un’attività di riflessione e di indagine fu condotta, all’inizio degli anni Sessanta, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna, istituita con la legge 755 del 1969 e presieduta dal senatore Giuseppe Medici. La conclusione della Commissione fu che le origini profonde delle forme di criminalità tipiche delle zone interne della Sardegna andavano ricercate nelle condizioni della pastorizia nomade. Storicamente il banditismo sardo nasceva dal conflitto fra regole e valori della società pastorale e le leggi degli Stati conquistatori. Anche l’avvento dello Stato italiano, l’approvazione della Costituzione repubblicana, la costituzione della Regione autonoma e l’avvio della politica di industrializzazione, non avevano dato luogo al rinnovamento delle campagne nelle zone interne. La criminalità aveva modificato i propri metodi e spostato i propri obiettivi, dalle forme tradizionali dell’abigeato e dei danneggiamenti di colture, alle estorsioni e ai sequestri di persona. L’ostilità del mondo pastorale nei confronti dello Stato, il sentimento di comprensione e di solidarietà verso i fuorilegge da parte delle popolazioni, richiedeva trasformazioni radicali dell’ambiente economico, neutralizzando o riducendo i fattori che favorivano la persistenza delle forme tipiche di criminalità dell’isola. La soluzione presentata dalla Commissione stava quindi nella trasformazione della pastorizia nomade in attività di 257 allevamento stanziale. Bisognava fornire al pastore quella stabilità e quella sicurezza che possono derivare dalla certezza dei pascoli, attraverso attività di allevamento in imprese moderne. Premessa per ottenere questo risultato era affrontare il problema della proprietà dei pascoli, che solo per il 40% appartenevano ai pastori, favorendo in tal modo la persistenza di una pastorizia nomade e seminomade. Erano quindi necessari processi profondi di riforma, che portassero a far coincidere l’impresa pastorale con la proprietà dei pascoli. Ciò comportava il reperimento di terreni da accorpare e da migliorare, per essere poi assegnati in proprietà o in godimento ai pastori, singoli o associati. Il frutto di questa riflessione fu la legge 24/06/1974 n. 268, che aveva come asse portante la riforma agropastorale, nella convinzione che trasformare il pastore in allevatore e il passaggio dallo sfruttamento della fertilità naturale del terreno alla sua coltivazione razionale per sostenere il bestiame, fossero le chiavi di volta per modificare radicalmente l’economia delle zone interne e la cultura ad esse legata. Di conseguenza, agricoltura e pastorizia acquistano un ruolo centrale nella nuova programmazione derivante dalla L. 268 Si trattava di innescare un processo di modernizzazione e di razionalizzazione di un settore fondamentale dell’economia regionale. Nel 1975, la pastorizia 258 rappresentava il 25% della produzione agricola regionale e occupava il 33% degli addetti all’agricoltura. Anche le esportazioni ragionali erano alimentate in misura elevata dai vari tipi di formaggio: nel 1973 l’esportazione di prodotti zootecnici, ma in gran parte di formaggio, era aumentata del 411% rispetto al 1960. Rilevante era anche il peso dell’allevamento ovino e caprino nel quadro dell’economia nazionale. La Sardegna infatti era la regione con il maggior numero di ovini e caprini: si andava dal 23,5% e dal 22,7% rispettivamente del 1951, al 30,5 e 25,4 del 1961, al 23,5 e 29,1 nel 1975. Si trattava quindi di incidere profondamente su di un settore che produceva una quota rilevante del reddito regionale. La legge 268/1974 prescriveva la formazione di un “monte dei pascoli”, con terreni acquistati o espropriati, dando la priorità per gli interventi alle zone omogenee a prevalente economia pastorale, che erano state individuate con la legge del 1971. Per dar luogo ad una più estesa e più articolata partecipazione alla definizione dei programmi, voluta dalla L.R. n 33/1975, fu indetta una conferenza regionale, nell’aprile del 1976, cui parteciparono rappresentanti degli enti locali, delle organizzazioni sindacali, imprenditoriali e professionali, per discutere la proposta di programma predisposta dalla Giunta regionale. La conferenza fu preparata da una capillare consultazione popolare, che aveva avuto in Sardegna un unico 259 precedente: l’assemblea del popolo sardo organizzata dalle Camere del Lavoro nel 1950. Il programma triennale 1976-1978 rappresenta il primo intervento di aggiornamento del Piano di Rinascita e comprende, oltre al programma di intervento sui fondi della L. n. 268, politiche e azioni di coordinamento di risorse finanziarie provenienti dal bilancio ordinario della Regione, dai provvedimenti anticongiunturali del governo centrale, dalla Cassa per il Mezzogiorno e da altre assegnazioni dello Stato. L’asse portante della legge 268 era tuttavia rappresentato dalla riforma agropastorale, che fu specificata in termini operativi dalla LR n. 44/1976. Si individuò una superficie di 400.000-450.000 ettari suscettibili di sviluppo agropastorale, dislocati per il 46% in provincia di Nuoro, il 19% in quella di Cagliari, il 18% in quella di Oristano, il 17% in quella di Sassari. L’enorme complessità del processo di trasformazione della pastorizia si manifestò immediatamente attraverso le difficoltà sorte per la formazione del “monte dei pascoli”. Difficoltà che si possono rilevare dal fatto che la riforma agro-pastorale incise in misura minore proprio nelle zone interne. Infatti, nel 1986, a più di dieci anni dalla L 268, risultavano acquisiti al “monte dei pascoli” circa 16.000 ettari ed esistevano programmi di acquisizione per altri 26.000 ettari. Inoltre, la distribuzione provinciale dei terreni acquisiti vedeva al primo posto la provincia di Cagliari (75%), seguita dalla provincia di Nuoro (17%), da 260 quella di Sassari (8%), e da quella di Oristano (1%). La situazione non era molto diversa nel 1996, a più di venti anni dalla 268. In quell’anno i terreni acquisiti al “monte dei pascoli” ammontavano a circa 20.000 ettari, il 69% in provincia di Cagliari e il 17% in provincia di Nuoro. L’aspetto più rilevante di questo fallimento della riforma agro-pastorale sta nella difficoltà di rendere compatibili due obiettivi: quello politico-sociale di trasformazione della pastorizia da nomade in stanziale, e quello strettamente economico della nascita di aziende di allevamento efficienti. Il tentativo di conciliare questi due obiettivi, in una realtà caratterizzata da modelli sociali arcaici e da un assetto fondiario polverizzato e frantumato, fu un progetto ardito e ambizioso, che da un lato esprime un alto livello di progettualità, dall’altro rappresenta la causa ultima delle difficoltà incontrate. Con la politica di intervento pubblico, attuata mediante gli incentivi, l’apparato politico-amministrativo della Regione diventa arbitro della penetrazione delle risorse finanziarie pubbliche nel tessuto dell’economia regionale. Su di esso ricade il potere di individuare i vanali attraverso i quali le risorse si diffondono nel sistema economico: si determinano cioè i settori interessati, le singole iniziative da incentivare, le aree territoriali da privilegiare, gli obiettivi da perseguire. Naturalmente vi sono vincoli da rispettare: il volume complessivo di spesa da destinare a determinati settori, o a determinati territori, che sono posti da leggi e dai diversi 261 livelli di contrattazione. Ma se si considera l’attività complessiva della Regione come un insieme di scelte, legislative da parte del Consiglio Regionale, esecutive da parte della Giunta e degli Assessori, operative da parte degli organi amministrativi, il quadro che emerge è quello di un apparato politico-amministrativo che controlla la spesa pubblica e la sua destinazione. Questa situazione comporta che l’intervento pubblico nell’economia regionale, al di là degli effetti strettamente economici, ha modificato radicalmente la società sarda, i rapporti sociali e politici, le relazioni fra ceti e classi sociali e la distribuzione del potere fra essi. Dato il ruolo essenziale che i trasferimenti hanno assunto nel determinare il livello degli investimenti e dei consumi in Sardegna, il controllo e la gestione di essi, assegna all’apparato politico-amministrativo un ruolo centrale nel determinare gli assetti economici, sociali e politici della società sarda. In precedenza, il livello dei consumi ed il tasso di accumulazione era sempre stato assai limitato a causa del basso livello di produttività del sistema economico regionale. In quelle condizioni, il reddito proveniva essenzialmente dall’agricoltura, dalla pastorizia, dall’attività mineraria e dal commercio. Consumi e accumulazione, sia pure in misura limitata, derivavano in gran parte da un elevato tasso di sfruttamento delle popolazioni agricole e successivamente dei minatori. Le classi che controllavano il limitato processo di accumulazione erano le classi dominanti della società 262 sarda, cioè la nobiltà feudale fino alla prima metà dell’Ottocento e successivamente i proprietari terrieri e la borghesia commerciale delle città. Con la politica dei trasferimenti pubblici, è possibile che il processo di accumulazione si sia ulteriormente depresso. I trasferimenti hanno assunto un peso preponderante, anche perché nel frattempo era entrata in crisi l’agricoltura tradizionale e l’attività mineraria. Questa circostanza, unita alla tradizionale debolezza della borghesia manifatturiera, ha comportato che agli agrari e alla borghesia commerciale come classi egemoni si sia sostituito l’apparato politico-amministrativo, una nuova classe, che sinteticamente si può chiamare classe politica. Il termine classe è giustificato da due circostanze: il personale politico-amministrativo esercita funzioni differenziate ma combinate per coprire l’iter complessivo dei trasferimenti; l’apparato politico-amministrativo controlla il grosso degli investimenti nell’economia regionale e quindi l’impiego dei mezzi di produzione. La trasformazione dell’apparato politico-amministrativo in classe politica è l’effetto più rilevante sul piano sociale dell’intervento pubblico nell’economia, certamente più duraturo degli affetti rilevabili con gli indicatori macroeconomici. Questa trasformazione ha sconvolto la struttura economica e gli assetti sociali e politici della società sarda, ha posto su nuove basi le relazioni fra l’apparato politico-amministrativo e le altre formazioni della società. 263 Questa situazione è il risultato dell’intenso processo storico-sociale che si è sviluppato nel corso degli anni dell’Autonomia, con aspetti notevoli di sviluppo economico e di progresso sociale. Le vecchie classi egemoni erano l’espressione di una economia e di una società arretrata, di cui era vistosa spia l’assenza di una borghesia manifatturiera. Per queste ragioni le vecchie classi egemoni non sono mai riuscite a innescare un processo di sviluppo per l’isola, paragonabile al livello medio di accumulazione dell’Italia postunitaria. É proprio dalla consapevolezza di questa situazione che derivò la politica dell’intervento pubblico nell’economia regionale. Lo sconvolgimento dei rapporti di classe, della natura delle classi e il ruolo della classe politica è entro certi limiti un risultato voluto dall’intervento pubblico, o perlomeno è strettamente conseguente ad esso. La situazione della Sardegna di oggi è ovviamente molto diversa non solo dal periodo dell’intervento pubblico nell’economia regionale ma anche dagli anni immediatamente successivi all’esaurirsi dei suoi effetti. Fra le modifiche intervenute si possono citare l’avvento dell’Unione Europea, i processi di globalizzazione che obbligano a confrontarsi con il resto del mondo, la finanziarizzazione dell’economia occidentale, la crisi che oggi attraversa le economie mature. Situazioni che complicano la nostra vita. Ma c’è anche la presenza in Sardegna di una borghesia manifatturiera, dotata anche di 264 attività con punte di eccellenza, in grado di competere su mercato nazionale e internazionale. Nell’immediato dopoguerra fu la classe dirigente a reinventare la questione sarda e a dotarla di strumenti operativi. La classe dirigente attuale, pur così diversa da quella per composizione e per ruoli svolti, ha nuovamente la responsabilità di ridefinire l’autonomia come progetto di autogoverno dei sardi, in presenza di mutate condizioni in Italia e nel mondo. Quello della classe dirigente regionale è più un problema di oggi che del recente passato. Nel dopoguerra regioni povere e regioni ricche erano alle prese con lo stesso problema, quello di innescare un processo di sviluppo; quindi le classi dirigenti delle diverse regioni avevano gli stessi obiettivi. Oggi le regioni economicamente forti hanno il problema di competere con altre aree forti dell’Europa e del mondo. La Sardegna e le altre regioni deboli, oltre a dover competere con altre economie, sono ancora alle prese con il problema dello sviluppo. Da ciò deriva la necessità di selezionare una classe dirigente che sia in grado di svolgere il proprio ruolo, di esprimere un nuovo progetto di autonomia, analogamente a ciò che fece la classe dirigente del dopoguerra. C’è anche un nuovo clima col quale deve misurarsi la classe dirigente regionale. Ci sono innanzitutto sono forti pulsioni accentratrici da parte dello Stato. C’è anche la diffusa idea che le Regioni a statuto speciale non servono a niente e bisogna 265 eliminarle. Gli esempi recenti di privilegi e corruzione in diverse Regioni, servono a corroborare questa idea. Tuttavia è bene chiarire una circostanza. La specialità nasce formalmente da un riconoscimento della Costituzione repubblicana, quindi da una concessione dello Stato. Ma sostanzialmente la specialità non è una concessione ma una realtà che esiste prima e a prescindere dal riconoscimento costituzionale. Essa nasce dalla struttura, dalla storia e dalla cultura delle Regioni speciali, quelle di confine e le altre. Nessuno può pensare di togliere la specialità senza una forzatura che altererebbe il patto che lega, attraverso la Costituzione, tutti i cittadini. Molte delle situazioni che hanno caratterizzato il periodo delle leggi di Rinascita non ci sono più; molte alternative sono venute meno, quelle positive e quelle negative. Ne cito 3: 1.La politica meridionalistica non c’è più; 2. La pianificazione/programmazione/ i poli di sviluppo, insomma la strategia per la crescita-sviluppo non esiste più; 3. L’UE è ancora presente e importante ma è indubbio che l’asse Nord/Sud per le politiche di sviluppo si indebolisce sempre più, si veda il caso della Grecia, e viene sostituito dall’asse Ovest/Est 266 In queste condizioni, l’unica possibilità, piaccia o non piaccia, è la mobilitazione di forze endogene. All’interno di esse l’agricoltura e l’agroindustria acquistano ovviamente un ruolo centrale. Diventa centrale il problema dell’assetto fondiario, della pastorizia nomade, dell’innovazione, della qualità dei prodotti, degli sbocchi di mercato. Per questo abbiamo scelto questo tema. La mia relazione ha solo il compito di richiamare le esperienze storiche recenti, di collocare la situazione attuale all’interno di un processo che non ha creato il vuoto, ma esperienze consolidate, negative e positive, errori e successi, ma da cui è necessario partire per delineare prospettive possibili per il presente e per il futuro della nostra terra. Per questo abbiamo interpellato alcuni attuali protagonisti dell’agricoltura e della pastorizia in Sardegna e abbiamo deciso di dare ad essi la parola. *Il presente testo è la riproposizione, con alcune revisioni, rielaborazioni e aggiornamenti, di uno scritto da me pubblicato nel 1998: L’avventura economica di un cinquantennio, in Aldo Accardo (cur.), L’isola della rinascita, Editori Laterza, Bari, 1998. 267 La sfida del futuro della Sardegna nel Mediterraneo On. Angelo Rojch, ex Presidente Regione Sardegna L'incontro promosso dalla Associazione "ex parlamentari" assume un significato particolarmente positivo, poiché non guarda nostalgicamente al passato ma coglie la sfida di un processo di sviluppo con un nuovo rapporto tra Sardegna e Mediterraneo, in un settore strategico come l'agricoltura e la pastorizia. Un’opportunità che la Sardegna non ha saputo cogliere, eppure l'isola rispetto alla penisola è più vicina all’antica Numidia, con la quale ha avuto importanti rapporti economici, culturali e religiosi, come dimostrano i tanti vescovi confinati in Sardegna, i numerosi contratti economici stipulati nel XIII secolo che confermano questo dato storico. Questo convegno deve portare all’attenzione della Regione conclusioni e proposte per aprire nuove prospettive per lo sviluppo agro-industriale e agroalimentare dell'isola e del Maghreb in condizioni di reciprocità, da realizzare in regime di bilocalizzazione delle aziende. Le difficoltà si ripresenteranno: vincere la diffidenza dei 268 sardi, la paura atavica unita alla carenza di liquidità delle imprese, non sarà facile portare avanti le proposte del convegno. Potrebbe essere utile ricordare che durante la mia presidenza della Regione in Algeria erano impegnati nella costruzione di case duemila lavoratori. Purtroppo, per una visione spesso autarchica dell'autonomia, la politica regionale non ha spinto a elaborare un piano per creare sinergie economiche e nuovi mercati, dimenticando che la Sardegna nei confronti dei paesi del Mediterraneo viene considerata come il nord sviluppato, come l’Europa. Una politica coraggiosa, lungimirante, strategica, avrebbe creato, da una parte una rete comune di piccole-medie iniziative fra imprenditori del mediterraneo e quelli sardi e dall'altra gli investimenti straordinari dei "paesi del petrolio" avrebbe salvato tante iniziative, soprattutto nel momento dalla chiusura di molte fabbriche, attraverso sinergie come quella della Keller in virtù dei grandi investimenti in Algeria nel settore ferroviario. Ma anche nel settore agro-alimentare e agro-pastorale non sono state colte alcune opportunità; qualche anno fa l'Algeria ha cambiato politica in materia di agricoltura dismettendo le aziende agricole pubbliche a favore dei privati con l'obiettivo di modernizzare il settore. Gli investimenti in infrastrutture sono arrivati da imprese 269 dei paesi occidentali e cinesi che effettuano imponenti opere pubbliche, mentre la Regione è assente. Il mondo imprenditoriale sardo, abbandonato a se stesso, si è limitato a guardare, pur distante solo 300 km. Innumerevoli imprese avrebbero potuto cogliere importanti opportunità. Purtroppo, mentre i sardi nei tempi antichi intrecciarono rapporti economici, culturali e sociali con questi paesi, nel tempo della modernità, la politica è chiusa nei confini insulari. La presenza oggi dei due rappresentanti della Tunisia è un passo significativo sulla via di un nuovo dialogo che impone, per coerenza, l'apertura anche al mondo economico dell'Algeria e del Marocco. Una iniziativa che non deve sfuggire all’assessore alla agricoltura. Che fare? Il Maghreb, per ragioni geografiche e di storia, e in particolare l'Algeria, la Tunisia e il Marocco sono i paesi con i quali occorre costruire sinergicamente un progetto comune, con al centro lo sviluppo del settore agro-alimentare, agro-industriale, agro-zootecnico tunisino, con l'incontro di imprenditori ma anche la ricerca di spazi di mercato per i prodotti lattiero-caseari della Sardegna nei paesi del Mediterraneo, e dei prodotti nei mercati italiani ed europei, veicolati dagli imprenditori 270 sardi. L'idea di questo convegno può affermarsi se sarà istituita una cabina di regia sarda. Questo impegno richiede una politica nuova della Regione. Esaminiamo alcuni aspetti. I) Il settore lattiero caseario è l'attività più antica e diffusa nel territorio dell'isola. É assolutamente prioritario valutare le potenzialità produttive della filiera latte, di formaggi e derivati, l'adeguamento della produzione degli allevamenti per il mercato del Mediterraneo e del medio oriente, un mercato immenso e ancora da scoprire. Altresì è necessario verificare la disponibilità di trasferire e gestire in quei paesi attività di allevamento e attività produttive di trasformazione attraverso forme di partenariati, con i sardi attivi protagonisti, in quanto depositari di alte tecnologie. II) Mercato di grande potenzialità è il patrimonio "pecora", in quanto il mondo arabo consuma prevalentemente quella carne. Occorre valutare l'entità di tale patrimonio, la disponibilità alla vendita e all'allevamento di pecore e montoni estremamente richiesti e lautamente pagati, per creare una filiera di allevamento e macellazione per il mondo arabo. III) Definito il quadro, va istituito un tavolo di lavoro Sardegna-Maghreb, per continuare con altri tavoli per 271 singole nazioni (Sardegna-Algeria; Sardegna-Tunisia; Sardegna-Marocco) per estendere il metodo a tutto il mondo arabo. Un’iniziativa che deve avere protagonista la Regione, naturalmente con il contributo delle ambasciate, la partecipazione attiva e promozionale non solo degli uffici regionali preposti ma anche di ISIAMED, della Associazione Sardegna-Algeria e altri organismi. Indispensabile la partecipazione attiva di tutte le associazioni di categoria dell'isola. A tali inziative devono seguire una serie di incontri nei vari paesi arabi degli imprenditori sardi, con gli imprenditori del luogo, per studiare nel concreto la formazione di partenariati, con il beneplacito dei governi arabi, dei patronati e degli organi della Regione. Durante tali incontri si potranno concludere accordi per la vendita del latte sardo e dei relativi prodotti, nonchè la vendita di migliaia di pecore e montoni. IV) Tavolo trasporti: un progetto volto a integrare l'economia sarda col Mediterraneo richiede una politica di trasporti per scambi di merci e uomini. La storia dell'archeologia ci ricorda l'esistenza di 153 modelli di navi sarde a testimoniare l'apertura dei sardi antichi ai paesi del mediterraneo e del medio oriente. La Regione con il contributo degli "ex parlamentari”, e 272 con i parlamentari in carica, dovrebbe chiedere l'apertura di un tavolo coi paesi del Maghreb per affrontare il problema del trasporto merci e persone tra le due sponde, chiedendo una "continuità territoriale”, perché la stessa Europa si apra, attraverso la Sardegna, al Mediterraneo. In conclusione da ex parlamentare ed ex presidente della Regione sarda, ho voluto offrire, con il mio intervento, la testimonianza di un’esperienza della conoscenza di un mondo, come quello arabo, pieno di difficoltà ma con straordinarie opportunità per la nostra isola, per i nostri imprenditori e per i nostri giovani in cerca di lavoro. 273 Prof.ssa Maria Antonietta Mongiu, Presidente FAI Sardegna Ringrazio l’Associazione degli ex Parlamentari della Sardegna nella persona dell’on. Giorgio Carta che ancora una volta ha voluto invitarmi in questa assise che, con sistematicità, tematizza argomenti di rilevanza per la Sardegna. Quello di oggi, in particolare, è tra i più qualificati perché si riferisce ai cambiamenti climatici e ambientali globali e sull’impatto che hanno su agricoltura e pastorizia. Bene lo dice, nella presentazione del Convegno, l’on. Carta che, memore dell’essere stato Assessore all’Ambiente, dettaglia le problematiche relative alle improvvise precipitazioni, alle prolungate siccità, ai fenomeni di desertificazione, alla sottrazione del suolo per usi difformi che in Sardegna “sembrano porre un’ipoteca sul futuro sviluppo di una risorsa, la terra, ancora largamente sottoutilizzata o male utilizzata”. Un’allerta dunque su una risorsa, il suolo, strategica per le quasi certe penurie alimentari dovute all’aumentata popolazione mondiale ed alla diminuzione di quelle a rischio di fame. Un’allerta ancora di più in Sardegna che importa più del 60% del cibo che consuma e che sollecita alcune domande. Nell’isola l’agricoltura e l’allevamento sono tuttora attività rilevanti e voce significativa del reddito regionale? Vi si possono individuare potenzialità di crescita, quantitativa e qualitativa, e ricadute occupazionali? Dopo 274 un declino anche culturale della stessa parola agricoltura, il ritorno dei giovani verso tali attività è orizzonte operabile, come dicono le aumentate iscrizioni agli Istituti Agrari ed alla Facoltà di Agraria della Sardegna, a cui corrispondono politiche attive? Le produzioni agropastorali possono assumere un ruolo interdipendente con il turismo? Infine quali strategie i decisori intendono assumere per salvaguardare le peculiarità ambientali e paesaggistiche, contenere il consumo del territorio, aumentare le produzioni senza che ciò inerisca negativamente in Sardegna? Per rispondere ai quesiti che ci interrogano quotidianamente bisogna porre una questione che aleggia sullo sfondo e che chiama in causa una parte decisiva della classe dirigente sarda. Quali le ragioni che l’hanno portata ad investire, tra gli Sessanta e Settanta del secolo scorso, sulla chimica di base che sarebbe stata a termine ed avrebbe avvelenato i nostri territori piuttosto che sullo sviluppo locale che necessitava di una revisione di modi e mezzi di produzione del mondo agropastorale. La storiografia, nelle diverse declinazioni, avrà molto da indagare su quelle scelte il cui esito fu economico ma soprattutto sociologico ed antropologico. La deportazione dalle campagne ha prodotto infatti un’apocalisse culturale di cui tuttora la Sardegna paga gli effetti. Tra gli altri, marginalità dei paesi, miniaturistici per numero di abitanti, e il consumo indiscriminato di suolo sulle coste come pure nei centri urbani. 275 Che la ricchezza della Sardegna consista nella sua qualità paesaggistica – ivi compresi i paesaggi agrari - sembra quasi una tautologia. Che i Sardi di oggi ne abbiano assunto maggiore consapevolezza lo raccontano le iniziative tese a dare o riconoscere valore alle produzioni realmente locali e di qualità, da non confondere con la moltiplicazione di sagre e sagrette di sedicenti prodotti di “eccellenza” variamente titolati; migliaia di persone che hanno partecipato all’iniziativa “I luoghi del cuore” del FAI con attivi ben nove Comitati e la relativa “campagna” di promozione, 1023 “luoghi del cuore” segnalati in Sardegna, cinque con più di 1500 voti e ben tre con più di 10.000 voti; i Borghi della Sardegna parte della rete nazionale; l’inserimento di paesaggi agrari nell’elenco nazionale della Coldiretti; beni materiali ed immateriali nell’elenco dell’Unesco e la richiesta di altri a farne parte; comitati locali che hanno impedito trivellazioni ed interventi di c.d. rinnovabili atte a consumare suolo ed a capitalizzarlo per interessi privati. Si tratta di un’autocoscienza frutto dell’azione didatticopedagogica di associazioni, insegnanti, comitati che sta dando frutti e di una comunicazione che ha inerito positivamente nel cambiamento di punti di vista e di conseguenza di paradigmi. Stanno inerendo anche amministratori locali più colti e meno provinciali per i quali il riconoscimento della qualità dei cosiddetti luoghi di margine spesso nasce dall’aver fatto esperienze internazionali. 276 Se l’immaginario diffuso percepisce la Sardegna come luogo agropastorale e naturale non si riesce a capire perché questi due ambiti non siano il motore dell’economia. D’altra parte lo stesso PPR varato nel 2006 si poneva nell’ottica di uno sviluppo sostenibile. Necessitava, di conseguenza, di provvedimenti conseguenti che, inizialmente, ci furono. Le successive amministrazioni si sono arroccate in costosi quanto inutili tentativi di rigettare quel PPR o di varare ripetuti piani casa che lo aggirassero. Si registra non a caso che l’agricoltura è diventata, nei fatti, alibi o foglia di fico per comportamenti speculativi il cui core business sono l’energia o l’attività edilizia. Appare gravissimo che ad oggi l’isola non è dotata di una legge urbanistica, di una legge sul consumo del suolo, e, dopo dieci anni, non sia stato completato il Piano Paesaggistico Regionale pur essendo stata la Sardegna la prima regione italiana a dotarsene, ai sensi dell’art. 9 della Costituzione. Sembra quasi che ormai ci sia una netta separatezza tra la percezione popolare dei luoghi ed i decisori che non colgono come è cambiato il sentimento diffuso su natura, paesaggio, agricoltura, cibo, qualità della vita. Le dichiarazioni dei decisori politici che l’edificato in Sardegna sarebbe contenuto e che buona parte della terra è nella disponibilità dell’agricoltura corrispondono al vero ove si ragioni che il 96,7% del territorio (32,5% di aree naturali, boschi e foreste e 64,1 % di aree agricolo zootecniche) non è costruito e che il 3,3% del territorio 277 riguarda le aree urbanizzate (9,1%, in ambito costiero). Ma i numeri non dicono tutto. Di fatto la percentuale si triplica nelle coste. Se poi, come è stato fatto altre volte, si analizzano le percentuali di espansione delle aree sottratte all’agricoltura a partire dal secondo dopoguerra - a fronte anche dell’aumento delle aree boscate, tra le più cospicue in Italia - si registra, in proporzione al numero degli abitanti, un aumento sproporzionato dell’edilizia e delle case in particolare, specie nei territori costieri. I dati qui di seguito se ben ponderati porterebbero i nostri decisori a sospendere ogni tentativo di riprendere l’assalto alle coste in favore di politiche di recupero e di restauro dei nostri paesaggi compresi quelli agricoli. Le abitazioni totali in Sardegna sono infatti 802.149 di cui 459.76 nei comuni costieri. Sulla percentuale complessiva 208.458 sono vuote di cui 153.065 sulle coste. Ma anche quelle nei paesi interni non sono poche e denunciano una desertificazione non solo antropica ma anche dei mestieri specialmente di quelli legati alla terra. Una trasformazione così radicale dal punto di vista culturale non è mai successa nel corso della storia della Sardegna e merita davvero tutta l’attenzione da parte della ricerca e, più complessivamente, da parte di tutte le classi dirigenti sarde. Ecco perché, nell’immediato, il compito di tutti è riuscire a preservare il paesaggio agricolo con le sue colture e culture materiali. 278 Questa preoccupazione non è recente. La si registra fin dal mondo antico. Già “La Legge delle XII Tavole” evidenzia che è netta la distinzione tra il territorio urbano e quello extraurbano. La tutela del territorio agricolo è la priorità perché interdipendente con la necessità di nutrirsi. Religione, simboli, ritualità erano collegate alla terra e persino la fondazione della città aveva l’aratro ed il bue come protagonisti. Una serie di scavi ha mostrato che la manodopera schiavile impiegata nel latifondo romano era particolarmente tutelata persino dal punto di vista alimentare. Il suo benessere fisico consentiva di produrre più derrate che attraverso i contenitori, prodotti in loco ed atti al suo trasporto, venivano commercializzate. Nelle fasi successive al tramonto dell’impero romano l’attività stessa dei monaci con il motto “ora et labora” aveva la “renovatio loci” come obiettivo primario. In piena seconda guerra mondiale la Legge 17 agosto 1942, n. 1150) in materia di Urbanistica all’art. 1 recita: “ll ministro dei lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo”. Eppure la cesura tra abitato e campagna è stata abbondantemente valicata e stando ad esempio all’area urbana di Cagliari la soluzione di continuità tra Cagliari ed i borghi della prima e della seconda cintura, così evidente 279 nella cartografia di Alberto De La Marmora, oggi è inesistente sostituita da un anello di cemento. L’attuale disegno di legge in materia di “contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”, non approvato in via definitiva dal Parlamento, non soddisfa quanto quella legge di oltre 70 anni orsono si auspicava. Il dibattito in corso vede particolari contrapposizioni perché il dispositivo legislativo non adempie pienamente quanto l’art. 9 della Costituzione recita, “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio storico e artistico della nazione”, che anticipa quanto l’Europa ha voluto con la Convenzione Europea del Paesaggio firmata a Firenze nell’ottobre del 2000. Ecco perché se il Parlamento registra un qualche ritardo appare necessario che la Regione Sardegna sia più solerte e coerente con quanto l’Europa ha messo tra i suoi obiettivi ovvero arrivare al consumo zero del suolo entro il 2050. Uno degli obiettivi immediati per la Sardegna dovrebbe essere la diminuzione del differenziale tra il cibo importato e le derrate prodotte in loco, impedendo ope legis il consumo ulteriore del suolo con qualsivoglia alibi in favore della restituzione all’agricoltura di terreni occupati da usi difformi o non coltivati o ridotti in uno status semi-naturale. Promuovere le politiche a favore dell’agricoltura richiede naturalmente avere chiara visione di cosa rappresentino il paesaggio, l’ambiente, il suolo, risorse non rinnovabili. La situazione di degrado delle 280 zone industriali dismesse dovrebbe essere un valido monito per tutti. Nell’Introduzione al PPR del 2006 ben si precisa che il paesaggio è parte integrante dell’identità della Sardegna. Averlo riconosciuto, cambiando radicalmente il paradigma, significa che è oggetto di tutela ogni declinazione di paesaggio di cui quello agrario ha più di altri una dimensione storica giacché la Sardegna è una delle regioni dell’Europa in cui l’agricoltura è comparsa prima che in altri luoghi. Ecco perché l’agricoltura in primis è parte fondante del sistema identitario in quanto non c’è territorio della Sardegna in cui non se ne registrino le tracce materiali ed immateriali. Ecco perché il recupero dell’agricoltura come asse primario non è soltanto un’operazione economica ma è recupero di senso senza il quale la Sardegna non ha futuro e possibilità di agire alcuna politica men che meno una politica turistica. 281 Agricoltura, pastorizia e ambiente in Sardegna e nel Mediterraneo On. Pietro Soddu, ex Presidente Regione Sardegna Prima parte 1. La caratteristica che colpisce di più nei paesaggi della Sardegna è la grande estensione di superfici incolte. Si può camminare per chilometri senza vedere un campo coltivato. In quest’isola di 24.090 Kmq – quasi tre volte la Corsica – non c’è quel suggestivo intrecciarsi di lande deserte e oasi di ricchezza che caratterizza i paesi mediterranei. È solo su qualche migliaio di ettari che si sviluppano nelle immediate vicinanze dei due capoluoghi i vigneti e gli oliveti, Dappertutto, con differenti gradazioni nelle manifestazioni della presenza dell’uomo, si estendono macchia, lande e garrighe punteggiate di villaggi distanziati tra loro e circondati da una stretta fascia di coltivazioni». Così è descritta la Sardegna degli anni ’30 del secolo scorso nell’incipit di “Pastori e contadini” di Maurice Le Lannou , ancora oggi insuperato testo di geografia storica della nostra isola. E ancora: «La Sardegna è un vecchio paese rurale. Essa presenta paesaggi antichissimi che, diversamente da altre regioni del Mediterraneo non sono stati modificati quasi per niente. […] La Sardegna è una terra di pastori, l’economia pastorale è di gran lunga 282 l’attività più importante di quest’isola. […]. Le minacce che incombono sui questi paesaggi così antichi – biblici o virgiliani sarei tentato di dire – non vengono come in Corsica dal turismo. […]. I paesaggi della Sardegna resteranno ancora per molto non contagiati dalle grandi costruzioni alberghiere». Non c’è, ma se ci fosse una storia dell’agricoltura sarda dalle origini fino ai nostri giorni dovrebbe confermare quello che è contenuto sommariamente in questo brano e più estesamente in tutto il libro citato e nei manuali di storia politica generale. Si scoprirebbe che molti aspetti del settore non sono molto cambiati dal tempo dei romani ad oggi. Avremo la conferma che la struttura fondamentale di base è ancora quella nata e cresciuta dopo che la Sardegna divenne una colonia agricola prima punica e poi romana. I grandi cambiamenti avvenuti allora nella provvista di cibo e negli usi del tempo della civiltà nuragica permangono ancora oggi soprattutto nel settore agricolo. Fu allora che l’isola cambiò profondamente diventando, secondo gli storici antichi e moderni, più che una base militare una fonte di approvvigionamento granario essenziale sia per Cartagine che per Roma. Poi le cose cambiarono e ci furono nel basso e alto Medioevo e nella prima età moderna grandi carestie e grandi oscillazioni, nel numero degli abitanti e un progressivo declino della cerealicoltura, dovuto a un circolo non virtuoso molto ampio, che comprendeva lo sfruttamento padronale, i tributi imposti dal regime feudale, le lotte tra contadini e 283 pastori, l’arretratezza delle tecniche agricole mai rinnovate, i prelievi forzati dei prodotti agricoli a favore delle città, la pratica dell’usura, le decime ecclesiastiche e l’isolamento dell’isola, oltre naturalmente alla natura del suolo, alle devastazioni provocate dalle locuste e alle condizioni climatiche poco favorevoli. A tutto questo occorre aggiungere anche la responsabilità della politica che è stata spesso assente o indifferente, con poche eccezioni nel tempo lungo della storia, prima con i giudici di Arborea e poi durante il dominio secolare di AragonaCatalogna e Spagna che hanno tentato, in maniera molto discontinua, di riformare i regimi contrattuali, l’assetto della proprietà, il sistema fiscale e in seguito i rapporti città-campagna, il commercio del grano, il sistema di macellazione e di vendita delle carni e tanti altri importanti interventi su aspetti tecnici e giuridici, soprattutto dal 600 in poi. Ricordo per tutti: la creazione dei monti frumentari, l’impianto di oliveti e l’innesto degli olivastri. E più avanti sotto il dominio dei Savoia l’approvazione della legge sulle chiudende, i programmi di bonifiche idrauliche, l’uso di nuove tecniche, i piani di riordino fondiario e da ultimo sotto il regime repubblicano i miglioramenti genetici degli animali, lo sviluppo della cooperazione, la riforma agraria e dei patti agrari, lo sviluppo della piccola proprietà contadina, il monte dei pascoli, la meccanizzazione, i piani d’irrigazione, l’infrastrutturazione rurale. Ma ciò nonostante, l’agricoltura sarda non è molto cambiata e ancora oggi appare per molti versi più simile a quella dell’epoca dei 284 romani che non a quella moderna dell’Italia settentrionale, per non parlare di quella degli Sati Uniti, del Canada, della Francia o dell’Olanda. Forse si tratta di una falsa impressione, in qualche misura irrazionale. Ma anche se non corrisponde del tutto alla realtà è fondamentalmente vera. Qualcosa è certamente cambiata in meglio soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso ma l’insieme appare ancora arretrato. Forse si tratta di un giudizio troppo severo, come succede da noi, che sottovalutiamo e qualche volta ignoriamo i progressi e i cambiamenti anche quelli più vistosi degli ultimi cinquant’anni, grazie ai quali il settore agricolo ha fatto molti passi avanti, adeguandosi in parte alle esigenze del nuovo tempo e da ultimo, non da tutte ma da parte delle imprese più sensibili, persino alla globalizzazione. Questo adeguamento ha toccato però solo una parte della realtà, senza incidere nella misura necessaria sull’insieme delle strutture produttive e sulle cause della progressiva marginalizzazione dei prodotti locali nel mercato interno ed esterno. Le ragioni che hanno impedito e impediscono alla nostra agricoltura e ai nostri prodotti locali di competere senza handicap sul mercato globale sono infatti in gran parte da attribuire al ritardo nei cambiamenti strutturali senza i quali non sarà facile fermare il declino, invertire la tendenza e bloccare l’inarrestabile penetrazione nel mercato sardo dei prodotti dei paesi esteri, non solo di quelli appartenenti all’Unione europea come è nei trattati, ma anche dei paesi non facenti parte dell’Unione, africani e asiatici, per non parlare degli Stati 285 Uniti, del Canada e dell’America latina. Possiamo dunque a buona ragione affermare che il processo di modernizzazione c’è stato anche in Sardegna, ma non è stato sufficiente a invertire la tendenza al declino sia in termini di qualità che di quantità, sia riguardo al controllo del mercato locale sia alla trasformazione industriale della materia prima in prodotto finito. Per rendersene conto non è necessario consultare le statistiche. Basta visitare i market, piccoli e grandi, e si vedrà facilmente che la ripartizione tra prodotti locali e prodotti esterni si è progressivamente spostata a favore di questi ultimi, non solo nelle produzioni industriali e nei prodotti di lunga conservazione, ma anche nei prodotti freschi destinati all’immediato consumo. Si fa un gran parlare di prodotti agricoli a chilometro zero e si organizzano sagre di tutti i generi ma la loro incidenza sulla diminuzione delle merci importate allo stato naturale o trasformate è molto scarsa. 2. I problemi dunque non sono più gli stessi del tempo antico e neppure della prima modernità. Come tutti i settori produttivi anche l’agricoltura subisce infatti il dominio della tecnica e del capitalismo globale. Noi continuiamo a pensare secondo i vecchi schemi e le vecchie strutture concettuali, i vecchi modelli culturali, ignorando che la realtà si è venuta formando nel corso dell’esperienza autonomistica non è più quella che ha provocato l’occupazione delle terre incolte, la riforma agraria e dei patti agrari. Non è più quella della transumanza, del monte dei pascoli, dei conflitti per gli usi civici e per le terre comunali; e tantomeno dell’aratro di 286 legno, della trebbiatura con i buoi e della mungitura manuale. Condividiamo largamente con il resto d’Italia i cambiamenti negli stili di vita e il passaggio da un’economia quasi autarchica al mercato globale. Ma quello che altri hanno fatto in 150 anni noi sardi abbiamo iniziato a farlo negli ultimi decenni e non è bastato per colmare i ritardi in tutti i campi, ma soprattutto nel sistema produttivo agricolo. Alcuni pensano che in fondo il ritardo non è solo un elemento negativo ma anche positivo perché è stato conservato qualche elemento del passato che può rilanciare l’agricoltura utilizzando i saperi e i sapori antichi. Questo può essere vero, ma è possibile solo dentro un quadro nuovo di sostanziale avanzamento della modernità in tutti i suoi aspetti: tecnici, politici, economici e sociali evitando l’esclusione delle aree territoriali a prevalente economia agricola dai progressi culturali, civili, materiali e immateriali del processo di sviluppo, dalla vita politica e culturale, dall’accesso ai beni offerti dal tempo libero; in definitiva dalla nuova condizione umana fatta di luci e ombre , di libertà ma anche di vincoli, comunque sempre preferibile per tanti versi alla condizione della precedente società contadina. Tutti dobbiamo ricordare e riconoscere che la Sardegna è cambiata profondamente nel secondo dopoguerra con la Repubblica, il suffragio universale esteso alle donne, la nascita della Regione, la riforma agraria, la scuola dell’obbligo, il piano di rinascita, gli interventi infrastrutturali, la scomparsa della malaria, per citare i più noti. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul banditismo aveva nelle sue 287 conclusioni confermato i progressi compiuti dall’isola ma anche confermato i molti ritardi, indicando la terapia più efficace per curare il malessere sociale e il sottosviluppo nell’attuazione di un unico progetto integrato comprendente l’ammodernamento dell’agricoltura e la promozione di un apparato industriale moderno. Non tutto è andato secondo le previsioni e le attese a causa soprattutto dell’insuccesso del piano d’industrializzazione e del mancato decollo dell’agricoltura intensiva irrigua. Sicché in tutta l’isola e non solo nelle zone interne è rimasto in campo come protagonista a livello di mercato globale solo il settore della pastorizia, proprio quello che sembrava più in ritardo con i tempi. Gli altri comparti agricoli invece, a cominciare dalla cerealicoltura sono diventati sempre più marginali comprese la viticoltura, l’olivicoltura e l’orticoltura che sembravano offrire con l’avvento dell’irrigazione e della meccanizzazione le prospettive più favorevoli. Il sistema produttivo che si è venuto creando negli ultimi decenni ha dimostrato sempre di più di non essere più in grado di mantenere l’equilibrio demografico tra città e campagna neppure nelle aree dove un tempo dominavano la cerealicoltura, la viticoltura e l’orticoltura, cioè le colture che sembravano destinaste a una grande espansione. Ma così non è stato è tutte le aree non costiere, anche le più ricche nel passato, continuano a perdere residenti e a declinare economicamente. Molti pensano che un nuovo sviluppo possa nascere da un diverso turismo esteso a tutta l’isola, utilizzando il grande patrimonio culturale-ambientale e de “su connottu”. Ma si 288 tratta di un’illusione perché occorre ben altro, occorre creare un sistema economico efficiente e competitivo in tutti i settori produttivi, soprattutto, ma non solo, nelle attività agrozootecniche. Lo sapevamo anche quando è stato approvato il piano quinquennale in attuazione del piano di rinascita che però si è realizzato solo in parte e ha mancato proprio gli obiettivi legati allo sviluppo di un’agricoltura moderna e la nascita di una moderna agroindustria. Le cause di tale insuccesso sono tante ma il mancato sviluppo dell’agricoltura irrigua è una delle più importanti. Da ciò l’assoluta urgenza di rilanciare lo sviluppo del settore agricolo per metterlo in grado di competere con il resto del mondo nel mercato globale e allo stesso tempo innescare un processo di sviluppo dell’agroindustria che non può nascere e sopravvivere senza una produzione agricola quantitativamente e qualitativamente paragonabile a quella dei paesi più evoluti e delle stesse regioni italiane. Per un nuovo sviluppo non basta il fascino dell’antico, occorre un salto di qualità che si può fare solo con la tecnica, e che non può essere affidato allo spontaneismo o alla vocazione naturale e neppure solo all’intelligenza e all’iniziativa degli operatori ma va pensato, progettato, accompagnato nell’attuazione, da una forte volontà politica, da una strategia socio-economica di vasto respiro, tale da unire le potenzialità di una riforma agraria generale con le potenzialità della ricerca scientifica, delle strutture tecniche, della rete istituzionale amministrativa, pensata e costruita in funzione dello sviluppo anche delle aree 289 interne e non solo delle città e delle aree costiere. Chiunque è in grado di vedere che non è questa la politica in campo oggi in Sardegna. Continuare a occuparsi delle residue sopravvivenze dei problemi dell’inizio del secondo dopoguerra non ha più senso e anche la guerra millenaria tra pastori e contadini è finita, ed è finita per sempre, così come è evidente che la piccola proprietà contadina non è in grado di organizzare le produzioni secondo le nuove esigenze del mercato. Tutto dimostra che non si può più fare a meno di tenere conto delle nuove tendenze, non per seguirle senza alcuna esitazione o riserva ma per orientarle e ove manchino le condizioni naturali per lo sviluppo cercare di crearle, eliminando le difficoltà e costruendo un ambiente favorevole agli investimenti privati e alla creatività produttiva delle nuove generazioni che non possono vivere di ricordi e di rimpianti e neppure possono rimanere ancorate per sempre alle tradizioni della vita comunitaria di un tempo che non esiste più. Dopo gli insuccessi della prima programmazione cosiddetta “dall’alto” si è passati a una programmazione cosiddetta “dal basso” che però è fallita proprio per l’assenza di un quadro generale. I contratti, patti territoriali e i protocolli firmati tra Regione e enti locali hanno avuto e avranno poco successo, sembrano quasi un’invenzione per guadagnare tempo rammendando, tamponando gli strappi nel tessuto economico e sociale ma senza produrre apprezzabili miglioramenti sulle strutture produttive. Dopo tante esperienze dovrebbe essere evidente che non si uscirà dalla crisi finché non verrà 290 costruita e adottata una visione unitaria di tutte le azioni rivolte allo sviluppo. Anche la scelta di trasferire nelle zone interne qualche elemento culturale moderno tipo i corsi universitari decentrati – trascurando la crisi delle due università sarde – serve a poco se non è strettamente collegata con gli obiettivi delle aree interne. Non sono io a pensarlo, ma la realtà nella sua crudezza a dimostrare l’assoluta urgenza di un nuovo piano organico dotato di risorse pluriennali certe e con una missione precisa coerente con la storia, la tradizione, la cultura cioè con l’identità e la vocazione naturale di quelle aree. Anche l’opinione pubblica più attenta ai cambiamenti in corso pensa che per fermare il declino e rilanciare lo sviluppo occorre mettere al centro del nuovo piano di sviluppo l’agricoltura, la terra, le risorse umane legate all’ambiente, il patrimonio di saperi accumulato nella lunga durata sposandolo alla scienza moderna in modo da formare un’alleanza che diventa il motore, il cuore pulsante del futuro sviluppo. Quasi il contrario dell’attuale impostazione della politica regionale basata sullo sviluppo turistico delle aree costiere, sulla diffusione di questo modello nelle aree interne utilizzando a questo fine il patrimonio ambientale e culturale più antico, considerato molto attrattivo. Questa visione va sostituita con una più ampia, più moderna, più adatta a fermare il declino, a dar vita a uno sviluppo moderno senza costringere le zone interne a perdere l’anima e l’identità, anzi aiutandole a contribuire a far sì che tutta la Sardegna mantenga la sua specificità etnica, culturale, storica e ambientale non come 291 un documento del passato ma come realtà viva e operante nella storia presente, superando gli ostacoli che hanno impedito finora alla comunità sarda di accettare nel tempo antico e in quello moderno, neppure a malincuore, l’idea che per stare alla pari con le altre comunità e con il progresso in corso nel mondo fosse e sia necessario cambiare i modi, le procedure, gli usi, i vincoli, i ritmi della società agricola e tra non molto anche quelli della società industriale. Per spiegare in nostri ritardi ci siamo rifugiati nel mito, nelle narrazioni a volte prive di riscontri reali. Ci siamo costruiti un passato quasi su misura per giustificare e spiegare il rifiuto dei passaggi obbligati cioè la costruzione di un sistema economico-sociale più in linea con i tempi. Così sono nati i miti della “costante resistenziale” e della proprietà comune, che resistono ancora nonostante tutto. Ai miti abbiamo aggiunto come giustificazione del sottosviluppo le condizioni naturali, l’insularità, il clima, l’asperità dei rilievi, le difficoltà di comunicazione, l’acidità e la scarsa fertilità dei suoli. Ma neppure tutto questo è sufficiente a spiegare l’assenza di un’agricoltura meno fragile di quella praticata dai sardi in tutti i tempi, come dimostra l’eccezione importante del periodo punico, romano e sia pure in misura minore dell’Alto medioevo che ha visto crescere esperienze limitate ma significative nelle aziende dei monasteri. Si può dire che in quelle epoche le difficoltà vennero superate o ridotte sensibilmente dall’uso di manodopera composta da schiavi o servi della gleba che sostituivano in parte gli animali e costavano anche meno. Ma non è 292 questa la ragione principale e comunque non cancella l’esperienza di una Sardegna granaio di Cartagine e di Roma, e neanche il fatto che il grano fosse, durante il periodo giudicale, catalano-aragonese e spagnolo la principale fonte di reddito dell’isola, nonostante le varie contese feudali e la guerra permanente tra contadini e pastori. Dobbiamo forse in mancanza di esaurienti spiegazioni arrivare alla conclusione, umiliante e offensiva, di una incapacità genetica dei sardi di evolversi verso forme di vita e civiltà più progredite di quella dei cacciatori, raccoglitori e pastori? Dobbiamo accettare questa tesi per spiegare gli insuccessi di tutti i tentativi compiuti per far sviluppare un’agricoltura e un’industria come quelle nate nel resto d’Italia e d’Europa nella prima età moderna e nei giorni nostri? Io credo di no. Penso che il rifiuto da parte dei sardi non nasca da ragioni genetiche ma sia piuttosto l’effetto della lunga durata delle dominazioni punica, romana e poi del feudalesimo, del formarsi di una cultura che in un altro scritto ho chiamato “vassalleria”, un atteggiamento di tipo cortigiano, servile che ha caratterizzato i rapporti con le monarchie iberiche prima e con i Savoia poi fino all’avvento della Repubblica. È la vassalleria che ha impedito la nascita di una borghesia operosa e che caratterizza ancora oggi, in misura preoccupante, i rapporti tra rappresentati e rappresentanti. Una comunità che rifiuta le responsabilità di partecipare al cambiamento, che teme di perdere privilegi e protezioni, che chiede in continuazione grazie, concessioni, titoli, appalti, uffici ben remunerati e rifiuta 293 di lavorare per un futuro diverso, questo è stata la classe dirigente sarda per quasi duemila anni. E se questo rifiuto può anche avere qualche giustificazione per i ceti più bassi, ne ha molto poche per la classe dirigente se così si può chiamare una classe di vassalli che è sopravvissuta a tutte le rivoluzioni e gli sconvolgimenti della storia. Di tutto questo dobbiamo ricordarci quando parliamo dell’agricoltura e della comunità sarda, non solo di quella delle aree più interne, quelle resistenti a tutto secondo la vulgata più avanti richiamata, ma di tutta l’isola. In un certo senso dovremo considerare la Sardegna un’eccezione all’esperienza vissuta dalle società primitive nel passare dalla caccia e dalla raccolta alla pratica dell’agricoltura nella quale secondo gli antropologi solo qualche gruppo di pastori isolati nelle montagne ha resistito alla rivoluzione che ha visto il passaggio da una società di raccoglitori e cacciatori a una società che si procura gli alimenti e quanto necessario per una vita migliore e più sicura con la coltivazione della terra, con l’ingegno, con la fatica, con il lavoro, con l’aiuto di animali addomesticati, con regole, vincoli, procedure, coercizioni anche dure e severe per uscire da una condizione umana primitiva molto simile a quella degli animali. L’ipotesi che tutta la popolazione della Sardegna abbia rifiutato la rivoluzione agricola contrasta con la storia reale che ha visto sorgere le città e crescere le colture nei campi e insieme a questi fatti ha conosciuto l’evolversi progressivo della condizione generale di vita, singola e collettiva. Qualcosa di specifico però nei sardi ci 294 deve essere se nell’ottocento dopo tanti secoli dalla rivoluzione agricola (durante i disordini sociali, ancora tutti da chiarire come origine, istigazione e interessi in campo secondo studi recenti di giovani studiosi che si occupano delle origini della borghesia rurale sarda) fu coniato il motto molto efficace suggestivo e carico di richiami e di memorie e ancora in uso :«torramus a su connottu» per esprimere il rifiuto della “proprietà perfetta” e la preferenza per gli usi comunitari, allora considerati dal governo piemontese la ragione fondamentale dell’arretratezza delle campagne. “Torramus a su connottu” da allora è diventato di uso comune per esprimere un giudizio di condanna del presente e una preferenza per il passato, anche quello meno felice. Oggi si usa per difendere tutto ciò che il mondo agropastorale della Sardegna interna ha conosciuto, che per molti sarebbe da preferire a tutti i modelli di sviluppo più o meno modernisti e industrialisti a cominciare dai modelli di vita, dalle pratiche alimentari, dalla qualità dei prodotti cioè da tutto quello che molti considerano il patrimonio identitario del popolo sardo, elemento costitutivo primario dell’identità nazionale sarda. È però inutile continuare in un conflitto di questa natura che non porta da nessuna parte. Dopo tanti progetti di cambiamento e dopo tante esperienze vissute nella logica del superamento delle condizioni considerate elementi frenanti di una normale evoluzione sociale dobbiamo provare a conciliare il vecchio con il nuovo, “su nou chi su connottu” come detto nel titolo di questa nota. Forse è questa la strada più giusta 295 per ottenere risultati meno incerti e precari di tante precedenti esperienze, non ultime quella dell’industrializzazione e del mancato sviluppo di un’agricoltura moderna. Conciliare il vecchio e il nuovo richiede un pian complesso, una strategia di ampio respiro, una riforma strutturale che purtroppo non sembra prioritaria né per l’Unione Europea, né per lo Stato, né per la Regione, che continuano a praticare una politica di contenimento dei danni forse sperando che la crisi cessi per via naturale e i danni causati da questo ritardo vengano ridotti e sopportati con politiche di tipo assistenziale e per effetto del mercato. Seconda parte 1. Se M. Le Lannou potesse rivisitare oggi la Sardegna la troverebbe molto cambiata nelle città e nelle coste, ma molto meno nell’assetto strutturale delle campagne, nonostante la presenza di torri eoliche, di piccole e grandi centrali solari e di altre costruzioni d’uso promiscuo che rompono la solitudine del paesaggio ne oscurano in parte il fascino descritto nel suo famoso e già citato “Pastori e contadini di Sardegna” il quadro di fondo appare ancora molto simile a quello degli anni ’30 del secolo scorso. La struttura agronomica e produttiva è infatti più o meno la stessa e forse ancor di più segnata dalla pastorizia. Ci sono case, ovili, stalle, strade vicinali, linee elettriche. Ci sono trattori e fuoristrada, c’è dovunque la presenza di una moderna strumentazione e ci sono, anche se si vedono 296 raramente, i pastori in jeans e in tuta da lavoro. Ma lo stato delle campagne dà l’impressione dell’immobilità e qualche volta dell’abbandono e della trascuratezza, appare in una parola fermo nel tempo. Questa impressione è forte e non cambia anche se chi guarda sa che nella realtà la pastorizia ha realizzato ammodernamenti molto significativi nel campo della selezione genetica, dell’orientamento dei tempi dei parti alle esigenze del mercato, dell’aumento pro capite della lattazione, della cura del benessere degli animali, nell’uso di precauzioni igieniche nella mungitura e nella movimentazione del latte, nella produzione del foraggio, nell’alimentazione mirata alla quantità e ancor di più alla qualità del prodotto secondo le esigenze dell’industria di trasformazione. Ma se l’impressione negativa resta vuol dire che c’è qualcosa che non va, qualcosa di cui la politica dovrebbe preoccuparsi, qualcosa di natura strutturale che non riguarda tanto i singoli allevamenti e i singoli allevatori ma la condizione complessiva del settore che la vista delle campagne semi-abbandonate richiama con forza in tutti i suoi aspetti, non solo in quelli della produzione, dei processi di trasformazione, della cura dei terreni ma anche in quelli del mercato e del processo di equa distribuzione del valore aggiunto ricavato dalla trasformazione industriale. Se si vuole che il settore zootecnico continui a essere anche nel futuro uno dei pilastri fondamentali dello sviluppo si deve curare tutto il processo senza 297 sottovalutare i cambiamenti in corso e l’ingresso nel settore di nuovi protagonisti. Per ottenere risultati reali e duraturi non è sufficiente adeguare l’offerta alle modifiche della domanda – come qualcuno pensa –. È necessario anche questo ma è più urgente affrontare e risolvere i problemi di fondo, anche se sono più complessi e non facili perché toccano strutture da tempo esistenti e consolidate. Ma anche semplicemente adeguare la produzione di latte alla domanda reale non è facile, perché comporta spostare una parte degli allevamenti dalla produzione del latte alla produzione di carne, significa in un certo senso mescolare e far convivere il sistema olandese con il sistema scozzese, l’intensivo con l’estensivo in modo razionale, non solo per rispondere alle esigenze del mercato ma anche per garantire un migliore stato delle condizioni ambientali e allo stesso tempo un maggiore benessere della comunità e degli stessi allevatori. Forse si è finalmente compreso che il latte prodotto non può aumentare all’infinito, soprattutto in assenza di forti innovazioni del prodotto trasformato. Deve restare leggermente al di sotto della quantità necessaria a soddisfare interamente la domanda se non si vuole assistere ogni anno a notevoli variazioni dei prezzi. Eppure il timore che così facendo ci si espone alla penetrazione di prodotti di altra provenienza c’è ancora nonostante le più recenti esperienze abbiano dimostrato che una produzione di latte superiore alle potenzialità del mercato concorre a creare condizioni di prezzo depressive, 298 trasformando l’aumento del prodotto da fattore positivo in elemento negativo della remunerazione finale. Ho detto che nessuno può negare i passi avanti compiuti negli ultimi anni. Questi però non sono frutto di scelte politiche, ma dell’adeguamento quasi istintivo della categoria alla domanda del mercato, ai progressi della tecnica e delle conoscenze veterinarie nel campo della selezione-fecondazione, alimentazione e cura degli animali e anche della più duttile e pragmatica posizione delle associazioni e questo fa ben sperare in un futuro meno incerto. Se però si deve cambiare di più, come io e molti degli stessi pastori crediamo, il percorso d’ora in poi non può essere lasciato all’istinto e all’iniziativa dei singoli allevatori o all’opera di mediazione tra associazioni e imprese trasformatrici. Per ottenere risultati di un certo valore occorre una nuova visione politica generale che abbia un orizzonte lungo; occorre promuovere nuovi strumenti di ricerca, monitoraggio, credito, assistenza tecnica, formazione professionale; occorre una più rigorosa regolamentazione dell’esercizio della professione e tante altre cose tra le quali, non ultima, la saldatura tra “su connottu” e “su nou”, tra natura e scienza, tra identità e mercato. Molti sostengono che tutto questo non è possibile perché l’UE blocca tutto. Ma l’azione politica e amministrativa della Regione e i programmi possono sempre occupare gli spazi lasciati liberi dai regolamenti dell’Unione e utilizzare le risorse regionali e anche quelle europee per migliorare le condizioni degli allevatori con nuove normative, nuovi 299 strumenti tecnici, nuovi sistemi di welfare e nuovi programmi rivolti a rendere non solo più efficiente ma anche più attraente, interessante e socialmente apprezzata soprattutto dai giovani la professione di operatoreimprenditore nel campo della produzione, della trasformazione e commercializzazione dei prodotti agrozootecnici. La Regione sarda può fare molto e in forma avanzata. Si tratta di cominciare un percorso che potrà essere faticoso ma non impossibile se si ha la capacità di cogliere e assecondare i valori che stanno emergendo nelle nuove generazioni che vanno sostenuti e accompagnati da politiche innovative capaci di unire l’economico, il sociale e il culturale in un unico piano di sviluppo equo, sostenibile e competitivo. L’agricoltura sarda, come abbiamo detto è certamente cambiata, ma per molti aspetti sembra ancora ferma alle origini. Forse non potrebbe essere diversamente dal momento che essa dipende quasi interamente da elementi naturali immodificabili fino a qualche anno fa, come ad esempio le leggi genetiche, l’andamento climatico, la fertilità dei suoli per citarne solo alcuni. Questa immobilità è in certi casi molto appariscente, ma non corrisponde del tutto alla realtà e soprattutto non è immodificabile nel futuro anche prossimo. L’agricoltura non può però cambiare da sola serve il sostegno convinto e intelligente della politica e della scienza, come ci insegna la storia e anche la più recente esperienza. 300 La prima cosa da fare è rivalutare l’importanza del settore primario per l’economia e la condizione sociale della comunità sarda, che può sembrare elementare e scontata ma così non è e forse non abbiamo mai considerato la comparsa dell’agricoltura diversamente da tanti illustri antropologi la più grande rivoluzione nella storia della società umana. E anche per questo non abbiamo partecipato ai cambiamenti nell’uso dell’acqua, nei processi lavorativi, nella trasformazione dei prodotti e successivamente nell’uso degli strumenti meccanici e dei prodotti chimici, nelle rotazioni d’uso della terra, ecc. E non sembriamo ansiosi di partecipare all’ultimo grande cambiamento, alla nuova rivoluzione indotta dal mercato e sostenuta dalla scienza genetica. Essa riguarda tutti i fattori, compreso il nucleo più antico, quello originario ritenuto finora immodificabile. Ma la scienza genetica va avanti senza di noi, procede senza sosta nonostante le critiche, le riserve e le tante obiezioni di carattere etico che ha suscitato e continua a suscitare nell’ambito scientifico ma soprattutto nella più sensibile opinione pubblica. Gli organismi geneticamente modificati sono osannati o osteggiati, condannati senza riserve da molti governi, dalla maggioranza delle istituzioni e dei leader morali. Ma sono sostenuti con forza crescente da una parte considerevole degli scienziati e dalle potenti organizzazioni multinazionali che ne controllano la produzione e la vendita e utilizzano la grande crescita demografica in corso nel mondo e la correlata domanda di cibo per introdurre in misura sempre più ampia gli OGM 301 nell’agricoltura di molti paesi soprattutto ma non solo in quelli più sviluppati. La Sardegna è ancora fuori da questo processo ma non è detto che lo sarà nel prossimo futuro. Non ce ne occupiamo, ma altri possono sempre farlo infischiandosene del fatto che questa ultima rivoluzione agraria guidata dalla scienza abbia suscitato obiezioni etiche e fatto emergere più acutamente la questione ambientale e la grande inadeguatezza delle strutture normative e strumentali del settore a far fronte alle nuove esigenze e ai nuovi compiti. Continuare a disinteressarsene può essere pericolo e creare problemi che si aggiungono a quelli esistenti e ai gravi conflitti in atto o preannunciati. La politica europea, nazionale e regionale nelle dichiarazioni di principio non ignora nessuno dei temi trattati. Ma la pratica di governo non è stata finora conseguente ed ha lasciato libero il campo alle multinazionali, giustificandosi con l’assenza di specifiche domande delle associazioni del settore, che insistono a chiedere interventi di tipo assistenziale a difesa delle piccole imprese tradizionali e delle realtà regionali più tipiche e radicate nella cultura e nella tradizione. Nessuno può negare che anche questo sia utile. Ma le due linee potrebbero convergere in una politica diretta a realizzare un sistema di forte cambiamento che garantisca la sopravvivenza e la valorizzazione delle tradizioni, non solo come testimonianze del passato ma come beni capaci di stare nel mercato globale, conservando i sapori e i saperi antichi, non come sopravvivenza museale ma trasformandole in risorse dinamiche e remunerative 302 destinate a rivoluzionare l’agricoltura e farla diventare il fattore centrale dello sviluppo, come si afferma ormai quasi da tutti. L’urgenza dello sviluppo però non può giustificare tutto quel che succede nel settore. La politica farebbe un grave errore se non tenesse nel giusto conto che le tendenze del mercato agricolo stanno evolvendo, in assenza del potere politico, in senso sempre più oligopolistico e globale. Il settore già da ora appare, se non controllato, fortemente condizionato da poche multinazionali che puntano a fare il bello e il cattivo tempo ovunque nel mondo a danno delle piccole imprese e in contrasto con le dichiarazioni ufficiali della politica. La Sardegna come già detto, è per ora fuori da questo processo ma è sbagliato non preoccuparsi di prevenirne i danni come invece fanno tutti, a cominciare dalla giunta regionale, che sembra guardare solo al presente, interessata più alla quantità delle risorse trasferite dall’Unione europea e alle azioni rivolte a tenere in vita il sistema esistente piuttosto che alle nuove politiche da mettere in campo per cambiarlo. Non solo la giunta ma anche le associazioni sottovalutano il fatto che così facendo si rischia di non risolvere la crisi e consegnare le componenti più attive e dinamiche entro breve tempo nelle mani di società oligopolistiche, non solo americane, olandesi o svizzere ma anche arabe, cinesi, russe, molto attive da qualche tempo nel settore e poco preoccupate dei riflessi di tutto questo sulle comunità locali e sull’ambiente naturale. 303 Sarebbe però sbagliato dire che tutto quello che succede nell’isola è negativo. Ci sono segnali e esperienze di segno diverso se non opposto. Tra queste ultime è particolarmente importante il ritorno all’agricoltura di un certo numero di giovani che scelgono l’attività agricola pur essendo in possesso di titoli di studio in altre discipline. Si tratta per ora di fatti numericamente poco rilevanti e certo non in grado di compensare i fenomeni negativi che abbiamo richiamato. La risposta della giunta a queste nuove tendenze si è finora limitata a predisporre un progetto rivolto all’assegnazione di piccole aziende attraverso bandi pubblici a giovani che ne fanno richiesta. Interessante come idea, ma troppo limitata e in un certo senso superata soprattutto se si tiene conto delle tendenze di mercato che abbiamo citato. È infatti abbastanza evidente che non basta un progetto limitato a poche aziende – e per di più costituite da lotti della riforma agraria abbandonati dagli assegnatari per la difficoltà incontrata nelle gestioni – per incentivare i giovani a tornare alla terra. Un progetto così modesto non può dare i frutti sperati e non potrà che realizzare obiettivi limitati. E perciò andrebbe sospeso, ripensato e collocato all’interno di un grande piano organico all’altezza dei tempi, non condizionato da finalità contingenti e da una generica e superata concezione assistenziale, che però resiste nonostante tutto e si aggiunge alle insistenze di certi ambienti nel difendere vecchie soluzioni legate più alle problematiche del secondo dopoguerra e alle ormai anacronistiche e inutili diatribe sugli usi civici, sulle terre 304 comuni, sulla proprietà perfetta, sulle chiudende, sul peso della rendita fondiaria e della proprietà assenteista, sulla difesa del mercato locale e la superiorità qualitativa dei prodotti sardi rispetto a quelli importati piuttosto che alle nuove domande delle giovani generazioni, più orientate ai cambiamenti. Molti giovani aspiranti agricoltori hanno capito lo spirito del tempo e l’esigenza di procedere a una grande riforma del settore che comprenda gli strumenti operativi, le tecnologie, l’organizzazione aziendale, le nuove produzioni, gli strumenti per stare nel mercato adeguando a questi fini le strutture pubbliche, a cominciare dall’assessorato e dagli uffici della Regione per arrivare alle infrastrutture, alla ricerca scientifica, alla sperimentazione, in sostanza a una politica diretta a riformare l’intero settore, che deve essere considerato essenziale per trasformare l’attività agricola nel volano di un nuovo sviluppo, che non può affermarsi con i vecchi sistemi ma solo realizzando cambiamenti profondi sia nella mentalità delle nuove generazioni sia nel mercato globale. Il sistema è diventato più complesso, un universo molto differenziato che continuiamo forse impropriamente a chiamare agricolo, che del vecchio sistema agricolo ha il suolo, l’ambiente naturale, gli animali e quant’altro serviva per svolgere questa attività nel passato e che serve ancora nel presente e nel futuro ma solo se si creano gli strumenti per affrontare le esigenze emerse con il progresso tecnico-scientifico, culturale, globale, che richiede una politica all’altezza dei tempi, richiede un piano di grande cambiamento, che li comprenda tutti, un 305 piano che ho sintetizzato nell’espressione forse generica ma immediatamente comprensibile di “nuova riforma agraria”. 2. Da quanto ho detto prima emerge con sufficiente chiarezza che se è innegabile che anche in Sardegna l’agricoltura ha fatto importanti passi avanti è però altrettanto innegabile che le cose da fare per realizzare un processo di ammodernamento e di adeguamento in coerenza col progresso tecnico e con le condizioni del mercato, oltre a non essere più le stesse richieste nel passato non sono neppure iniziate nonostante che tutti i comparti chiedano nuove politiche, non solo quello cerealicolo e quello zootecnico ma anche quello vitivinicolo e olivicolo, per citare i più noti. Tutti chiedono profonde riforme nelle strutture dell’informazione, dell’assistenza tecnica, del credito, dell’istruzione media, superiore e universitaria, della commercializzazione, della difesa del suolo e delle biodiversità. La politica agricola è invece sempre la stessa da anni, prevalentemente orientata, come già detto, in termini assistenziali e questo avviene, bisogna riconoscerlo, anche per l’atteggiamento tradizionalista della maggioranza non solo delle imprese ma anche delle associazioni, che a volte appaiono arroccate su posizioni tradizionali a difesa dei mercati locali dall’invasione dei prodotti esterni nell’illusione che basti ridurre le importazioni per rivitalizzare e rendere più redditizio il lavoro degli addetti, senza riflettere abbastanza che se la produzione si orientasse prevalentemente a soddisfare il 306 mercato locale, sarebbe un disastro per tutto il settore ma soprattutto per due dei principali prodotti: il formaggio e il vino che come è noto hanno bisogno per crescere e affermarsi di un mercato aperto e non di un sistema chiuso o come si diceva una volta “autarchico”. Le conseguenze di un sistema chiuso, di una politica agraria “autarchica”, sono la crisi della cerealicoltura, dell’orticoltura e della frutticoltura che hanno nell’orientamento a produrre per il mercato locale la causa più rilevante. La crisi della cerealicoltura ha reso la presenza dei contadini in larghe zone dell’isola sempre più marginale, ridotta a poche migliaia di addetti impegnati a coltivare spazi di terreno sempre più ristretti per produzioni destinate al consumo familiare e locale più che al mercato esterno, naturalmente con qualche eccezione. Ma non è solo questa la causa della difficoltà dei contadini, la ragione che li ha portati a sparire quasi del tutto da tutte le campagne sarde, anche da quelle che sono state la causa delle guerre puniche. Ce ne sono tante altre come ho detto e come è noto da tempo da chi segue l’evoluzione del settore. Guardando le campagne sarde, anche quelle tradizionalmente dominate dalla cerealicoltura, come il medio e basso Campidano è difficile provare la stessa sensazione del geografo francese J. Sion, che secondo quanto riportato nel libro di Le Lannou avrebbe esclamato contemplando le grandi distese di grano: «ora capisco il perché siano state combattute le guerre puniche». Nelle pianure non solo del Campidano ma di tutta la Sardegna c’è sempre meno grano, meno cereali, meno fave e più pecore. Anche questo conferma 307 l’idea che per uscire dalla crisi occorre cambiare il vecchio modo di ragionare e cominciare ad agire, aprendosi al nuovo senza rinnegare l’antico ma neppure fermarsi a rimpiangerlo. L’interesse generale della Sardegna impone che si faccia tutto quello che serve per fermare il declino e rovesciare le tendenze negative espresse dai fatti e confermate dai dati statistici incontrovertibili. Vediamone alcuni: la produzione complessiva del comparto cerealicolo copre a malapena il 20-25% del fabbisogno isolano; un po’ meglio si presenta il comparto olivicolo, che resiste alla concorrenza degli spagnoli, dei greci e dei magrebini oltre a quella delle regioni italiane del Mezzogiorno. La coltivazione delle barbabietole da zucchero è scomparsa, quella dei pomodori ridotta sensibilmente. Solo i carciofi resistono almeno per ora. Pesche, agrumi, pere, mele, mandorlo, noci, nocciole, fichi e castagne sono sempre più scarsi. Il settore vitivinicolo sembra quello più vitale e moderno. Ma la viticoltura rappresenta con i suoi 500.000-600.000 ettolitri appena l’1% della produzione nazionale. Una quantità molto al di sotto delle potenzialità dell’isola e delle possibilità di collocamento nel mercato mondiale. La stampa locale esalta i notevoli successi registrati dai vini sardi in Italia e nel mondo e i produttori sembrano entusiasti di partire alla conquista degli enormi mercati internazionali trascurando di considerare i limiti posti dalla scarsità del prodotto. Sin sono fatti grandi passi avanti nella qualità e nella presentazione dei prodotti ma non si può dire altrettanto per l’aumento della produzione 308 che è sempre modesta nonostante si sia parzialmente sbloccata la possibilità di impiantare nuovi vigneti. 3. Tutto quanto detto conferma l’esigenza, già espressa, di un cambio di strategia, di una nuova visione, di un piano organico pensato per rendere l’agricoltura sarda più dinamica e più in linea con le domande e le condizioni del mercato. Il piano deve comprendere le linee per la riforma di tutte le strutture della pubblica amministrazione, nuove forme e nuovi strumenti di credito e di sostegno societari e di assistenza all’esportazione, la creazione di aziende sperimentali e di impianti energetici integrativi del reddito agricolo e di tutte le altre iniziative necessarie per riformare le strutture pensate per una realtà economicosociale che non esiste più e se esiste non sopravvivrà ai grandi cambiamenti che si preannunciano. L’azione della regione andrebbe supportata meglio dall’Università con le sue facoltà di Agraria, Veterinaria, Scienze naturali. Legare insieme scienza e lavoro agricolo è indispensabile per immettere nell’agricoltura nuove forze dotate di nuove competenze. Ma andrebbero anche creati nuovi organismi tipo Crs4 che si occupino esclusivamente di utilizzare le proprietà delle risorse naturali, delle esperienze e dei prodotti de “su connottu” per creare produzioni in linea con le esigenze del mercato. Le riforme avviate e quelle annunciate non sembrano corrispondere a queste esigenze ma piuttosto a quelle maturate negli ultimi decenni del 900. Il ritardo della nuova visione è confermato dalla recente riforma dell’Ente foreste che ha cambiato il nome in “Forestas” ma ha conservato sostanzialmente una sorta 309 di separatezza dal sistema nel suo complesso con la riconferma delle funzioni e della missione ereditate dal secolo scorso, per di più appesantite dal carico di seimila dipendenti, la maggior parte operai di cantieri destinati più a ridurre la disoccupazione derivata dalla diminuita capacità occupativa del settore agro-zootecnico, che ad affrontare i problemi del settore ambientale, insieme cioè con quella che avrebbe dovuto costituire la nuova moderna missione dell’Ente, emersa chiaramente nel nostro precedente convegno sull’ambiente nel quale anche io avevo segnalato l’urgenza di un’organizzazione dell’intera strumentazione del settore pensata ex novo per attuare una politica ambientale incisiva e moderna rivolta a garantire il rispetto del principio della sostenibilità dello sviluppo con un più attento controllo dell’uso del suolo, dei consumi idrici, dell’uso dei pesticidi e di diserbanti, dello smaltimento dei rifiuti, delle emissioni di CO2, della qualità dei concimi, dei residui delle lavorazioni, della qualità dei mangimi, dell’uso distruttivo dei pascoli e dell’incidenza negativa sull’ambiente di tanti altri elementi quasi completamente ignorati come l’impiego degli OGM, la progressiva sparizione di specie naturali a danno della biodiversità e tanti altri che non è necessario richiamare. È vero che di alcuni di questi problemi si dovrebbe occupare l’Arpas ma è proprio l’irrazionale e anacronistica divisione dei compiti che porta quasi a ignorarsi l’un l’altro che andrebbe rimossa per poter governare le questioni ambientali nel loro insieme. Sono sempre più convinto di quanto sostenuto in quel 310 convegno. Il fattore ambientale insieme a quello agricolo dovrebbe diventare centrale in tutte le politiche regionali, il punto archimedeo sul quale poggiare la leva dello sviluppo. Non basta però condividere questo a parole. È urgente una conferma nei fatti e questo è possibile solo con la riforma della politica agricola e ambientale, già prevista cinquant’anni fa nel piano quinquennale di rinascita, purtroppo largamente disatteso forse perché in anticipo con i tempi e con la mentalità dominante. Sarebbe ora però, dopo tanto tempo, di convincersi che una delle cause più importanti della crisi agricola è stata l’abbandono della visione organica e del coordinamento, incautamente sostituiti con gli interventi dispersivi tradizionali e con una politica assistenziale che infatti continua a vagare nel labirinto della crisi cercando a tentoni la via d’uscita, lasciando in questo modo le sorti dell’isola nelle mani di un mercato che, senza l’uso di strumenti capaci di correggerne le distorsioni e aiutare le aziende sarde in modi concordati con la UE, a competere con il resto del mondo, così come richiesto dalla globalizzazione e dalla libera circolazione delle merci, non può che rendere permanente e irreversibile il declino in corso. Non voglio essere frainteso e considerato un distruttore del passato. Perciò ho intitolato il mio intervento “Su nou e su connottu” per cercare di chiarire che la politica deve valorizzare l’esperienza e allo stesso tempo sostenere il nuovo. La politica agricola non dovendosi più preoccupare come nel passato di incidere sulla distribuzione della terra, sulla riduzione delle rendite 311 fondiarie, sulla riforma dei patti agrari, sull’eliminazione del conflitto pastori-contadini, ecc., può e deve puntare a ridurre le nuove diseconomie, eliminare gli intralci della burocrazia e soprattutto modificare le condizioni strutturali che rendono la nostra agricoltura incapace di tenere il confronto con il resto del mondo. La nuova politica deve cioè ridurre il peso di tutto ciò che frena, che intralcia, che appesantisce, che complica la vita dei produttori, deve allo stesso tempo puntare a creare le competenze, i mezzi, le strutture, i capitali e quanto altro occorre per entrare nel nuovo tempo più attrezzati e più sicuri. Evitare di condannare in blocco il passato non significa che si deve confidare troppo ottimisticamente sulla tenuta di sistemi che appaiono sempre più deboli, più testimonianze del vecchio mondo che strutture attive del nuovo tempo. Per riuscire realmente nell’impresa di valorizzare tutte le componenti vitali della società sarda e in particolare gli elementi costitutivi bisogna evitare di “museificarli”, bisogna conservarne la natura fondamentale e aggiungere il nuovo, saldare il nuovo con l’antico: “su nou chi su connottu” inserendoli nella civiltà post-moderna con gli strumenti della tecnica. Tutto il discorso fin qui svolto vale per l’intera Sardegna ma riguarda soprattutto le zone interne alle quali la seconda modernità sembra incapace di garantire un futuro migliore. Lo spopolamento e l’abbandono sono i segni più evidenti ma non i soli che segnalano che è in atto una 312 rottura epocale, e dicono chiaramente che potrebbe diventare inarrestabile se prevalesse una visione limitata che porterebbe come già detto alla museificazione del territorio, riducendo sensibilmente le potenzialità economiche del patrimonio etnico-culturale. L’unica strada per evitarlo è fare in modo che gli antichi beni preziosi vengano non solo protetti e utilizzati ma in qualche modo migliorati, fatti diventare parte integrante del sistema di produzione post-moderno facendo in modo che da beni locali diventino beni globali. Lo dobbiamo a noi stessi ma lo dobbiamo soprattutto alle nuove generazioni che hanno diritto di pretendere di vivere in un mondo dove sia loro possibile partecipare alla realizzazione di un modello di sviluppo che richiede nuove competenze e nuovi strumenti unendo antico e moderno non per il mercato ma per realizzare un riscatto atteso da tanto tempo, rivendicato e sperato ma mai raggiunto. Nel passato abbiamo sperimentato altre strade, abbiamo fatto importanti progetti originali e coraggiose esperienze di tipo industriale che hanno creato prima grandi speranze e poi grandi delusioni, provocato disagi duri da sopportare e causato ferite ancora aperte. Sarebbe sbagliato dopo questi insuccessi pensare che non c’è niente da fare per includere le aree interne nel grande fiume della prima e della seconda modernizzazione, salvando quanto di valido resta della civiltà agropastorale di cui abbiamo parlato e dell’intero mondo rurale che coincide con le zone interne. Perché l’impresa riesca occorre rimuovere le cause degli insuccessi dei precedenti 313 progetti e soprattutto è necessario mettere in campo un nuovo progetto all’altezza dei tempi nuovi. Ciò vuol dire che non dobbiamo solo accusare o protestare, ma dobbiamo agire impegnando tutte le nostre forze perché la crisi in atto non diventi irreversibile, non condanni al definitivo declino e spopolamento due/terzi dell’isola, ma apra la strada a uno sviluppo moderno che non può venire, lo ripeto, dalla creazione di un grande museo a cielo aperto ma da un’economia viva e vitale che veda le popolazioni diventare protagoniste della seconda modernizzazione, utilizzando la cultura de “su connottu” non come folclore inerte, anche se carico di fascino, ma come una risorsa viva che concorre a creare una nuova civiltà più efficiente, più giusta, più equa e più solidale. Terza parte 1. A questo punto è opportuno fare un breve accenno ai profili internazionali indicati nel tema del convegno e sottolineati dalla partecipazione di alcuni esperti del Maghreb. Non posso sviluppare ampiamente questo tema non perché lo ritenga estraneo o marginale, ma al contrario perché penso che esso meriti un esame non frettoloso o superficiale. Ma vista l’importanza dello scenario geopolitico nel quale noi e loro operiamo non parlarne per niente sarebbe sbagliato. Le esperienze antiche e anche quelle più recenti ci insegnano che ci sono molti punti in comune fra la Sardegna e le aree mediterranee del 314 Maghreb e in particolare della Tunisia. Anche se volessimo non potremmo dimenticare che Cartagine ha dominato la nostra isola per qualche secolo, ha costruito città, creato colonie agricole e molte altre attività che ancora segnano il nostro paesaggio e secondo alcuni studiosi anche il nostro carattere nonostante siano trascorsi due millenni e si siano alternati nel tempo diversi regimi politici e molti cambiamenti importanti nelle strutture religiose, culturali e produttive. Il tema dei rapporti con i paesi extracomunitari, compresi quelli della sponda africana del Mediterraneo, rientra inoltre nel quadro più ampio imposto dalla globalizzazione, della quale ho parlato a lungo. Vi rientra in linea generale anche se è evidente che per molti aspetti si differenzia dagli altri che ho richiamato per la prossimità territoriale e per la somiglianza di alcuni prodotti comuni alle due economie che inevitabilmente si presentano come concorrenziali tra loro e creano qualche tensione. Lo abbiamo constatato anche di recente quando la semplice notizia di un contingente di olio d’oliva importato dal Maghreb esente imposte provocò una dura polemica nella stampa locale. L’importanza del problema è più chiara se si pensa che non è solo l’olio d’oliva in potenziale concorrenza con il nostro ma lo sono quasi tutti i prodotti agricoli: cerealicoli, frutticoli, orticoli a anche zootecnici. Ci sono state e ci sono in corso molte analisi e approfondimenti su questi temi, oltre a quelli esposti dai relatori presenti al convegno. Essi ci dicono che la Sardegna condivide con i paesi mediterranei molte delle problematiche geopolitiche 315 in quanto noi e loro siamo un anello debole, soprattutto se ciascuno pensa solo a sé stesso e non si creano nuove forme di collaborazione, ben sapendo che l’Europa reale di oggi non è l’Europa degli antichi che aveva al suo centro il mar Mediterraneo, Roma come capitale, il latino e la cultura cristiana come elementi unificanti. L’Europa di oggi non comprende la sponda africana né quella asiatica, entrambe assorbite dall’universo che siamo soliti chiamare “islamico”, con tutto ciò che questo comporta e che noi conosciamo perché, già prima dell’anno 1000, quando l’Islam comprendeva una parte considerevole della Spagna, dei Balcani, della Sicilia, la Sardegna ha dovuto difendersi ma anche cooperare con il vicino Maghreb. Tutto questo fa parte della memoria, è impresso nell’identità dei diversi popoli e non rende facile considerarli uguali agli altri europei anche perché il colonialismo ha lasciato molte ferite e la comparsa più recente dei fondamentalismi religiosi e politici accentua le grandi differenze e le ostilità che ci dividono. Ma nonostante tutto questo ci sono interessi e problemi comuni di cui noi dobbiamo farci carico consapevoli che la sorte dell’Europa e ancor più della Sardegna è fortemente collegata con il mondo islamico mediterraneo e soprattutto con il Maghreb. Dobbiamo fare di tutto per evitare contrapposizioni ostili e non limitarci a iniziative isolate, episodiche, volontaristiche o di natura culturale, turistica, archeologica, ma agire da un punto di vista più ampio, politico e economico, realizzando patti e azioni comuni per difendere interessi convergenti e per meglio 316 far fronte ai problemi drammatici più recenti imposti dalle migrazioni. Ciò richiede una stretta collaborazione che superi le diffidenze, le incomprensioni e le divergenze che indeboliscono entrambi nei difficili e tutt’altro che scontati confronti con l’UE, nella quale come è risaputo e dimostrato, dominano le questioni poste dai paesi più forti, Francia e Germania in particolare. È difficile ma non impossibile anche il compito più urgente di trasformare in elementi di forza le grandi emergenze della geopolitica tra le quali non ultima va collocato il problema delle incontrollate migrazioni. Occorre lavorare insieme per conseguire una riduzione significativa del numero dei migranti per evitare l’aumento dell’instabilità, dell’insicurezza, della permanente conflittualità in tutto il bacino del Mediterraneo. È interesse nostro e di tutta l’Europa avviare una politica rivolta a non penalizzare le economie dei paesi extracomunitari, a cominciare da quelle dei paesi maghrebini che anzi vanno aiutati e sostenuti nei programmi di sviluppo, che sono l’unico vero rimedio alle migrazioni. Serve cioè più lungimiranza e più coraggio da parte di tutti, anche da parte nostra, e ci dobbiamo tutti augurare che questo avvenga. Non dobbiamo aver paura che l’agricoltura del Maghreb, se cresce e migliora, ci danneggi. Anzi dobbiamo pensare e fare in modo che la sua crescita diventi in qualche misura un obiettivo comune, che richiede naturalmente un indirizzo, un 317 coordinamento e una verifica costante dei patti e una loro reale attuazione. 2. La geopolitica ha allargato il discorso fin qui svolto sull’agricoltura e ci ha fatto capire che non tutto dipende da noi ma da fattori e interessi molto più vasti e complessi. Questo rende il compito della politica molto più impegnativo e difficile ma possibile e soprattutto necessario se vogliamo guardare al futuro con fondata speranza. Il cammino dell’uomo non è ancora giunto alla fine. Molti segnali vanno in direzione di un’Apocalisse sempre più imminente. Altri invece annunciano l’inizio di un nuovo tempo, indicano che la strada per conseguire nuove conquiste; mostrano orizzonti nuovi e indicano che obiettivi che sembravano irrealizzabili sono alla portata della mente umana; mostrano che sono possibili progressi finora impensabili nella condizione di vita, nell’uguaglianza, nella giustizia, nell’equità, nel rispetto dei valori umani, nella dignità e nella fraternità di tutti senza distinzione; lasciano intravvedere la conquista di nuovi spazi, nuove conoscenze, nuovi territori e persino nuovi mondi. Sperare in un futuro diverso non deve essere considerato tempo sprecato a inseguire illusioni per poi passare il tempo a lamentarsi degli insuccessi come è avvenuto per certi progetti elaborati nel passato in agricoltura, nell’industria, nella condizione urbana e in quella rurale. Gli insuccessi fanno parte dell’ordine naturale della vita. Ogni cosa nasce e muore, ci sono stati e ci saranno sempre successi e insuccessi. Ma è vero anche che molte cose sono cambiate in meglio: la società 318 ha progredito, la condizione umana è migliorata. Questo ci autorizza a sperare che le nuove aspettative nate dall’esperienza che chiedono di colmare i vuoti e correggere le distorsioni possano essere realizzate in tutto o in parte nel nuovo tempo da una nuova classe dirigente, forse non da noi, ma dai nostri figli e dai figli dei figli. Nessuno fermerà il cammino della tecnica moderna come nessuno ha fermato l’uso del fuoco donato da Prometeo agli uomini dopo averlo sottratto agli dei anche se si sa che la tecnica avrà come conseguenza la diffusione dei mali in essa nascosti, come è successo con quelli contenuti nel vaso di Pandora. Il progresso tecnico però non si è fermato allora e non si fermerà oggi davanti ai pericoli annunciati o temuti. Andrà avanti con conquiste sempre nuove, con scoperte e applicazioni oggi impensate che niente e nessuno può fermare. Questo è il punto obbligato del vivere umano. Tocca a tutti ma soprattutto a chi ha la responsabilità maggiore fare in modo che la tecnica non uccida l’anima dell’uomo, non cancelli le conquiste del passato, non distrugga i valori, la memoria, l’identità. L’esperienza, anche quella legata ai sogni svaniti, è utile per evitare nuove delusioni e per resistere a forze ostili. Per questo penso che per non essere completamente dominati dalla tecnica, per non perdere l’identità e non essere totalmente omologati al resto del mondo, è essenziale unire il patrimonio che chiamiamo “su connottu”, che naturalmente comprende anche le ultime esperienze, con il nuovo in via di formazione e che ancora non si conosce. E 319 ciò sarà possibile se ritroviamo la fiducia in noi stessi, se saremo capaci di affrontare il nuovo tempo non impreparati o disarmati ma con i mezzi e le forme necessarie per far nascere il nuovo senza distruggere il patrimonio antico che costituisce la specificità e l’identità comunitaria. 3. Nel precedente convegno ho citato E. Kant per dire che non esistono concetti senza esperienza né esperienza senza concetti. Lo ripeto anche oggi. Tutti possiamo vedere che l’esperienza ha modificato il nostro orizzonte di aspettative, ha creato nuove speranze e nuovi concetti che dovranno orientare la nuova esperienza. Parole antiche hanno assunto nuovi significati. Anche le parole agricoltura, pastorizia, ambiente, paesaggio, natura oltre alle parole libertà, giustizia, sviluppo, benessere contengono nuovi significati collegati alle nuove attese nate dalle nuove esperienze. Questo vale per i politici, per gli intellettuali ma vale anche per il pastore, per l’agricoltore, per il viticoltore, per l’ortolano, per il giovane agronomo, per il chimico, per il veterinario, per il medico, per l’archeologo, per il botanico, per l’artista, vale per gli uomini e per le donne, per tutti. I nuovi significati non devono cancellare quelli antichi. E se è sbagliato vivere il nuovo tempo secondo le strutture concettuali e valoriali prodotte dall’antica esperienza è altrettanto sbagliato ignorarle affidandosi interamente alle strutture concettuali e valoriali imposte dalla tecnica che ha ampliato l’orizzonte delle attese e cambiato i modelli di vita non sempre nel rispetto di tutti i diritti umani. 320 Il passaggio che viviamo è molto più rapido e radicale di tutti quelli che l’hanno preceduto. È più difficile, più complesso e in parte fuorviante. Sta a chi guida evitare i guasti maggiori tra i quali la scomparsa del patrimonio costruito nel lungo tempo della nostra storia. Evitare che questo avvenga è molto importante ma sarebbe sbagliato opporsi a tutti i cambiamenti. Occorre agire con coraggio, saggezza e lungimiranza rispettando il principio di precauzione ma tenendo presente che il rifiuto del nuovo è impossibile e comunque senza sbocco, senza alcuna prospettiva, senza futuro. Chi non lo condivide sarà costretto ad assistere impotente alla scomparsa del vecchio mondo senza vedere il nuovo. Si rinchiuderà sempre di più dentro un mondo diventato folclore anche in quelle parti che per secoli sono state il cuore pulsante delle comunità. Per evitare questa “catastrofe” culturale e antropologica la nuova politica dovrà, lo ripeto, unire il nuovo e l’antico e dovrà riempire le parole antiche di nuovi significati e dovrà aprire nuovi orizzonti, sapendo che c’è la legge naturale della resilienza a regolare la convivenza uomo-natura e difendere i diritti di entrambi i mondi, quello umano e quello naturale. Spetta però all’uomo e non alla natura usare le possibilità offerte dalla resilienza, trovare il modo più efficace per garantire la convivenza tra questi due mondi che può essere travolta dall’irrompere senza freni e senza limiti nella vita del nostro pianeta della tecnica moderna. Le modalità vanno ancora scoperte e sperimentate ma bisogna far presto perché la tecnica è in 321 azione sempre e ci costringe a prendere atto che il cambiamento di quello che siamo soliti chiamare “su connottu” è inevitabile e che il suo nucleo vitale può essere salvato solo se il processo rimane sotto il controllo dell’uomo. Questo vuol dire che per fermare il declino delle zone interne non è sufficiente la resilienza ma è indispensabile l’opera attiva dell’uomo. Non basta neppure che le nuove generazioni intraprendano un lavoro agricolo innovativo nelle tecniche, nei prodotti, nei sistemi di lavorazione e commercializzazione, nel pluriuso della terra e delle strutture aziendali se si lascia al mercato a allo spontaneismo individuale la soluzione dei problemi che stanno portando allo spopolamento. Per invertire la tendenza occorre rafforzare l’azione pubblica, occorre predisporre e attuare una serie di interventi di natura infrastrutturale, ambientale, culturale e sociale. Occorre anche e soprattutto riformare l’intero sistema politicoistituzionale e l’azione amministrativa; occorre una nuova visione del ruolo dei servizi sanitari, scolastici, dei beni culturali; occorre rendere le zone agropastorali meno periferia e più centro, meno in ritardo e più aggiornate, meno dedite alla monocoltura e più diversificate e ricche di occasioni di lavoro moderno. Occorre sostenere le vocazioni individuali e indirizzarle a realizzare una struttura produttiva fondata su forme di collaborazione, che potremmo chiamare “sociali di mercato”, capitalistiche e tecnicamente avanzate ma anche radicate nel tessuto sociale locale ed estese a tutti i settori, a cominciare da quello agricolo. Costruire un’agricoltura 322 sociale di mercato può rendere più facile la presenza nelle zone interne dell’industria 4.0 di ultima generazione; del terziario avanzato e di altre attività orientate a difendere la sostenibilità ambientale e l’equità sociale e sarà più facile promuovere la partecipazione responsabile di tutte le componenti sociali al processo produttivo, facendo in modo che capitale e lavoro collaborino lealmente alla costruzione di un sistema che porti all’equa distribuzione dei profitti e al rispetto dei valori sociali, di quelli tradizionali, di quelli moderni e di quelli post-moderni. 4. Da tutto quanto abbiamo detto finora emerge chiaramente che la nuova politica agraria non si dovrà limitare come nel passato a distribuire terreni e organizzare bonifiche e miglioramenti fondiari e costruire infrastrutture. Dovrà affrontare un compito più vasto e impegnativo che consiste nel trasformare l’agricoltura tradizionale in uno strumento costruito per contribuire a raggiungere l’obiettivo più importante, che consiste nel superamento dell’esclusione delle zone interne a prevalente economia rurale dai processi di sviluppo postindustriale e dall’uso dei nuovi beni materiali e immateriali, consiste nel non lasciare tutto alle tendenze di un mercato che appare sempre più dominato dall’attività speculativa della finanza internazionale e dall’egemonia della tecnica che lasciate senza freni né controlli accentueranno e renderanno irreversibile, come ho sottolineato più volte, il declino delle aree deboli che diventa inevitabile senza un cambio di paradigma, che tutti a parole diciamo di volere ma che nei fatti, a 323 cominciare da quelli della politica, tarda a comparire. Occorre agire per diversificare l’economia delle zone interne sapendo che le nuove tecnologie e i nuovi sistemi di produzione anche in agricoltura lasciati a un mercato senza controlli non aumenteranno l’occupazione ma semmai la diminuiranno, come è avvenuto nelle zone in cui l’agricoltura in tutti i suoi vari comparti ha ben altra dimensione e qualità della nostra. Sarà perciò importante che la politica trovi i modi adatti per aggiungere alle attività di produzione agricola, imprese industriali che trasformino in loco i prodotti. Ma ancora più importante è ampliare l’orizzonte delle attività verso campi nuovi che valorizzino le competenze tecniche dei più giovani e gli offrano la possibilità di realizzare i loro sogni. È dimostrato da altre numerose esperienze che la crescita dell’agroindustria e delle attività turistiche legate ai beni culturali non è sufficiente per creare un nuovo sviluppo. Non basterà neppure trasferire nelle zone interne le strutture, gli uffici, gli apparati di ricerca, tutto ciò che è legato strettamente all’agricoltura ed è localizzato nelle maggiori città. Occorre tutto questo ma inquadrato in un grande piano secondo una nuova visione e si potrebbe dire, un nuovo sogno, capace di mobilitare tutti, risvegliare le coscienze, alimentare nuove vocazioni, superare tutti i dubbi, anche quelli che nascono da una ragione scettica che spinge a pensare che sia impossibile trasformare i sogni in realtà. Il piano di cui parlo non è un’utopia irrealizzabile ma un’utopia concreta che punta a creare una Sardegna unita avendo la consapevolezza che 324 se questo non dovesse accadere il declino continuerà inesorabile la sua strada che non è detto si fermi alle zone interne. Bisogna quindi partire dal considerare la Sardegna una realtà unitaria non solo sul piano tecnico, nel campo idrico, dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, dell’istruzione, della sanità, dei servizi portuali, dei servizi finanziari, delle imposte e di molti altri settori ma soprattutto sul piano culturale-sociale, politico e istituzionale, cioè come una comunità unica e inscindibile di storia, di cultura e di destino. Aver diviso la Sardegna creando un’area metropolitana, una unione di città medie e una serie di piccole unioni tra comuni in declino, è il frutto di una visione incoerente con le finalità cui abbiamo fatto riferimento, ha fatto riemergere vecchie paure e sospetti, ha creato nuovi problemi e ha complicato quelli antichi, rendendo più difficile elaborare, approvare e attuare un progetto comune. Bisogna convincersi che cambiare un destino che appare ineluttabile è impossibile se non cambia l’orizzonte nel quale si colloca l’attività della comunità, se la politica non affronta il problema dell’intero assetto territorialeamministrativo, se per esempio la riforma del sistema amministrativo e dei servizi e le leggi urbanistica e quella elettorale in fase di studio ignorassero questi problemi e non provvedessero a correggere almeno in parte la divisione che si è creata tra le varie parti dell’isola con i provvedimenti assunti finora. Bisogna dunque cambiare prima di tutto la politica, per orientarla a includere tutte le popolazioni nel processo 325 decisionale, modificando a questo fine innanzitutto le regole per la selezione della rappresentanza. Occorre essere consapevoli che se questa continuasse a venire espressa in proporzione alle popolazioni residenti nelle varie zone dell’isola non potrebbe che essere espressione delle città e quindi orientata a risolvere prioritariamente i loro problemi e solo dopo quelli delle aree interne. Questo tema non è esplicitamente indicato tra quelli del convegno ma ne fa legittimamente parte perché è elemento costitutivo di una politica che voglia le grandi diseguaglianze tra i vari territori che invece aumenteranno se la politica non si preoccuperà tanto della marginalizzazione e dello spopolamento di territori poco rappresentati quanto piuttosto di quelli che hanno espresso il maggior numero di rappresentanti. In una società come quella sarda, in preda a una crisi d’identità oltreché a una grave crisi economica, tutto si tiene e non basta per superare la malattia curare alcuni sintomi del male lasciandone da parte altri anche se più importanti, perché ciò aggrava la malattia e non favorisce certo la ricostruzione della fiducia perduta dalle popolazioni delle zone interne nei confronti delle istituzioni e della politica. 5. A questo punto la domanda d’obbligo è quella di sempre: che fare? La risposta non può che essere di sintesi e di genere qualitativo. Essa è già nel titolo dell’intervento che comprende il percorso, il metodo e i contenuti; indica una strada per unire “su nou e su connottu”, per rispettare l’esperienza e valorizzare quanto in essa è ancora valido, attuale, utile ed efficace perché il futuro sia meno incerto e 326 meno diseguale per tutte le persone e per tutti i territori; per non perdere l’identità costruita nei secoli per evitare i conflitti tra nuovo e antico che hanno provocato rigetto e insuccessi. Dice anche che bisogna tornare all’elaborazione di una programmazione generale unitaria, ricollocare i problemi della Sardegna nel più vasto scenario globale e in particolare del Mezzogiorno; andare oltre l’orizzonte regionale e ragionare in termini geopolitici più larghi, come già detto a proposito dei rapporti con i paesi mediterranei della sponda asiatica e africana. Dice che occorre essere uniti e solidali tra noi per sconfiggere le ragioni che hanno impedito alla Sardegna di uscire dal sottosviluppo. Ma dice anche che una parte molto consistente di queste ragioni è la stessa di tutta l’Italia meridionale, deriva dalla posizione geografica, dai rapporti internazionali, dall’insufficiente dotazione infrastrutturale complessiva, dalle difficoltà nelle comunicazioni e negli scambi, dal basso livello della cultura tecnica, da un mercato lasciato a sé stesso e persino dai pregiudizi che da sempre condizionano la vita sociale del mezzogiorno e le politiche per il Sud e che tutto questo richiede una nuova politica meridionalistica che comprenda anche la Sardegna. Dice inoltre che dobbiamo tornare allo Statuto speciale, ed in particolare a un nuovo piano di sviluppo secondo l’art. 13, che pone in capo allo Stato con il concorso della Regione l’adozione e l’attuazione di programmi organici per promuovere la rinascita dell’isola. Dice che è sempre necessaria la solidarietà e l’impegno dello Stato, ma dice anche che 327 dobbiamo tornare a essere noi i protagonisti e la guida politica del processo diversamente da quanto succede nella politica di oggi che appare sempre più dominata dallo Stato con le sue agenzie, strutture ministeriali, patti, contratti, firme, cerimonie, inaugurazioni, concessioni di grazie e benevolenze accompagnate da spettacolari cerimoniali messi in scena al solo scopo di ottenere consenso, anche lasciando inalterate le cause più profonde del malessere. Detto ancor più chiaramente per quanto mi riguarda penso che bisogna tornare a praticare una politica e una governance più sobria con meno firme di patti, meno cerimonie, meno inaugurazioni, meno parole di circostanza e più fatti. Penso sia bene tornare alle migliori tradizioni autonomistiche del passato, utilizzandole secondo le finalità e gli obiettivi richiesti dalla nuova società e secondo le attese nate dall’esperienza, definite dalla nuova struttura di valori e dall’orizzonte di aspettative cresciute in questi anni sia per effetto dei risultati positivi raggiunti sia per effetto delle crisi che hanno colpito vaste zone territoriali, alcune categorie sociali e alcuni settori produttivi tra i quali quello di cui ci stiamo occupando oggi, cioè l’agricoltura che come abbiamo detto coincide con le zone interne e coinvolge i 2/3 del territorio e circa la metà della popolazione della Sardegna. Penso che tornare al conosciuto significa non solo tornare alla politica di piano prevista nell’art. 13, ma significa anche individuare la nuova base per poggiare la leva archimedea dello sviluppo nella centralità delle risorse 328 agricole, paesaggistiche e culturali, significa usare la saggezza delle comunità dei contadini e dei pastori e valorizzare quanto la loro millenaria esperienza ha prodotto, soprattutto quelle parti che hanno assunto con il tempo un significato identitario senza il quale non esisterebbe la Nazione sarda. La politica più recente ha scelto una strada diversa da quella che ho indicato seguendo anche le tendenze nazionali e internazionali prevalenti, segnate da una forte egemonia del ruolo del mercato e da una modesta programmazione dal basso totalmente priva di un quadro generale di riferimento. Questa direzione non è cambiata neppure dopo la riforma del sistema delle entrate che avrebbe dovuto dare alla Regione la possibilità di ampliare le funzioni in alcuni campi, soprattutto nei servizi, ma non solo. Lo stesso insuccesso è destinato ad avere una politica fondata su un generico e scontato principio di insularità perché le agevolazioni fiscali e la riduzione dei costi di transazione da sole non bastano pera far riprendere alla Sardegna la strada dello sviluppo che è possibile solo dentro il quadro più ampio che ho cercato di definire. Purtroppo non ci sono segnali di cambiamento e di integrazione né di allargamento dell’orizzonte ed è evidente che le politiche fin qui praticate non hanno prodotto per la loro inadeguatezza nessuna novità in grado di fermare lo spopolamento delle zone interne, il declino delle attività agropastorali e, cosa più grave di tutte, la cancellazione di alcuni degli elementi costitutivi 329 dell’identità della Nazione sarda, della sua unità e del suo destino futuro. In questo senso, tornare a “su connottu” significa usare tutte le energie vecchie e nuove per evitare la catastrofe annunciata, riprendere la strada maestra della difesa dello Statuto, del rifiuto della dipendenza e della pelosa benevolenza, significa combattere la vassalleria postmoderna diffusa a tutti i livelli e riprendere la contestazione, aprire la mente e il cuore alla fiducia nel futuro e smettere di pensare che lo sviluppo ci venga dato in dono. Bisogna difendere il proprio passato, difendere la storia della propria terra, essere orgogliosi delle tradizioni, amare i prodotti della civiltà agropastorale, vivere secondo i canoni del tempo antico, ma occorre fare di più. Bisogna cambiare, bisogna agire ma coerentemente e con coraggio anche rischiando di perdere qualche battaglia. Il passato non può condizionare troppo il presente e il presente sbaglierebbe a leggere il futuro alla luce dei valori del passato. È difficile imboccare la nuova via ma imboccarla è essenziale per non sbagliare ancora. Sollecitare l’orgoglio e le passioni, contare sull’autostima delle antiche e mai piegate popolazioni dell’interno non basta; occorre dare sostegno alla loro testarda, pervicace, orgogliosa fiducia nei propri mezzi e nella forza della storia, dell’ambiente naturale e di un’esperienza di vita originale e diversa dalle altre. Ma occorre anche convincersi che tutto questo non è sufficiente a cambiare i corso degli eventi ma che per riuscirci è necessario che la classe dirigente dimostri di esistere, cioè elabori, approvi e 330 attui un grande progetto, realizzi una visione, adempia una missione nuova chiamando all’impresa l’intera comunità sarda. Tutto questo può sembrare un sogno, come ho già detto, ma è necessario credere che l’impossibile può diventare possibile, che il sogno di diventare protagonisti e padroni del proprio futuro si può realizzare se c’è il concorso di tutti. Come già detto la prima cosa da fare è cambiare la politica e fare in modo che tutti possano concorrere a creare le condizioni per realizzare il grande obiettivo inseguito a lungo e mai raggiunto della libertà e dell’unità della Sardegna e dei sardi, fare in modo che tutti possano collaborare con le vecchie e le nuove competenze lealmente all’impresa. Nessuno può assicurare che il sogno si realizzi, ma bisogna provare. Se l’analisi è giusta, se le doti di cui parliamo sono reali, se le comunità non hanno perso il senso del loro essere libere e forti, se l’identità ha mantenuto intatte le sue radici profonde, non è solo un sogno sperare che la sorte della Sardegna e delle aree interne possa cambiare e che l’intera comunità sarda possa guardare con più fiducia al successo di un programma che in fondo tende a riportare il futuro nelle sue mani. Maurice Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, tradotto e presentato da Manlio Brigaglia, Edizioni Della Torre, 1979, con il patrocinio della Presidenza della Regione Autonoma della Sardegna Francesco Cetti, Storia naturale di Sardegna, a cura di Antonello Mattone e Piero Sanna, Ilisso, 2000 331 Conclusioni On. Giorgio Carta L’associazione degli ex parlamentari, con questo convegno ha riportato al centro del confronto dei temi fondamentali per l’economia della Sardegna. Agricoltura, pastorizia e ambiente, hanno un valore più ampio delle singole parole, significano anche, gestione del territorio rurale, ambiente, paesaggio, energia rinnovabile, lavoro, attività produttive. È su questi temi che i relatori e i partecipanti al dibattito si sono soffermati con approfondimenti accurati, con uno sguardo al passato e uno al futuro. Il confronto delle relazioni con i rappresentanti del Maghreb, ha consentito di acquisire informazioni preziose che possono essere utilizzate per molteplici scopi anche nel nostro contesto territoriale. Rinforzare le relazioni con i popoli del Mediterraneo, testimonianze plurali, culture a confronto, esperienza di scambi e relazioni può rappresentare la svolta per la nostra economia rurale. Gli obiettivi della politica regionale in materia devono essere concretamente connessi con quelle che sono le opportunità che offre la PAC (Politica agricola comune). La vocazione agricola della nostra isola se connessa agli 332 obiettivi specifici della PAC attraverso l’utilizzo dei Fondi Europei consente da un lato di creare opportunità di lavoro, e dall’altro lato di custodire i territori contro l’abbandono, ma anche di valorizzare e custodire il suolo e l’ambiente che ci circonda. Le parole d’ordine in questo contesto devono essere, multifunzionalità, salvaguardia e innovazione. L’agricoltura e l’ambiente sono temi che guardano al futuro. Per i progetti concreti, occorre adottare la filosofia della Partecipazione coinvolgendo, le associazioni, le parti sociali al fine di farle intervenire direttamente nel processo di definizione delle idee e per accogliere suggerimenti. Ed è quello che l’Associazione degli ex Parlamentari ha inteso fare in questo convegno, superando gli steccati, gli interessi localistici e invitando tutti i partecipanti alla collaborazione per l’interesse collettivo. Ringraziamo i numerosi esponenti di prestigio, del mondo della politica e della cultura, l’università le parti sociali e tutte le organizzazioni di categoria che ci hanno privilegiato con la loro presenza e che, con interventi diretti o scritti hanno consentito di realizzare questo volume con gli atti del convegno che ci permetterà di effettuare ulteriori approfondimenti nelle scuole, con i ragazzi che rappresentano il futuro della nostra Sardegna. 333 Associazione ex Parlamentari della Repubblica Coordinamento della Sardegna Sito web: sardegna.exparlamentari.it Col patrocinio della: Col Patrocinio del Presidente del Consiglio Regionale della Sardegna PUBBLICAZIONE A CURA DI: Sito web: www.taulara.com 334