Agricoltura Pastoralismo Ambiente

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Agricoltura Pastoralismo Ambiente
PASTORIZIA
AGRICOLTURA
AMBIENTE
LA SARDEGNA E L’AREA
DEL MAGHREB
CONVEGNO
CAGLIARI 19 NOVEMBRE 2016
1
2
Associazione ex Parlamentari della Repubblica
Coordinamento della Sardegna
Sito web: sardegna.exparlamentari.it
Col patrocinio della:
Col Patrocinio del
Presidente del Consiglio Regionale della Sardegna
PUBBLICAZIONE A CURA DI:
Sito web: www.taulara.com
3
Sommario
INTRODUZIONE
-
9
On. Giorgio Carta, Coordinatore Associazione ex Parlamentari
della Sardegna
SALUTI ISTITUZIONALI
-
11
Dott. Carlo Salis, Consigliere di Amministrazione Fondazione di
Sardegna
L’AGRICOLTURA NEL PROCESSO DI SVILUPPO DELLA
SARDEGNA
15
-
On. Pietro Maurandi, Prof. Università di Cagliari
PERCHÉ C'È BISOGNO DI UNA POLITICA AGRICOLA
«COMUNE» A LIVELLO DELL'UE?
36
-
On. Salvatore Cicu, Europarlamentare
LA PASTORIZIA SARDA FRA PASSATO E FUTURO
-
44
Prof. Giuseppe Pulina, Ordinario di Agraria Università di Sassari
4
PASTORALISMO IN EVOLUZIONE, DAL MODELLO
TRADIZIONALE A QUELLO MULTIFUNZIONALE
73
-
Prof. Benedetto Meloni e Prof.ssa Domenica Farinella, Sociologia
del Territorio e dell’Ambiente Università di Cagliari
L’AGRICULTURE EN TUNISIE ET LES POSSIBILITÉS DE
PARTENARIAT AVEC LA REGION AUTONOME DE
SARDAIGNE
118
-
Prof. Mohamed Habib Jemli, Ecole Nationale de Médecine
vétérinaire Tunisie
-
Dott. Abdelbaki Rouabeh, UGMVT
LATTE, CEREALI, CARNE, ORTOFRUTTA: CRISI DI
MERCATO E CROLLO DEI PREZZI
139
-
Dott. Martino Scanu, Presidente CIA Sardegna
UNA BUONA POLITICA PER USCIRE DALLA CRISI
-
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Sig. Felice Floris, Movimento Pastori
I CAMBIAMENTI CLIMATICI E AMBIENTALI GLOBALI
QUALE IMPATTO SULL’AGRICOLTURA E SULLA
PASTORIZIA DELLA SARDEGNA E QUALI STRUMENTI
ADOTTA LA REGIONE
155
-
Dott.ssa. Elisabetta Falchi, Assessore Regionale dell’Agricoltura e
Riforma Agropastorale
5
LO SPOPOLAMENTO DELLE ZONE INTERNE DELLA
SARDEGNA
188
-
Prof. Pietro Ciarlo, Ordinario Diritto Costituzionale Università di
Cagliari
AGRICOLTURA, PASTORIZIA E AMBIENTE IN SARDEGNA
E NEL MEDITERRANEO
196
-
Dott.ssa Anna Rita Poddesu, Segretaria Regionale FLAI Sardegna
LA
PASTORIZIA
E
L’AGRICOLTURA
NELL’ECONOMIA DELL’ISOLA.
-
SARDA
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On. Luigi Lotto, Presidente Commissione Attività Produttive del
Consiglio Regionale della Sardegna
DOTT. PIETRO TANDEDDU, COORDINATORE REGIONALE
COPAGRI SARDEGNA
222
AGRICOLTURA, PASTORIZIA E AMBIENTE IN SARDEGNA
E NEL MEDITERRANEO
232
-
Dott. Raffaele Lecca, Presidente Regionale ALPAA
MON TÉMOIGNAGE ENTANT QUE BÉNÉFICIÈRE DE LA
BOURSE D’ÉTUDE DU PROJET «FORMED»
245
-
Dott. Saad Fikri, Gestione dell’Ambiente e del Territorio
6
L’AGRICOLTURA NEL PROCESSO DI SVILUPPO DELLA
SARDEGNA
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-
Prof. Aldo Accardo, Ordinario Storia Contemporanea Università
di Sassari
LA SFIDA DEL FUTURO DELLA SARDEGNA NEL
MEDITERRANEO
268
-
On. Angelo Rojch, ex Presidente Regione Sardegna
PROF.SSA MARIA ANTONIETTA MONGIU, PRESIDENTE
FAI SARDEGNA
274
AGRICOLTURA, PASTORIZIA E AMBIENTE IN SARDEGNA
E NEL MEDITERRANEO
282
-
On. Pietro Soddu, ex Presidente Regione Sardegna
CONCLUSIONI
-
332
On. Giorgio Carta
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On. Giorgio Carta: Coordinatore Associazione ex
Parlamentari – Sezione Sardegna
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Introduzione
On. Giorgio Carta, Coordinatore Associazione ex
Parlamentari della Sardegna
La crisi che attanaglia, l’Occidente, l’Europa, l’Italia e in
particolare la Sardegna, ha indotto l’Associazione degli Ex
Parlamentari, a proporre alle diverse Istituzioni politiche e
sociali, una giornata di lavoro sulle prospettive di sviluppo
della nostra isola e dei paesi del Mediterraneo.
Il confronto con le regioni del Maghreb su uno dei
segmenti più importanti dell’economia (l’agricoltura e
l’ambiente), non come semplice excursus storico, ma
come punto di partenza per un programma, che induca a
riflettere anche, su cosa sia necessario fare, per consentire
alla Sardegna di modificare un modello di sviluppo
industriale andato in crisi per molteplici cause e procedere
verso alternative, che possono trovare un indolore
mutamento degli schemi fino a qui praticati.
La tutela dell’ambiente, lo sfruttamento delle risorse
naturali, la possibilità di interagire con i mercati che
offrono i paesi mediterranei, può rappresentare la svolta
necessaria per un nuovo piano di rinascita, ormai non più
dilazionabile.
La politica deve ipotizzare con una visione globale le
modalità per poter operare in quei settori, che oltre a dare
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lavoro potrebbe, frenare lo spopolamento delle aree
interne e risolvere anche i problemi creati da un
inurbamento tumultuoso e disorientato.
A me solo il compito di introdurre il dibattito e ringraziare
tutti i presenti per la partecipazione e il contributo che
vorranno dare ai nostri lavori.
Un saluto ai rappresentanti Tunisini ed un grazie per la
loro presenza. Grazie ai relatori, all’Assessore
all’agricoltura…
Non ci stancheremo mai di ringraziare la Fondazione di
Sardegna che ci consente annualmente di svolgere la
nostra attività e il presidente del Consiglio Regionale per
il patrocinio.
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Saluti istituzionali
Dott. Carlo Salis, Consigliere di Amministrazione
Fondazione di Sardegna
La Fondazione di Sardegna è lieta di aver sostenuto questa
iniziativa che giudichiamo di grande interesse e ricca di
prospettive.
Ci auguriamo esito di diffusione larga di questo dibattito.
Al centro di questo dibattito due parole chiave: pastorizia
e Mediterraneo. Consentitemi allora di illustrarvi una
iniziativa della Fondazione su questi temi e di dirvi anche
qualche mia opinione in proposito, perché quelle due
parole - pastorizia e Mediterraneo – sono state così
profondamente al centro della mia formazione prima e del
mio impegno civile poi, che vorrei pubblicamente
sostenere la necessità che la Sardegna cerchi la sua
crescita economica sociale e culturale nell’ambito di
relazioni coi paesi mediterranei profondamente innovate e
rinvigorite rispetto al presente e al recente passato.
Qui voglio dunque ricordare che l’attuale presidente e il
consiglio di amministrazione della FdS, non appena
insediatisi, hanno avviato la realizzazione di un progetto –
che mi è particolarmente caro – consistente nell’offrire
cento borse di studio universitarie triennali per studenti
meritevoli e di modeste condizioni economiche,
provenienti da Tunisia, Algeria e Marocco.
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Borse triennali significa un intero corso di studi
universitario. Per incassare la borsa (modesta, per la
verità, ma preziosissima per i beneficiari) è espressamente
previsto l’obbligo di sostenere gli esami dell’anno in corso
e di risiedere stabilmente nella sede universitaria. Cioè in
Sardegna.
Vorremmo che queste ragazze (sorprendentemente molte)
e questi ragazzi apprendessero la lingua e la cultura della
nostra terra. Vorremmo creare una amicizia non episodica
ma intimamente legata al momento formativo più
importante nella vita di una persona. La nostra speranza è
contribuire a creare fili che aiutino a sviluppare una
relazione culturale e umana ma anche economica e sociale
con i loro paesi di provenienza.
Il progetto è ormai al suo secondo anno. Possiamo dire
con soddisfazione che ha avuto successo. Le ragazze e i
ragazzi nostri ospiti hanno superato difficoltà e diffidenze
burocratiche, sono giunti in Sardegna, si sono iscritti
all’Università, hanno frequentato con impegno le lezioni,
superando serie difficoltà iniziali di tipo linguistico
(nessuno di loro aveva studiato l’italiano negli anni del
liceo) ed hanno sostenuto i primi esami con esiti più che
soddisfacenti: la media conseguita ha raggiunto i 27/30mi.
Un risultato davvero brillante che non era facile
prevedere!
Con questo progetto intendiamo perseguire anche alcuni
obiettivi per noi molto chiari.
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Il primo consiste nell’aiutare le Università sarde ad
internazionalizzarsi. Questa caratteristica è richiesta
nell’ambito della valutazione di ogni Ateneo moderno. Su
questo terreno – comprensibilmente – le nostre Università
registrano croniche difficoltà. Il nostro aiuto consiste nel
portare studenti stranieri a studiare in Sardegna. Va
sottolineato che portiamo studenti fortemente motivati,
che ci sono riconoscenti per l’opportunità che viene loro
offerta. Uno di loro è qui fra noi invitato dalla vostra
associazione, e porterà un’esperienza positiva sia dal
punto di vista umana che culturale.
Il secondo obiettivo raggiunto consiste nell’aver portato in
Sardegna ragazze e ragazzi a cui non si chiede di
allontanarsi dalla loro cultura e tradizione, ma di integrarsi
in una realtà simile per ambiente, clima ed economia
recando il contributo di apertura che la loro sola presenza
rappresenta.
Per parte nostra siamo orientati a confermare il progetto
per un successivo triennio e ad allargarlo puntando a
coinvolgere le autorità governative italiane ed europee:
intessere relazioni fra le due sponde del Mediterraneo è
infatti necessità e pressante interesse sia italiano che
europeo. Non solo sardo, quindi.
Vorremmo inoltre imprimere una curvatura indirizzata ai
temi della economia e società mediterranea, privilegiando
le discipline agro-industriali e ambientali che guardano
alla specifica realtà delle nostre terre. Dunque pastorizia millenaria attività che accomuna le sponde mediterranee –,
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agricoltura
tipica,
silvicoltura,
contrasto
alla
desertificazione (tema che riguarda drammaticamente
anche la Sardegna) e pesca. O meglio, come mi fanno
precisare gli esperti ricercatori così come gli operatori
economici, “coltivazione del mare in un quadro
sostenibile”.
La nostra ambizione è di formare tecnici e dirigenti di un
domani prossimo capaci di affrontare e governare i
problemi comuni, mediterranei appunto, in una logica di
conoscenza, amicizia e collaborazione.
Per noi sardi sarebbe un passo verso il superamento di
quel “maledetto incantesimo dell’isolamento” che Emilio
Lussu indicava amaramente come causa di provincialismo
e rassegnazione. Antichi mali, certamente, ma che ancora
oggi ci affliggono.
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L’agricoltura nel processo di sviluppo della
Sardegna
On. Pietro Maurandi, Prof. Università di Cagliari
L’agricoltura è stata spesso oggetto di interventi pubblici e
provvedimenti legislativi, nazionali, regionali ed europei,
rivolti a modificare l’assetto fondiario, a migliorare le
condizioni di redditività per gli addetti, ad aprire
prospettive e sbocchi di mercato.
Per restare al secondo dopoguerra in Italia, si possono
citare i decreti Gullo – allora Ministro dell’Agricoltura – e
la riforma agraria del 1950, volti all’eliminazione del
latifondo, diffuso in Sicilia e nel Mezzogiorno
continentale, e alla nascita della piccola proprietà
contadina.
Per quanto riguarda la Sardegna, le prime analisi e i primi
interventi vanno collocati nella fase di gestazione della
prima legge di Rinascita, in attuazione dell’articolo 13
dello Statuto, che recita “Lo Stato con il concorso della
Regione dispone un piano organico per favorire la
rinascita economica e sociale dell’isola”.
Dopo anni di incertezza, nel 1951 venne insediata una
Commissione consultiva che cominciò a lavorare nel 1954
e nel 1958 stese un Rapporto conclusivo sugli studi per il
Piano di rinascita, che sosteneva un programma di
investimenti pubblici e privati, riguardanti l’agricoltura e
l’industria.
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Nel 1959 venne istituito un nuovo organismo, denominato
Gruppo di lavoro, che in tre mesi elaborò un Rapporto
conclusivo, che assegnava un ruolo preponderante alla
programmazione, da attuarsi nel territorio per zone
omogenee, e attribuiva un ruolo strategico allo sviluppo
del settore industriale. L’aumento del peso dell’industria,
nella formazione del reddito regionale e nella struttura
dell’occupazione, diventava la fondamentale manovra di
politica economica per modificare in profondità la
struttura dell’economia regionale e per innescare un
processo di sviluppo. Un mutamento rilevante di
prospettiva.
Che cosa era successo nel frattempo? Vi era stata, nella
cultura economica e nella politica italiana, la svolta
industrialista per quanto riguarda il Mezzogiorno,
sostenuta con vigore fra gli altri dall’allora presidente
della SVIMEZ (Istituto di Studi per lo Sviluppo del
Mezzogiorno), il professor Pasquale Saraceno. Si era
passati dalla cosiddetta “vocazione agraria” del
Mezzogiorno e delle isole alla politica delle infrastrutture
come precondizione per lo sviluppo, che aveva visto la
nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Per giungere poi
alla svolta industrialista.
L’industria era un corpo estraneo rispetto al Mezzogiorno
e alla Sardegna. Nell’isola era presente l’industria
estrattiva, ma non l’industria manifatturiera se non per
scarsi episodi. Ma proprio questa estraneità, rispetto al
tessuto economico e sociale dell’isola, veniva assunta
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come la miglior cosa per fare dell’industrializzazione la
strategia per lo sviluppo.
In quel periodo circolavano le teorie di diversi economisti
di prestigio internazionale che sostenevano sul piano
teorico quelle posizioni. L’industrializzazione della
Sardegna non era quindi una idea della politica e
nemmeno nasceva – almeno all’inizio – da interessi
precostituiti. Era il risultato di una diffusa opinione,
sostenuta da illustri economisti.
Si possono citare Gunnar Myrdal, Otto Hirshmann e
Francoise Perraux, per i quali lo sviluppo di un’area
sottosviluppata si sarebbe innescato come effetto di shock
esogeni.
In questo clima e con questi riferimenti culturali, si giunse
alla prima legge di Rinascita, in attuazione dell’articolo 13
dello Statuto.
Anche l’agricoltura era naturalmente contemplata nella
prospettiva adottata: l’enfasi posta sull’industria
manifatturiera nasceva da un vuoto rilevante in questo
settore; l’intento era quindi di instaurare un accettabile
equilibrio fra agricoltura e industria. Ma nella fase di
attuazione gli interventi per l’industria prevalsero e
travalicarono gli altri.
La prima legge sul Piano di Rinascita fu approvata dal
Parlamento nel 1962: L. n. 588/1962, Piano straordinario
per favorire la rinascita economica e sociale della
Sardegna, in attuazione dell’art.13 della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n.3.
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Successivamente la Regione approvò la LR n. 7/1962, che
fissava i compiti della Regione in materia di sviluppo e
indicava le modalità da seguire.
Successivamente, si elaborò lo Schema generale di
Sviluppo, che è in senso proprio il Piano di Rinascita, cioè
la definizione degli obiettivi da perseguire, degli strumenti
da utilizzare e delle risorse da impiegare in un arco di
tempo di 12 anni.
Da questo momento incominciò, dal punto di vista
economico, una storia davvero nuova per la Sardegna, che
inciderà profondamente sulla sua struttura economica e sul
suo tessuto sociale. Si può dire che la storia moderna
dell’economia sarda incomincia con la legge 588 e con il
Piano di Rinascita.
Le condizioni del sistema economico regionale erano
allora caratterizzate da un livello di reddito pro capite fra i
più bassi d’Italia, anche se il più elevato fra le Regioni
meridionali, probabilmente a causa della scarsità relativa
di popolazione in Sardegna. Il reddito per abitante
collocava la Sardegna al 12°-13° posto fra le Regioni
italiane, rispetto al dato medio nazionale oscillava, nel
corso del decennio che precede la politica di rinascita, fra
il 70% dell’inizio e il 60% della fine del periodo.
L’attività produttiva si concentrava in settori scarsamente
dinamici e utilizzava tecniche produttive tradizionali e
consolidate. Il sistema economico era quindi del tutto
tagliato fuori dall’imponente processo di trasformazione e
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di sviluppo che in quegli anni investiva l’economia
italiana.
Questa situazione si rifletteva in tre aspetti fondamentali.
In primo luogo un basso livello di accumulazione di
capitale, sensibilmente inferiore rispetto alla media
nazionale, con investimenti concentrati in opere
pubbliche, in abitazioni e in opere di sistemazione e di
trasformazione agraria.
In secondo luogo un basso livello di produttività, che si
ridusse drasticamente nel decennio dall’83 al 73% della
media nazionale, in conseguenza della crisi dell’attività
mineraria.
Infine, un flusso migratorio interno verso le città, ed
esterno verso le regioni dell’Italia settentrionale e verso
altri paesi europei. Il flusso migratorio, in dimensioni fino
ad allora sconosciute in Sardegna, era la risultante del
basso livello di reddito in agricoltura, che spingeva fasce
mature di forza lavoro ad abbandonare il settore, e delle
scarse possibilità di trovare occupazione, che le spingeva
ad abbandonare l’isola.
La scelta che venne fatta con la legge 588, e che si
concretizzò in termini operativi con il Piano dodecennale,
fu quella dell’intervento pubblico nell’economia regionale
e della programmazione come metodo di intervento.
Questa scelta nacque dalla consapevolezza che i
meccanismi e i comportamenti spontanei del mercato non
fossero in grado di innescare un processo di sviluppo in
un’area arretrata come la Sardegna.
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Con gli interventi previsti, l’azione pubblica non si limitò
più alle infrastrutture, come era accaduto fino ad alcuni
anni prima per il Mezzogiorno, ma l’intervento si
proponeva di realizzare determinati interventi per lo
sviluppo e di predisporre a questo scopo gli strumenti e le
risorse necessarie. Interventi di programmazione settoriale
si erano già avuti negli anni Cinquanta. In particolare, la
legge 646 del 1950 e la legge 634 del 1957 possono
intendersi come prime leggi di programmazione in Italia.
La
prima
riguardava
l’infrastrutturazione
del
Mezzogiorno, la seconda riguardava, sempre per il
Mezzogiorno, le agevolazioni finanziarie per lo sviluppo
di attività industriali. Ma si trattava pur sempre di leggi di
carattere settoriale, oppure di programmazione di
interventi pubblici o di interventi delle partecipazioni
statali.
Il Piano di Rinascita per la Sardegna era invece un
intervento intersettoriale, che si proponeva obiettivi di
sviluppo generale relativi all’intero sistema economico
regionale. Si trattava quindi della prima esperienza di
programmazione organica condotta in Italia.
Il modello adottato per la politica di intervento pubblico
nell’economia regionale fu quello dello sviluppo
squilibrato, che si concretizzò nella politica dei poli di
sviluppo. La teoria identifica il processo di sviluppo con la
creazione di una serie di shock esogeni, che mettono in
crisi l’equilibrio di sussistenza e le sue circolarità, e
contemporaneamente creano nel tessuto economico un
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vuoto di iniziative che può essere colmato da nuove
intraprese, esogene rispetto al sistema originario.
Una volta sconvolto l’equilibrio di sussistenza, e una volta
aperte le relazioni economiche con il resto del mondo, il
sistema economico sottosviluppato si specializzerà nelle
produzioni in cui possiede un vantaggio comparato.
I nuovi insediamenti di attività produttive così sorti
daranno luogo ad altri insediamenti, grazie agli effetti di
collegamento “in avanti” e “all’indietro” con altre attività.
In tal modo si realizza un processo di sviluppo che investe
numerosi settori economici e vaste aree territoriali. La
rottura dell’equilibrio di sussistenza, attraverso la nascita
di imprese di dimensioni adeguate, è quindi il necessario
presupposto affinché il processo di sviluppo si verifichi e
si generalizzi.
Il modello dei poli di sviluppo, che venne prescelto con la
programmazione regionale degli anni Sessanta è
caratterizzato da una sorta di tensione fra due elementi
contradditori: gli effetti diffusivi e gli effetti di
polarizzazione, che avrebbero drenato risorse dagli altri
comparti a favore dei “poli”. La possibilità che lo sviluppo
possa effettivamente diffondersi su tutto il territorio e che
possa investire altri settori oltre quelli degli interventi
originari, resta affidata alla semplice eventualità che gli
effetti diffusivi siano maggiori degli effetti di
polarizzazione.
Il Piano di Rinascita del 1962 esprimeva, in modo
organico e dettagliato, una concezione dirigista
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dell’intervento pubblico, già presente nella formulazione
dell’articolo 13 dello Statuto, secondo la quale “lo Stato
con il concorso della Regione” deve determinare le
trasformazioni strutturali necessarie per innescare un
processo di sviluppo. Significa che gli investimenti
pubblici non devono limitarsi a fornire sostegno alle
attività produttive ma devono provocarne la nascita e lo
sviluppo sul territorio.
L’idea sottostante è che il mercato non fosse in grado di
innescare un processo di sviluppo, e che i capitali
necessari per farlo non esistessero in Sardegna, dato il
basso livello di accumulazione. Era un’idea corrente negli
anni sessanta e pervadeva le scelte relative alla
programmazione.
Si tratta di un dirigismo forte, che permea il Piano di
Rinascita e che sta in buona misura alla base delle
difficoltà che si incontreranno. Si trattava infatti di una
concezione sostanzialmente anomala rispetto alle
condizioni di un’economia di mercato, che alla prova dei
fatti si dimostrò velleitaria: benché capace di modificare in
profondità l’economia e la società sarda, si rivelerà
impotente a realizzare gli obiettivi così come erano stati
prefissati, che era proprio la logica e la natura stessa del
Piano.
Tuttavia, se era velleitario pensare di realizzare
meccanismi di accumulazione non di mercato in
un’economia di mercato, l’intervento pubblico ha avuto
effetti rilevanti e duraturi, come l’aumento del reddito e
l’espansione dei consumi, solo che essi non erano quelli
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previsti e ricercati dalla programmazione regionale.
Inoltre, in assenza di un tessuto economico adeguato
all’interno dell’isola, la domanda di beni di consumo si
rivolgeva in grande misura a beni e servizi prodotti al di
fuori della regione.
Il più importante effetto fu proprio quello di introdurre nel
sistema economico regionale un meccanismo anomalo di
accumulazione di capitale, poiché l’intervento pubblico si
innestò in una situazione di fallimento dell’iniziativa
privata nel generare un processo di sviluppo.
L’intervento pubblico rappresentò una forma di
accumulazione surrogata, nel senso che si diffuse per
sopperire all’assenza del meccanismo di accumulazione
tipico delle economie capitalistiche.
L’assenza di accumulazione privata in Sardegna, va
collegata all’assenza di borghesia imprenditoriale che, a
sua volta, deriva dalle vicende storiche dell’isola, in
particolare dalla sconfitta di Giovanni Maria Angioy alla
fine del Settecento. Angioy e il suo movimento erano
portatori delle idee dell’Illuminismo, che nell’Europa
centrale avrebbero creato il clima sociale per lo sviluppo e
l’egemonia della borghesia.
In Sardegna la sconfitta di Angioy, e la distruzione di ciò
che costituiva il suo movimento, ha ucciso sul nascere un
clima ideale e culturale favorevole alla nascita e alla
espansione di una classe borghese, lasciando campo libero
al consolidarsi di un’economia legata ad attività e
modalità arcaiche di produzione e di distribuzione della
ricchezza.
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Il carattere anomalo dell’accumulazione di capitale in
Sardegna, portava con sé due effetti.
In primo luogo il meccanismo non era ripetibile; si
trattava infatti di scelte che erano affidate a decisioni
politiche consapevoli e perciò destinate a ripetersi solo se
si fossero ripetute le condizioni socio-politiche che le
avevano rese possibili.
In secondo luogo, in assenza della borghesia protagonista
dell’accumulazione, questa funzione venne svolta da
nuove categorie sociali, che assunsero una funzione
centrale nel processo di sviluppo. Questa circostanza
rappresenta una modificazione strutturale della società, dei
suoi equilibri e delle sue relazioni interne.
Verso la fine degli anni Sessanta si approfondì e si diffuse
la consapevolezza della difformità fra obiettivi del Piano
di Rinascita e dati macroeconomici, che non erano dati
meramente statistici ma assumevano i tratti di un disagio
sociale profondo, spia del fatto che le trasformazioni della
società sarda non avevano assunto il carattere dinamico
che ci si proponeva e che probabilmente nuove tensioni e
nuovi disagi si erano aggiunti agli antichi.
La spia macroscopica di questa situazione fu il riemergere,
nel corso degli anni Sessanta, di fenomeni di criminalità
che sembravano scomparsi. In particolare i sequestri di
persona, che fra il 1966 ed il 1968 furono 33 contro una
media di 1 all’anno nel decennio precedente. Mentre la
mappa dei luoghi dei sequestri copriva quasi tutta l’isola,
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la mappa dei luoghi dei rilasci dei sequestrati coincideva
con le zone interne ad economia agro-pastorale.
Un’attività di riflessione e di indagine fu condotta,
all’inizio degli anni Sessanta, dalla Commissione
parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in
Sardegna, istituita con la legge 755 del 1969 e presieduta
dal senatore Giuseppe Medici.
La conclusione della Commissione fu che le origini
profonde delle forme di criminalità tipiche delle zone
interne della Sardegna andavano ricercate nelle condizioni
della pastorizia nomade. Storicamente il banditismo sardo
nasceva dal conflitto fra regole e valori della società
pastorale e le leggi degli Stati conquistatori.
Anche l’avvento dello Stato italiano, l’approvazione della
Costituzione repubblicana, la costituzione della Regione
autonoma e l’avvio della politica di industrializzazione,
non avevano dato luogo al rinnovamento delle campagne
nelle zone interne. La criminalità aveva modificato i
propri metodi e spostato i propri obiettivi, dalle forme
tradizionali dell’abigeato e dei danneggiamenti di colture,
alle estorsioni e ai sequestri di persona.
L’ostilità del mondo pastorale nei confronti dello Stato, il
sentimento di comprensione e di solidarietà verso i
fuorilegge da parte delle popolazioni, richiedeva
trasformazioni
radicali
dell’ambiente
economico,
neutralizzando o riducendo i fattori che favorivano la
persistenza delle forme tipiche di criminalità dell’isola.
La soluzione presentata dalla Commissione stava quindi
nella trasformazione della pastorizia nomade in attività di
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allevamento stanziale. Bisognava fornire al pastore quella
stabilità e quella sicurezza che possono derivare dalla
certezza dei pascoli, attraverso attività di allevamento in
imprese moderne.
Premessa per ottenere questo risultato era affrontare il
problema della proprietà dei pascoli, che solo per il 40%
appartenevano ai pastori, favorendo in tal modo la
persistenza di una pastorizia nomade e seminomade.
Erano quindi necessari processi profondi di riforma, che
portassero a far coincidere l’impresa pastorale con la
proprietà dei pascoli. Ciò comportava il reperimento di
terreni da accorpare e da migliorare, per essere poi
assegnati in proprietà o in godimento ai pastori, singoli o
associati.
Il frutto di questa riflessione fu la legge 24/06/1974 n.
268, che aveva come asse portante la riforma agropastorale, nella convinzione che trasformare il pastore in
allevatore e il passaggio dallo sfruttamento della fertilità
naturale del terreno alla sua coltivazione razionale per
sostenere il bestiame, fossero le chiavi di volta per
modificare radicalmente l’economia delle zone interne e la
cultura ad esse legata.
Di conseguenza, agricoltura e pastorizia acquistano un
ruolo centrale nella nuova programmazione derivante
dalla L. 268.
Si trattava di innescare un processo di modernizzazione e
di razionalizzazione di un settore fondamentale
dell’economia regionale. Nel 1975, la pastorizia
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rappresentava il 25% della produzione agricola regionale e
occupava il 33% degli addetti all’agricoltura. Anche le
esportazioni ragionali erano alimentate in misura elevata
dai vari tipi di formaggio: nel 1973 l’esportazione di
prodotti zootecnici, ma in gran parte di formaggio, era
aumentata del 411% rispetto al 1960.
Rilevante era anche il peso dell’allevamento ovino e
caprino nel quadro dell’economia nazionale. La Sardegna
infatti era la regione con il maggior numero di ovini e
caprini: si andava dal 23,5% e dal 22,7% rispettivamente
del 1951, al 30,5 e 25,4 del 1961, al 23,5 e 29,1 nel 1975.
Si trattava quindi di incidere profondamente su di un
settore che produceva una quota rilevante del reddito
regionale.
La legge 268/1974 prescriveva la formazione di un
“monte dei pascoli”, con terreni acquistati o espropriati,
dando la priorità per gli interventi alle zone omogenee a
prevalente economia pastorale, che erano state individuate
con la legge del 1971.
Per dar luogo ad una più estesa e più articolata
partecipazione alla definizione dei programmi, voluta
dalla L.R. n 33/1975, fu indetta una conferenza regionale,
nell’aprile del 1976, cui parteciparono rappresentanti degli
enti locali, delle organizzazioni sindacali, imprenditoriali e
professionali, per discutere la proposta di programma
predisposta dalla Giunta regionale.
La conferenza fu preparata da una capillare consultazione
popolare, che aveva avuto in Sardegna un unico
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precedente: l’assemblea del popolo sardo organizzata dalle
Camere del Lavoro nel 1950.
Il programma triennale 1976-1978 rappresenta il primo
intervento di aggiornamento del Piano di Rinascita e
comprende, oltre al programma di intervento sui fondi
della L. n. 268, politiche e azioni di coordinamento di
risorse finanziarie provenienti dal bilancio ordinario della
Regione, dai provvedimenti anticongiunturali del governo
centrale, dalla Cassa per il Mezzogiorno e da altre
assegnazioni dello Stato.
L’asse portante della legge 268 era tuttavia rappresentato
dalla riforma agropastorale, che fu specificata in termini
operativi dalla LR n. 44/1976. Si individuò una superficie
di 400.000-450.000 ettari suscettibili di sviluppo agropastorale, dislocati per il 46% in provincia di Nuoro, il
19% in quella di Cagliari, il 18% in quella di Oristano, il
17% in quella di Sassari.
L’enorme complessità del processo di trasformazione
della pastorizia si manifestò immediatamente attraverso le
difficoltà sorte per la formazione del “monte dei pascoli”.
Difficoltà che si possono rilevare dal fatto che la riforma
agro-pastorale incise in misura minore proprio nelle zone
interne.
Infatti, nel 1986, a più di dieci anni dalla L 268,
risultavano acquisiti al “monte dei pascoli” circa 16.000
ettari ed esistevano programmi di acquisizione per altri
26.000 ettari. Inoltre, la distribuzione provinciale dei
terreni acquisiti vedeva al primo posto la provincia di
Cagliari (75%), seguita dalla provincia di Nuoro (17%), da
28
quella di Sassari (8%), e da quella di Oristano (1%). La
situazione non era molto diversa nel 1996, a più di venti
anni dalla 268. In quell’anno i terreni acquisiti al “monte
dei pascoli” ammontavano a circa 20.000 ettari, il 69% in
provincia di Cagliari e il 17% in provincia di Nuoro.
L’aspetto più rilevante di questo fallimento della riforma
agro-pastorale sta nella difficoltà di rendere compatibili
due obiettivi: quello politico-sociale di trasformazione
della pastorizia da nomade in stanziale, e quello
strettamente economico della nascita di aziende di
allevamento efficienti. Il tentativo di conciliare questi due
obiettivi, in una realtà caratterizzata da modelli sociali
arcaici e da un assetto fondiario polverizzato e frantumato,
fu un progetto ardito e ambizioso, che da un lato esprime
un alto livello di progettualità, dall’altro rappresenta la
causa ultima delle difficoltà incontrate.
Con la politica di intervento pubblico, attuata mediante gli
incentivi, l’apparato politico-amministrativo della Regione
diventa arbitro della penetrazione delle risorse finanziarie
pubbliche nel tessuto dell’economia regionale. Su di esso
ricade il potere di individuare i canali attraverso i quali le
risorse si diffondono nel sistema economico: si
determinano cioè i settori interessati, le singole iniziative
da incentivare, le aree territoriali da privilegiare, gli
obiettivi da perseguire.
Naturalmente vi sono vincoli da rispettare: il volume
complessivo di spesa da destinare a determinati settori, o a
determinati territori, che sono posti da leggi e dai diversi
29
livelli di contrattazione. Ma se si considera l’attività
complessiva della Regione come un insieme di scelte,
legislative da parte del Consiglio Regionale, esecutive da
parte della Giunta e degli Assessori, operative da parte
degli organi amministrativi, il quadro che emerge è quello
di un apparato politico-amministrativo che controlla la
spesa pubblica e la sua destinazione.
Questa situazione comporta che l’intervento pubblico
nell’economia regionale, al di là degli effetti strettamente
economici, ha modificato radicalmente la società sarda, i
rapporti sociali e politici, le relazioni fra ceti e classi
sociali e la distribuzione del potere fra essi. Dato il ruolo
essenziale che i trasferimenti hanno assunto nel
determinare il livello degli investimenti e dei consumi in
Sardegna, il controllo e la gestione di essi, assegna
all’apparato politico-amministrativo un ruolo centrale nel
determinare gli assetti economici, sociali e politici della
società sarda.
In precedenza, il livello dei consumi ed il tasso di
accumulazione era sempre stato assai limitato a causa del
basso livello di produttività del sistema economico
regionale. In quelle condizioni, il reddito proveniva
essenzialmente
dall’agricoltura,
dalla
pastorizia,
dall’attività mineraria e dal commercio. Consumi e
accumulazione, sia pure in misura limitata, derivavano in
gran parte da un elevato tasso di sfruttamento delle
popolazioni agricole e successivamente dei minatori. Le
classi che controllavano il limitato processo di
accumulazione erano le classi dominanti della società
30
sarda, cioè la nobiltà feudale fino alla prima metà
dell’Ottocento e successivamente i proprietari terrieri e la
borghesia commerciale delle città.
Con la politica dei trasferimenti pubblici, è possibile che il
processo di accumulazione si sia ulteriormente depresso. I
trasferimenti hanno assunto un peso preponderante, anche
perché nel frattempo era entrata in crisi l’agricoltura
tradizionale e l’attività mineraria.
Questa circostanza, unita alla tradizionale debolezza della
borghesia manifatturiera, ha comportato che agli agrari e
alla borghesia commerciale come classi egemoni si sia
sostituito l’apparato politico-amministrativo, una nuova
classe, che sinteticamente si può chiamare classe politica.
Il termine classe è giustificato da due circostanze: il
personale politico-amministrativo esercita funzioni
differenziate ma combinate per coprire l’iter complessivo
dei trasferimenti; l’apparato politico-amministrativo
controlla il grosso degli investimenti nell’economia
regionale e quindi l’impiego dei mezzi di produzione.
La trasformazione dell’apparato politico-amministrativo in
classe politica è l’effetto più rilevante sul piano sociale
dell’intervento pubblico nell’economia, certamente più
duraturo degli affetti rilevabili con gli indicatori
macroeconomici. Questa trasformazione ha sconvolto la
struttura economica e gli assetti sociali e politici della
società sarda, ha posto su nuove basi le relazioni fra
l’apparato politico-amministrativo e le altre formazioni
della società.
31
Questa situazione è il risultato dell’intenso processo
storico-sociale che si è sviluppato nel corso degli anni
dell’Autonomia, con aspetti notevoli di sviluppo
economico e di progresso sociale. Le vecchie classi
egemoni erano l’espressione di una economia e di una
società arretrata, di cui era vistosa spia l’assenza di una
borghesia manifatturiera. Per queste ragioni le vecchie
classi egemoni non sono mai riuscite a innescare un
processo di sviluppo per l’isola, paragonabile al livello
medio di accumulazione dell’Italia postunitaria.
É proprio dalla consapevolezza di questa situazione che
derivò la politica dell’intervento pubblico nell’economia
regionale. Lo sconvolgimento dei rapporti di classe, della
natura delle classi e il ruolo della classe politica è entro
certi limiti un risultato voluto dall’intervento pubblico, o
perlomeno è strettamente conseguente ad esso.
La situazione della Sardegna di oggi è ovviamente molto
diversa non solo dal periodo dell’intervento pubblico
nell’economia regionale ma anche dagli anni
immediatamente successivi all’esaurirsi dei suoi effetti.
Fra le modifiche intervenute si possono citare l’avvento
dell’Unione Europea, i processi di globalizzazione che
obbligano a confrontarsi con il resto del mondo, la
finanziarizzazione dell’economia occidentale, la crisi che
oggi attraversa le economie mature. Situazioni che
complicano la nostra vita. Ma c’è anche la presenza in
Sardegna di una borghesia manifatturiera, dotata anche di
32
attività con punte di eccellenza, in grado di competere su
mercato nazionale e internazionale.
Nell’immediato dopoguerra fu la classe dirigente a
reinventare la questione sarda e a dotarla di strumenti
operativi. La classe dirigente attuale, pur così diversa da
quella per composizione e per ruoli svolti, ha nuovamente
la responsabilità di ridefinire l’autonomia come progetto
di autogoverno dei sardi, in presenza di mutate condizioni
in Italia e nel mondo.
Quello della classe dirigente regionale è più un problema
di oggi che del recente passato. Nel dopoguerra regioni
povere e regioni ricche erano alle prese con lo stesso
problema, quello di innescare un processo di sviluppo;
quindi le classi dirigenti delle diverse regioni avevano gli
stessi obiettivi. Oggi le regioni economicamente forti
hanno il problema di competere con altre aree forti
dell’Europa e del mondo. La Sardegna e le altre regioni
deboli, oltre a dover competere con altre economie, sono
ancora alle prese con il problema dello sviluppo.
Da ciò deriva la necessità di selezionare una classe
dirigente che sia in grado di svolgere il proprio ruolo, di
esprimere un nuovo progetto di autonomia, analogamente
a ciò che fece la classe dirigente del dopoguerra.
C’è anche un nuovo clima col quale deve misurarsi la
classe dirigente regionale.
Ci sono innanzitutto sono forti pulsioni accentratrici da
parte dello Stato. C’è anche la diffusa idea che le Regioni
a statuto speciale non servono a niente e bisogna
33
eliminarle. Gli esempi recenti di privilegi e corruzione in
diverse Regioni, servono a corroborare questa idea.
Tuttavia è bene chiarire una circostanza.
La specialità nasce formalmente da un riconoscimento
della Costituzione repubblicana, quindi da una
concessione dello Stato. Ma sostanzialmente la specialità
non è una concessione ma una realtà che esiste prima e a
prescindere dal riconoscimento costituzionale. Essa nasce
dalla struttura, dalla storia e dalla cultura delle Regioni
speciali, quelle di confine e le altre. Nessuno può pensare
di togliere la specialità senza una forzatura che altererebbe
il patto che lega, attraverso la Costituzione, tutti i cittadini.
Molte delle situazioni che hanno caratterizzato il periodo
delle leggi di Rinascita non ci sono più; molte alternative
sono venute meno, quelle positive e quelle negative. Ne
cito 3:
1. La politica meridionalistica non c’è più;
2. La pianificazione/programmazione/ i poli di sviluppo,
insomma la strategia per la crescita-sviluppo non esiste
più;
3. L’UE è ancora presente e importante ma è indubbio che
l’asse Nord/Sud per le politiche di sviluppo si indebolisce
sempre più, si veda il caso della Grecia, e viene sostituito
dall’asse Ovest/Est
In queste condizioni, l’unica possibilità, piaccia o non
piaccia, è la mobilitazione di forze endogene. All’interno
di esse l’agricoltura e l’agroindustria acquistano
34
ovviamente un ruolo centrale. Diventa centrale il
problema dell’assetto fondiario, della pastorizia nomade,
dell’innovazione, della qualità dei prodotti, degli sbocchi
di mercato.
Per questo abbiamo scelto questo tema. La mia relazione
ha solo il compito di richiamare le esperienze storiche
recenti, di collocare la situazione attuale all’interno di un
processo che non ha creato il vuoto, ma esperienze
consolidate, negative e positive, errori e successi, ma da
cui è necessario partire per delineare prospettive possibili
per il presente e per il futuro della nostra terra.
Per questo abbiamo interpellato alcuni attuali protagonisti
dell’agricoltura e della pastorizia in Sardegna e abbiamo
deciso di dare ad essi la parola.
*Il presente testo è la riproposizione, con alcune revisioni,
rielaborazioni e aggiornamenti, di uno scritto da me pubblicato nel
1998: L’avventura economica di un cinquantennio, in Aldo Accardo
(cur.), L’isola della rinascita, Editori Laterza, Bari, 1998.
35
Perché c'è bisogno di una politica agricola
«comune» a livello dell'UE?
On. Salvatore Cicu, Europarlamentare
Nell'UE sono presenti 12 milioni di agricoltori a tempo
pieno. Complessivamente l'agricoltura e l'industria
agroalimentare — che dipende in larga misura dal settore
agricolo per i suoi approvvigionamenti — rappresentano il
6% del PIL dell'UE, 15 milioni di imprese e 46 milioni di
posti di lavoro.
Le aree rurali coprono oltre il 77% del territorio dell'UE
(il 47% è infatti rappresentato da terreni agricoli, il 30%
da foreste) e i loro abitanti, comunità agricole e altri
residenti, rappresentano circa la metà dell'intera
popolazione dell'Unione.
L'agricoltura è un settore sostenuto praticamente
esclusivamente a livello europeo, contrariamente alla
maggior parte degli altri settori oggetto di politiche
nazionali. È importante avere una politica pubblica per un
settore che assicura la nostra sicurezza alimentare e che
pertanto svolge un ruolo chiave nell'utilizzo di risorse
naturali e nello sviluppo economico di zone rurali.
Per assicurare condizioni eque attraverso un insieme
comune di obiettivi, principi e regole, occorre una politica
definita a livello europeo. Una politica collettiva consente
di utilizzare i fondi disponibili in modo molto più
36
efficiente rispetto a un insieme disparato di politiche
nazionali.
Oltre alla gestione del mercato unico, vi sono altre
questioni che vanno affrontate a livello transnazionale: la
coesione tra i paesi e le regioni europee, le emergenze
ambientali transfrontaliere, le sfide globali come i
cambiamenti climatici, la gestione delle risorse idriche, la
biodiversità, senza dimenticare problemi più specifici
come la salute e il benessere degli animali, la sicurezza
degli alimenti e dei mangimi, le questioni fitosanitarie, la
salute pubblica e gli interessi dei consumatori.
La politica agricola comune dell'UE vuole sostenere
un'agricoltura che garantisca la sicurezza alimentare (nel
contesto dei cambiamenti climatici) e promuovere uno
sviluppo sostenibile ed equilibrato nell'insieme delle zone
rurali europee, comprese quelle in cui le condizioni di
produzione sono difficili.
L'agricoltura è quindi chiamata a svolgere più funzioni:
venire incontro alle esigenze dei cittadini per quanto
riguarda l'alimentazione (disponibilità, prezzo, varietà,
qualità e sicurezza); salvaguardare l'ambiente e assicurare
agli agricoltori un tenore di vita dignitoso. Al tempo
stesso, occorre preservare le comunità rurali e i paesaggi
in quanto componente preziosa del patrimonio europeo.
Contrariamente alle opinioni diffuse in alcuni paesi,
l'attività agricola non è una miniera d'oro, anzi.
L'investimento in tempo e denaro degli agricoltori è
sempre alla mercé di fattori economici, sanitari ed
atmosferici che sfuggono al loro controllo. L'agricoltura
37
richiede investimenti pesanti, sia umani che finanziari, che
producono risultati solo diversi mesi, se non anni, più tardi
e possono costantemente essere vanificati.
Senza il sostegno pubblico, per gli agricoltori europei
sarebbe estremamente difficile competere con gli
agricoltori di altri paesi e continuare a soddisfare le
esigenze specifiche dei consumatori europei. Inoltre, con
l'accentuarsi dei cambiamenti climatici, il costo di
un'agricoltura sostenibile è inevitabilmente destinato a
crescere.
La politica agricola comune permette agli agricoltori
europei di soddisfare le esigenze di 500 milioni di
persone. I suoi obiettivi fondamentali sono assicurare agli
agricoltori un tenore di vita adeguato e garantire ai
consumatori la costante disponibilità di prodotti alimentari
sicuri, a prezzi accessibili.
Oggi la Politica Agricola comune (PAC) tende a
raggiungere 3 obiettivi:
1. una produzione alimentare efficiente;
2. una gestione sostenibile delle risorse naturali;
3. uno sviluppo equilibrato delle zone rurali nell'insieme
dell'UE.
I fondi della PAC sono impiegati per tre scopi principali:
1. Il sostegno al reddito degli agricoltori e al rispetto di
pratiche agricole sostenibili: ricevono pagamenti diretti
purché condizionati al rispetto di norme severe in materia
di sicurezza degli alimenti, protezione dell'ambiente e
salute e benessere degli animali. Questi pagamenti sono
38
interamente finanziati dall'UE e corrispondono al 70% del
bilancio della PAC. La riforma del giugno 2013 prevede
che il 30% dei pagamenti diretti sono legati al rispetto, da
parte degli agricoltori europei, di pratiche agricole
sostenibili, benefiche per la qualità dei suoli, la
biodiversità e, in generale, per l'ambiente, come, ad
esempio, la diversificazione delle colture, il mantenimento
di prati permanenti o la conservazione di zone ecologiche
nelle aziende agrarie.
2. Misure di sostegno al mercato: attività, ad esempio in
caso di destabilizzazione dovuta a condizioni climatiche
sfavorevoli. Questi pagamenti rappresentano meno del
10% del bilancio della PAC.
3. Le misure di sviluppo rurale: misure destinate ad aiutare
gli agricoltori a modernizzare le loro aziende e diventare
più competitivi, proteggendo nel contempo l'ambiente, a
contribuire alla diversificazione delle attività agricole e
non e alla vitalità delle comunità rurali. Questi pagamenti
sono parzialmente finanziati dai paesi membri e
corrispondono al 20% circa del bilancio della PAC.
Questi tre ambiti sono strettamente legati e devono essere
gestiti coerentemente. Ad esempio, i pagamenti diretti, che
assicurano agli agricoltori un reddito stabile, costituiscono
anche un compenso per i servizi da loro resi per
l'ambiente, nell'interesse pubblico. Analogamente, le
misure per lo sviluppo rurale favoriscono la
39
modernizzazione delle aziende incoraggiando la
diversificazione delle attività nelle zone rurali.
La Politica Agricola Comune 2014-2020 rappresenta una
grande opportunità per l’agricoltura Italiana, in particolare
per i giovani agricoltori e per chi si appresta ad avviare
un’attività agricola.
Il Bilancio della Politica Agricola Comune ammonta a ben
420 Miliardi di euro per il periodo di programmazione
2014-2020. Una tale politica è seconda solo alla Politica di
Coesione dell’Unione Europea che vanta un bilancio di
508 Miliardi.
In Italia, sempre nel corso del periodo 2014 - 2020 le
aziende agricole potranno fare affidamento su ben 52
miliardi di euro tra Primo e Secondo Pilastro, così
ripartiti: 27 miliardi circa destinati ai pagamenti diretti,
quasi 21 per lo sviluppo rurale e 4 circa diretti agli
interventi di mercato.
Al bilancio della Politica Agricola comune si aggiungono
inoltre le opportunità che l’Europa offre attraverso
l’allocazione dei fondi a gestione diretta, vale a dire quei
fondi che l’Unione Europea concede direttamente ai
cittadini e che attraverso l’elaborazione di progetti
rappresentano un potenziale di crescita, di innovazione e
di creazione di nuovi posti di lavoro che certamente non
possono essere trascurati.
I più importanti per la regione Sardegna sono certamente i
bandi diretti per le misure di promozione riguardanti i
prodotti agricoli.
40
Ma vediamo più nel dettaglio cosa sono i bandi di
promozione e quali obiettivi intendono perseguire.
Il 22 ottobre 2014 il Parlamento europeo e il Consiglio
hanno adottato il regolamento (UE) n. 1144/2014 relativo
ad azioni di informazione e di promozione riguardanti i
prodotti agricoli realizzate nel mercato interno e nei paesi
terzi. L’obiettivo generale delle azioni di informazione e
di promozione consiste nel rafforzare la competitività del
settore agricolo dell’Unione.
Gli obiettivi specifici delle azioni di informazione e di
promozione sono i seguenti:
migliorare il grado di conoscenza dei meriti dei prodotti
agricoli dell’Unione e degli elevati standard applicabili ai
metodi di produzione nell’Unione;
aumentare la competitività e il consumo dei prodotti
agricoli e di determinati prodotti alimentari dell’Unione e
ottimizzarne l’immagine tanto all’interno quanto
all’esterno dell’Unione;
rafforzare la consapevolezza e il riconoscimento dei
regimi di qualità dell’Unione;
aumentare la quota di mercato dei prodotti agricoli e di
determinati prodotti alimentari dell’Unione, prestando
particolare attenzione ai mercati di paesi terzi che
presentano il maggior potenziale di crescita;
41
ripristinare condizioni normali di mercato in caso di
turbative gravi del mercato, perdita di fiducia dei
consumatori o altri problemi specifici.
Pubblicazione in italiano dei bandi
Il bando integrale per i PROGRAMMI SEMPLICI 2016 (una o più
organizzazioni dello stesso Stato Membro) per azioni di
informazione e di promozione riguardanti i prodotti agricoli
realizzate nel mercato interno e nei paesi terzi è pubblicato sulla
gazzetta ufficiale al seguente indirizzo:
http://eur-lex.europa.eu/legalcontent/it/TXT/PDF/?uri=OJ:JOC_2016_041_R_0003
Il bando integrale per i PROGRAMMI MULTIPLI 2016
(organizzazioni di diversi Stati Membri) per azioni di informazione e
di promozione riguardanti i prodotti agricoli realizzate nel mercato
interno e nei paesi terzi è pubblicato sulla gazzetta ufficiale al
seguente indirizzo:
http://eur-lex.europa.eu/legalcontent/it/TXT/PDF/?uri=OJ:JOC_2016_041_R_0004
I bandi per il 2017, saranno pubblicati a gennaio 2017, e
successivamente ogni anno.
42
Prof. Giuseppe Pulina, Ordinario di Agraria Università di
Sassari
43
La pastorizia sarda fra passato e futuro1
Prof. Giuseppe Pulina, Ordinario di Agraria Università
di Sassari
Premessa
Il pastoralismo è uno degli aspetti distintivi della
Sardegna. Rimasto quasi immobile per millenni, il mondo
agropastorale isolano ha subito una repentina evoluzione a
partire dalla fine del secolo XIX, con l’introduzione della
tecnologia di trasformazione del latte ovino in Pecorino
Romano, e una ulteriore accelerata dal secondo
dopoguerra per effetto delle grandi trasformazioni
economiche e sociali che hanno interessato l’Isola.
Recentemente sono stati pubblicati due libri
sull’argomento: il primo scritto da me, in collaborazione
con Gavino Biddau, dal titolo “Pascoli, pecore e politica:
70 anni di pastorizia in Sardegna (EDES, Sassari 2015),
dal quale è stata estratta la prima parte di questo scritto; il
secondo, di gran lunga più corposo e completo,
“Formaggio e pastoralismo in Sardegna” edito dalla
ILLISSO (Nuoro, 2015), al quale si rimanda per ogni
1
Lavoro effettuato nell’ambito delle attività della Commissione di studio
dell’Associazione per la Scienza e le Produzioni Animali (ASPA) “Scenari
zootecnici” [ZooScenari Lab.0] di cui G. Pulina è coordinatore nazionale.
44
doveroso approfondimento del tema. Il secondo capitolo
di questo scritto, tratterà degli scenari futuri del settore
agropastorale della Sardegna in riferimento a quello
italiano, con specifico riferimento alla produzione di latte
ovino.
1.
Breve storia recente del pastoralismo in
Sardegna
La Sardegna è un’Isola il cui paesaggio è forgiato
dall’attività pastorale. Ampie superfici a pascolo erbaceo,
estese aree occupate dai Meriagos, fitto reticolo di muri a
secco, emergenze architettoniche primordiali, latte ovino e
suoi derivati quale principale produzione agricola sono
elementi che tendono a identificare l’immagine della
Sardegna con quella dei suoi pastori.
Se la pastorizia ha rappresentato, fin dalle epoche
protostoriche, una delle principali, se non la principale,
attività degli abitanti dell’Isola, il secondo dopoguerra e le
profonde trasformazioni sociali ed economiche che si sono
succedute fino ai nostri giorni hanno comportato
un’evoluzione, non sempre positiva, ma carica di
significati, del pastoralismo e degli assetti sociali a esso
legati.
La Sardegna che riemerge dalla guerra è una terra che non
ha subìto le devastazioni che hanno interessato gran parte
dell’Europa e quasi tutta l’Italia. A parte i bombardamenti
su Cagliari e dintorni del 1943 e quelli su Olbia e Alghero
del maggio dello stesso anno, le campagne e gli altri centri
45
abitati non limitrofi ai bersagli principali, furono
risparmiati. Il che significò che il sistema agricolo e il
tessuto urbano, invero molto povero, potettero
immediatamente riprendere l’attività interrotta dall’evento
bellico. I cittadini avevano riscoperto il mondo pastorale
durante la guerra per effetto del fenomeno dello
“sfollamento”: i rifugiati, provenienti soprattutto da
Cagliari, furono ospitati nei centri della Barbagia e si
sfamarono nel lungo e freddo inverno del 1943, rimasto
famoso negli annali della Sardegna come “s’annu ‘e su
famine”, con carni e formaggi soprattutto ovini. Gli anni
’50 furono, per il mondo della pastorizia, un susseguirsi di
sogni e delusioni, legati principalmente ai moti per la
distribuzione delle terre ai contadini, che sfociarono, nelle
aree migliori, nella confisca, bonifica, appoderamento e
consegna dei poderi da parte dell’Ente di Trasformazione
Fondiaria e Agraria della Sardegna (ETFAS), che cambiò
letteralmente il volto di vaste plaghe dell’Isola e consentì
l’accesso alla terra di una cospicua frazione di contadini e
pastori che iniziarono un nuovo percorso di vita, i cui
risultati sono visibili ancora oggi nelle zone di Arborea e
della Nurra di Alghero. Contemporaneamente, la lotta alla
malaria, promossa dalla fondazione Rockefeller e condotta
dall’Ente Regionale Lotta Anti Insetti della Sardegna
(ERLAAS), liberava l’Isola dalla millenaria plaga
consentendo, con la bonifica di vaste aree paludose,
l’instaurarsi di una agricoltura e di un insediamento
umano in zone fino ad allora considerate insalubri. Ѐ il
periodo delle prime transumanze senza ritorno in quanto
46
nuclei familiari provenienti dall’interno iniziarono a
colonizzare e a stabilirsi nelle aree dei Campidani, della
Nurra e delle piane di Olbia. La pastorizia uscì dal primo
decennio postbellico sostanzialmente immutata rispetto
agli assetti anteguerra, ma con un anelito di
modernizzazione che si rivelerà il fattore chiave
dell’esodo dalle imprese armentizie e che sarà uno dei
motivi portanti della dinamica del settore agropastorale
dei successivi lustri. Il decennio è anche caratterizzato
dalla vasta emigrazione che colpì soprattutto i ceti meno
abbienti e, fra i pastori, le storiche figure bracciantili dei
servi pastori i quali, agli albori degli anni ’70, saranno
praticamente scomparsi dagli ovili della Sardegna.
Il decennio del boom economico italiano è stato
caratterizzato da varo di due piani di rinascita. Per quanto
riguarda il primo, la logica dell’intervento, basata sul
concetto dei poli di sviluppo, aree a elevata
concentrazione industriale che sarebbero dovute servire da
volano per lo sviluppo complessivo del territorio
regionale, si mostrò immediatamente insufficiente a
innescare la rivoluzione industriale che, a oltre 150 anni
dal resto dell’Europa, avrebbe dovuto investire la
Sardegna. La scelta di impiantare l’industria
petrolchimica, struttura produttiva ad alto investimento di
capitale ed elevato impatto ambientale, quale impresa
leader, comportò una momentanea sensazione di
benessere, registrata dal forte inurbamento delle cittadine
di Sarroch e Porto Torres, ma saturò immediatamente
l’esigenza di nuovo lavoro, anche a causa dell’elevata
47
specializzazione richiesta alle maestranze e difficilmente
riscontrabile nelle aree rurali della Sardegna. Il polo di
Ottana, l’ultimo nato nell’ordine e sopranominato da
subito Cattedrale nel Deserto, più degli altri registrò un
reclutamento delle maestranze nel mondo pastorale: le
cronache di allora raccontano del disagio di molti pastori
che, venduto il gregge, si rinchiudevano per 8 ore al
giorno in un ambiente malsano, costretti dal sogno di un
tenore di vita subitaneamente (e purtroppo in modo
effimero) diventato consono ai tempi che cambiavano
rapidamente ed esigevano modernità.
Negli stessi anni si affermava un fenomeno delinquenziale
noto con il nome di banditismo. I fermenti degli anni ’50 e
la mancata rivoluzione industriale dei primi anni ’60
generarono un profondo senso di malessere in gran parte
della società rurale delle zone interne dell’Isola tagliata
fuori, se non isolata, dai processi di modernizzazione che
investivano repentinamente le due maggiori città
dell’Isola, i comuni costieri interessati dalla nascente
industria turistica e gli assi di comunicazione fra le grandi
concentrazioni urbane. La figura del pastore, una volta
cardine degli assetti sociali delle aree interne della
Sardegna, divenne un epiteto da indirizzare verso coloro
che si mostravano meno proni ad assecondare la
modernità dilagante, tanto da isolare la comunità degli
allevatori di pecore e capre dal resto della società. Su
questo substrato si sviluppò l’industria del sequestro di
persona, solitamente gestita da esponenti della piccola o
media borghesia inurbata e praticata da manodopera
48
reclutata negli ambienti pastorali. L’estensione del
fenomeno e il ripetersi degli episodi criminali, diversi dei
quali si risolvettero purtroppo con la morte o la scomparsa
dell’ostaggio, obbligarono lo stato a una reazione feroce
che portò a una vera e propria occupazione militare
dell’Isola e finì con conflitti a fuoco sanguinosi e l’arresto
di noti esponenti del banditismo, da molti anni latitanti.
I fenomeni malavitosi e la reazione dello Stato indussero il
Parlamento, nell’autunno del 1969, ad approvare una
legge per la costituzione di una commissione di inchiesta
sul fenomeno del banditismo in Sardegna presieduta dal
Senatore Giuseppe Medici.
Gli esiti dell’indagine, dopo due anni e mezzo di lavori,
sancirono che soltanto "un integrale piano di sviluppo
capace di investire in pieno il mondo agro-silvopastorale", che interessasse "tutta la vita culturale e sociale
delle comunità barbaricine", sarebbe stato l’antidoto al
dilagare dei fenomeni malavitosi nell’Isola. Fu così varato
il secondo piano di rinascita, nel 1974, con al centro la
riforma agro-pastorale e con una dotazione finanziaria di
600 miliardi di lire. Alla denominazione dell’assessorato
per l’agricoltura fu da allora aggiunta la qualifica “e
riforma agropastorale” che oggi, a distanza di quasi mezzo
secolo dal varo e dal fallimento della stessa, ancora
mantiene.
Ma altre trasformazioni hanno in quegli anni interessato il
mondo agropastorale isolano. La pastorizia in Sardegna è
stata per lungo tempo esercitata su terreni di proprietà
collettiva o su terreni privati per i quali i pastori pagavano
49
un canone annuo (o mensile, nel caso delle stoppie di
cereali), di solito corrisposto sotto forma di prodotti
dell’allevamento. La proprietà fondiaria era una forma di
possesso poco diffusa e non consona alle modalità di
conduzione degli allevamenti che prevedeva la
monticazione (spostamento degli animali fra pianura e
montagna nella stessa area) e la transumanza (spostamento
delle greggi per lunghe distanze) per assicurare alle pecore
la risorsa foraggera stagionale in grado di sostenerne la
produzione di latte. La riforma agraria e la creazione della
Cassa per la formazione della proprietà contadina (istituita
nel 1948) consentirono anche in Sardegna la nascita di
numerose piccole proprietà coltivatrici e l’ingrandimento
delle dimensioni delle proprietà, soprattutto di quelle
pastorali.
Negli anni ’60 si verificò una sensibile estensione delle
aree pascolive che incorporarono quelle un tempo
destinate alla cerealicoltura e quelle pianeggianti irrigabili
o potenzialmente tali; ciò fu dovuto anche al favorevole
andamento dei prezzi dei prodotti ovini, come meglio
esposto nei successivamente. Poiché sino agli anni ’60 i
latifondisti pretendevano un affitto pari a una
remunerazione fondiaria del 7% circa, al pastore comprare
conveniva più che prendere in affitto un terreno, in quanto
la Cassa per la proprietà contadina consentiva di acquisire
le terre in 30 anni a un tasso annuo pari a metà del valore
d'affitto. Comprarono, però, solo quelli più informati sui
contributi e sovvenzioni pubbliche. Ѐ tuttavia con la legge
sugli affitti dei fondi rustici del 1971, nota come De
50
Marzi-Cipolla, che il secolare conflitto di interessi tra i
proprietari della terra e i proprietari delle greggi mostrò
una svolta fondamentale. Con tale legge, infatti, centinaia
di migliaia di ettari cambiarono proprietario e molti
pastori si stabilizzarono nelle pianure formando aziende
moderne. Questa sedentarizzazione degli allevamenti
permise l’avvio degli investimenti aziendali (i cosiddetti
miglioramenti fondiari), costituiti soprattutto dalla
costruzione di ovili razionali e dal miglioramento dei
pascoli, dall’introduzione della meccanizzazione per la
messa a coltura di superfici prima occupate dalla macchia
mediterranea, ma soprattutto per la coltivazione dei cereali
foraggieri (erbai di orzo e avena) a ciclo autunnoprimaverile più produttivi del pascolo naturale. Gli erbai,
infatti, mostravano un utilizzo versatile per le aziende
pastorali, in quanto durante l’inverno rappresentavano
un’importante fonte di approvvigionamento di erba da
pascolare direttamente con gli animali e in primavera
potevano essere destinati alla produzione di granella,
oppure alla produzione di fieno come scorta foraggera.
Queste trasformazioni agli inizi degli anni ’80 del secolo
scorso portarono alla maturazione di un processo di
apprezzamento del latte iniziato circa un secolo prima con
l’avvio della produzione su larga scala del Pecorino
Romano. Infatti, alla fine del XIX secolo l’arrivo in
Sardegna dei primi industriali romani comportò per la
pastorizia un radicale cambiamento: in quegli anni, infatti,
si allargò all’Isola la produzione industriale di un
formaggio salato laziale, il Pecorino Romano, fatto
51
esclusivamente con il latte di pecora, venduto molto bene
negli Stati Uniti e in Argentina.
Questo prodotto si impose immediatamente come una
commodity in quanto facilmente trasportabile e
conservabile e disincentivò i pastori dalla trasformazione
domestica del latte per la produzione del tradizionale
formaggio ovino, il Fiore Sardo. Il Pecorino Romano subì
nel corso del XX secolo varie crisi di sovrapproduzione e
conseguentemente di prezzo, ma la semplicità del
processo caseario e il consolidamento dei mercati
transoceanici lo resero, nel secondo dopoguerra, il
prodotto di riferimento dell’industria casearia privata e
cooperativa della Sardegna. L’inserimento del Pecorino
Romano fra i prodotti dell’UE per i quali era prevista una
restituzione all’esportazione, il ciclo economico
espansivo, trainato dalla new economy digitale, che
caratterizzò l’economia americana degli anni ’90,
congiuntamente al rafforzamento del valore del dollaro
sulla lira dovuto alla crisi finanziaria dell’Italia,
contribuirono a spingere il prezzo del latte ovino verso
valori mai raggiunti prima. La conseguenza fu un
accelerarsi dei processi di acquisto di terre da parte dei
pastori con un contemporaneo forte rialzo dei valori
fondiari e il drenaggio di parte degli utili dal
reinvestimento per l’ammodernamento degli allevamenti
ad altri settori, in particolare quello edilizio. I pastori
ristrutturarono le loro case nei paesi di residenza,
cambiandone il volto, e acquistarono immobili nelle
maggiori città per destinarli principalmente a residenza
52
per lo studio dei figli. Il periodo delle vacche grasse però
non durò a lungo. La buona posizione di mercato del
Pecorino Romano, che spostò ingenti masse di latte verso
questo prodotto e ne causò una sovrapproduzione, e la
riforma della PAC, che inizialmente ridusse e poi abolì le
restituzioni alle esportazioni, esposero la stragrande
maggioranza della produzione del latte ovino della
Sardegna a un crollo dei prezzi che raggiunse il minimo
storico agli albori del nuovo millennio. I sistemi politico e
produttivo cercarono di reagire con il varo di un massiccio
piano di investimenti strutturali che comportò
l’ammodernamento degli edifici e degli impianti aziendali
per renderli coerenti con le nuove norme sulla qualità del
latte. Ma l’investimento di maggiore rilevanza fu quello
diretto all’introduzione degli impianti di mungitura
meccanizzata e della refrigerazione del latte. In pochissimi
anni si assistette all’abbandono della modalità primigenia
di estrazione del latte ovino, la mungitura a mano (molte
volte operata all’aria aperta in recinti di frasche), per
passare a quella meccanizzata capace di migliorare il
benessere del pastore e di garantirne l’aumento
dell’operatività. Dalle 120-150 pecore mungibili
giornalmente a mano, si passò alle 250-300, con
importanti ripercussioni sulle consistenze aziendali
dominabili dalla singola unità operativa e l’avvio di
importanti processi di accorpamento di imprese o di
acquisizione di greggi dismessi da pastori ritiratisi
dall’attività.
53
Fu anche un periodo di grave malessere per il sistema
lattiero-caseario sardo, crisi aggravata dal flagello della
blue tongue che si abbatté sull’Isola agli albori del nuovo
millennio e che comportò la morte o la soppressione di
mezzo milione di capi ovini e caprini, malessere che
sboccò in manifestazioni e proteste dei pastori,
inizialmente sostenute dalle organizzazioni tradizionali
(Coldiretti, Confagricoltura e Confederazione Italiana
Agricoltori - CIA) e successivamente sfociò in movimenti
autonomi di rivendicazione, il più rilevante dei quali fu il
Movimento Pastori Sardi di Felice Floris e Fortunato
Ladu. Nato alla fine degli anni ’90 del XX secolo, sulla
scia dei COBAS del latte che avevano infiammato le
campagne lombarde per combattere il trust delle quote
latte europee, il Movimento mostrò subito ambizioni
politiche, tanto da sganciarsi immediatamente dalle grandi
confederazioni rappresentative del mondo agricolo e agire
motu proprio nei confronti della politica regionale e
nazionale. I leader del Movimento si resero subito conto
dell’importanza dei media, tradizionali e nuovi, per il
sostegno e la propaganda a favore del movimento:
qualsiasi iniziativa, e tante se ne contano nella pur breve
vita del sodalizio, fu da allora accompagnato da un
clamore mediatico, sia tradizionale per mezzo di una
bravissima addetta stampa, sia innovativo con l’apertura di
pagine su Internet e su Facebook.
L’eclissarsi delle rivendicazioni pastorali non ha spento i
riflettori sui leader del MPS, presi dalla tensione di
formare una rappresentanza politica, almeno di spessore
54
regionale, o di unirsi alle frange indipendentiste che
sempre più ne agitano il panorama politico. Se un risultato
è stato raggiunto dal Movimento in oltre due decenni di
battaglie, è stato il riconoscimento ufficiale del pastore
sardo quale elemento politico attivo e la sua collocazione
fra i portatori di interessi reali organizzati nel panorama
sempre frastagliato delle rappresentanze sociali isolane.
La profonda crisi del Pecorino Romano, stretto fra
sovrapproduzione e cancellazione delle restituzioni
all’esportazione, comportò un crollo del prezzo del latte
ovino che, a metà del decennio, si attestò a valori vicini ai
50 cent al litro (circa la metà del massimo prezzo
raggiunto nel decennio precedente). Le analisi dei bilanci
delle imprese agropastorali mostrarono che tale livello era
insostenibile in quanto rappresentava circa la metà del
costo medio di produzione del litro di latte. Il rischio di
default per il sistema era diventato reale. Lo
schiacciamento del reddito da lavoro, vero ammortizzatore
dei momenti di crisi del prezzo del latte, non sembrò ai
tempi sufficiente per arginare un crescente indebitamento
delle imprese pastorali verso i fornitori e verso le banche.
I debiti a breve termine raggiunsero il 75% della
produzione lorda vendibile e, sommati a quelli a medio
termine, superarono di gran lunga il fatturato annuo delle
aziende.
L’Assessorato
all’Agricoltura
colse
il
suggerimento che arrivò dal Dipartimento di Scienze
Zootecniche dell’Università di Sassari: proporre,
nell’ambito del Piano di Sviluppo Rurale in corso, una
misura sul benessere animale tarata in modo tale da
55
consentire un premio pari a 19,4 euro per pecora. La
misura, predisposta dal suddetto Dipartimento con
l’ausilio dell’agenzia regionale LAORE Sardegna e gestita
di concerto con l’Associazione Regionale Allevatori della
Sardegna (ARAS), si rivelò un successo e consentì, nella
temperie delle crisi, la sopravvivenza delle aziende
armentizie, il miglioramento della salute degli animali
(soprattutto la riduzione delle mastiti subcliniche) e
l’adeguamento tecnologico di migliaia di impianti di
mungitura sparsi per il territorio regionale. La riuscita
dell’intervento fu tale da indurre l’Assessorato per
l’Agricoltura a vararne nel 2010 una nuova versione,
sempre sotto consiglio degli studiosi dell’Università di
Sassari, tutt’oggi in fase di piena attività. Uno degli effetti
più rilevanti della misura sul benessere animale,
unitamente alla efficacia dell’azione dell’ARAS, è stato il
miglioramento della qualità del latte ovino che, a oggi, si
trova allineato agli standard europei di carattere sanitario e
tecnologico. Tale miglioramento ha consentito, tra le altre
cose, un’apertura alla diversificazione delle produzioni
lattiero-casearie che consentono a tutto il settore la
possibilità di modulare le produzioni anche in relazione al
contingentamento del Pecorino Romano auspicato da più
parti.
Tuttavia, per certi versi inaspettatamente, le quotazioni del
Pecorino Romano hanno iniziato a crescere nel biennio
2013-2015, fino a superare nei mercati internazionali
quelle di formaggi italiani più blasonati quali il
Parmigiano Reggiano e il Grana Padano. Se questo evento
56
da un lato ha portato un effimero sollievo a un comparto
compresso dalle decennali diseconomie, dall’altro ha
richiamato ingenti quantità di latte verso questo latticino:
già alla fine della stagione 2015/16 il prezzo del Pecorino
Romano registrava fortissime flessioni (-27% sul mercato
nazionale) e l’allarme lanciato dalle confederazioni
sindacali degli allevatori, Coldiretti in testa, sfociava in un
contenzioso con i trasformatori, ancora in corso, sul
prezzo del latte. Poiché la Sardegna è stata per molto
tempo, e resta tutt’ora, la regione del mondo a più alta
specializzazione ovina da latte, il futuro della pastorizia
sarda sarà legato inscindibilmente alla capacità che avrà la
filiera agropastorale di rinnovarsi e consolidare la propria
leadership sui mercati internazionali. Il prossimo capitolo
sarà dedicato a questa analisi, in una prospettiva
nazionale.
2.
Le prospettive del sistema ovino da latte
Sardo nel contesto italiano e internazionale
L’Italia, e la Sardegna, sono indiscutibilmente leader
mondiali nell’esportazione di formaggi ovini (Figura 1)
Il grafico mostra anche alcune anomalie legate agli
importanti volumi di export dell’Olanda e il saldo
commerciale elevato e paritario del Lussemburgo, a
dimostrazione che quote rilevanti di pecorino prodotto nel
nostro Paese sono commercializzate da piattaforme
residenti in altri Stati dell’Unione.
57
USA e Germania si presentano quali maggiori importatori
mondiali (Figura 2), relegando ad un ruolo marginale gli
altri Paesi. Tuttavia, occorre rilevare che metà circa del
latte ovino mondiale è prodotto in Cina e una quota
importante in Turchia; ma che queste sono destinate
esclusivamente all’autoconsumo.
Figura 1 – Import-export di formaggio pecorino nei Paesi europei.
58
Figura 2 – Principali importatori di formaggio ovino nel mondo.
Il mercato mondiale del pecorino si mostra finora
fortemente polarizzato (due players, Italia e Francia e due
importer, USA e Germania); tuttavia, recentemente la
Cina sta iniziando una campagna di apertura di mercati in
Nuova Zelanda, in cui stanno nascendo nuove imprese
ovine da latte, e anche in Sardegna, per acquisire quote di
prodotto disidratato da destinare all’alimentazione
infantile; la Spagna, inoltre, con una aggressiva campagna
commerciale incentrata sul formaggio Manchego, sta
conquistando importanti quote di prodotto da tavola sul
mercato nordamericano.
La Sardegna è la regione italiana di gran lunga più
specializzata nella produzione del latte ovino: la metà del
patrimonio nazionale è allevata nell’Isola (Figura 3) e in
essa si producono circa i 2/3 del latte nazionale (Figura 4).
59
La consistenza dei capi allevati, dal trend storico, sembra
destinata a calare al 2025 sia in Italia che in Sardegna. A
questo trend si adegua anche la produzione del latte che
soltanto nelle ultime annate ha risentito di una leggera
inversione a causa del miglioramento del prezzo del
prodotto.
Figura 3 – Andamento del patrimonio ovino nazionale e proiezione
al 2025
60
Figura 4 – Andamento della produzione di latte ovino in Italia
Pur rappresentando il latte ovino una quota pari al 3,5% di
quella di latte bovino nazionale, i due settori mostrano una
profonda differenza, analizzata nella Tabella 1. Se il
bovino da latte è una economia a prevalente carattere
nazionale, tecnologicamente avanzata, concentrata in
alcune aree e che soffre della concorrenza internazionale,
l’ovino è un allevamento diffuso sul territorio, a bassa
tecnologia e a forte inclinazione all’esportazione.
Purtroppo, la fragilità degli assetti agropastorali italiani e
la mancanza di politiche specifiche di settore, stanno
portando all’abbandono degli allevamenti e alla
conseguente diminuzione della potenzialità produttiva del
sistema.
61
Tabella 1 – Raffronto fra settori bovino e ovino da latte in Italia.
Il prezzo del latte ovino all’ovile è senz’altro uno dei temi
più caldi del dibattito agricolo della Sardegna. É
importante anche sul piano nazionale per le pesanti
influenze che il prezzo praticato sull’Isola ha per i
contratti chiusi nelle altre regioni. Il primo approccio per
la definizione di un prezzo di una materia prima quale è il
latte, è la determinazione del prezzo di succedaneità, che
rappresenta il valore al quale due beni simili possono
essere sostituibili. Nel nostro caso, essendo una quota di
produzione di pecorino (semicotti e i freschi) in
concorrenza con analoghi latticini vaccini nella grande
distribuzione organizzata, questo esercizio indica il punto
di equilibrio fra i due latti. L’analisi del prezzo di
62
succedaneità fra latte ovino e latte bovino, calcolata sui
valori medi delle sostanze casearie utili (SCU; grasso e
proteine) è la seguente:
a) Il latte bovino contiene mediamente 70 g/L di SCU
(Grasso + Proteine)
b) Il latte ovino contiene mediamente 125 g/L di SCU
(Grasso + Proteine)
Il valore di succedaneità fra i due latti è perciò di 125/70 =
1,8, il che significa che se il prezzo del latte bovino è di 40
cent/L, quello ovino dovrebbe essere di 0,72 cent. Se
superiore, rappresenta il “valore proprio” del latte ovino,
se inferiore, denuncia l’inefficienza del sistema pastorale.
Il Pecorino Romano rappresenta, come abbiamo detto, il
principale formaggio ovino prodotto nel mondo. La sua
importanza risiede nel fatto che alla sua produzione è
indirizzato circa il 30% del latte ovino munto in Italia e
che dai suoi corsi dipende, pertanto,
in maniera
determinante il prezzo del latte italiano.
Purtroppo, come è possibile verificare dalla Figura 5, gli
andamenti delle produzioni di Pecorino Romano hanno
subito oscillazioni elevate, chiaro risvolto della totale
mancanza di una minima programmazione.
63
Figura 5 – Andamento della produzione di Pecorino Romano.
A queste oscillazioni ha fatto eco la quota di latte ovino
sardo destinata a questo latticino, che ha mostrato lo stesso
andamento. Il che significa che non sono stati gli
allevatori a creare problemi di sovrapproduzione, come è
evidente dalla produzione calante registrata nelle Figura 4,
ma la mancata programmazione della fase di
trasformazione (Figura 6).
Come già accennato nel capitolo precedente, ad una breve
fase di prezzi alti della vendita di Pecorino Romano, e di
relativi prezzi elevati per il latte ovino, è seguita
recentemente una fase di rapida recessione, con il crollo
del prezzo del 27% negli ultimi mesi della campagna
2015/2016 e l’apertura delle contrattazioni per il latte
64
dell’annata 2016/2017 attestate a meno della metà dei
saldi ottenuti nelle due annate precedenti.
Tuttavia, il mondo vuole sempre più latte. Dalle proiezioni
FAO, riportate nella Figura 7, risulta che la domanda di
questo alimento è in forte crescita e che si prevede ne
siano necessarie 230 milioni di tonnellate in più da oggi al
2035.
Il che, tradotto in termini di latte ovino, che rappresenta il
3,5% della produzione mondiale, significa che ci sarà
necessità di un quantitativo ulteriore di circa 8 milioni di
tonnellate, pari a 2,5 volte l’attuale produzione di latte
della Sardegna. Una prateria sconfinata da conquistare, a
patto che si sappia prendere per tempo questo treno in
corsa.
Figura 6 – Quota di latte ovino sardo destinato alla produzione di
Pecorino Romano
65
Figura 7 - Andamento delle produzioni mondiali di alimenti di
origine animale dal 1967 e proiezione al 2030 (FAO, 2015).
Al fine di valutare il trend di produzione del latte ovino
nazionale (del quale, ricordiamolo, il latte sardo è la quota
preponderante), ho elaborato una proiezione sulle serie
storiche, tenendo conto delle variabili rilevanti che hanno
influenzato nel passato l’andamento produttivo di questa
derrata: il patrimonio di pecore da latte, il PIL, la
popolazione residente e la % trasformata in Pecorino
Romano. L’equazione che è risultata, calcolata con la
tecnica StepWise, è la seguente:
LATTE (q/anno) = 0,353 PECORE (n.) – 101,8
POPOLAZIONE (X1000) + 4,44 PIL (€x1000) + 16947
PECORINO ROMANO (% latte) [Sqr = 82%; Sqr pred =
52%].
Ho sviluppato l’equazione al 2025 applicando due livelli
(alto e basso) di proiezione della popolazione residente
66
italiana, ottenuti dal modello DEMO dell’ISTAT,
utilizzando il trend decrescente del patrimonio ovino
ottenuto dalla serie storica, risolvendo per tre livelli di
incremento annuo del PIL (basso 0,5%, medio 1% e alto
2%) e ipotizzando due valori della quota di latte
trasformata in Pecorino Romano a livello nazionale (40%
e 50%). I risultati della proiezione sono riportati nella
Figura 8, per sviluppo della popolazione basso, e nella
Figura 9, per lo sviluppo alto.
Figura 8 – Proiezioni della produzione del latte ovino nazionale al
2025 con scenario ISTAT di sviluppo della popolazione basso (PIL
B,M,H = PIL 0,5%, 1%, 2% anno; PR 40,50 = quota di latte
destinato a Pecorino Romano)
67
Il modello dice che PIL e quota di latte destinato a
Pecorino Romano sono i principali drivers dell’evoluzione
produttiva e che con uno sviluppo della popolazione alto,
le prospettive produttive tendono a peggiorare per tutti gli
scenari indagati. Tuttavia, in tutti i casi la tendenza
generale delle curve è in crescita, il che significa che il
settore ha ancora margini di espansione anche in relazione
alle sole variabili di natura interna.
Figura 9 – Proiezioni della produzione del latte ovino nazionale al
2025 con scenario ISTAT di sviluppo della popolazione alto (PIL
B,M,H = PIL 0,5%, 1%, 2% anno; PR 40,50 = quota di latte
destinato a Pecorino Romano)
Ho infine esplorato tre scenari di tipo qualitativo, con
previsione al 2025 dello stato di salute del sistema ovino
68
da latte italiano: business as usual, che configura
condizioni future simili a quelle storiche recenti; open
market, che ipotizza una ulteriore apertura dei mercati
internazionali; regionale, che preconizza una chiusura
progressiva dei mercati internazionali e una
frammentazione a livello regionale degli stessi. Il primo
esercizio è riportato nella Tabella 2.
Tabella 2. Primo esercizio di scenario per il latte ovino italiano al
2025 con tre ipotesi.
La tendenza generale, per un settore fortemente
dipendente dalle esportazioni, non può che essere negativa
se non in presenza di una ulteriore apertura dei mercati (il
che significa che anche in presenza di un trend generale di
chiusura, la ricerca specifica di nuovi mercati diventa una
priorità). La governance dei sistemi di trasformazione, in
questa prospettiva diventa cruciale, così come la necessità
di maggiore competitività del settore, soprattutto sul
versante della produzione unitaria per capo e
69
dell’efficienza delle imprese pastorali. Uno schema di
governo della filiera è riportato nella Figura 10.
In sintesi, il patrimonio ovino da latte italiano può
orientarsi alle produzioni tipiche locali (in Sardegna il
Pecorino Sardo e il Fiore Sardo), sfruttando le razze locali
(in Sardegna anche gli ecotipi della razza Sarda specifici
delle regioni geografiche interne) con sistemi di
allevamento pascolivi estensivi e le relative politiche di
sostegno del reddito tipiche dei programmi rurali per le
aree svantaggiate; sul versante dei formaggi industriali,
occorre trovare il continuo punto di equilibrio fra quote
destinate al Pecorino Romano, per le quali sono adeguati i
sistemi produttivi semiestensivi basati sul pascolamento e
da adottarsi idonee politiche per l’export, e le quote
destinate ai formaggi in competizione con i vaccini, per i
quali è indispensabile sviluppare forme anche intensive di
allevamento di alta efficienza e produttività.
Figura 10 – Schema di governo del sistema ovino da latte Italiano
70
3.
Conclusioni
La pastorizia sarda ha subìto, dal dopoguerra a oggi, tali
trasformazioni che le condizioni di origine sembrano tanto
remote quanto incredibili. I drivers principali sono stati la
stabilizzazione aziendale, l’aumento, a volte anche
notevole, del capitale bestiame dominato dal singolo
allevatore, la mercantilizzazione quasi totale della
produzione, la meccanizzazione aziendale, l’introduzione
delle tecnologie alimentari, sanitarie e di gestione in grado
di migliorare decisamente il livello di vita dei lavoratori e
l’apertura della pastorizia verso ambiti di servizio una
volta esclusivo appannaggio dei compendi naturalistici o
dei parchi.
Sul versante delle prospettive va rilevato che il latte ovino
rappresenta una quota limitata della produzione mondiale
e che l’Italia, all’interno della quale la Sardegna gioca il
ruolo determinante, è leader mondiale nell’export dei
formaggi pecorini Tuttavia, il settore soffre di arretratezza
e mancanza di politiche specifiche, per cui il futuro è
legato a scelte chiare e di sistema per cui da ultimo dei
sistemi agricoli, la pastorizia con l’ovinicoltura da latte
può
diventare
uno
degli
asset
strategici
dell’agroalimentare italiano.
Il futuro della professione pastore in Sardegna si presenta
migliore del cinquantennio appena passato: un mercato del
formaggio in via di espansione, nonostante i corsi delle
esportazioni congiunturalmente in flessione, fanno ben
71
sperare per la conservazione del più importante settore
produttivo agricolo isolano. La condizione è che la
pastorizia rientri al centro dell’attenzione collettiva della
Società sarda e che non sia relegata ai fatti di cronaca nera
o alle proteste, a volte violente, degli allevatori per
reclamare il sostegno per la loro sopravvivenza.
72
Pastoralismo in evoluzione, dal modello
tradizionale a quello multifunzionale
Prof. Benedetto Meloni e Prof.ssa Domenica
Farinella, Sociologia del Territorio e dell’Ambiente
Università di Cagliari
1. Il modello agro-pastorale tradizionale
Il saggio2 ripercorre a grandi linee l’evoluzione dei sistemi
agropastorali della Sardegna, focalizzando l’attenzione
soprattutto sull’evoluzione dal secondo dopoguerra,
2
Il saggio si colloca nel lungo dibattito sulla pastorizia mediterranea e sarda, tra gli
altri Le Lannou 1979; Salzman e Galaty 1980; Ortu 1981; Manconi e Angioni 1982;
Ravis-Giordani 1983; Meloni 1984; Da Re 1982; Angioni 1989; Murru Corriga 1990;
Fabietti e Salzman 1996; Bandino 2006; Mienties 2008; Mattone e Simbula 2011 ed
il recente Mannia 2014. Le analisi presentate si basano su un lungo lavoro di ricerca
empirica realizzato a partire dagli anni ottanta da Meloni in alcune aree interne
(Barbagia centrale, Cixerri e Sarrabus-Gerrei) e su diverse ricerche attualmente in
corso presso il Dipartimento di Scienze Sociali e delle Istituzioni dell’Università di
Cagliari, dirette da B. Meloni e cui partecipano D. Farinella, E. Cois, M. Locci, E. Sois,
M. Salis, C. Locci. Queste ricerche riguardano i cambiamenti nel pastoralismo
contemporaneo e nella filiera agroalimentare, così come l’emergere di nuove
imprese contadine e sono finanziate da diversi enti, tra cui la Fondazione Banco di
Sardegna, la Regione Sardegna, la Camera di Commercio di Cagliari, il Ministro per
la Ministro per la coesione territoriale. Si tratta di ricerche su ambiti micro
(comunità locali o regioni storiche specifiche) realizzate a partire dalla costruzione
di profili sociografici e dalla raccolta di storie di vita ed etnografie di casi aziendali.
La raccolta di una grande mole di dati qualitativi su studi di comunità consente di
generalizzare alcuni modelli idealtipici, estrapolando elementi di carattere generale
e alcune tendenze del processo di cambiamento dei sistemi locali analizzati.
73
evidenziando le pratiche di gestione dello spazio e delle
risorse, le forme di produzione economica, così come i
fattori endogeni ed esogeni che hanno causato mutamenti
nelle modalità di regolazione sociale, modificando i
rapporti tra le diverse componenti delle comunità locali.
A grandi linee, è possibile tracciare un processo di
cambiamento dei sistemi agropastorali scandito dal
susseguirsi di tre modelli di gestione delle risorse, in cui si
verifica la transizione dal sistema tradizionale a quello
attuale, attraverso meccanismi di disarticolazione di
vecchie componenti e riassesto su nuove.
Mediante un’analisi dell’evoluzione dei sistemi economici
locali d’uso ed accesso alle risorse, intendiamo cogliere i
mutamenti e le strategie messe in atto a livello locale,
partendo dal presupposto che, sebbene esistano dei vincoli
esterni, le forme di aggiustamento sono sempre specifiche
dei diversi contesti territoriali. Le modalità con cui questi
fenomeni avvengono mostrano continuità, non solo
rottura, rispetto al sistema produttivo e riproduttivo
tradizionale che si riorganizza, offrendo nuove opportunità
rispetto al passato.
Il termine “tradizionale” non assume qui contenuti
valutativi, ma fa riferimento a una relativa stabilità nel
tempo (fino agli anni ’50), dei sistemi economici locali, a
una certa lentezza dei processi di trasformazione prima di
quegli anni. In linea di massima è possibile affermare, con
qualche approssimazione ed ai fini dell’individuazione di
74
modelli, che il sistema agricolo-pastorale si può definire
tradizionale perché ha mantenuto caratteri di continuità e
persistenza, tali per cui è possibile osservarne i tratti
distintivi fino agli anni 50, sia attraverso i profili statistici
che mediante i dati qualitativi (analisi delle storie di vita
ed etnografie di casi aziendali).
L’analisi del modello tradizionale diventa cioè essenziale
per comprendere i modi della trasformazione e permette di
porre al centro le “differenze originarie”, le specificità
dei modi di produzione di determinate aree o sub-aree
regionali così come si sono andate sedimentandosi
attraverso estesi periodi storici (la lunga durata di cui
parlava Braudel), come fattori fondamentali per
comprendere i sistemi socio-economici distinti.
L’approccio diacronico rivela poi la persistenza, anche se
in forme mutate, di tratti peculiari dell’organizzazione
socio-economica locale. Sebbene le rapide modificazioni
intervenute a partire dal secondo dopoguerra sono
profondamente connesse a pressioni macro-sociali esterne
e sempre più inglobanti (ad esempio l’intervento dello
stato o l’andamento dei prodotti nei mercati internazionali,
come nel caso del latte ovino), questi elementi non sono in
grado determinare meccanicamente e dall’esterno il
cambiamento: l’evoluzione dei sistemi locali è il frutto di
una combinazione originale tra fattori esterni e
preesistente struttura socio-economica locale, in cui
permangono pezzi, anche ampi, di economia locale che si
75
sottraggono a queste pressioni e che mostrano una certa
capacità di resistenza e resilienza dei territori.
Il punto di partenza è il sistema agropastorale tradizionale,
in cui policoltura e complementarità tra allevamento ed
agricoltura si saldavano con meccanismi regolati di
gestione delle risorse basati su usi civici e terre comuni, e
una gestione familiare dell’unità aziendale, organizzata
secondo una divisione di genere del lavoro (con il pastore
transumante che provvedeva al reddito, mentre il coniuge
stanziale si occupava di riproduzione, all’interno di un
quadro di economia domestica e di autoconsumo). Si
trattava di un sistema rivolto essenzialmente alla
sussistenza delle comunità locali.
Il modello agropastorale tradizionale è stato prevalente
nelle zone interne e centrali della Sardegna per tutto
l’ottocento fino agli anni cinquanta del novecento. Come
si evince dall’Angius (1853 in Puggioni 2010) per la
Barbagia, lungi dall’avere un carattere marcatamente
monopastorale, queste aree si contraddistinguevano per la
policoltura e la complementarità tra un’agricoltura
estensiva (con la prevalenza di cereali, soprattutto grano
ed orzo, ma anche vite e, in misura molto più trascurabile,
ulivo) e l’allevamento di ovicaprini, cui si affiancava in
minore misura quello di bovini, suini ed equini (Meloni
1984; Bandinu 2006; Mienties 2008; Ortu 2011).
Per esprimere la compresenza di agricoltura ed
allevamento basta qui evidenziare la centralità della
76
coltivazione di seminativi anche in zone più interne e/o
periferiche: ad esempio il comune collinare di Armungia,
nella regione storica del Gerrei, nel 1929 destinava ben
2353 ettari, il 43% della superficie agraria disponibile ai
seminativi, mentre erano dedicati al pascolo soltanto il
3,6% dei terreni (199,74). Nello stesso anno, Siliqua, nel
Cixerri, riservava ai seminativi 8511 ettari, il 45,5% della
SAU, mentre i prati e pascoli si fermavano a un 1,8. Infine
Austis, nel Mandrolisai, al centro della Sardegna
barbaricina e a forte vocazione pastorale, dedicava
comunque ai seminativi il 17,2% della superficie agraria
utilizzata.
L’utilizzo dei suoli prevedeva una differenziazione in tre
cinture che si allargavano per cerchi concentrici attorno al
comune: la prima cintura, prossima alle zone centrali, era
la più fertile e per questo destinata agli orti familiari,
rigidamente delimitati da alte siepi in rovo. La seconda era
costituita dai chiusi, recintati con muri a secco e siepi ed
utilizzati sia per colture arboree che per la semina dei
cereali. I chiusi erano coltivati con un sistema di rotazione
ed erano ripuliti da cardi, rovi e pietre prima dell’aratura,
in tardo autunno. La terza e più esterna fascia, chiamata
salto, comprendeva le terre non chiuse (comunali ma
anche private) e soggette a usi comunitari. Veniva
utilizzata per lo più come pascolo, ma vi si praticavano
anche forme di agricoltura estensiva.
77
Pastorizia e agricoltura si integravano reciprocamente per
garantire l’ottimizzazione delle risorse disponibili e la
sopravvivenza economica. Questa complementarità
garantiva alla pastorizia vantaggi:
-
-
Diretti, perché la messa a coltura dei suoli
permetteva l’integrazione dello stock foraggiero
spontaneo che era alla base dell’alimentazione del
bestiame: a fine estate, quando il pascolo naturale
scarseggiava le granaglie come l’orzo, ma anche le
stoppie, il fogliame della vite e degli orti, i prodotti
di scarto (pere, castagne, vinacce) permettevano il
sostentamento degli animali.
Indiretti: le operazioni connesse al ciclo agricolo,
come l’eliminazione e bruciatura autunnale della
macchia mediterranea (in particolare stoppie, cisto
e cardi), l’aratura e l’estrazione delle radici di erica
e corbezzolo, miglioravano la capacità produttiva
dei suoli e la qualità delle erbe spontanee,
contenevano poi l’espansione della macchia
mediterranea, ostacolo al passaggio delle greggi.
La complementarità era inoltre connessa all’uso delle terre
comuni: siano esse comunali o gravate da usi civici,
queste terre erano soggette a diritti di godimento da parte
degli abitanti di un paese (Meloni 1984; Masia 2011;
Mattone 2011), che riguardavano vari tipi di sfruttamento
comunitario e promiscuo delle terre, con diritti di accesso
78
(a volte a titolo individuale, spesso a titolo collettivo), in
particolare semina, pascolo, legnatico e ghiandatico. Fino
agli anni ’50, mediante i Regolamenti d’uso comunali, si
definiva annualmente la destinazione d’uso delle terre
secondo un sistema di rotazione annuale che le divideva in
coltivabili (il vidazzone, destinato alla semina) e
pascolabili (il paberile, messo a riposo per un turno
agrario) (Le Lannou 1979; Ortu 1981; Day 2004). Si
delimitavano zone, tempi e percorsi, si fissavano le aree di
sverno del bestiame e l’uso delle stoppie. La semina era
preceduta dalle attività di bruciatura autunnale; ultimato il
raccolto, i terreni del seminerio erano aperti al pascolo. La
presenza di aree boschive non era un limite al pascolo,
quanto una risorsa integrativa (legnatico e ghiandifero per
i maiali).
Sebbene il regolamento d’uso riconoscesse a tutti gli
abitanti parità di diritti d’accesso ed uso, si era lontani da
forme di egalitarismo; nella pratica questi diritti non erano
godibili da tutti allo stesso modo ed erano connessi a forti
stratificazioni sociali (Meloni 1984; 1996); ad esempio,
solo poche famiglie erano in grado di coltivare i terreni
comunali, spesso lontani dal centro abitato e per i quali era
necessario possedere mezzi adeguati come il giogo,
l’aratro, il carro e la manodopera. Ma le stesse famiglie
non rivendicavano su quei terreni né diritto di recinzione,
né di pascolo individuale. Si trattava cioè di terre aperte
con diritto di sfruttamento agricolo individuale e familiare
fino al raccolto, che tornavano indivise a raccolto
79
ultimato. Stesso discorso per il diritto di pascolo: soltanto
chi disponeva di greggi medio grandi poteva attrezzarsi
per pascolare in aree non limitrofe al paese, procurandosi
mezzi di trasporto e manodopera sufficiente per la
custodia del bestiame in terre aperte confinanti con quelle
coltivate, oltre che mezzi per costruire un ovile. Nelle
terre comunali esistevano ovili di famiglia che passavano
di padre in figlio (diritto d’ovile), spesso collocati nei
pascoli migliori vicino alle fonti d’acqua. I diritti che i
singoli avevano ottenuto ed esercitavano, erano trasmessi
ai discendenti, ma non erano un attributo esclusivo
dell’appartenenza, variavano a seconda della posizione dei
singoli gruppi familiari, in una scala che andava da coloro
che possedevano diritto di semina e di ovile a coloro che,
pur non essendo esclusi dal diritto sulla terra, non
disponevano né di bestiame, né di mezzi di produzione né
di alleanze sufficienti ed andavano quindi a lavorare alle
dipendenze di altri.
In virtù del complesso meccanismo di scambio, la
pastorizia, soprattutto di ovicaprini, ma anche di maiali,
era mobile. Accanto agli spostamenti verso i diversi saltus
nelle aree di pertinenza del proprio comune (che
comportavano l’assenza in paese del pastore anche per
settimane), si realizzavano transumanze (brevi e lunghe),
in genere nei periodi invernali dalle zone più alte e interne
verso quelle meno fredde di pianura e/o costiere (Ortu
1988; Angioni 1989). Come osserva Le Lannou (1979), le
transumanze servivano a preservare l’integrità degli ovini
80
sardi, fragili alle intemperie, ma anche a garantire terreni
aggiuntivi per il pascolo, sopperendo così all’insufficienza
tipica delle aree interne.
La gestione della transumanza e la necessità di rispondere
a bisogni ed imprevisti che potevano verificarsi lungo il
tragitto, portava il pastore a costruire legami, alleanze più
o meno stabili e forme di cooperazione (Meloni 1984).
Oltre ad accordi informali, basati su amicizia e relazioni di
reciprocità, esistevano meccanismi di regolazione più
formali che istituzionalizzavano per periodi limitati la
collaborazione, come le compagnie di pascolo, attraverso
le quali pastori proveniente da famiglie diverse univano le
proprie greggi, per raggiungere una dimensione ottimale
di impresa e coordinare le complesse operazioni connesse
alla transumanza. Alle compagnie si affiancavano vari tipi
di contratto che legavano le famiglie di pastori e
stabilivano gradi differenziati di messa in comune delle
risorse disponibili. Terra, lavoro e bestiame si
combinavano secondo modalità contrattuali molto
articolate, volte a garantire l’autonomia dei singoli gruppi
familiari. Contrariamente all’immaginario stereotipato del
pastore individualista, solu ca fera (Pigliaru 2006), i
pastori erano consapevoli dell’importanza di condividere
risorse che isolatamente erano antieconomiche. La messa
in comune avveniva dentro assetti regolativi specifici
(Meloni 1984), simili a quelli individuati dalla Ostrom
(1990) volti a contenere l’opportunismo e il free-riding:
una chiara definizione dei confini; una struttura
81
appropriata di gestione saldata su una congruenza tra
regole di appropriazione/fornitura a partire dalle
condizioni locali; canali formali ed informali di relazioni;
metodi di decisione collettiva e sistemi di monitoraggio;
norme e sanzioni efficaci e progressive; meccanismi di
risoluzione dei conflitti; relazioni autonome interne al
gruppo, con un livello di riconoscimento del diritto di
autorganizzarsi. Si trattava tuttavia di una regolazione
temporanea (scandita ad esempio dalla durata del
contratto), che non originava strutture permanenti. Alcuni
di questi caratteri originari sono traslati in modo diverso
nell’allevamento odierno e nel sistema della cooperazione.
Come vedremo nel par.3, le modalità di appoderamento
lungo le vie della transumanza e il sistema delle relazioni
che ne consegue sono in qualche modo tirati «fuori dal
modello tradizionale della mobilità pastorale» (Meloni
1997, p.228).
2. Dal sistema agropastorale tradizionale al pastoralismo
estensivo
Tra la fine degli anni ’50 e gli anni ‘70 del novecento si
delinea un processo di profonda trasformazione del
sistema economico tradizionale che ha cause interne ed
esterne.
Tra i fattori esogeni, la concorrenza di cereali importati
dall’esterno dell’isola e la modernizzazione agricola,
mettono in crisi la cerealicoltura tradizionale tipica delle
aree interne. Scompaiono velocemente le coltivazioni di
82
grano, orzo e leguminose. Contadini, carbonai, artigiani,
vedono venir meno i meccanismi che permettono la loro
sopravvivenza. L’abbandono della coltivazione nelle
campagne comporta una progressiva estensione dei boschi
e della macchia mediterranea, che causa a sua volta un
aumento degli incendi, usati come mezzo di contenimento
della macchia (Meloni e Podda 2013). Nello stesso
periodo, la crescita della domanda di latte ovino per la
produzione industriale di pecorino romano da esportazione
da parte delle industrie locali, porta gli allevatori a dilatare
la consistenza del patrimonio zootecnico: l’espansione
della pastorizia si realizza tutta a scapito dell’agricoltura.
In questa fase, molti contadini disoccupati, si riciclano
nell’allevamento, numerosi pastori emigrano in altre
regioni, alla ricerca di terre pascolabili. La pastorizia
diventa il modo più diffuso di utilizzare le risorse
foraggere spontanee ed i terreni abbandonati, senza
operare trasformazioni fondiarie. Basti qui sottolineare
che nelle terre comunali non si semina più a partire dagli
anni sessanta e che anche le terre private vengono
utilizzate solo per i pascoli, tanto che questi ultimi
arrivano a coprire più del 90% della superficie agricola.
Non diminuiscono solo le colture cerealicole ed ortive, ma
anche quelle connesse alle attività di allevamento (orzo e
foraggere). Cresce cioè il prelevamento delle risorse
spontanee e decresce l’attività di trasformazione dei suoli,
inclusa quella utile a rafforza le risorse pascolabili. Il
risultato di questi mutamenti è la trasformazione
dell’economia agropastorale in pastorale estensiva.
83
Nell’insieme non si verifica una riconversione strutturale
delle modalità di utilizzo delle risorse spontanee e dei
processi culturali zootecnici tramandati; al contrario, la
permanenza e l’espansione pastorale avviene all’interno di
un riassetto dell’economia, che perde una sua componente
fondamentale, l’agricoltura, così come già anticipato nel
precedente paragrafo.
La scomparsa dell’agricoltura cerealicola e la dominanza
pastorale sono cioè due facce di uno stesso fenomeno.
Si osservi ad esempio come negli stessi comuni
menzionati a titolo esemplificativo nel paragrafo
precedente, si registri al Censimento dell’Agricoltura del
1970 una sistematica contrazione delle superficie agrarie
destinate ai seminativi che segnala la crisi della
cerealicoltura, accompagnata da una notevole crescita
delle superfici a pascolo e prato permanente e del numero
di ovini. Ad esempio nel comune di Armungia si passa dai
2353 ettari in seminativi del 1929 ai 55,7 del 1970 (97,6%), determinando la scomparsa di questa tipo di
coltura nell’area; parallelamente diminuisce la superficie
agraria utilizzata che si riduce dai 5472,1 ettari del 1929 ai
4878,3 del 1970 (-10,9%) e si incrementa
esponenzialmente la superfice dedicata a prati e pascoli
permanenti: dai 199,73 ettari del 1929 si arriva ai 4.712,23
del 1970 (+2259,3%). Fenomeni analoghi investono anche
altre zone interne; il comune di Austis che tra il 1929 ed il
1970 vede decrescere la superficie in seminativi da 830
84
ettari a 166,7 (+80%) ed incrementarsi sia i prati e pascoli
permanenti che da 3229 ettari si ampliano fino a 4240,4
(+31,3%), così come vede triplicare il numero di
ovicaprini (da 3737 capi a 9378). O ancora, sempre tra il
1929 e il 1970, a Siliqua si registra una riduzione dei
seminativi da 8511 ettari a 2267,4 (-73,4%),
accompagnata da un ampliamento dei prati e pascoli
permanenti da 331 a 11363,75 ettari (+3333,3%). Sebbene
caratterizzati da diverse configurazioni dei sistemi locali
(con maggiore o minore presenta di superfici vitate,
boschi, specie diverse allevate, presenza o meno di attività
minerarie, ecc.), tutti i paesi sembrano contraddistinguersi
nel secondo dopoguerra per la drastica diminuzione dei
seminativi e la parallela ascesa delle superfici a pascolo,
decretando il passaggio dal modello agro-pastorale al
pastoralismo estensivo.
Il modello tradizionale entra in crisi anche per cause
interne, arrivando nel corso del tempo a un livello di
saturazione, legato soprattutto alla durevole scarsità di
terra agricola disponibile da un lato, ed alla mancanza di
investimenti fondiari e di innovazione tecnologica
dall’altro.
La divisione delle terre demaniali avvenuta dopo la metà
dell’Ottocento con l’editto delle chiudende, le forme di
appoderamento che ne sono conseguite (Bulferetti 1964;
Ortu 1981; Mattone 2011), l’aumento delle terre messe a
coltura, hanno contribuito a regolare, per un lungo arco di
85
tempo, il rapporto tra risorse disponibili prodotte a livello
locale e popolazione presente, in assenza di fenomeni
migratori. In altri contesti, i fenomeni migratori
cominciano prima e l’allontanamento della popolazione
eccedente è un elemento di regolazione per la
sopravvivenza di quelle economie contadine caratterizzate
da maggiore mobilità sociale e sistemi di eredità
preferenziali: se il fondo non viene diviso e un solo figlio
maschio eredita, tutti gli altri devono trovare lavoro
altrove. Al contrario, in Sardegna il rigido sistema di
divisione egualitario ha contribuito a mantenere nella
comunità una popolazione più che raddoppiata nell’arco di
cento anni, da metà dell’Ottocento fino al 1950. Il
frazionamento progressivo era assorbito dall’aumento
della superficie seminativa e dalla diversificazione delle
attività, che così potevano soddisfare la domanda di terra
connessa all’incremento della popolazione (Meloni 1984).
Questo rigido sistema di divisione e l’aumento delle
coltivazioni hanno influito sul sistema demografico e sulle
modalità di utilizzo delle risorse, cosicché nell’arco di tre
generazioni – tante sono quelle intercorse dalla divisione
delle terre demaniali – l’emigrazione è stata trattenuta
dalla ridistribuzione e dall’aumento relativo delle risorse.
Tuttavia, nello stesso periodo, il ciclo espansivo è
culminato con un estremo frazionamento dei terreni
agricoli in proprietà, collegato a una elevata crescita della
popolazione: in assenza di condizioni di lavoro alternative,
la densità di forza lavoro sulla superficie agraria
disponibile è diventata eccessiva, il sistema locale non è
86
riuscito più a garantire la sussistenza a tutti i suoi membri,
anche per i cambiamenti negli stili di consumo (sempre
più orientati al consumo di massa).
Lo spopolamento e l’emigrazione, contadina prima e
pastorale poi, hanno costituito a questo punto uno degli
elementi di regolazione interna del rapporto
risorse/popolazione, soprattutto in assenza di interventi
miranti al miglioramento della struttura produttiva.
Schematizzando, tra l’ottocento e la metà del novecento si
osserva una relazione tra crescita demografica ed
espansione delle colture cerealicole fino a un punto di
saturazione, a partire dal quale si innesca una connessione
tra regressione demografica, abbandono dell’agricoltura
ed espansione della pastorizia.
Dopo il 1960, con l’abbandono dell’agricoltura, i pastori
si trovano a utilizzare da soli l’intero patrimonio di terre
comuni. L’emigrazione e la contrazione degli occupati in
agricoltura provocano l’isolamento del pastore dal
contesto familiare e l’affievolirsi delle relazioni
comunitarie. I pastori risentono della mancanza
dell’agricoltura sia perché non dispongono di prodotti
agricoli per il bestiame, sia perché peggiora la produzione
e la qualità dei pascoli; senza l’intervento umano di
ripulitura dei terreni, bruciatura annuale e aratura
periodica si diffondono cisti, cardi, rovi e più in generale
la macchia mediterranea. I Regolamenti d’uso perdono
significato ed i pastori si impadroniscono delle zone senza
87
apportarvi
miglioramenti
fondiari;
si
accentua
l’appropriazione individuale e si crea una situazione di
assenza di regolazione, che favorisce il free-riding. Gli
incendi, che aumentano esponenzialmente negli anni ’70,
diventano così uno strumento di contenimento della
macchia mediterranea ed un mezzo per aprire al pascolo i
terreni abbandonati (Camba et al. 1973; Beccu 1986:
Meloni e Podda 2013). Essi sono cioè utilizzati nella
gestione del suolo nella transizione al sistema di
allevamento estensivo come mezzo agronomico a basso
costo che procura vantaggi immediati: permette alle
pecore di nutrirsi dei semi contenuti nelle teste dei cardi
rimaste a terra dopo il passaggio del fuoco, prepara i
terreni per l’autunno quando le pecore possono nutrirsi
dell’erba che rispunta dopo le piogge senza essere
disturbate né dai residui dei pascoli estivi né dalla
macchia.
In questa fase di transizione dal modello agropastorale a
uno pastorale estensivo, la crisi dell’agricoltura (e delle
attività connesse di trasformazione dei suoli) provoca la
rottura del tradizionale scambio reciproco tra questa e la
pastorizia, sul quale si basava la ricostituzione delle
risorse ambientali, il mantenimento degli spazi pascolabili,
la produzione di foraggere ed altri alimenti integrativi del
pascolo naturale, il contenimento della macchia
mediterranea. Si verifica un deterioramento della qualità e
quantità della foraggiera spontanea ed un aumento del
prelevamento spontaneo, con un aggiustamento al minimo
88
del modello. Tuttavia, la persistenza e l’espansione
pastorale evidenzia i suoi tratti resilienti, ovvero la sua
capacità di adattarsi in modo flessibile ai mutamenti,
riorganizzando le risorse ecologiche a disposizione in
modo originale, senza snaturare la propria base strutturale
(Holling 1973). Come evidenziato da Meloni (1984,
p.138-40), iniziano a emergere forme di aggiustamento
economico-sociale, in cui coesistono autonomia e
dipendenza, continuità e mutamento, resistenza ed
adattamento, all’interno dei quali la pastorizia si dimostra
una soluzione adeguata per la valorizzazione dei suoli in
aree marginali ed interne, abbandonate dai contadini.
La domanda di prodotti agricoli da parte di consumatori
sempre più esigenti delle grandi città, l'esistenza di un
mercato locale e la vendita diretta, l'esportazione
all'estero dove gli emigrati italiani hanno mantenuto le
tradizioni alimentari dei luoghi d'origine hanno
incentivato lo sviluppo di questo, come di altri settori di
produzione, che richiedono forme tradizionali di lavoro
e bassa intensità di capitali, fornendo rese che possono
talvolta risultare competitive con i settori più
sviluppati. Si creano in questo modo zone di produzione
apparentemente anti-economiche, ma che sono in grado
di occupare uno spazio in termini di appropriazione di
risorse a basso costo e di mercato lasciati liberi dalle
grandi aziende. L'aspetto fondamentale di questo nuovo
assetto è costituito dalla possibilità di occupare mano
d'opera familiare a tempo pieno o parziale. In questa
89
situazione le due caratteristiche che rendono scarsamente
competitivo il settore contadino (bassa intensità di capitale
e sopra-lavoro familiare) possono trasformarsi in elementi
«positivi», qualora esista una situazione di mercato
favorevole e la possibilità di usare risorse a basso costo.
La «novità» di questo modello, come di altri analoghi,
sta dunque nella capacità di riutilizzare tecniche
tradizionali, risorse a basso costo o comunque a bassa
intensità di capitale e mano d'opera familiare in un
contesto mutato dall'economia di mercato (Meloni 1984,
p.138-40).
Lo sviluppo economico si configura così come un
processo complesso, in cui non è possibile tracciare
un’evoluzione lineare da forme e tecniche tradizionali
contadino-pastorali a quelle capitalistiche; al
contrario, le prime non soltanto sopravvivono, ma
riescono persino a ritagliarsi degli spazi interstiziali,
in cui le aziende imprenditoriali e standardizzate,
ponendo le basi per quella riemersione del modello
contadino di cui parleremo nel par. 4.
3. La pastorizia, tra sedentarizzazione e dipendenza
dall’industria lattiero-casearia
La pastorizia sarda, in concomitanza con i processi descritti
nei paragrafi precedenti, negli anni ’70 è attraversata da
cambiamenti strutturali profondi che portano a un processo
di sedentarizzazione ed appoderamento dei pastori
90
transumanti, con la stabilizzazione del modello di
pastoralismo estensivo. Tale processo è il risultato di
fenomeni interni ed esterni, come l’emigrazione dei
contadini sardi e l’abbandono delle terre collinari, il
consolidarsi dell’industria lattiero-casearia, la maggiore
stabilità del mercato internazionale dei prodotti lattierocaseari ed un incremento della domanda (anche per effetto
delle politiche della CEE), che permettono una buona
remunerazione del latte e l’accumulo di capitale da parte
dei pastori. Questi si stanziano nelle pianure e nelle colline
una volta cerealicole, formando aziende moderne; migliaia
di ettari cambiano proprietario (Cubeddu 2003). In risposta
alla stabilizzazione fondiaria e all’acquisizione di terre
migliori i pastori si dedicano a pratiche agricole. Si conclude
così quel processo di conquista del mondo pastorale, già
individuato negli anni ‘40 da Le Lannou (1979).
L’appoderamento viene poi incoraggiato anche da alcune
politiche pubbliche della seconda metà del novecento.
Dapprima la legge sulla piccola proprietà contadina del
1954, quindi la legge De Marzi Cipolla del 1971, infine le
politiche previste dal nuovo Piano Rinascita del 1974 (Sechi
2002). Il piano assume alcuni risultati della Commissione
d’inchiesta Medici del 1969 che vedeva nel modello socioeconomico agro-pastorale transumante, non soltanto la causa
del mancato sviluppo e dell’arretratezza delle comunità, ma
anche l’emergere dei fenomeni criminali che si verificano in
quegli anni (Pinna 1970; Brigaglia 1971; Pigliaru 2006). Per
questo, l’obiettivo prioritario del piano era la riforma del
91
sistema agro-pastorale, anche mediante il finanziamento di
progetti che favorissero la trasformazione dell’allevamento
ovino da nomade a stanziale, stabilizzando di fatto il
fenomeno dell’appoderamento. In seguito a questa riforma,
aumentarono ulteriormente i terreni usati a pascolo brado,
portando il numero degli ovini sardi dai 2.500.000 circa
della metà degli anni Sessanta ai 4.500.000 degli anni
Ottanta (Brigaglia, Mastino e Ortu 2002).
Un ruolo fondamentale nell’appoderamento è giocato
dalla crescita dell’industria di trasformazione lattierocasearia (Le Lannou 1979; Idda, Pulina e Furesi 2010;
Sassu 2011). La nascita dei primi caseifici industriali
specializzati nella produzione del pecorino romano è
databile nella seconda metà dell’Ottocento alcuni
imprenditori laziali, in seguito alla crisi della pastorizia
abruzzese, spostano in Sardegna le proprie industrie (Ruju
2011; Sassu 2011). Già agli inizi del Novecento si
contavano nella regione più di 160 caseifici (Ruju 2011;
Le Lannou 1979); accanto ai caseifici industriali si
sviluppano quelli cooperativi, come tentativo di
emancipazione delle aziende pastorali dal settore
industriale, in seguito alle prime tensioni tra allevatori e
produttori sul prezzo del latte (Porcheddu 2004; Di Felice
2011). I caseifici cooperativi mettono in atto strategie
isomorfiche nei confronti delle esistenti aziende
industriali, producendo quasi esclusivamente Pecorino
Romano da esportazione, venduto a grossisti per la
commercializzazione o agli stessi industriali, non avendo
92
contatti diretti con i mercati (Di Felice 2011, Pulina et al.
2011; Ruju 2011; Porcheddu 2004). I caseifici cooperativi
rappresentano una realtà importante della trasformazione
industriale isolana, basti qui ricordare che negli anni ‘70
producevano ormai il 40 % del Pecorino Romano in
Sardegna (Ruju 2011), sebbene il loro andamento sia stato
altalenante nel corso del Novecento: dopo gli anni ‘30 sono
diminuiti; nel 1953 erano attive in Sardegna 15 cooperative,
13 latterie sociali e 17 Gruppi pastori, ma pochissimi
possedevano stabilimenti di salatura e stagionatura propri.
Nel 1956 si contavano 18 cooperative casearie che
svolgevano l’intero ciclo di lavorazione, di queste quattro
erano concentrate nell’Alto Oristanese (le Latterie sociali di
Bonarcado e Ghilarza e i Gruppi pastori di Seneghe e Santu
Lussurgiu) (Gentile 1954). Con il piano di Rinascita, i
caseifici sociali tornano a crescere: nel 1967 arrivavano a
120; tra le cooperative fondate in quegli anni vi è anche la
oristanese CAO (Cooperativa Allevatori Ovini), che sarà
destinata a diventare il più grande caseificio cooperativo
sardo.
L’introduzione della lavorazione industriale rivoluziona la
filiera produttiva e il processo di commercializzazione del
formaggio (Le Lannou 1979, Pulina et al. 2011).
Cambiano il tipo di produzione e i mercati di destinazione.
La principale produzione diventa il pecorino romano, un
formaggio a pasta dura, di grande pezzatura (circa 20 kg),
ricco di sale marino, grazie alle richieste che arrivano dal
resto d’Italia e dall’estero, soprattutto dagli Stati Uniti, un
93
mercato che cresce lungo tutto il novecento, nel quale il
pecorino viene utilizzato come formaggio da mescola per
insaporire altre preparazioni. Secondo Ruju (2011, p.957),
tra il 1919 e il 1928 la Sardegna ha ricavato in media 200
mila euro annui dall’esportazione.
Cambiano anche le modalità di produzione: in passato
pastore effettuava la trasformazione del latte direttamente
nell’ovile, producendo per lo più il tradizionale fiore
sardo, formaggio a latte crudo a pasta dura, affumicato e
stagionato dai 16 ai 18 mesi, dal peso di 2-3 Kg, destinato
alla vendita nell’isola e in misura minore nei mercati
italiani, soprattutto meridionali, e francesi. Con l’avvento
dell’industria casearia, i pastori smettono di trasformare il
latte e diventano conferitori di latte agli industriali, non
senza tensioni sul prezzo: «Da allevatore, produttore e
commerciante il pastore si riduce quasi esclusivamente a
mungitore; restano sulle sue spalle gli aspetti passivi
dell’allevamento, ma quelli dai quali può trarre guadagno,
la trasformazione e la vendita, sono ormai controllati
prevalentemente da altri. Sarà il pastore d’ora in poi a
subire le conseguenze di ogni crisi di mercato, crisi che
l’industriale potrà affrontare con la manovra del prezzo
del latte contro il pastore» (Porcheddu 2003). La
pastorizia va incontro in quegli anni a una grave perdita di
expertise artigianale connesso alle attività di
trasformazione, mitigata da un lato da un relativo
mantenimento di piccole produzioni per autoconsumo
familiare, dall’altro da alcune eccezioni rappresentate da
94
pastori di montagna che continuano, soprattutto nei mesi
estivi, la produzione di fiore sardo.
Nello stesso periodo si rafforza nell’isola la selezione
delle razze da latte, che ha come esito una pecora
specializzata nella produzione di latte (Coinu 1964; Pulina
et al. 2011).
Tra gli anni ’70 e i primi anni ’90, la crescita sostenuta del
Pecorino romano nei mercati e la buona remunerazione
del latte (Idda, Pulina e Furesi 2010) comporta un
rafforzamento dell’industria lattiero-casearia ed un
aumento del patrimonio zootecnico ovino che si
accompagna al consolidamento del modello estensivo di
allevamento, non senza alcune ombre. Il modello industriale
perseguito si basa sulla realizzazione di economie di scala,
attraverso la produzione di elevate quantità di questo
formaggio, altamente standardizzato ed a basso costo. Si
tratta di un modello al ribasso, in cui i margini di profitto
sono dati dalla concorrenza sul costo che, a sua volta,
implica la necessità di aumentare il livello delle produzioni.
Per non erodere i livelli di produttività, le industrie avviano
processi di concentrazione che permettano di valorizzare le
economie di scala (produrre di più a un minor costo).
Tuttavia, l’eccesso di offerta finisce alla lunga per
originare un circolo vizioso: il prezzo del latte (e del
formaggio) tende ad abbassarsi, producendo una rincorsa
continua al gigantismo, per contrastare l’erosione del
reddito. Questa dinamica di incremento dimensionale è
visibile sia nelle aziende di trasformazione che in quelle di
95
allevamento (aumento del gregge) ed è favorita anche
dalle politiche agricole settoriali e dai meccanismi di
incentivazione degli anni ottanta, che veicolano una
concezione della qualità del latte legata alla
pastorizzazione, alla standardizzazione e all’abbattimento
della carica batterica.
Inoltre, sebbene dal secondo dopoguerra, nascano diverse
aziende private di dimensione medio-piccola e si rafforzino
alcune cooperative di trasformazione create da allevatori,
sono le grandi aziende di trasformazione a dettare le
condizioni di produzione. Le imprese più piccole,
cooperative e private, restano dipendenti dalle grandi
aziende, per le quali operano in conto terzi ed alle quali
vendono la maggior parte del prodotto; non arrivano ai
mercati finali, non sviluppano marchi propri ed autonomi né
politiche di commercializzazione, restano concentrate sulla
sola fase di produzione. Si tratta di una grave carenza di cui
il settore lattiero-caseario risente ancora oggi.
Questo comparto dagli anni ’70 in poi si fossilizza in una
monoproduzione (pecorino romano) ed in un
monomercato (prevalentemente gli USA) basati su una
concorrenza di costo che tende a fragilizzare gli attori più
deboli della filiera (piccoli trasformatori ed allevatori), sui
quali, a partire dagli anni ’90 si scaricheranno gli
andamenti altalenante del prezzo del latte sul mercato
globale (Meloni e Farinella 2015; Idda, Pulina e Furesi
2010).
96
Dalla metà degli anni novanta, il settore lattiero-caseario è
stato colpito da una persistente crisi, determinata sia da
un’elevata volatilità delle commodity agricole sul mercato
globale3, che da una tendenza a un costante decremento
del prezzo, laddove i costi di produzione (mangimi,
elettricità, gasolio…) sono aumentati, soprattutto in
seguito alla crisi economica del 2008.
La crisi è stata aggravata negli ultimi anni (fino al 2013)
dal crollo delle esportazioni nel mercato storicamente più
importante, quello americano. Come sintetizza Sassu
(2011, p.1038 e ss.) «il mercato americano del pecorino
romano è cresciuto a ritmi sostenuti per oltre trent’anni,
passando ad esempio da 14,9 Miliardi di Dollari del 1990
ai 26, del 2005, con un saggio di crescita del formaggio
sul mercato americano del 44,4% nel periodo 1995-2005».
In quegli stessi anni, la Sardegna conquista una quota
sempre maggiore delle produzioni di pecorino romano (a
discapito del Lazio), diventando maggiormente dipendente
da questo tipo di produzione. Tuttavia, dal 2000 inizia una
lenta parabola discendente per il pecorino romano che
perde quote di questo mercato sia per la competizione con
prodotti analoghi provenienti da altri paesi europei
(Francia, Spagna, Grecia e Bulgaria), sia per la sua
sostituzione con un prodotto in parte realizzato con latte
vaccino dalle imprese locali. Tra il 2006 ed il 2009, il
pecorino romando DOP italiano importato nel mercato
3
La commodificazione dei beni agricoli sul mercato globale produce il
fenomeno dello schiacciamento del reddito agricolo (McMicheal 2013)
97
americano passa da 18.200 tonnellate a 13.000 (-28,3%)
(Idda, Furesi, Pulina, 2010). Dal 2010 inizia una lenta
ripresa delle esportazioni, ma il prezzo del latte continua a
scendere intorno ai 60-65 centesimi medi al litro,
causando il ridimensionamento e la chiusura di molti
allevamenti (già provati dai ripetuti focolai dell’epidemia
di lingua blu). Soltanto a partire dal 2012 il prezzo del
latte inizia una leggera ripresa, attestandosi nel 2013 con
quotazioni attorno ai 72-75 centesimi, che sono
ulteriormente cresciute negli ultimi due anni, fino ad
arrivare in qualche caso anche a un euro al litro. Va
tuttavia sottolineato che il recente aumento del prezzo del
latte è un effetto della diminuzione delle quantità
circolanti provocato dal ridimensionamento del settore che
si era verificato negli anni precedenti.
Il rallentamento delle esportazioni sul mercato americano
degli ultimi anni aveva cause strutturali, come il
cambiamento degli stili di consumo (minori quantità di
formaggio consumate e più attenzione ai formaggi freschi
e molli), la fine del cambio favorevole dollaro/lira, con
l’introduzione dell’Euro, il progressivo venire meno del
meccanismo delle restituzioni comunitarie per le
esportazioni destinate al mercato americano e canadese
che aveva in passato stabilizzato artificialmente il prezzo.
Tuttavia è stata la scelta di una via bassa alla competitività
aziendale, incentrata su aumento dei volumi produttivi ed
abbassamento del prezzo a generare quel circolo vizioso
che è culminato con una caduta del prezzo del latte,
98
l’erosione del reddito delle aziende pastorali e la
conseguente espulsione di quelle più deboli dal mercato.
Molte aziende di allevamento e trasformazione che hanno
rincorso il gigantismo per sostenere una concorrenza
basata sul costo, hanno visto crescere i costi fissi
dell’azienda e la dipendenza dagli input esterni (come
carburante, elettricità, spese di irrigazione dovute a periodi
di siccità, ecc.), sono inoltre andate incontro a problemi di
commercializzazione.
L’erosione del reddito pastorale e le tensioni sul prezzo
del latte sono state al centro delle rivendicazioni del
Movimento dei Pastori Sardi (Pitzalis e Zerilli 2013;
Colombo 2013).
4. Verso un
agropastorale
nuovo
modello
multifunzionale
ed
La crisi tuttavia ha in un certo senso accelerato il riassesto
del sistema produttivo, dimostrando ancora una volta una
grande capacità di resilienza e riaggiustamento del
modello pastorale.
Questi aspetti emergono anche da un’analisi
dell’andamento dell’agricoltura e del settore zootecnico
regionale tra il Censimento dell’Agricoltura 2000 e quello
2010. Seguendo un trend italiano (Fanfani e Spinelli,
2012), la Sardegna si è caratterizzata per un processo di
concentrazione ed ammodernamento aziendale delle
imprese agricole e zootecniche in particolare: diminuisce
99
il numero di aziende, ma aumenta la Superficie Agraria
Utilizzata che nel periodo 2000-2010 passa da 1 019 958 a
1 152 756 ettari (+13,1%, contro un -2,5% nazionale). Si
incrementa inoltre in media la SAU per azienda, che nel
2010 è di 19 ettari, contro gli 8 nazionali; sono proprio le
imprese di piccolissime dimensioni (e quindi più fragili) a
ridursi, segno di una ottimizzazione della dimensione
aziendale. Continuano a essere prevalenti le aziende
individuali ed a conduzione diretta da parte del coltivatore
(il 97,4%), con prevalente ricorso a manodopera familiare.
Si amplia il numero di aziende a conduzione femminile che
passano dal 19,8% del 2000 al 23,9% del 2010. Inoltre,
seppure continuino a essere prevalenti le fasce più elevate
di età tra i conduttori, si osserva un incremento dei giovani
(fino ai 49 anni, che si aumentano dal 28,5& al 32,1%),
così come cresce il livello di istruzioni dei conduttori.
La naturale vocazione del territorio all’allevamento si è
rafforzata al punto da individuare la principale
specializzazione produttiva regionale: nel 2010 ben l’83%
della SAU era riservata ad attività connesse
all’allevamento. In particolare, oltre ai 35896,9 ettari di
terreni a riposo, 228.258 ettari sono riservati alle foraggere
avvicendate, che sono cresciute sensibilmente negli ultimi
30 anni (+53,4% nel periodo 2010-1982 e +11,9% tra il
2000 e il 2010). Esteso anche il terreno utilizzato come
prati e pascoli permanenti che nel 2010 era pari a 692 781
ettari, registrando un +32% rispetto al 2000. Le aziende
zootecniche rappresentano il 33,8% delle aziende agricole
100
(ben al di sopra della media italiana, ferma al 13,4%), che
pongono al quarto posto la Sardegna nella graduatoria
nazionale che valuta il peso delle aziende zootecniche su
quelle agricole. A questo si aggiunga che il 37,8% le
aziende che possiedono pascoli e prati permanenti ed il
27,8% dedica parte della propria SAU alla produzione di
foraggere avvicendate.
Da un lato quindi si rileva un incremento di attività
agricole connesse all’allevamento, dall’altro il numero di
aziende zootecniche si è molto contratto tra i due
censimenti, ma la diminuzione si è accompagnata a una
crescita della dimensione media aziendale e, nel caso
ovicaprino, del numero dei capi. Questi elementi quindi
esprimono un rafforzamento del settore che è stato trainato
in grande misura dall’allevamento ovino: mentre la
consistenza del patrimonio bovino resta pressoché stabile
nel decennio 2000-2010 (252 658 +0,9% dal 2000)4,
mentre diminuisce a livello nazionale (-4,5%), quella
ovina si incrementa di +7,8% nello stesso periodo e di ben
il 27,7% rispetto al 1982: con 3 028 373 di ovini al 2010
la Sardegna copriva il 43,4% del patrimonio ovino
nazionale. La riduzione del numero di aziende ha
comportato un allargamento del numero medio di capi
ovini per azienda che sono passati dai 132 del 1982 ai 239
del 2010, un valore molto più alto dei 132 italiani.
4
Va tuttavia considerato che a livello nazionale si assiste a una diminuzione
del numero di capi bovini del 4,5%.
101
Sul piano qualitativo si sono realizzati alcuni fenomeni
concatenati. Da un lato, il ridimensionamento del numero
di imprese di allevamento e la modifica delle strategie
produttive delle aziende di trasformazione che hanno
prestato una maggiore attenzione alla diversificazione
produttiva ed alla produzione di pecorino romano dop e di
qualità. Ne è derivata una certa ripresa del mercato del
pecorino romano (e di conseguenza un aumento del prezzo
del latte), stimolato dalle minori quantità circolanti.
Dall’altro la crisi ha finito per produrre un processo di
selezione delle aziende di allevamento: le aziende più
fragili ed esposte finanziariamente sono state espulse,
mentre quelle più solide sul piano patrimoniale ed
organizzativo sono riuscite a resistere, ma si sono anche
trovare di fronte alla necessità di ripensare il proprio
modello organizzativo, per renderlo meno dipendente dal
mercato globale e dalla trasformazione industriale,
attraverso la strada della multifunzionalità agricola
(Wilson 2007) che permette la differenziazione delle fonti
di reddito. Le nostre recenti ricerche iniziate dal 2012 in
diverse aree della Sardegna ed ancora in corso (cfr. nota
1), mostrano che sono diverse le aziende pastorali
collocabili all’interno del fenomeno di riemersione del
modello contadino di cui parla Ploeg (2008; Meloni e
Farinella 2015)
Dall’analisi delle storie di vita degli allevatori e dalle
etnografie su casi aziendali specifichi, è emerso che le
102
aziende analizzate hanno proceduto a diverse innovazioni,
spesso anche utilizzando gli incentivi e le opportunità
legislative a disposizione: hanno acquistato i terreni (ad
esempio con la Legge sulla piccola proprietà) e proceduto
a miglioramenti fondiari (aumento della superficie irrigua
del pascolo), hanno costruito le stalle per gli animali,
comperato le mungitrici meccaniche, i refrigeratori per il
latte ed altre attrezzature per accelerare il lavoro agricolo,
hanno migliorato le tecniche di cura del bestiame,
stimolati dall’opportunità di accedere ai contributi sul
benessere animale (asse 2 del PSR)5. Molte di esse hanno
smesso di conferire agli industriali per ritornare alla
trasformazione diretta del latte, con il recupero di tecniche
di lavorazione a mano (Salis 2013) e la costruzione di
minicaseifici aziendali (grazie all’introduzione di nuove
tecnologie che, come accaduto per le piccole imprese
manifatturiere dei distretti industriali, rende competitiva la
produzione artigianale, Meloni e Farinella 2013). I
formaggi realizzati, prevalentemente a latte crudo, sono
fortemente destandardizzati e territorialmente connotati, si
qualificano e si distinguono per aspetti come la qualità del
pascolo, il periodo di mungitura, il tipo di lavorazione
eseguita (spesso certificata da appositi marchi
riconosciuti, come la DOP, Slow Food, il biologico).
5
Fenomeni analoghi sono stati sottolineati anche da altre ricerche che hanno avuto
per oggetto la Sardegna, in particolare cfr. tra gli altri cfr. dda, Pulina e Furesi 2010;
Mannia 2014.
103
Molte aziende hanno poi avviato strategie di
multifunzionalità: dall’approfondimento delle attività (con
la chiusura della filiera produttiva tramite trasformazione
e vendita diretta), all’ampliamento (con lo spostamento
verso attività no-food che privilegiano la produzione di
ruralità e di beni collettivi), fino al riposizionamento, con
diverse meccanismi di integrazione e diversificazione del
reddito, basate su pluriattività ed economie di reciprocità.
Il rafforzamento delle attività multifunzionali ha il duplice
obiettivo di permettere la diversificazione delle fonti di
reddito (diminuendo la dipendenza dal mercato delle
commodity) ed abbassare i costi aziendali. Tra le attività
avviate a questo scopo si ritrovano l’autoproduzione di
energia pulita tramite impianti fotovoltaici, la coltivazione
di foraggere per integrare l’alimentazione degli animali,
l’affiancamento all’allevamento ovino di altre forme di
allevamento, la trasformazione del formaggio e/o di
servizi rurali di vario tipo, mercificabili e non, come le
attività agrituristiche, le fattorie didattiche, i servizi di pet
therapy o di agricoltura sociale, il mantenimento della
biodiversità e la cura del paesaggio.
Le innovazioni sono state realizzate conservando la
caratteristica peculiare ed identitaria dell’allevamento
sardo che individua un vero e proprio vantaggio
comparato rispetto ad altri territori: il sistema di
allevamento estensivo e diffuso sul territorio, basato sul
pascolamento a cielo aperto con integrazione di erbai.
104
Questo modello estensivo di allevamento ha diversi pregi:
-
-
-
-
funge da presidio del territorio, caratterizzandolo
sul piano paesaggistico;
sta
contribuendo
a
creare
una
nuova
complementarità tra pastorizia ed agricoltura, come
rilevato dall’ultimo censimento dell’Agricoltura
che registra per la Sardegna un incremento della
superficie media aziendale, accompagnato dalla
crescita delle superfici dedicate a pascolo
permanente
e
delle
colture
connesse
all’allevamento;
individua un sistema ecocompatibile sia in termini
ambientali che economici; si tratta infatti di un
modello adatto alle aree marginali ed interne
(abbandonate dall’agricoltura “moderna”), in
quanto parsimonioso nel consumo di risorse;
coniugando l’attività di allevamento col rispetto
dell’ambiente, può essere una risposta antica a
problemi del futuro ed individua un vantaggio
competitivo naturale della Regione (Meloni 2011);
nelle zone più collinari e montane, dove il pascolo
è più ricco e variegato, il pascolamento a cielo
aperto permette una elevata qualità del latte,
materia d’elezione per la produzione di formaggi
particolarmente pregiati a latte crudo.
Le aziende studiate valorizzano appieno le caratteristiche
del modello di allevamento estensivo, aiutando a
105
preservare la biodiversità dei pascoli e dei prodotti,
l’omologazione della produzione ed ad avviare strategie di
competizione basate sulla distinzione qualitativa (Ploeg
2008), legata ad aspetti come le specificità territoriali e
l’identificabilità d’origine dei prodotti, la qualità
organolettica, i contenuti di innovazione, ma anche di
expertise artigianale. Questi fenomeni sommariamente
descritti presentano tratti analoghi a quanto sta avvenendo
in molte agricoltura europee in risposta alla crisi ed alla
contrazione dei redditi, in cui sono centrali i processi di
differenziazione e la pluralità delle culture produttive, la
multifunzionalità dell’agricoltura e la sua capacità di
creare beni collettivi e attività no-food, rapporti diretti tra
produzione e consumo, fondati su alternative food
network, filiere corte e territorializzate (Renting, Marsden
e Banks 2003; Farinella e Meloni 2013), così come i
circuiti di reciprocità, l’autoconsumo, la pluriattività e
l’economia informale e domestica (che creano valore
“vivo” e reale in azienda). I “nuovi contadini” sono
spesso piccole imprese agricole, a vocazione artigianale e
conduzione familiare, auto-organizzate che massimizzano
la resa del capitale lavoro e ecologico, attraverso un
ancoraggio nella produzione del reddito complessivo
dell’attività aziendale al territorio che riduce la
dipendenza dal mercato globale sia per il reperimento
degli input (autoproduzione, laddove possibile, dei fattori
di produzione) che per gli output (costruzione di canali
diretti di vendita con i consumatori che bypassano il
mercato convenzionale).
106
Continuano tuttavia a persistere difficoltà di
commercializzazione perché un’elevata qualità del
prodotto non apre in modo automatico adeguati mercati di
sbocco. Da un lato, quando queste aziende si rivolgono a
quelli convenzionali della GDO, finiscono per restare
schiacciati da quella competitività di costo; dall’altro non
sempre riescono a inserirsi in filiere corte e di qualità o sui
mercati locali. Come sottolineano i diversi casi aziendali
raccolti, la capacità di trovare uno spazio sul mercato è
legata non tanto alla genuinità della produzione ed al suo
grado di innovatività, quanto piuttosto alle storie personali
dei singoli produttori. Nei casi analizzati è stata riscontrata
la presenza di un soggetto, un familiare o il conduttore
stesso, con particolari attitudini relazionali che
sopperiscono alla mancanza di skill manageriali e che lo
portano a costruirsi il mercato di riferimento lentamente,
pezzo per pezzo, con un procedere per tentativi ed errori.
Un tale sistema è sicuramente inadeguato a supportare la
crescita del settore, perché si fonda esclusivamente sulla
sporadica capacità dei singoli di attivare iniziative
personali.
Tuttavia la scelta della multifunzionalità agricola esprime
l’importanza che queste aziende assegnano alla necessità
di sganciare una parte del reddito aziendale dalla volatilità
del mercato globale, per ancorarla a processi reali,
territorialmente localizzati e inseriti all’interno di un sistema
di relazioni fiduciario e consolidato. Si tratta ovviamente di
una lotta per l’autonomia che, per usare le parole di Ploeg,
107
richiede un grande impiego di lavoro vivo, da parte di tutto il
nucleo familiare, così come l’attivazione di diverse forme di
compensazione (in cui figurano il lavoro non monetarizzato
dei membri, la produzione per l’autoconsumo e lo scambio
di reciprocità, così come le integrazioni derivanti da altre
fonti di reddito, come sussidi, pensioni, ecc.).
Per questi motivi, anche a causa dell’assenza di politiche
finalizzate alla promozione ed al supporto della
multifunzionalità, queste aziende sono spesso a rischio di
disattivazione, pur presentando degli alti livelli qualitativi.
In conclusione, sebbene con qualche difficoltà, si sta
lentamente assistendo alla nascita di un nuovo sistema
agropastorale, diverso da quello tradizionale, secondo un
modello in cui l’allevamento estensivo e stanziale è centrale,
ma viene sostenuto anche dalle attività agricole di
trasformazione delle foraggere realizzante dentro la stessa
azienda.
La trasformazione dell’agricoltura da cerealicola per il
mercato e l’autoconsumo a foraggera per l’allevamento
zootecnico costituisce l’elemento più interessante di questa
evoluzione produttiva, in quanto permette un adattamento
dinamico: essa individua un’integrazione dei pascoli
naturali, che garantisce, tramite le rotazioni, il mantenimento
degli spazi pascolabili e il contenimento della macchia
mediterranea, riproponendo in termini mutati il rapporto tra
agricoltura e allevamento, caratteristico del sistema
tradizionale. Il modello agropastorale attuale evidenzia
108
così una elevata capacità adattiva e si dimostra
particolarmente resiliente.
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Wilson G.A. 2007
Multifunctional Agriculture. A transition theory perspective,
Cromwell Press, Trowbridge, UK.
116
Prof. Mohamed Habib Jemli, Ecole Nationale de
Médecine vétérinaire Tunisie
117
L’agriculture en Tunisie et les possibilités de
partenariat avec la Region Autonome de
Sardaigne
Prof. Mohamed Habib Jemli, Ecole Nationale de
Médecine vétérinaire Tunisie
Dott. Abdelbaki Rouabeh, UGMVT
Agriculture en Tunisie:
L'agriculture en Tunisie est un secteur économique très
important. Il génère 8,5 % du PIB national et assure 15 %
des emplois.
Les principales productions agricoles du pays sont:
les céréales (blé et orge),
les olives,
les agrumes pour le secteur végétal
les dattes et
- et les ovins pour le secteur animal.
La filière oléicole et la filière phoenicicole sont en grande
partie tournées vers l'exportation.
118
Dans l’antiquité, la Tunisie était souvent appelée « le
grenier de Rome », pays d’une grande richesse agricole et
surtout en production de céréales.
Caractéristiques foncières
Les terres à vocation agricole couvrent une superficie de
l’ordre de 10 millions d’hectares réparties ainsi : cinq
millions d’ hectares de terres labourables, utilisées en
majorité pour les grandes cultures et l’arboriculture, quatre
millions d’hectares de parcours naturels utilisables par
les cheptels et un million d’hectares de forêts ou garrigues.
Les terres labourables sont pour leur immense majorité
des terres privées exploitées par 516 000 agriculteurs. La
taille moyenne des exploitations est de 10,2 hectares mais
il existe une grande hétérogénéité autour de cette
moyenne : 54 % des exploitations disposent de moins de
cinq hectares et détiennent 11 % des superficies agricoles
alors que 3 % seulement font plus de cinquante hectares et
possèdent 34 % des surfaces.
Les surfaces équipées pour l’irrigation sont de 420 000
hectares. Bien que ne représentant que 8 % de la surface
agricole utile, ce secteur irrigué contribue à 35 % de la
valeur agricole totale.
119
Principales productions agricoles
La structure de la production est dominée par l'élevage,
suivi par l'arboriculture (olives, dattes, agrumes), le
maraîchage et les céréales.
Huile d’olive
En 2014, l'oliveraie occupe plus de 1,8 millions d'hectares,
pour 80 millions d'oliviers, soit plus du tiers des terres
labourables du pays. La Tunisie est classée au deuxième
rang, après l'Espagne, avec près de 20 % de la superficie
mondiale oléicole. Sur la décennie 2003-2013, la Tunisie a
produit en moyenne 169 500 tonnes d’huile d’olive, ce qui
la situe au quatrième rang mondial après l’Espagne,
l’Italie et la Grèce. En 2015, la production s’éleva à
350 000 tonnes, ce qui situe la Tunisie à la deuxième place
mondiale des pays producteurs d'huile d'olive après
l'Espagne. Pour la campagne 2015-2016, la production de
l’huile d’olive est estimée à 150 000 tonnes. La principale
raison de cette baisse est le manque de pluies. La
production ne va pas s'améliorer en 2016-2017 puisqu'on
s'attend à une baisse de 29 % par rapport à l'année
précédente soit une production de 100 000 tonnes. La
baisse est cependant générale parmi les grands
producteurs mondiaux d'huile d'olive.
120
310 000 exploitants agricoles sont concernés par cette
production, ce qui souligne son importance économique et
sociale. Adapté aux conditions climatiques de la Tunisie,
l’olivier à huile génère entre vingt et quarante millions de
journées de travail par an. La Tunisie a exporté 129 000
tonnes d’huile d’olive en moyenne sur la décennie 20032013. En 2015, 311 000 tonnes sont exportées, ce qui situe
le pays au premier rang mondial dans ce domaine. On peut
souligner que 120 000 hectares d’oliviers sont conduits
en agriculture biologique, ce qui ouvre de nouvelles
perspectives en matière d’exportation.
L’oliveraie tunisienne compte environ 140 variétés et
écotypes locaux d'oliviers. Les deux principales variétés
d'oliviers à huile sont le Chemlali, qui occupe près de
85 % de la superficie oléicole, principalement dans le
Centre et le Sud du pays, et le Chétoui qui occupe près de
15 % de la superficie oléicole, principalement dans le
Nord.
Les principales variétés d'oliviers de table sont la variété
Meski (62 % des plantations d'oliviers de table), la
variété Picholine (14 % des plantations) et la variété Beldi
(11 % des plantations).
121
L'huile d'olive tunisienne doit être labellisée officiellement
à partir de 2016. Les producteurs qui veulent obtenir ce
label doivent remplir les critères du cahier des charges et
se soumettre à l'ensemble des procédures d'habilitation et
de contrôle relatives à ce label.
Céréales
Les céréales occupaient 1,4 millions d’hectares en
moyenne. Elles sont représentées essentiellement par
le blé dur et l’orge, et dans une moindre mesure par le blé
tendre. Il s’agit en grande majorité d’une production de
type pluvial ; seuls 100 000 hectares peuvent bénéficier de
l’irrigation en cas de sécheresse. Les rendements sont
étroitement dépendants des aléas climatiques, et donc très
variables. La production totale a été de 23 millions de
quintaux pour la campagne 2013-2014, mais seulement de
13 millions pour la campagne 2014-2015 où les conditions
climatiques ont été beaucoup plus défavorables.
Bien qu’occupant près du tiers de la surface agricole utile,
les céréales ne contribuent en moyenne qu’à hauteur de
13 % à la valeur ajoutée agricole. La production céréalière
ne couvre pas les besoins du pays, le taux de couverture
étant de 40 % en année moyenne. Les importations de
céréales sont coûteuses en devises pour le pays.
122
Agrumes
Les superficies consacrées aux agrumes sont de 23 600
hectares. En 2013-2014, la production a été de 330 000
tonnes dont 39 % d’oranges de la variété maltaise.
Le cap Bon, avec plus de 70 % de la production est la
première région agrumicole du pays. Le marché local
absorbe 80 à 90 % de la production ; le reste est exporté,
essentiellement des maltaises qui sont appréciées sur les
marchés européens et notamment français. Cependant, la
Tunisie subit une forte concurrence des agrumes
d’Espagne et du Maroc et on a observé un recul des
exportations au cours des dernières années.
Dattes Le palmier dattier occupe une superficie de
l’ordre de 41 000 hectares, pour un effectif total de 5,5
millions de pieds dont 66 % de deglet nour. La
phoeniciculture est pratiquée par 60 000 exploitants sur de
petites structures : 50 % des exploitations font moins de
0,5 hectare et 24 % disposent d'une superficie comprise
entre 0,5 et 1 hectare. Les palmeraies se situent
principalement dans les gouvernorats de Kébili
(58 %), Tozeur (21 %), Gabès (16 %) et Gafsa (5 %). La
production a atteint 196 500 tonnes en 2013.
123
Pour la saison 2015-2016, la Tunisie exporte 100 800
tonnes de dattes pour une valeur totale de 423,3 millions
de dinars, se plaçant à la première place mondiale des
pays exportateurs en valeur. La première destination des
dattes tunisiennes est l'Europe occidentale avec 37 800
tonnes.
Vignes
Le vignoble tunisien a une double finalité : la production
de raisin de table et la production de raisin de cuve. Pour
la campagne 2013-2014, la récolte de raisin de table
cultivé sur 11 000 hectares environ est estimée à 137 000
tonnes. La production de vin élaboré à partir de 9 750
hectares de vignes est estimée à 270 000 hectolitres.
Le vin tunisien est un vin d’excellente qualité pouvant
générer des recettes non négligeables à l’exportation. Par
exemple, en 2009 où 40 % de la production est exportée,
les recettes d’exportation atteignent 40,4 millions
de dinars. 70 % de ces vins sont des vins d’appellation
d’origine contrôlée (AOC) dont 20 % bénéficient de la
mention « premier cru ».
124
Cultures maraîchères
Les cultures maraîchères occupent une superficie de
167 000 hectares répartis sur 90 000 exploitations. La
production moyenne entre les campagnes 20092010 et 2013-2014 est estimée à 3,2 millions de tonnes.
Elle représente 16 % de la valeur de la production agricole
totale du pays. Les espèces les plus cultivées sont
la tomate (39 % du tonnage produit), la pastèque et
le melon (15 %),
l’oignon (12 %),
la pomme
de
terre (11,5 %) et le piment (10 %).
La tomate est cultivée sur 29 000 hectares qui produisent
1,2 million de tonnes environ. Il s’agit essentiellement de
tomate de plein champ, mais une partie est cultivée
sous serres froides ou sous serres chauffées par les eaux
géothermales dans le sud du pays. Ces dernières ont une
qualité gustative spécifique, très appréciée du
consommateur du fait du microclimat et de la composition
minérale des eaux de la région. Les exportations
demeurent faibles, mais enregistrent une hausse régulière.
En 2016, elles sont de l’ordre de 15 000 tonnes.
Le piment est une culture très répandue en Tunisie (20 000
hectares) en raison de son utilisation dans la cuisine
locale. La production est de l’ordre de 340 000 tonnes;
125
une partie est consommée en frais, une autre est
acheminée vers les conserveries pour la fabrication
de harissa et une troisième est séchée pour faire de la
poudre d’assaisonnement ou de la harissa traditionnelle.
Elevage
Le secteur de l'élevage contribue, en Tunisie, à hauteur de
40% de la valeur agricole totale. Il procure plus de 51
millions
de
journées
de
travail
par
an.
A ce sujet, ce secteur constitue un important pilier de
l'économie nationale. Il joue également un rôle social et
écologique considérable.
Au fil de ces dernières années, le secteur de l'élevage
tunisien a fait état d'environ 150.000 éleveurs de bovins,
300.000 éleveurs d'ovins et de caprins ainsi que 2.300
éleveurs de camélidés.
L’élevage bovin laitier (constitué exclusivement de races
pures) est un élevage intensif avec plus 35% dans des
structures organisées e 65% chez des petits et moyens
éleveurs.
Concernant l’élevage bovin de viande ce sont ou de races
locales ou locales croisées améliorées dans un système
semi intensif.
126
L’élevage des petits ruminants est conduit d’une manière
traditionnelle dans un système d’élevage extensif dans le
centre et sud et dans un système périurbain au nord et
nord ouest.
La production nationale de viandes rouges a atteint, en
2012, une progression remarquable de 102.000 tonnes.
Parmi ces dernières «95% sont des viandes provenant des
espèces bovines, ovines et caprines et 5% des viandes de
camélidés et d'équidés».
La viande ovine est fournie par un cheptel de 4,2 millions
d'unités femelles. La race Barberine, à queue grasse
adaptée aux conditions tunisiennes, représente 65% du
cheptel national alors que la race à queue fine issue des
pays limitrophes représente 32% et la Noire de Thibar
1,8%.
Il est à noter que la production de viande rouge couvre
95% de la demande nationale.
La production de viande blanche est passée de 113 900
tonnes en 2003 à 202 700 tonnes en 2013, soit une
augmentation de 78 % en dix ans. Il s’agit pour 61 %
de poulet de chair et pour 31 % de dinde. La
consommation se situe à 18,6 kilos par habitant et par an,
127
ce qui en fait la viande la plus consommée dans le pays en
raison de son prix bien inférieur à celui de la viande rouge.
La production d’œufs est de 1,78 milliards d’unités par an.
Quant à la production laitière, elle est estimée à près de 1
milliard de litres et fait l'objet d'un programme
d'amélioration de la qualité en vue d'un alignement sur les
normes européennes, avec un projet de payement à la
qualité.
En fait, la totalité du lait stérilisé consommé en Tunisie est
un produit de l'élevage tunisien ainsi qu'une grande partie
des
produits
laitiers
:
yaourts,
fromages…
Pour la production de viande de volailles, elle est de
l'ordre de 120.000 tonnes. Le poulet est de bonne qualité
et est apprécié autant par le consommateur tunisien que
par le consommateur étranger.
Passons à l'élevage d'escargots dont 95% de la production
totale ramassée est destinée à l'exportation sous forme
d'escargots vivants ou de chair d'escargot, congelée.
En outre, les exportations tunisiennes d'escargots ont
atteint une moyenne d'environ 420 tonnes par saison. Il y a
lieu de noter que la collecte en Tunisie reste la principale
source d'approvisionnement en escargots.
128
Finalement, il faudrait mentionner aussi le secteur de
l'élevage apicole qui compte 12.000 apiculteurs avec
163.000 ruches produisant en moyenne 1.750 tonnes de
miel. Notre pays exporte en moyenne 1,2 tonne de miel
par an particulièrement vers les pays voisins (Algérie,
Libye).
Pêche :
Les côtes tunisiennes s'étendent sur 1350 Km;
Il existe 41 ports de pêche (un port tous les 30 Km en
moyenne);
La flottille est constituée de:
Plus de 10 mille barques côtières dont la moitié équipée de
moteurs
875 embarcations pour la pêche en haute mer.
La main d'œuvre active dans le secteur de la pêche est
d'environ 60 mille personnes ;
La production halieutique est estimée à 105 000 tonnes
dont:
-
24 000 tonnes proviennent de la pêche côtière;
22 000 tonnes de la pêche au chalut;
129
-
51 000 tonnes de la pêche aux poissons bleus.
Industries agroalimentaires Le secteur des industries
agroalimentaires contribue à 3 % du PIB et à 20 % de
la valeur ajoutée industrielle. En 2012, il compte 1 063
entreprises employant dix personnes et plus. Parmi elles,
201 sont totalement tournées vers l’exportation. 115 sont
réalisés en partenariat, c’est-à-dire avec des capitaux
étrangers dans leur capital. L’ensemble de ces entreprises
emploient plus de 72 000 personnes, soit 14 % des
emplois manufacturiers du pays. Il s’agit en majorité
de petites et moyennes entreprises, mais il existe
également de grands groupes. Elles sont réparties sur le
territoire national, avec toutefois une localisation plus
importante sur le littoral proche des grands centres de
consommation. Les branches les plus importantes sont les
céréales et dérivés, les huiles et corps gras et les fruits et
légumes. Le secteur des industries agroalimentaires
connaît une croissance relativement élevée de l’ordre de
6 % par an entre 2008 et 2012. Ceci s’explique par
l’accroissement de la demande intérieure et
l’augmentation des exportations des produits transformés.
Le gouvernement a élaboré une stratégie de
développement de l’industrie agroalimentaire. Cette
stratégie repose sur les axes suivants:
130
Libéralisation progressive du commerce des intrants et des
produits finis;
Augmentation et diversification de la production
agroalimentaire, afin d’accroître la valeur ajoutée du
secteur et de satisfaire les besoins du marché, aussi bien
intérieur qu’international;
Modernisation et restructuration du secteur par la mise à
niveau des entreprises, l’introduction de nouvelles
technologies et la promotion de la qualité.
Echanges agricoles par produit en 2013
Principaux produits exportés
Valeur (millions de dinars*)
Huile d’olive
820,2
Poissons, crustacés et
mollusques
223,7
Dattes
379,9
Agrumes
19,0
Principaux produits importés
Valeur (millions de dinars)
Céréales
1657,7
131
Huiles végétales
459,5
Sucre
303,0
Tourteaux de soja
91,3
*1Euro = 2,6 dinars tunisiens
B-Environnement de partenariat Italie-Tunisie
Les investissements italiens en Tunisie représentent 14,4%
de l'ensemble des investissements directs extérieurs dans
le pays. Ceci positionne l'Italie comme le second
partenaire commercial de la Tunisie.
La Tunisie offre de nombreuses opportunités, on peut
s’apercevoir qu’il y a déjà énormément de petits et
moyennes entreprises (PME) italiennes présentes en
Tunisie, concentrées essentiellement sur les secteurs du
textile, agroalimentaire, électricité, mécanique, du cuir et
chaussures
La proximité géographique, et la main d'œuvre qualifiée à
un coût raisonnable sont des facteurs qui ont fait de la
Tunisie le pays méditerranéen où l’économie italienne
compte le plus grand nombre d’entreprises implantées
(environ 800) et plus de 40.000 tunisiens salariés.
L’environnement politique en Tunisie est jugée comme
stable et qui présente, par conséquent, un risque
132
d’investissement minime ; puis sur le constat que la
spécialisation de production tunisienne est très similaire à
celle du système italien ; et enfin parce que l’industrie
italienne occupe en Tunisie une des premières positions en
terme de capacité d’internationalisation.
Les relations économiques et commerciales bilatérales
entre l’Italie et la Tunisie sont régulées par accords
bilatéraux et européens d’entreprenariat. Ces avantages
que présente la Tunisie attirent les entreprises et les
investisseurs italiens dans notre pays, et cet intérêt pour
notre territoire ne cesse de s’amplifier dans l’espoir de
voir naître des projets communs en élevage et la
transformation de ces produits (lait).
L’élevage n’a pas attiré beaucoup d’investisseurs italiens,
nous espérons que la région de Sardaigne sera au premier
rang d’investissement dans l’élevage en Tunisie ; par le
transfert de sa technologie laitière et de son système
pastoral sarde, dans différentes régions de la Tunisie.
Par ailleurs, cette coopération s’est renforcée ces dernières
années par la création de projets européens en commun
tels :
Le projet Italie-Tunisie sur la pêche artisanale qui avait
pour but le développement socio-économique et
intégration régionale des territoires avec une action
conjointe finalisée au développement, à la qualification et
133
à l’intégration de la filière de la pêche artisanale et du
tourisme en Italie et en Tunisie.
Ce projet a été cofinancé dans le cadre du programme
Instrument Européen de Voisinage et de Partenariat
(IEVP) – Coopération Transfrontalière (CT)-ItalieTunisie-2007-2013.
Le Projet intégré pour la protection du lac de Bizerte
contre la pollution. A travers une approche intégrée luttant
contre les sources de pollution, le projet vise à réhabiliter
l'environnement et la qualité de l'eau du lac de Bizerte
grâce à des efforts de dépollution et l'amélioration de la
vie aquatique, ainsi que les conditions de vie des
populations environnantes. Ce projet va durer six ans à
partir de 2016. ll est cofinancé par l’UE et l’Union pour la
méditerranée.
Prochainement, une occasion se présentera aux
investisseurs italiens pour rencontrer leurs homologues
tunisiens au forum d’investissement du 29 au 30
novembre 2016.
Relations de partenariat entre la Tunisie et la région
autonome de Sardaigne (Sassari) dans le domaine
vétérinaire
Historique:
Depuis le congrès vétérinaire mondial tenu en 2002 à
Tunis, une collaboration scientifique s’est tissée entre les
134
vétérinaires tunisiens et sardes par la réalisation du
premier congrès Femesprum* à Tunis en 2002.
(*Federación Mediterránea de Producción y Sanidad de
Rumiantes)
Entre 2004 et 2009, plusieurs activités de collaborations
ont été réalisées, entre les deux partenaires, basées
essentiellement sur:
des visites bilatérales de vétérinaires, d’étudiants et
d’universitaires.
La formation de 2 vétérinaires tunisiens en thèse
d’université (PhD) à Sassari.
L’appui technique de la région de Sassari à une
association d’éleveurs de brebis laitières à Béja.
Année 2016 :
Les activités de coopération ont repris par la visite d’une
délégation italienne à l’Ecole Nationale de Médecine
vétérinaire de Sidi Thabet et dans la région de Kairouan en
mars 2016. Deux mois après, Mr. Le Doyen de la faculté
de médecine vétérinaire (Université de Sassari) a participé
à une journée internationale à Tunis sur le concept de
l’OIE «Un Monde, Une Santé».
En juin 2016, une délégation tunisienne avait visité
plusieurs organismes à Sardaigne. Elle a eu l’honneur de
135
rencontrer Monsieur Le président de la région autonome
de Sardaigne.
Plusieurs projets de collaboration ont été discutés lors de
cette visite, nous signalons particulièrement:
Un projet de jumelage de l’enseignement vétérinaire entre
l’Ecole Nationale de Médecine vétérinaire de Sidi Thabet
(Tunisie) et la faculté de Médecine Vétérinaire de Sassari
est inscrit actuellement à l’OIE.
Un avant projet méditerranéen, par le biais de l’instrument
européen de voisinage, est encours d’élaboration entre
l’Italie (Sardaigne), la Tunisie, l’Egypte et l’Algérie.
Et l’inscription de quelques étudiants
tunisiens à la faculté vétérinaire de Sassari.
vétérinaires
Projets futures :
Les deux partenaires vétérinaires tunisiens et sardes sont
entrain de travailler sur plusieurs projets porteurs dans le
domaine de l’élevage des petits ruminants et le
développement de la filière lait en Tunisie.
Conclusion
Lors de cette phase de transition démocratique, la Tunisie
passe par une conjoncture politique et économique
difficile qui a une répercussion directe sur l’emploi des
jeunes et en particulier les diplômés du supérieur. Ces
136
derniers vont essayer de migrer de certaines régions de
l’intérieur principalement vers la capitale et les régions
côtières plus attrayantes faute d’emplois locaux.
L’élevage est un secteur porteur d’emploi et peut être une
solution intéressante pour la Tunisie à travers une
coopération solide avec nos partenaires sardes.
137
Dott. Martino Scanu, Presidente CIA Sardegna
138
Latte, cereali, carne, ortofrutta: crisi di mercato
e crollo dei prezzi
Dott. Martino Scanu, Presidente CIA Sardegna
Nonostante alcuni deboli segnali di ripresa del PIL,
l’andamento economico altalenante dimostra e sottolinea
come gli effetti negativi della profonda crisi economica e
finanziaria di questi ultimi anni, stentano a tramontare.
La caduta del prodotto interno loro nel periodo di crisi
2008/2015 ha determinato una forte contrazione
dell’economia del Paese, con pesanti ripercussioni anche
sulla Sardegna.
Gli effetti della crisi di questi anni sono ben lontani
dall’essere riassorbiti, sia a livello nazionale che a livello
sardo. In questo quadro economico non entusiasmante le
prospettive della Sardegna lo sono, purtroppo, ancora
meno.
Le esportazioni agricole della Sardegna nel 2016
rimangono in contrazione, secondo i dati ISTAT.
Permangono le difficoltà del sistema economico regionale
nell’espandere la propria presenza sui mercati
internazionali, al netto del settore petrolchimico.
L’attività agricola regionale in questi anni ha operato in
condizioni difficili, aggravati da limiti strutturali e
organizzativi che connotano l’offerta agricola, dalle
difficoltà socio-economiche e dai ritardi infrastrutturali
139
che condizionano i collegamenti dell’Isola con il resto del
Continente europeo.
Tutto ciò condiziona negativamente lo sviluppo
competitivo del settore agro-alimentare. In questo quadro
il crollo dei prezzi, dal latte al frumento, dalle carni
all’orto-frutta, allarga sempre più la forbice tra costi e
ricavi.
I prezzi riconosciuti alle nostre produzioni sono quasi
dimezzati rispetto a un anno fa e la speculazione selvaggia
e l’import in costante aumento dimostrano che il governo
dei mercati è tendenzialmente orientato al raggiungimento
dell’obiettivo: smantellare i prodotti di qualità riconosciuti
come quelli isolani e nazionali.
Sardegna import – export alimentari anni 2010_2015 - dati
ISTAT (€.000)
Anno
2010
2011
2012
2013
2014
2015
Esportazioni
2.872
4.554
4.356
6.321
7.929
8.372
Importazioni
119.243
171.574
154.687
141.759
163.412
175.319
Saldi
116.371
167.020
150.331
135.438
155.483
166.947
140
I produttori agricoli sono in piena crisi e coinvolti tutti,
cerealicoltori, allevatori, ortofrutticoltori, senza eccezione
alcuna.
Il tracollo dei prezzi alla produzione e l’aumento a
dismisura del valore di vendita al dettaglio rende la
differenza insostenibile, ciò è maggiormente evidente in
produzioni come il grano dove 100 kg di grano hanno pari
valore a 5 kg di pane: ciò è surreale e fuori
dall’immaginario collettivo.
Alcuni esempi colti nella provincia di Cagliari di seguito
narrati sono esplicativi:
- grano duro, nella piazza di Cagliari periodo luglio 2016 è
pagato una media di 20-21 €/q.le contro i 32 €/q.le
registrato nel 2015, con una perdita netta di 12 €/q (-33%).
In Sardegna nel 2016 sono stati coltivati 42.000 ettari di
grano con una resa media di circa 29 q.li/ha , per una
produzione totale 1. 218.000 q.li; a prezzi 2015 le aziende
cerealicole avrebbero realizzato 38.976.000 euro, a prezzi
2016 realizzeranno 24.360.000 euro con una perdita netta
di 14.616.000 euro;
- il latte ovino è prodotto in Sardegna da 3.500.000 capi
distribuiti in circa 13.000 aziende. Il comparto ovino
regionale ha una produzione media annua di 350.000.000
litri di latte che pagati al prezzo medio praticato alle
aziende pastorali nella stagione 2014-2015 raggiunge un
valore complessivo 367.500.000 di euro, il quale, ripartito
tra le aziende produttrici ha consentito di realizzare una
PLV di 28.270 euro. Nella stagione 2015-2016, causa la
mancata invernalità, si è stimato da più parti una presunta
141
crescita delle quantità di latte prodotto di circa il 30% che
tradotto in produzione reale significa circa 455.000.000 di
litri con un aumento di 105.000.000 rispetto alla stagione
precedente (le stime sono elaborate sulla base delle
dichiarazione del Consorzio di Tutela del Pecorino
Romano in sede di approvazione di bilancio consuntivo al
31/12/2015). È noto il comportamento del mercato che ha
registrato, a partire dal mese di febbraio, una riduzione del
prezzo del formaggio pecorino di circa il 29% passando da
9.20 €/Kg a 6.50 €/kg e tornando alla situazione di
mercato del luglio 2013 che pagava il pecorino a 6.56
€/kg. Tale andamento, caratterizzato da un eccessivo
rallentamento della commercializzazione gestita dagli
acquirenti, per tenere i magazzini pieni ed imporre un
ulteriore flessione del prezzo, ha giustificato la
preoccupazione dei trasformatori e la richiesta avanzata
agli allevatori di procedere alla sola mungitura mattutina,
per contenere la produzione di latte ed evitare livelli di
difficoltà tali da rendere insostenibile la trasformazione. In
questo quadro il prezzo del latte riconosciuto agli
allevatori si attesta mediamente a 0,82 €/litro (la stima del
valore è fatta sulla base di fatture pervenute ai CAF,
accompagnate dalla comunicazione fatta dai trasformatori
ai produttori di latte);
- Il mercato dell’orto-frutta, dagli agrumi alle albicocche,
dai fagiolini ai pomodori, melanzane e altre, è
fondamentalmente dominato dalle produzioni che arrivano
soprattutto dalla Spagna. Il consumo relativo alle
produzioni isolane non è superiore a una media del 30%,
142
con una ulteriore riduzione segnalata nel sassarese che
arriva fino al 18%. I prodotti isolani, nonostante la scarsa
rilevanza della loro presenza, sono stati spinti verso valori
commerciali sempre più bassi, rendendo le loro produzioni
insostenibili. Di fatto i prodotti isolani nel 1°semestre
2016, rispetto a quanto pagato nello stesso periodo del
2015, hanno subito una perdita sia nelle quantità che nel
prezzo pari a circa il 36%.
Andare oltre si può.
In Sardegna manca da un ventennio almeno una seria
politica di programmazione delle diverse produzioni
agricole.
Si rende necessario riorganizzare il settore primario
attraverso alcune misure importanti e indispensabili:
STRUMENTI DI GESTIONE E RIORGANIZZAZIONE DELLA
PRODUZIONE
Affrontare il problema dell’organizzazione della
produzione, fortemente polverizzata, affinché sia in grado
di esprimere un’offerta coordinata e di utilizzare gli
strumenti di copertura dei rischi di prezzo (per altro già
esistenti: futures, mercati a termine, contratti a prezzo
chiuso, ecc.) col fine di rafforzare la struttura economica
dell’offerta, in particolare delle Op e Aop, è un passo
obbligato. Per cui si auspica che si proceda a:
favorire
la
nascita
delle
interprofessionale (O.I.) in tutti
143
organizzazione
comparti più
rappresentativi del settore primario. L’O.I. si può definire
come uno strumento di autodeterminazione, si costituisce
e sviluppa per prodotti specifici (anche Dop e Igp), con lo
scopo di migliorare la conoscenza e la trasparenza della
produzione e del mercato; contribuire ad un efficace
coordinamento dell'immissione sul mercato dei prodotti,
in particolare attraverso ricerche e studi; accrescere la
valorizzazione, nell’ottica di un’equa ripartizione del
valore tra i soggetti della filiera; concorrere in modo
determinante alla costruzione di strumenti di
stabilizzazione dei prezzi e dei mercati;
- attivare i piani di settore nei quali, per i diversi comparti
di produzione, sia delineata una seria strategia di difesa,
valorizzazione e ampliamento delle produzioni, in
funzione del superamento del deficit produttivo
denunciato dalla bilancia Import-Export dei prodotti
alimentari, vedasi la tabella sopra riportata, ma anche
orientati verso nuovi sbocchi di mercato;
- sostegno alla logistica, nei centri di stoccaggio, nella
trasformazione per la creazione di valore aggiunto,
andando anche oltre le azioni contenute nel PSR 20142020, essendo evidente la loro insufficienza.
STRUMENTI DI GOVERNO ECONOMICO, DI CREDITO E DÌ
FINANZA:
- potenziamento delle funzioni da attribuire alla SFIRS per
lo sviluppo d’interventi finanziari in agricoltura,
supportati dal fondo regionale di rotazione da costituirsi e
144
dal F.do Regionale di Garanzia, per favorire l’accesso al
credito a breve e medio termine. Alla SFIRS è richiesta la
gestione diretta dei fondi a supporto delle aziende agricole
che soffrono la mancanza di liquidità derivante dalle
condizioni di mercato : in considerazione delle gravi
ristrettezze imposte alle imprese agricole dal sistema
bancario e creditizio; quale strumento fondamentale per
rimettere nel circuito economico risorse finanziarie: ad
esempio attraverso l’anticipazione dei pagamenti derivanti
da impegni delle aziende agricole rispetto alla PAC e PSR
come avviene nel Veneto ad esempio; gestione le risorse
dei fondo di mutualità a garanzia del rischio;
- favorire la creazione di nuovi strumenti assicurativi,
anche potenziando le funzioni dei Consorzi di Difesa, che
necessariamente vanno riformati, in funzione della tutela
dei produttori dalle crisi di mercato e della stabilizzazione
del reddito (Reg.(UE) 1305/2013 art.39). Va istituito il
fondo finanziario a partecipazione pubblico/privata;
-garantire la capacità valorizzativa del marchio qualità
Sardegna, di recente istituzione, quale strumento
identitario, di distinzione delle produzioni, gestito dalle
imprese agricole e agroindustriali regionali;
- favorire, tra i soggetti interessati, la stipula di accordi di
filiera e contratti di coltivazione e/o di produzione, anche
utilizzando lo strumento degli accordi interprofessionali;
- favorire l’ammasso e/o il ritiro dal mercato
dell’ortofrutta, del latte, dei formaggi o di altri prodotti
eccedenti nei periodi di crisi, con un aumento dal 30 al
40% del prezzo medio calcolato dall’UE, in caso di
145
distribuzione gratuita; e dal 20 al 30% per le altre
destinazioni (questa è già la proposta della Commissione
europea, che fa seguito all’annuncio che il Commissario
Phil Hogan ha fatto ai Ministri dell’Agricoltura il 18
luglio scorso). La proposta, che vede inserito nell’elenco
di prodotti destinatari d’indennità di ritiro quasi tutte le
produzioni sensibili per la Sardegna, pesche, nettarine,
albicocche, pere e mele e il pomodoro fresco e altre, va
allargata anche alle altre nostre produzioni tradizionali,
quali, per esempio, il carciofo. La base giuridica su cui si
forma tale ipotesi è negli Articoli da 38 a 44 del trattato
sul funzionamento dell'Unione europea (trattato FUE),
regolamento (UE) n. 1308/2013 del Parlamento europeo e
del Consiglio (GU L 347 del 20.12.2013) e regolamento
(UE) n. 1370/2013 del Consiglio (GU L 346 del
20.12.2013);
- una perdita di reddito importante deriva dall’assenza di
controllo della fauna selvatica per la quale sono sostenibili
invece apposite misure di prevenzione, controllo e
risarcimento dei danni provocati alle attività degli
agricoltori dalla fauna selvatica, da pochi giorni dichiarate
espressamente ammissibili dalla Commissione europea,
nel rispetto delle condizioni fissate dagli “Orientamenti
dell’Unione europea per gli aiuti di Stato nei settori
agricolo e forestale e nelle zone rurali 2014-2020” e dal
Regolamento (UE) n. 702/2014 della Commissione del 25
giugno 2014 che dichiara compatibili con il mercato
interno, in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato
sul funzionamento dell'Unione europea, alcune categorie
146
di aiuti nei settori agricolo e forestale e nelle zone rurali e
che abroga il regolamento della Commissione (CE) n.
1857/2006, entrambi pubblicati sulla Gazzetta ufficiale
dell’Unione europea del 1° luglio 2014.
Nondimeno la Confederazione Italiana Agricoltori –
Sardegna sollecita e chiede alla Regione e al Governo
Nazionale:
- interventi urgenti per la lotta alla siccità e alla
desertificazione, compresi i collegamenti interbacino e i
collaudi per autorizzare la massima capacità di invaso
delle dighe;
- un piano finanziario straordinario per sostenere la
continuità territoriale delle merci e delle persone con la
compensazione degli svantaggi , riconosciuti dall’U.E.,
dovuti all’insularità.
Agricoltori e allevatori ! La nostra azione è volta a
recuperare il giusto reddito per un settore fondamentale
per l’economia dell’Isola, che non può che comportare
ricadute positive per il generale contesto economico e
sociale.
Per questo chiediamo al sistema Istituzionale, Regione,
Governo Nazionale e Parlamento di attivarsi per risolvere
questo difficile contesto economico che grava sugli
agricoltori e allevatori sardi, adottando misure atte a
salvaguardare e rilanciare un settore strategico per favorire
lo sviluppo dell’economia dell’Isola.
147
Sig. Felice Floris, Movimento Pastori
148
Una buona politica per uscire dalla crisi
Sig. Felice Floris, Movimento Pastori
Nel corso degli ultimi due secoli, spesso i governanti
hanno cercato di limitare e ridurre l'espansione della
pastorizia in Sardegna. Ciononostante, non ci sono mai
riusciti. Non c’è riuscita la Legge delle Chiudende. Non
c’è riuscita l'industrializzazione forzata.
La pastorizia è sopravvissuta a tutte le crisi congiunturali
ed economiche che puntualmente si sono succedute fino ai
nostri giorni.
E ha sormontato le difficoltà determinate da fenomeni
naturali, come le alluvioni e le siccità.
In Sardegna, la pastorizia esiste e resiste. Coniuga
tradizione e progetto. Costituisce un elemento
dell’immaginario collettivo sulla Sardegna e della
Sardegna. La pastorizia oggi è nello stesso tempo
tradizione, innovazione e sperimentazione.
Non solo dentro i confini dell’Isola ma anche nel
Continente.
Nelle altre regioni italiane, ciò che rimane del
pastoralismo parla sardo. I pastori sardi hanno ridato
vitalità e cura a territori spesso marginali in regioni come
l’Umbria, Lazio, Toscana, Emilia, Liguria.
149
Sul piano economico, la pastorizia crea ricchezza diffusa.
Basti pensare all’indotto che in maniera diretta o indiretta
è collegato al mondo pastorale.
Pensate a tutto ciò che gira attorno alla pastorizia: i
caseifici, i mangimifici, i trasporti, i mattatoi, il settore
meccanico e delle costruzioni fino ad arrivare al terziario.
La presenza di questo settore giustifica l’esistenza di
migliaia di posti di lavoro: veterinari, biologi, impiegati
delle ASL di enti regionali. E anche due facoltà
universitarie – quelle di Agraria e di Veterinaria - girano
attorno a questo comparto.
Chi sottovaluta questo insieme di relazioni, non è capace
di cogliere la complessità dei processi economici.
Nonostante l’importanza economica del pastoralismo, la
pastorizia in Sardegna non va misurata soltanto in termini
di punti percentuale del PIL prodotto ma anche e
soprattutto per il suo valore sociale, culturale e
ambientale.
La pastorizia produce dunque un valore più importante di
quello economico.
La pastorizia ha un inestimabile valore ambientale.
Le ventimila aziende pastorali distribuite nel territorio ne
garantiscono infatti la cura e il controllo.
150
Che cosa costerebbe alla società questo controllo? Non
soltanto è questione di tenere i terreni puliti per prevenire
gli incendi e le devastazioni, ma soprattutto conservare il
paesaggio che abbiamo costruito in secoli di lavoro nelle
campagne. Quel paesaggio non è solo il frutto della
natura, ma del lavoro dei pastori sulla natura. Quel
paesaggio è la nostra storia e la nostra cultura.
Il Pastore è il giardiniere della Sardegna. Un giardiniere
inconsapevole. Ma non per questo il suo ruolo è meno
importante.
La pastorizia ha infine un valore sociale, essa mantiene in
vita l’interno della Sardegna, i suoi paesi, offre un senso
all’esistenza di decine di migliaia di persone. E costituisce
anche un elemento fondamentale della nostra identità.
Davanti al presidente della Cina, i nostri governanti hanno
voluto mostrare le tradizioni della nostra storia pastorale.
Queste costituiscono una parte del nostro “brand” e quindi
hanno un potenziale simbolico che produce ricchezza.
Anche per questo va preservato.
Che cosa ne sarebbe dei piccoli comuni colpiti dal
continuo spopolamento senza la sopravvivenza delle
aziende pastorali? Soltanto la presenza dei pastori dà loro
una speranza di sopravvivenza.
I Pastori sono dei resistenti e rappresentano una Sardegna
che resiste e che esiste.
151
Ha resistito alla criminalizzazione operata dalle
commissioni parlamentari, come la Commissione Medici
che indagò nel 1969 sulle cause del banditismo in
Sardegna. Le conclusioni di tale commissione costituirono
uno dei fondamenti ideologici del cosiddetto Piano di
Rinascita e dell’industrializzazione della Sardegna.
Questa è oramai una storia nota. Si utilizzò il malessere
del mondo pastorale in una fase di forte espansione
demografica, per riciclare un’industria vecchia e
inquinante che ormai nessuno più voleva, un'industria che
la crisi di ristrutturazione degli anni 70 imponeva invece
di rottamare. Questa è stata una cattiva politica, costruita
contro i pastori e non per favorirne l’integrazione e il
benessere.
Al contrario, un esempio positivo di politiche per la
pastorizia è rappresentato dalla Legge De Marzi-Cipolla.
Questa legge ha trasformato profondamente la vita dei
pastori e l’economia pastorale. Ha punito la rendita
parassitaria e ha imposto ai proprietari terrieri canoni di
affitto bassi. Di fatto, obbligandoli a svendere, grazie alla
possibilità di accedere a dei mutui trentennali, i pastori
hanno potuto costruire le loro aziende mettendo fine alla
dura transumanza.
Le cose sono cambiate molto dunque. La pastorizia di
oggi è completamente cambiata rispetto a quella di
cinquanta anni fa.
152
Nonostante le profonde trasformazioni, oggi la situazione
della pastorizia non è delle migliori.
Certamente questa responsabilità non è dei pastori. Questi
hanno fatto la loro parte. Hanno trasformato le loro
aziende e hanno migliorato i sistemi di produzione.
Al contrario, è chiara la responsabilità dell’industria
casearia, sia privata che cooperativistica, nel determinare
uno stato di crisi permanente.
Le industrie private e cooperative casearie hanno
continuato a produrre in maniera statica, di fatto
costituendo una sorta di rendita parassitaria data da un
mercato drogato prima dalle restituzioni comunitarie e poi
dal basso costo del latte.
La Politica Agricola Comunitaria (PAC) non ha certo
aiutato a migliorare la situazione.
Con l’Agenda 2000, la PAC ha introdotto il cosiddetto
“premio disaccoppiato”, cioè svincolato dalla produzione.
In questo modo si sta creando nuovamente una situazione
simile a quella che precedeva la Legge De Marzi-Cipolla.
Oggi emergono nuovi proprietari che vivono di rendita
parassitaria.
Anche la più recente PAC non ha offerto alla Sardegna
tutte le opportunità che prometteva. Per la prima volta dal
dopo-guerra, la politica europea prometteva di
riequilibrare la distribuzione delle risorse a favore di
153
un’agricoltura sostenibile ed estensiva come quella sarda e
mediterranea.
Ciononostante, la Sardegna non ne ha tratto i benefici
attesi.
Anche qui c’è una precisa responsabilità delle élite
politiche e sindacali sarde.
Forse perché si accontentano di dominare in Sardegna, ma
sono subalterne sul piano nazionale. Forse perché le élite
del Nord Italia dominano sui sindacati, sui partiti e sulla
macchina amministrativa dello stato. Forse perché non
studiano abbastanza. In ogni caso, il risultato è che
scandalosamente il flusso principale delle risorse è stato
deviato ancora una volta verso le regioni del Nord.
Per concludere, è ora che emerga una buona politica
capace di correggere il tiro.
Occorre fare pressione sui governanti affinché si torni a un
aiuto legato alla produzione.
Se non conseguiremo questo obiettivo, la capacità di
sopravvivenza dei pastori si indebolirà ancora.
E la crisi della pastorizia trascinerà con sé le aree interne e
centinaia di migliaia di persone che intorno alla pastorizia
vivono.
154
I cambiamenti climatici e ambientali globali
quale impatto sull’agricoltura e sulla pastorizia
della Sardegna e quali strumenti adotta la
regione
Dott.ssa. Elisabetta Falchi, Assessore Regionale
dell’Agricoltura e Riforma Agropastorale
Premessa
I cambiamenti climatici rappresentano una importante
sfida per l’agricoltura e la pastorizia sia a livello locale
che globale. Le pratiche agricole e pastorali e le loro
produzioni quindi risentono degli effetti dei cambiamenti
climatici in atto e attesi, ma al tempo stesso rappresentano
anche una fonte di emissioni di gas serra, e pertanto
devono contribuire agli sforzi di mitigazione globali, sia
diminuendo le proprie emissioni, sia sfruttando il proprio
potenziale naturale di serbatoio di carbonio nei suoli e
nelle biomasse.
Nell’agenda politica comunitaria, le politiche di
mitigazione e adattamento disegnate per affrontare tale
sfida hanno un importante rilievo ed è nella PAC (Politica
Agricola Comune) e soprattutto nella politica di Sviluppo
Rurale che sono declinate a livello locale. Si evidenzia
quindi come tali politiche trovino localmente e quindi nel
nostro territorio regionale, naturale attuazione nel PSR
155
2014-2020 (Programma di Sviluppo Rurale) e come gli
strumenti proposti dalla programmazione regionale dal
PRS 2014-2019 (Programma Regionale di Sviluppo della
XV legislatura) possano contribuire alla mitigazione sugli
effetti del clima su agricoltura e pastorizia e come nel
contempo possano favorire la competitività delle
produzioni.
La Sardegna è in prima linea su questi temi, tanto che in
occasione della conferenza globale dell’ONU sui
cambiamenti climatici svoltasi nello scorso mese di
novembre a Marrakech, ha contribuito a sostenere la scelta
europea per un'attuazione rapida dell'Accordo stretto tra i
Governi alla COP21 di Parigi e portare la voce dei territori
per rendere la nuova governance del clima globale più
inclusiva, trasparente ed efficiente.
Obiettivo della COP22 di Marrakech, definita "la COP
dell'azione", era infatti dare struttura all'attuazione
dell'Accordo di Parigi, con il quale è stato preso l'impegno
comune di operare concretamente perché l'aumento della
temperatura del pianeta si mantenga al di sotto dei 2 gradi
da qui al 2030. Per raggiungere gli obiettivi fissati a
Parigi, gli Stati hanno bisogno di accelerare l'azione sul
clima con una strategia nuova, che abbia un approccio
territoriale al problema attraverso l'applicazione di
politiche di mitigazione e adattamento e con il
coinvolgimento in un'azione più ampia le città e le regioni,
156
che a loro volta, mettono in moto i cittadini, le aziende, le
comunità locali.
Gli impatti e le conseguenze dei cambiamenti climatici
sono problemi che pesano in maniera importante su tutta
l'area mediterranea e sono comunque correlati a quelli
ancora più urgenti della gestione dei flussi migratori, della
coesione e della sicurezza. Per affrontarli e vincerli
servono più integrazione e cooperazione: la politica euromediterranea deve andare verso un maggior pragmatismo,
che insieme ai principi e i valori condivisi tenga conto
degli interessi comuni espressi e condivisi dalle autorità
locali e regionali anche e soprattutto attraverso la
cooperazione transfrontaliera.
Il tema quindi diventa di più ampio respiro, anche in
considerazione del ruolo assunto dalla Regione Sardegna
come Autorità di gestione del Programma ENI CBC Med
che coinvolge 13 Paesi ed oltre 130 Regioni che si
affacciano sul Mediterraneo, e ci porta a ragionare sul
compito che la nostra regione può svolgere in futuro in
queste dinamiche strategiche.
Geograficamente, l’Italia, e quindi anche la Sardegna,
sono crocevia di culture e popoli e storicamente terre di
emigrazione, da anni di forte immigrazione. Il nostro è un
Paese che, in ragione dei principi costituzionali che ne
reggono l’ordinamento e per la sua natura di grande
economia di trasformazione a forte apertura esterna, è
sempre stato impegnato in favore della pace, della crescita
157
e di un sistema internazionale stabile e giusto. Il sostegno
allo sviluppo e la partecipazione attiva al dibattito sulle
nuove forme di governance globale sono strumenti
fondamentali per raggiungere questi obiettivi e per
contribuire a creare attorno al Paese un’area di stabilità
politica e di crescente benessere. Da molti anni le linee
guida della cooperazione hanno ribadito come
fondamentale il contribuito allo sviluppo nei Paesi partner,
linea che per il nostro Paese costituisce, oltre che un
imperativo etico di solidarietà, anche un investimento
strategico.
In sintesi, per svolgere pienamente questo ruolo e fare la
nostra parte come Regione dobbiamo lavorare con
attenzione ai temi sopra menzionati, costruendo politiche e
strategie regionali che derivano dagli indirizzi
programmatici europei ma che siano in grado di attivare
oltre alle risorse comunitarie, strumenti strutturali
aggiuntivi capaci di perseguire questi obiettivi.
Impatti dei cambiamenti climatici sul settore agricolo e
possibili soluzioni
L’evoluzione del clima ha conseguenze dirette sul settore
agricolo. Gli effetti variano da regione a regione e da
coltura a coltura. La crescita demografica mondiale
prevista per i prossimi decenni comporta un ulteriore
problematica
mondiale
da
affrontare
subito:
l’approvvigionamento di cibo (food security). La FAO
158
indica come necessario un incremento della produzione
agricola mondiale del 60-70% al 2050 rispetto ai livelli
produttivi attuali per soddisfare le esigenze alimentari.
I cambiamenti climatici potrebbero causare riduzioni
sensibili delle produzioni agricole, instabilità delle rese e
degradazione dell’ambiente e proprio le aree a maggior
rischio di insicurezza alimentare sembrerebbero quelle che
potrebbero subire i maggiori danni.
Il Bacino del Mediterraneo è una delle aree colpite da
questi fenomeni ed è previsto che nei prossimi anni le
condizioni per lo sviluppo e crescita delle colture
potrebbero peggiorare: l’innalzamento delle temperature,
l’aleatorietà delle precipitazioni e la maggiore richiesta
evapo-traspirativa delle colture prevista per alcune aree
sono condizioni ambientali meno favorevoli che possono
determinare cali di resa consistenti.
Non va poi dimenticato che l’agricoltura, che pure subisce
danni dai cambiamenti climatici, è però anche
responsabile di emissioni di gas serra: oltre ad essere il
settore avente responsabilità nella deforestazione
(cambiamento di destinazione dei suoli o “land use
change”) e degradazione dei suoli (depauperamento del
contento di sostanza organica dei suoli), infatti, è pure
direttamente responsabile del 14% dell’emissione di gas
serra.
L’agricoltura, però, può anche essere parte della soluzione
rispetto alle problematiche legate ai cambiamenti climatici
tramite l’applicazione di strategie mirate a sviluppare
159
sistemi agroalimentari più produttivi e rispettosi delle
risorse naturali.
Cosa si può fare in ambito agricolo per rispondere a queste
sfide globali che però necessitano di strategie localizzate e
diversificate regione per regione? Occorre sviluppare
sistemi agricoli capaci di rispondere efficacemente ai
cambiamenti climatici.
La FAO definisce questo approccio con il termine
“Climate-Smart Agriculture” (CSA o Agricoltura “climaintelligente”), che ha l’obiettivo contemporaneo di
ottenere 3 risultati:
1. Ridurre le emissioni “agricole” di gas serra e
contribuire alla “cattura” di carbonio.
2. Rafforzare la “resilienza” (o adattamento)
cambiamenti ed alla variabilità del clima;
ai
3. Incrementare la sostenibilità (produttività e reddito);
Benché sul fronte della mitigazione la Sardegna, con la
prevalenza di pascoli arborati e le foreste possa essere
considerata una regione virtuosa, in sede di
programmazione agricola e quindi anche delle risorse
comunitarie abbiamo posto grande attenzione a questi
temi.
Questo perché la nostra sfida è quella di far posizionare la
Sardegna come terra che produce qualità.
La Sardegna dal punto di vista agricolo è un vero e
proprio continente. Abbiamo aree di pianura irrigua vocate
a un’agricoltura intensiva in cui si producono riso e ortive
160
di elevata qualità accanto a aeree collinari, a prevalente
vocazione paesaggistica e ambientale dove si applicano
tecniche di coltivazione e di allevamento estensive. Come
si può evincere da un attenta analisi, c’è però un filo
conduttore che accomuna le diverse vocazioni agricole
dell’Isola: la grande qualità dei suoi prodotti.
Non possiamo certo e non vogliamo competere con i
grandi sistemi agricoli dei paesi extra UE ma anche
europei come Spagna e Francia, che producono grandi
quantità di cibo equiparata a commodity, ma puntiamo a
produrre speciality.
“Sardegna, isola della qualità della vita” è lo slogan con il
quale abbiamo caratterizzato la nostra presenza a EXPO, e
tra i principali fattori che determinano la qualità della vita
in Sardegna c’è sicuramente la naturalità e il valore
nutrizionale e salutistico dei nostro cibo. Gli effetti sulla
longevità del nostro Canonau, dei nostri formaggi e in
generale della nostra dieta sono stati abbondantemente
dimostrati da numerosi studi scientifici.
Quindi prodotti e cibi che anche attraverso idonee
politiche di internazionalizzazione, siano in grado di
intercettare quei consumatori sempre più numerosi e
esigenti che richiedono e cercano nel cibo che consumano,
specialità, sicurezza alimentare, tracciabilità, rispetto per il
benessere degli animali e per l’ambiente che produce.
É infatti ormai un dato consolidato che aumenta nel
mercato globale la richiesta di prodotti di eccellenza le cui
caratteristiche di qualità organolettica e nutrizionale siano
161
certificate e che raccontino la storia di un territorio e di
una agricoltura sana e rispettosa dell’ambiente. Si tratta di
nicchie, comunque in grado di assorbire una buona parte
delle nostre produzioni, e che hanno l’ulteriore vantaggio
di un'alta propensione alla spendita. L’espansione nei
mercati esteri, sia in quelli consolidati come per esempio il
nord-america per il pecorino, che in quelli nuovi, ha
dunque per la Sardegna una duplice valenza. Da un lato
gli ovvi vantaggi diretti legati alla collocazione dei
prodotti in mercati remunerativi dall’altra la possibilità di
utilizzare le nostre eccellenze come volano per
promuovere il nostro territorio e incrementare la quota di
visitatori turistici al di fuori del classico periodo estivo.
C’è infatti una quota in costante crescita di consumatori
che una volta gustato un prodotto vogliono visitare la
località da cui proviene e magari conoscere i dettagli delle
tecniche di produzione e trasformazione.
Quindi produrre eccellenze e esportarle è strategico per la
nostra economia.
Gli strumenti messi in campo dalla regione Sardegna
per lo sviluppo agricolo
Al fine di produrre eccellenze ed esportarle nel mondo
sarà necessario un approccio globale al potenziamento del
comparto agroalimentare che preveda interventi
programmatori basati sull’utilizzo delle varie risorse
disponibili comunitarie ma anche di quelle del bilancio
regionale che si basino su questi punti:
162
1.
L’adozione delle più innovative tecniche di
allevamento e produzione.
2.
L'innovazione di processo oltre che di prodotto.
3.
La formazione e le connessioni tra attori delle
filiere.
4.
La programmazione di un piano di infrastrutture
materiali a supporto delle imprese (per esempio, strade
rurali, elettrificazione e reti irrigue).
5.
La creazione di strumenti che attraverso la
aggregazione delle imprese e la complementarietà tra
distretti renda forte il nostro sistema produttivo.
Sulla base di questi obiettivi abbiamo lavorato alla
costruzione del Programma di Sviluppo Rurale (PSR)
dando grande rilevanza, anche in relazione allo
stanziamento di risorse, agli interventi che consentono di
portare avanti pratiche agricole poco impattanti
sull’ambiente. Il PSR è il principale strumento di
finanziamento per il settore agricolo, agro-industriale e
forestale e per lo sviluppo rurale dell’Isola, rappresenta un
importante strumento di programmazione della politica di
sviluppo rurale finanziata dal FEASR, che definisce, in
coerenza con gli obiettivi della strategia Europa 2020, gli
interventi regionali per il periodo di programmazione
2014/2020.
Con il PSR sono state delineate le priorità della Sardegna
per l’utilizzo di quasi 1.3 miliardi di euro di fondi pubblici
163
disponibili per il periodo di 7 anni 2014-2020. Il
programma si concentra e finanzierà azioni nell’ambito di
sei priorità dello sviluppo rurale, con particolare
attenzione alla conservazione, ripristino e valorizzazione
degli ecosistemi connessi all’agricoltura e alla silvicoltura,
nonché alla competitività del settore agricolo e forestale,
cosi come alla competitività dello sviluppo agricolo e
della silvicoltura sostenibile, nonché la competitività
dell'organizzazione della filiera alimentare e del benessere
degli animali. Le sei priorità saranno attuate secondo la
seguente articolazione:
-
Il trasferimento di conoscenze e l’innovazione
nel settore agricolo e forestale e nelle zone rurali
Il sistema di trasferimento delle conoscenze (attività
dimostrative, azioni di informazione e scambi di visite)
saranno rafforzate mediante una formazione specifica
destinata agli agricoltori per quanto riguarda in particolare
il cambiamento climatico, l’agricoltura sostenibile e la
qualità degli alimenti. Sarà prestata particolare attenzione
alla formazione dei nuovi imprenditori, specialmente dei
giovani agricoltori. 9000 posti saranno resi disponibili in
attività di informazione e il programma darà agli
agricoltori la possibilità di accedere ai servizi di
consulenza su temi relativi alle priorità del PSR.
La Regione intenderà contribuire a lanciare più di 77
progetti di cooperazione, 6 dei quali saranno a beneficio
dei Gruppi Operativi del Partenariato Europeo per
164
l’Innovazione per la sostenibilità e la produttività
dell'agricoltura.
Competitività dell’agricoltura e silvicoltura
sostenibile
Le richieste di sostegno agli investimenti agricoli e
all’ammodernamento figurano al primo posto tra le misure
del PSR attivate ed è data priorità ad imprese con
potenziale innovativo, progetti di giovani agricoltori,
agricoltura biologica e progetti integrati.
La sostenibilità della produzione agricola è incentivata
anche attraverso l'impiego razionale delle risorse idriche e
l'uso efficiente delle fonti di energia rinnovabili. Saranno,
inoltre, finanziate attività di diversificazione.
-
-
Organizzazione della filiera agroalimentare,
comprese
la
trasformazione
e
la
commercializzazione dei prodotti agricoli, il
benessere degli animali e la gestione dei rischi
nel settore agricolo
Nell’ambito di questa priorità, la Sardegna sosterrà la
promozione dei prodotti di qualità. Il PSR sosterrà 400
aziende per partecipare ai regimi di qualità. Il PSR
intenderà, inoltre, sostenere lo sviluppo e il rafforzamento
delle catene di approvvigionamento, comprese le filiere
corte e i mercati locali, al fine di contribuire a raggiungere
un reddito più elevato per gli agricoltori (500 aziende
dovrebbero essere supportate).
165
Il sostegno per il benessere degli animali è ugualmente
disponibile per gli agricoltori che si impegneranno ad
applicare norme rigorose in materia di allevamento che
vanno al di là dei pertinenti requisiti obbligatori (quasi
11.000 aziende agricole saranno supportate).
-
Preservare, ripristinare e valorizzare gli
ecosistemi relativi all’agricoltura e alle foreste
Nell’ambito di questa priorità, la Sardegna si concentrerà
sugli investimenti rispettosi dell'ambiente e del clima, con
particolare attenzione alla qualità dell’acqua, alla
biodiversità e alla protezione del suolo. Quasi il 17 %
delle terre agricole sarà oggetto di contratti di gestione a
sostegno della biodiversità, il 15 % dei contratti volti a
migliorare la gestione delle risorse idriche e un altro 19 %
per gli appalti volti a migliorare la gestione del suolo.
Un totale di 43 000 ettari riceverà un aiuto per convertirsi
all’agricoltura biologica e un altro di 117 000 ettari per
mantenerla.
Inoltre, il PSR contiene una misura di cooperazione
congiunta per l’adeguamento al cambiamento climatico e
le azioni di mitigazione.
- L’efficienza delle risorse e il clima
Nell’ambito di questa priorità, il PSR Sardegna
incrementerà la conservazione e il sequestro del carbonio
principalmente sostenendo l’imboschimento, i sistemi
agroforestali, la prevenzione e il ripristino delle foreste
166
danneggiate, il miglioramento della resilienza e il valore
degli ecosistemi forestali nonché la loro conservazione.
Inoltre, la misura alla cooperazione promuoverà il
rafforzamento della sostenibilità attraverso il Partenariato
Europeo per l’Innovazione e la cooperazione per
l’adattamento e l’attenuazione dei cambiamenti climatici.
-
L’inclusione sociale e lo sviluppo locale nelle
zone rurali
Il PSR Sardegna presta particolare attenzione
all’inclusione sociale e allo sviluppo economico nelle
zone rurali. Tale priorità è attuata principalmente mediante
l’approccio dal basso verso l’alto attraverso le strategie di
sviluppo locale che dovrebbero essere elaborate dai
previsti 13 gruppi di azione locale (GAL). Le strategie di
sviluppo locale copriranno il 40 % della popolazione
rurale e creeranno circa 500 posti di lavoro supplementari.
Più di 245 beneficiari riceveranno un sostegno per
investimenti in attività extra-agricole nelle zone rurali.
Risulta evidente come il raggiungimento di standard più
elevati di benessere nel settore zootecnico costituisca una
delle principali sfide del PSR, per questo, ancora una volta
sono state attivate le misure del benessere animale che, in
questo ciclo, riguardano non solo gli allevamenti ovini ma
anche altre tipologie zootecniche come bovino da latte,
bovino da carne e suino con l’obiettivo di raggiungere
167
un’alta qualità igienico sanitaria delle nostre produzioni.
Siamo inoltre riusciti a coniugare con le risorse europee
quelle regionali e attraverso il PRS (Programma Regionale
di Sviluppo) abbiamo posto le basi per uno sviluppo
competitivo del sistema regionale.
In sintesi la strategia regionale intende declinare le
seguenti direttrici:
-
-
-
-
-
Supportare azioni specifiche di promozione e di
internazionalizzazione delle produzioni
, alla
e a nuove forme di packaging;
Rafforzare le filiere agroalimentari, in particolare
favorendo
l’aggregazione
finalizzata
alla
trasformazione e alla commercializzazione, al fine
di intraprendere un percorso articolato che valorizzi
i processi produttivi e la promozione sui mercati
locali e internazionali;
Rafforzare le azioni di prevenzione delle
malattie degli animali attraverso piani articolati al
fine di garantire ai consumatori produzioni sane e
sicure;
Facilitare l’accesso al credito in agricoltura, anche
per favorire il ricambio generazionale sostenendo
nel contempo dei percorsi di professionalizzazione
degli operatori;
L’attuazione di tali strumenti è resa possibile grazie
alla collaborazione tra il sistema delle Agenzie
168
Agricole che interagiscono con gli operatori locali
e le istituzioni a vario titolo.
Ad esempio, grazie alla collaborazione tra le Agenzie
Agricole e l’Associazione Regionale Allevatori con il
sistema sanitario, oggi la Sardegna è ai primi posti nel
mondo per la qualità e la sicurezza alimentare del latte.
Gli sforzi che stanno realizzando il sistema di assistenza
tecnica di ARAS e LAORE, in termini di igiene
zootecnica e assistenza veterinaria, e il sistema sanitario,
in termini diagnostici e di profilassi anche vaccinale,
devono essere valorizzati non solo in funzione della
riduzione dei danni diretti e indiretti delle patologie
animali ma anche nell’ottica di una certificazione di
“qualità superiore” dei prodotti di origine animale della
Regione. Gli effetti negativi diretti in termini di riduzione
della produzione, maggiori costi e limitazione
all’esportazione dovuti alla presenza di patologie sono
noti. Basti pensare, ai vincoli all’esportazione delle carni
suine a causa della PSA, alle limitazioni alla esportazione
dei vitelli da ristallo a causa della Blue tongue ai rischi di
blocchi dell’esportazione dei formaggi ovini per la
presenza della Scrapie, sventati solo grazie all’esistenza
del piano regionale di selezione. In questa ottica, tra gli
obiettivi strategici per il 2015 vi sono quelli della
eradicazione della PSA e dei ceppi di Blue Tongue
maggiormente presenti nel territorio regionale. Come
Assessorato intendiamo ulteriormente rafforzare queste
azioni e abbiamo perciò annoverato tra gli obbiettivi
169
strategici del piano regionale di sviluppo quello di un
monitoraggio sistematico di tutte le aziende zootecniche
per incrementare ulteriormente i già importanti risultati
raggiunti. Inoltre nel nuovo PSR è stata ulteriormente
estesa a altre specie la misura pensata nelle precedenti
programmazioni per il benessere animale negli
allevamenti ovini. La Regione Sardegna sarà la prima in
Europa a poter certificare che le proprie produzioni
animali si realizzano facendo ricorso a pratiche
zootecniche rispettose del benessere animale.
Rilevante risulta inoltre l’attività delle Associazioni
Provinciali Allevatori (AA.PP.AA.) riguardante la tenuta
dei Libri Genealogici (LL.GG.) e lo svolgimento dei
Controlli Funzionali (CC.FF.) del bestiame, mediante i
quali vengono effettuate le valutazioni genetiche degli
animali, che sono la base per gli schemi di selezione del
bestiame. Queste attività rivestono particolare importanza
in quanto hanno come conseguenza un aumento della
qualità e delle produzioni unitarie, contribuendo a
migliorare l’efficienza delle aziende; infatti maggiore è la
produzione, più bassa è l’incidenza dei costi fissi per unità
di produzione.
I risultati finora raggiunti in Sardegna sia nel comparto
bovino che ovino hanno ripagato ampiamente gli
investimenti pubblici effettuati di provenienza nazionale e
regionale, sia come aumenti quanti-qualitativi di
produzione che in termini di occupazione.
170
Inoltre abbiamo rafforzato e ampliato i sistemi colturali
che possono aderire alle misure agro-climatico-ambientali
(misura 10 del PSR) che prevedono interventi di sostegno
per gli impegni agro-climatico-ambientali e per la difesa
del suolo. In particolare tali pratiche consentono la
riduzione dei fenomeni di degrado del suolo e il
mantenimento della sua produttività biologica su orizzonti
temporali lunghi. Inoltre, si incentiva il metodo della
"Produzione integrata" che consente un uso più sostenibile
delle risorse idriche e migliora la gestione e la riduzione
dei fertilizzanti e dei prodotti fitosanitari; Nell’annualità
2016 le domande pervenute relativamente alla tipologia di
intervento “Difesa del suolo” risultano 3.753,
corrispondenti ad una superficie pari a oltre 81.000 ettari,
e con una stima di importo richiesto di oltre 20 milioni di
euro. In riferimento alla “Produzione integrata” le
domande pervenute risultano pari a 625 per una superficie
di oltre 8 mila ettari e con una stima di importo richiesto
superiore a 3 milioni di euro.
In particolare, insieme al potenziamento delle misure di
produzione integrata e biologica, il rafforzamento della
misura sulla Difesa del suolo, che prevede incentivi agli
agricoltori che puntano su coperture vegetali permanenti
come i prati pascoli in alternativa ai seminativi (es. erbai
autunno vernini nel caso delle foraggere) e all’agricoltura
conservativa, può essere considerata una pratica “smart”
di agricoltura.
171
Per rendere più efficaci l’adozione di sistemi produttivi
che impattano in misura minore sull’ambiente è
fondamentale diffondere sempre più le tecniche di
agricoltura di precisione che, permettono, grazie anche
ai Sistemi GNSS e di rilevazione delle rese e indici
vegetazionali, un uso razionale e mirato dei concimi dei
fitofarmaci e consentono un miglioramento delle rese e
qualità delle produzioni.
Per rispondere a queste esigenze, i bandi della misura 4.1
“Sostegno a investimenti nelle aziende agricole” di
prossima uscita possono avere grande effetto. Tali bandi
mettono a disposizione risorse ingenti per gli agricoltori
pari a 70 milioni di euro per l’annualità 2016, e verranno
attuati attraverso una procedura a sportello che si ritiene
possa meglio rispondere alle esigenze specifiche delle
nostre imprese in relazione al miglioramento
dell'efficienza aziendale attraverso interventi di
ammodernamento e innovazione.
Inoltre, vista la scarsità di risorse destinate dal PSR per la
gestione delle risorse idriche in agricoltura, particolare
importanza viene data alla programmazione regionale che
deve essere in grado di intervenire per dare valore
aggiunto al sistema Sardegna.
La gestione delle risorse idriche rappresenta da sempre per
la Sardegna un tema centrale dello sviluppo economico e
sociale. Il particolare contesto idrografico, povero di
risorse idriche superficiali, è stato affrontato nei decenni
passati con imponenti investimenti finanziari che oggi ci
172
consegnano una infrastrutturazione rilevante di
sbarramenti artificiali e bacini di accumulo. In Sardegna
ogni distretto irriguo è sotteso da uno o più bacini regolati
dalle corrispondenti dighe, ma non per questo tuttavia
possiamo affermare di avere garantite le necessarie scorte
d’acqua per l’agricoltura e, addirittura in alcuni casi, per
gli usi civili. La modificazione del clima ha infatti variato
pesantemente l’andamento stagionale e diminuito i volumi
complessivi del deflusso superficiale mandando
letteralmente in crisi la base di calcolo che era stata a suo
tempo assunta per il dimensionamento degli invasi e dei
distretti dell’irrigazione. È inoltre da sottolineare lo stato
della risorsa idrica sotterranea e della risorsa suolo,
soprattutto nei contesti di irrigazione da falda sottoposte
ad azione di forte emungimento con chiare evidenze di
avanzamento del cuneo salino e sterilizzazione del suolo.
A ciò si aggiunga il fenomeno noto come
“estremizzazione degli eventi”, in ordine al quale a un
deflusso medio annuo nettamente inferiore rispetto ai
valori registrati fino agli anni ’70 del 900 (durante i cicli
siccitosi si registrano aree con diminuzioni del 60%-80%
del deflusso) si associano eventi intensi di natura
alluvionale che danno vita alle catastrofi idrogeologiche.
Ciò impone l’applicazione di rigide direttive che
obbligano il gestore pubblico delle dighe a riservare
preziose quote di invaso per la laminazione delle piene,
con il paradossale risultato di sfiorare acqua a mare nelle
stagioni piovose e al contempo soffrire le restrizioni
173
idriche, in primo luogo per l’agricoltura, nella successiva
estate.
Dobbiamo dunque più che mai affermare le produzioni
agricole sarde nell’ottica di pianificare con cura quantità e
qualità delle medesime in un contesto razionale di
gestione
complessiva
del
ciclo
dell’acqua,
dall’immagazzinamento delle scorte, all’erogazione e al
possibile riuso dei reflui in agricoltura. Impostazione
particolarmente complessa ma oramai obbligata e non
ulteriormente eludibile. Molto rimane da realizzare ma le
questioni nodali sono oramai focalizzate: occorre
programmare con attenzione nuovi investimenti pubblici
per il raggiungimento della piena capacità delle dighe e
per l’efficientamento delle reti dalle perdite, occorre
indirizzare l’utenza verso un’irrigazione responsabile
mirata all’ottimizzazione dei consumi idrici. In sostanza,
per costruire un modello gestionale di irrigazione
sostenibile per i prossimi decenni in Sardegna, si rende
necessaria un’efficace sinergia fra le politiche degli
investimenti pubblici, delle tecniche colturali e degli
investimenti aziendali dei privati, della corretta ed equa
tariffazione del servizio irriguo, di una nuova gestione
operativa della distribuzione dell’acqua da parte dei
consorzi di bonifica migliorata dalle necessarie
innovazioni tecnologiche e dai corretti modelli
organizzativi di management industriale, del concorso
diretto della ricerca applicata e dell’assistenza tecnica in
agricoltura al raggiungimento di tali obiettivi.
174
Considerazioni conclusive
Ci piace ricordare che naturalmente tutte le azioni fin qui
richiamate intervengono in maniera impattante sulla
produttività e il reddito delle attività agricole e che sul
fronte tecnico le attività finora poste in campo sono
importanti e vanno ulteriormente rafforzate ma la strada è
tracciata e non temo ad affermare che la nostra Regione
può essere considerata all’avanguardia, grazie anche alla
attività svolta dalle agenzie regionali in sinergia con
Università e centri di ricerca.
L’ AGRIS, agenzia per la ricerca scientifica, la
sperimentazione e l’innovazione tecnologica nel settori
agricolo, agroindustriale, e forestale che ha il compito di
favorire lo sviluppo rurale sostenibile, tutelare e
valorizzare le biodiversità , accrescere la qualificazione
competitiva nel campo della ricerca, e l’agenzia LAORE
che interviene per l’attuazione dei programmi regionali in
campo agricolo e per lo sviluppo rurale, promuovendo lo
sviluppo integrato dei territori rurali e la compatibilità
ambientale delle attività agricole .
Grazie all’attività di questi enti la Sardegna anche
nell’ottica della cooperazione con i paesi transfrontalieri
ha sempre svolto un ruolo incisivo e fondamentale e nei
prossimi anni è chiamata a un impegno notevole nella
implementazione delle azioni con la partecipazione ai
piani ENI e, nel prossimo futuro, ai progetti di
collaborazione in corso con i paesi dell’area del Nord
Africa e del Mediterraneo.
175
La presenza, al convegno odierno delle rappresentanze
delle realtà produttive e della formazione della Tunisia,
testimonia con particolare forza questo rapporto.
Siamo particolarmente attivi nel impegno al trasferimento
delle conoscenza e nella formazione di tecnici preparati
per migliorare la gestione sanitaria produttiva e
riproduttiva dei diversi allevamenti di animali marini e
terrestri. Infatti, nelle aree del Maghreb, a fronte di
notevoli miglioramenti nel settore zootecnico avvenuti
negli ultimi 20 anni, molto ancora rimane da fare per poter
ottenere una allevamento economicamente remunerativo e
che soddisfi le esigenze della popolazione di queste aree.
Negli ultimi decenni si assiste ad uno spopolamento delle
aree rurali e all’immigrazione in quanto le attività agricole
produttive di queste aree non possono garantire il
sostentamento delle popolazioni che ci vivono. Inoltre,
l’abbandono delle aree rurali porta sempre più
all’avanzamento della desertificazione. Quindi alla luce di
queste considerazione la collaborazione in tutte le attività
di formazione e di ricerca nella gestione sanitaria,
produttiva e riproduttiva può solamente creare un volano
di sviluppo di queste aree, consentendo di individuare i
punti critici della filiera di produzione e sviluppare le
azioni di intervento più opportune rispondendo agli
obiettivi più generali di dare risposte alla crescita e
sviluppo di questi paesi. In queste azioni le Agenzie della
Regione Sardegna le Università sarde, insieme alle
Associazioni e gli Istituti di Ricerca attraverso l’impegno
176
dei propri ricercatori e dipartimenti, qualche anno fa
hanno iniziato un percorso di collaborazione e saranno
fondamentali non solo per la formazione ma anche per il
potenziamento di piani idonei di azione e lo sviluppo di
nuovi.
Ma per candidarsi a un ruolo così strategico e
fondamentale di un sistema vincente di Climate-Smart
Agriculture” (CSA o Agricoltura “clima-intelligente”) nel
bacino del mediterraneo e diventare punto di riferimento e
modello di sviluppo abbiamo la necessità, noi per primi, di
essere in grado di costruire sistemi sostenibili in termini di
produttività e reddito oltre che in termini ambientali anche
e soprattutto in termini economici.
È da questa precisa volontà e dalla consapevolezza della
grave debolezza strutturale e organizzativa del comparto
agropastorale della Regione, nostro principale comparto
produttivo, che abbiamo lavorato in questi anni per fare in
modo che le nostre imprese crescessero e si dotassero di
strumenti di livello europeo che gli possano consentire in
futuro di affrontare le dinamiche sempre più imprevedibili
dei mercati caratterizzati da improvvise e importanti
oscillazione dei prezzi.
Vale la pena ripercorrere l’evoluzione di questa
situazione. Quando la Giunta si è insediata, 20 marzo
2014, il pecorino romano era quotato sulla piazza di
Milano intorno ai 7,5 euro, in ascesa di oltre un euro e
cinquanta rispetto allo stesso periodo dell’anno
177
precedente. All’epoca il latte ovino era quotato intorno
agli 86 cent.
Alla fine dell’estate il prezzo del Pecorino aveva superato
gli otto euro sulla piazza di Milano e sul mercato USA, a
settembre aveva quasi raggiunto gli 11 dollari. Le
organizzazioni agricole stavano iniziando a rivendicare un
prezzo per il latte superiore all’euro.
Ci si trovava in quel tipo di scenario che classicamente si
definisce roseo. E tuttavia non mancavano segnali di
preoccupazione.
I produttori storici del Pecorino Romano avvertivano
l’esigenza di mettere sotto controllo le produzioni perché
con prezzi così interessanti si poteva facilmente prevedere
un “buttarsi a capofitto” su questo prodotto, con il rischio
concreto di far saltare gli equilibri dei mercati.
Per contro una parte della trasformazione era preoccupata
del prevedibile aumento delle produzioni di latte che, in
presenza di un limite alle produzioni di Pecorino Romano,
avrebbero finito con il determinare eccedenze produttive a
carico del segmento degli “altri formaggi”, con
l’aggravante di un prezzo della materia prima più elevato
a causa del prevedibile trascinamento verso l’alto del
prezzo del latte causato dall’ipertrofia del Pecorino
Romano.
178
Si era immersi in questa situazione quando, l’8 ottobre del
2014, si è riunito il primo “tavolo latte ovino” e in quel
contesto forse per la prima volta, tutti gli attori della filiera
hanno avvertito la necessità di affrontare una riflessione su
come governare il comparto con una prospettiva che non
si limitasse al superamento delle singole contingenze.
A quel primo incontro ne sono seguiti numerosi altri, con
una cadenza quasi regolare, scandita nel primo anno dal
successo del Pecorino Romano e dall’esigenza di
governarne la congiuntura per salvaguardarne il valore
senza creare problemi al resto del sistema e segnata, nel
secondo anno, dalla discesa sempre più rapida del valore
del Pecorino Romano.
In breve, in questi anni si è passati rapidamente da un
eccesso all’altro senza mai smettere di sentire il fiato sul
collo dell’emergenza, sempre ad inseguire, con buona
pace delle riflessioni “su come governare il comparto con
una prospettiva che non si limitasse al superamento delle
singole contingenze”.
Non è questa l’occasione per un cronogramma delle azioni
messe in campo, tuttavia ripercorrere in una rapida
carrellata quali disparati interventi si sono dovuti attivare,
può aiutare a capire la vastità dei problemi che si è dovuto
gestire.
In uno scenario che ha fatto registrare l’embargo verso la
Russia, la fine del regime delle quote latte, la
179
recrudescenza della blue tongue, l’imprevisto interesse dei
mercati verso il Pecorino Romano nel 2014 e parte del
2015, e l’inarrestabile caduta dell’interesse dei mercati per
il Pecorino Romano nella seconda metà del 2015 e nel
2016, si è passati dal come progettare e rendere attuabile
una programmazione dell’offerta del Pecorino Romano,
che fosse funzionale alla difesa del suo valore, in linea
con le norme e non dannoso per le altre componenti del
sistema,
all’interlocuzione
con
il
Ministero
dell’Agricoltura per la rimodulazione dei “premi
accoppiati”; dalle attività per portare il Pecorino Romano
DOP alla vetrina del contesto di EXPO Milano 2015 come
eccellenza nel panorama delle eccellenze DOP Italiane,
all’urgenza di individuare prospettive per una efficace
differenziazione delle altre produzioni; dal reperimento di
risorse
per
attivare
un
programma
di
internazionalizzazione dei formaggi DOP regionali, alla
individuazione di risorse percorsi e strumenti finanziari
atti a supportare le imprese in una gestione delle giacenze
che evitasse la svendita: Senza dimenticare nel frattempo i
conflitti tra i diversi segmenti della filiera e le polemiche
con la componente laziale della DOP Pecorino Romano
che, anche per le modalità con cui sono state proposte,
certamente non aiutano.
Di tutta quest’attività, puntualmente condivisa e
concertata con le rappresentanze che partecipano agli
incontri del tavolo del latte ovino, si potrebbe fare una
cronaca puntuale, citare provvedimenti, atti, cifre.
180
Ma in questo contesto quello che mi preme è invece
restituire una sintesi concettuale che conferma e rafforza
una consapevolezza: la filiera lattiero casearia ovina della
Sardegna è sicuramente caratterizzata da una elevato
livello di qualità ma è anche, e soprattutto, caratterizzata
da una notevole fragilità di sistema.
Dalla lettura di cosa è successo e di come si è reagito,
emerge, a nostro parere, il tratteggio di un comparto che
non è mai riuscito a coordinarsi e a fare realmente sistema.
Un comparto che, andando oltre la lettura di questi ultimi
anni, nel ciclico andare a singhiozzo tra eccessi di
produzione e deficienze di produzione, nel perenne
inseguimento di un equilibrio mai di fatto raggiunto, si è
costantemente impoverito e non ha finora trovato una via
di sviluppo.
I nostri vicini sono nel tempo cresciuti noi no. Questa
dinamica appare in tutta la sua evidenza se si analizza il
dato storico delle produzioni di Italia Francia e Spagna, tre
paesi per molti versi simili.
I dati in serie storica da 1961 ci dicono che le produzioni
complessive sono sostanzialmente invariate. Il peso
relativo dell’Italia è però passato, in questo periodo, dal
60% al 32%. Non si dispone del dettaglio sulla Sardegna
ma, considerata l’incidenza delle produzioni sarde sul
totale Italia, crediamo che sia lecito desumere che buona
parte di quelle quote di produzione che negli anni si sono
si perse siano ascrivibili alla nostra regione.
181
Ed è sulla base di questa sintesi che riteniamo di poter
asserire con convinzione che il lavoro più importante che
in questo periodo è stato impostato e portato avanti è il
progetto per la costituzione dell’Organizzazione
Interprofessionale del latte Ovino per la Circoscrizione
economica della Sardegna.
Non ci sembra opportuno proporre un trattato sulle
Organizzazioni Interprofessionali, ma per rendere esplicito
il concetto è utile riportare quanto indicato nei considerata
131 e 132 del Reg. UE 1308/2013 che ha da ultimo
normato la costituzione delle O.I: (art. 157)
(131) Le organizzazioni di produttori e le loro
associazioni possono svolgere un ruolo utile
ai fini della concentrazione dell'offerta e del
182
miglioramento della commercializzazione,
della pianificazione e dell'adeguamento
della
produzione
alla
domanda,
dell'ottimizzazione dei costi di produzione e
della stabilizzazione dei prezzi alla
produzione, dello svolgimento di ricerche,
della promozione delle migliori pratiche e
della fornitura di assistenza tecnica, della
gestione dei sottoprodotti e degli strumenti
di gestione del rischio a disposizione dei
loro aderenti, contribuendo così al
rafforzamento della posizione dei produttori
nella filiera alimentare.
(132) Le organizzazioni interprofessionali
possono svolgere un ruolo importante
facilitando il dialogo fra i diversi soggetti
della filiera e promuovendo le migliori
prassi e la trasparenza del mercato.
Questo strumento ci è sembrato perfetto per mettere
rimedio e superare la fragilità del nostro comparto ovino.
Ci è sembrato che potesse costituire non solo un luogo
permanente di riflessione, sintesi e progettualità ma anche
il soggetto più adeguato per interagire efficacemente con
quell’ambiente - nel quale si sviluppano relazioni azioni e
reazioni che, con le dinamiche che innescano, stanno
ultimamente impattando in modo molto duro sui nostri
sistemi sociali, produttivi economici… a cui abbiamo fatto
riferimento in avvio di discorso.
183
Con questa forte convinzione abbiamo portato questo
progetto all’attenzione del “tavolo” costituito, è
importante sottolinearlo, dalle OO.PP.AA, dalle Centrali
Cooperative, dalle Associazioni dell’industria e
dell’artigianato, oltreché dai Consorzi di tutela dei
formaggi DOP, tavolo che ne ha immediatamente
recepito, con favore e interesse, gli obiettivi.
Purtroppo, ma era inevitabile, quando si è scesi nel
dettaglio sono emersi distinguo e distanze che hanno reso
necessaria una lunga e faticosa azione di limatura e
mediazione, tutt’altro che facile: in più di un’ occasione si
è dovuta registrare qualche sedia vuota. Tanto ci è voluto
che dal primo incontro dedicato all’argomento, datato al
20 luglio 2015, si è dovuto arrivare al mese di settembre
2016 per poter inviare al Ministero una prima bozza di
statuto condivisa da tutti i soggetti.
Attualmente il progetto è alle sue battute conclusive e
sono stati già presi contatti con un notaio per la stipula
ufficiale dell’atto costitutivo.
Noi siamo convinti che il varo dell’Organizzazione
Interprofessionale sia un traguardo storico per il comparto
ovino regionale. Siamo stati tra i primi in Italia ad aver
avanzato
una
proposta
di
Organizzazione
Interprofessionale e rivendichiamo con orgoglio di averlo
fatto per il comparto ovino.
184
Nulla può essere dato per scontato ma se
l’Organizzazione Interprofessionale riuscirà a tradurre
nei fatti la missione che si è data, il sistema potrà
finalmente generare strategie produttive e di mercato
efficaci e vincenti, e con ciò assumere quel ruolo di
riferimento che gli compete per essere, di fatto, uno dei
più rilevanti poli di produzione lattiero caseario ovino
rispetto all’Italia, all’Europa, al bacino del Mediterraneo.
E come tale potrà finalmente interagire con gli altri
sistemi di riferimento avendo chiari obiettivi e strategie
utili ad affrontare gli scenari che di volta in volta si
presenteranno. E non è detto che debbano essere strategie
necessariamente improntate alla competizione. Si possono
anche immaginare percorsi di collaborazione finalizzati
alla creazione di utili sinergie.
Ritengo che questi orizzonti debbano essere valutati con
attenzione proprio alla luce di scenari futuri che, per
esempio, lasciano intravvedere un’espansione dei consumi
- in conseguenza delle dinamiche demografiche - ma
anche un forte aumento mondiale delle produzioni di latte
vaccino che inevitabilmente genereranno aumento della
pressione anche sul mercato lattiero caseario ovino. Così
come, per fare un altro esempio che bene si sposa con il
tema del convegno, una collaborazione con la sponda sud
del Mediterraneo potrebbe forse aiutarci a prendere
confidenza con problematiche veterinarie dovuti ad agenti
patogeni che, visti cambiamenti climatici di cui tanto si
185
discute, potrebbero in futuro diventare ospiti fissi delle
nostre latitudini.
Forse, in quest’ottica, avviare un dialogo di prospettiva
con i diversi sistemi ovini presenti nel Mediterraneo
potrebbe rivelarsi quanto mai utile e opportuno.
E comunque, riteniamo che sarebbe poco lungimirante
non fare i conti con una realtà, quella del Nord Africa che,
stando ai dati FAO, rappresenta circa il 15% della
produzione mondiale di latte ovino, con paesi come
l’Algeria che producono quanto la Francia e che pur
producendo una quantità di formaggi ovini esigua, che si
colloca intorno al 2% del valore mondiale, fa registrare ha
una formidabile dinamica di crescita.
186
Certo sono situazioni che vanno lette con attenzione e
debitamente approfondite. Non siamo i primi a dover
gestire il dilemma tra cooperazione e competizione tra le
due sponde del Mediterraneo, dove i sistemi agricoli sono
strutturalmente diversi ma spesso, come nel nostro caso,
dediti a produzioni simili. Bisogna però ricordare che ogni
situazione comporta vincoli, condizionamenti e
opportunità, ma mentre i vincoli e i condizionamenti ti
arrivano comunque addosso le opportunità bisogna saperle
riconoscere e essere in grado di coglierle. Dal dialogo con
i paesi del nord Africa noi cogliamo opportunità di
confronto, crescita e sviluppo comune in un percorso di
collaborazione che unisca le due sponde dell’antico Mare
nostrum. La Sardegna è pronta a fare la sua parte.
187
Lo spopolamento delle zone interne della
Sardegna
Prof. Pietro Ciarlo, Ordinario Diritto Costituzionale
Università di Cagliari
Lo spopolamento delle zone interne della Sardegna
finalmente è diventata consapevolezza comune. Esso,
evidente almeno dagli anni ’80, è stato a lungo rimosso, se
non negato, dalla politica e dall’opinione pubblica. Come
se evidenziare il problema fosse una sorta di offesa alla
Sardegna e alla sardità. Ma è noto che ignorare le
difficoltà porta solo al loro incancrenirsi.
L’abbandono delle zone interne riguarda tutto il Paese. Lo
spopolamento dell’ Appennino, dappertutto notevole, in
alcune aree periferiche, come la Lucania e la Calabria ha
assunto proporzioni drammatiche, ma mai quanto e come
in Sardegna. La nostra è una regione del tutto particolare.
Terza per superfice, a poca distanza da Sicilia e Piemonte,
precede la Lombardia. É decima per numero di abitanti,
un milione e 650.000, non pochi sulla scala italiana, circa
100.000 in più della Liguria, giusto per capirci. Ma ha una
densità di soli 69 abitanti per Kmq, ci precede soltanto la
Val D’ Aosta. Con la Basilicata siamo più o meno al pari.
La media italiana è di 201. Siamo quasi a un terzo.
Rispetto agli standard nazionali siamo una grande regione
semideserta. Saremmo speciali già solo per questo. Ma
188
non solo. L’ andamento demografico è accentuato dalla
concentrazione della popolazione nella fascia costiera. Le
zone interne sono un deserto nel deserto. Nessuna regione
italiana soffre di un analogo squilibrio. Finanche in
Basilicata, la situazione è radicalmente diversa: le due
maggiori città sono nell’interno. Viceversa, in Sardegna
pian piano, uno alla volta, i comuni più piccoli, quasi tutti
dell’ interno, vanno spegnendosi (cfr. a cura della Regione
autonoma della Sardegna, Comuni in estinzione, Gli
scenari dello spopolamento in Sardegna, Progetto IDMS,
2013). Peraltro tutto ciò accade in un contesto di
demografia regionale nel suo complesso sfavorevole.
Infatti, la Sardegna ha raggiunto il picco di popolazione
residente nel 2010 con un 1.675.000. Per poi perderne
subito circa 37.000 abitanti, riprendersi un pochino, ma
perdere ancora nel 2014 e nel 2015 attestandosi a
1.658.000, ultimo dato ISTAT disponibile. Un andamento
demografico cedente, intuibile già da molti anni, ma,
dicevamo, a lungo poco evidenziato, se non occultato, ma
che ormai incombe come un macigno sul nostro futuro.
Ancora oggi, però, la drammatica e particolarissima
questione dello squilibrio demografico interno viene
considerata in forme inadeguate. La Sardegna rurale e in
particolare quella interiore è il nostro cuore simbolico. É
difficile ammettere che il cuore simbolico della Sardegna
stia affievolendo i propri battiti. Ma è così. Oltre
l’insularità, la principale altra ragione di specialità della
nostra regione è ravvisabile proprio in questo
particolarissimo andamento demografico e territoriale.
189
Bisogna arrestare uno spopolamento dell’ interno senza
eguali in nessuna altra parte d’Italia.
Il primo dei profili da affrontare è banalmente quello del
reddito. Se le persone non hanno reddito, assistenziale o
da lavoro che sia, non restano in un territorio. Se la
politica si astiene e lascia andare le cose secondo il loro
corso spontaneo nel giro di pochi anni il destino delle zone
interne si compirà inevitabilmente. Stato, regione e
comuni devono insieme o separatamente avviare azioni
positive di lungo periodo tendenti a ridurre lo svantaggio
residenziale delle persone, a partire dal reddito. Non si
possono spendere parole di comprensione per i problemi
delle zone interne, ma nei fatti considerarle come un mero
costo. Certo le diseconomie nei servizi e nelle istituzioni
sono del tutto evidenti. Ma chiudere scuole, uffici postali e
quant’altro significa semplicemente assecondare la
desertificazione. Cancellare consigli comunali e sindaci,
significa privare le comunità locali del principale stimolo
all’autopromozione. L’agone politico, il momento
elettorale anche in un micro organismo è il principale
momento di valutazione e proposizione. Senza di esso
nessuna comunità vive, neanche un condominio. Gli
strumenti d’intervento proposti sono stati tanti, molto
meno quelli effettivamente praticati, pochissimi quelli che
hanno sortito qualche effetto positivo. Credo sia essenziale
porre al centro la questione della creazione di reddito da
lavoro (vero o quasi vero che sia) nelle zone di
spopolamento. Questo approccio non è sostitutivo di altri,
190
anzi spesso è l’altra faccia dello stesso fenomeno, si pensi
solo alla dinamica dei servizi pubblici o privati. Se si tiene
aperto un ufficio postale l’impiegato addetto forse sarà del
territorio, comunque avrà legami con esso, lì spenderà una
parte del proprio reddito. Ci sono dei costi e dei benefici.
Purtroppo, però, quasi sempre i costi sono a breve e
facilmente valutabili, mentre i benefici invece spesso
sono a lungo termine e di difficile quantificazione. In
questo senso il caso del nostro impiegato delle poste è del
tutto significativo. In specie i benefici resteranno del tutto
aleatori se il suo caso resterà isolato. Costi di questo tipo
possono essere considerati alla stregua di costi da
investimento, ma come tutti gli investimenti sono destinati
a fallire se non sono inseriti in un piano, o almeno
affiancati da altre pratiche assimilabili, ad esempio
conservare la scuola comprensiva e così via. Ma questa
strategia difensiva non basta: bisogna creare reddito non
solo rinnovando le attività tradizionali, ma soprattutto
creandone di nuove. Qui sta il discrimine. Innanzitutto,
innovare
agricoltura,
allevamento,
artigianato,
agroindustria. Il settore primario e tutto ciò che ruota
intorno ad esso è essenziale, ma non può da solo bastare.
Peraltro ancora grandi sono i limiti delle politiche
regionali e delle mentalità. Si pensi solo alle difficoltà che
incontrano nell’ affermarsi i consorzi di produttori. Come
non possono bastare i servizi tradizionali e quel po’ di
manifattura sparsa qui e lì. La vera domanda è: oltre
l’agricoltura e il terziario, per lo più pubblico, cosa può
garantire reddito alle popolazioni dei territori dell’
191
abbandono? Le domande sono tante, ma questa è
ineludibile e prioritaria. Raramente essa viene posta in
maniera così diretta perché le risposte sono veramente
difficili e porre domande cui non si sa rispondere è un
grande azzardo. Tuttavia bisogna provarci. In questo
tentativo tante cose possono dirsi ma voglio concentrarmi
su aspetti di carattere in senso lato culturale che ritengo
prioritari. Innanzitutto non si può fare a meno di
riscontrare un duplice atteggiamento contraddittorio.
Quello della politica che dichiara di volersi far carico delle
aree in corso di spopolamento, ma nei fatti fa troppo poco
o addirittura le penalizza considerandole un costo. Il
secondo è quello delle popolazioni residenti che troppo
spesso sembrano essere condizionate da una pertinace
psicologia immobilista. Certo, tante cose devono essere
rifiutate. Ad esempio, l’opposizione al fotovoltaico su
terreno agricolo credo debba essere la più netta. Ma il
diniego non può divenire un atteggiamento preconcetto e
generalizzato. Ad esempio l’accoglienza dei migranti,
oltre ad essere un dovere morale, è anche un’attività che
genera un giusto reddito. Spesso nei territori dello
spopolamento esistono strutture edilizie idonee. Viceversa
prevale un atteggiamento negativo.
La mentalità secondo cui bisogna dir di no, nel caso dei
territori dello spopolamento, non è assimilabile ad una
strategia da veto player. Come è noto questa fortunata
espressione è stata coniata all’ interno di quella teoria dei
comportamenti denominata “strategia dei giochi”. Il veto
192
player è colui che per massimizzare il proprio interesse fa
valere un potere interdittivo al fine di scambiare il suo
consenso con una qualche utilità. Alla fine per alcuni si
tratterebbe di un postulato ascrivibile alla mentalità delle
cosiddette scelte razionali che si pensa caratterizzi le
società dinamiche. Invece, nelle società statiche o peggio
recessive domina la psicologia del ruolo. Naturalmente
nella psicologia del ruolo le argomentazioni a sostegno e
spiegazione dei comportamenti di ruolo sono molto
variegate. Non a caso si parla di una psicologia e non di
una strategia come nell’ elaborazione dei giochi. Tale
psicologia si coniuga con una mentalità difensiva che
tende a conservare le posizioni di ciascuno, piuttosto che
correre qualche rischio legato all’ espansione e alle
inevitabili variazioni di status. Nei territori in difficoltà
spesso le ipotesi di nuove attività vengono percepite come
una turbativa di un equilibrio, dei ruoli, piuttosto che
come una opportunità. In Sardegna esistono 33 comuni in
via di estinzione ovvero di spopolamento totale in cui cioè
la densità abitativa tende ad essere di pochi abitanti per
kmq. Perché sentirsi invasi da ospiti stranieri che peraltro
si considerano solo in transito? Se ne fermasse qualcuno.
Perché sentirsi sempre e comunque deturpati da pale
eoliche che qualche cantiere e un po’ di manutenzione la
portano. La tutela del paesaggio e dell’ ambiente è il bene
primario e la stessa scarsa densità abitativa deve essere
considerata come un’occasione imperdibile per
valorizzare l’ambiente stesso. Ma questo non può
significare il preconcetto rifiuto di ogni trasformazione
193
sociale e fisica. Le zone interne non devono porsi
l’interrogativo di cosa devono respingere, ma di cosa
possono realisticamente e dignitosamente attrarre per
avere un po’ di lavoro e un po’ di reddito.
194
Dott.ssa Anna Rita Poddesu, Segretaria Regionale
FLAI Sardegna
195
Agricoltura, pastorizia e ambiente in Sardegna
e nel Mediterraneo
Dott.ssa Anna Rita Poddesu, Segretaria Regionale
FLAI Sardegna
La crisi economica ha ormai messo in ginocchio
l’apparato industriale della nostra isola: nessun territorio e
nessun settore ne sono esclusi, le persone senza lavoro
aumentano vertiginosamente, la disoccupazione ha
raggiunto livelli di guardia cancellando il presente e il
futuro di intere generazioni: 127.000 disoccupati, 73.000
Neet, oltre 20.000 lavoratori in ammortizzatori sociali e
circa 8000 che sono usciti dal sistema che eroga i sussidi.
Ma che prospettive ha una regione che ha tassi di
disoccupazione giovanile vicini al 50%?
Questi dati evidenziano le difficoltà che il modello di
sviluppo su cui ha puntato la Sardegna nel passato non ha
dato i risultati sperati, perché anziché mettere al centro
delle attività economiche le risorse endogene, ha scelto di
puntare su attività che hanno snaturato la vocazione del
tessuto produttivo per impiantarne altre che alla fine si
sono dimostrate non idonee a cambiare le sorti della
Sardegna. E cosi nel tempo si è prodotto un
impoverimento dei territori e forte un divario tra zone
interne e zone costiere che è stato fino ad oggi la prova
196
evidente di politiche inefficaci che hanno pesantemente
frenato lo sviluppo.
É proprio dalla necessità di eliminare questo divario che
dobbiamo ripartire, attraverso un maggior presidio del
territorio e un freno allo spopolamento, per costruire un
nuovo modello di sviluppo economico che parta dai
bisogni e dalle aspettative del territorio.
Cosa intendiamo per “nuovo modello di sviluppo?”
Intendiamo la tutela e la salvaguardia del tessuto
produttivo ed economico esistente, soprattutto quando
questo crea ricchezza, lavoro e reddito, ma al contempo
intendiamo lo sfruttamento di tutte le risorse endogene
della nostra terra, di tutte le potenzialità offerte dal
comparto agricolo e agroalimentare, e quindi la
valorizzazione dei prodotti agricoli, lattiero caseari, della
zootecnia, delle potenzialità offerte dal comparto della
pesca, dello sfruttamento delle zone lacustri integrate.
Tutte risorse da integrare ai valori della nostra cultura e
delle tradizioni, alla valorizzazione dei saperi e dei
mestieri, al mantenimento dell’identità dei luoghi e della
loro storia, al perseguimento della qualità e della tipicità
dei prodotti, alla capacità di integrazione e tenuta sociale,
nonché presidio e valorizzazione del territorio e
dell’ambiente. In un nuovo modello di sviluppo integrato
e sostenibile tutto ciò è racchiuso nella valorizzazione
dell’ambiente che anche se talvolta non ne è quantificabile
197
il valore economico prodotto, rappresenta il miglior
investimento in salute e benessere delle popolazioni
Siamo tutti consapevoli che la nostra terra ha enormi
potenzialità grazie alla presenza di importanti risorse
ambientali e produttive, ma anche quanto altrettanto siamo
lontani da una condizione di reale valorizzazione di questo
grande patrimonio, che potrebbe realizzare l’indipendenza
economica della Sardegna.
Proviamo ora a fare una fotografia di ciò di cui
disponiamo, di cosa abbiamo per capire anche su quali
settori e comparti possiamo agire.
Nella nostra terra abbiamo un sistema ambientale che
costituisce uno straordinario patrimonio che si distingue
anche per una notevole differenziazione e diversificazione
delle risorse: a distanza di pochi chilometri possiamo
godere di un ambiente completamente diverso, mare,
montagna, bosco, stagni, saline, deserto, siti minerari
attivi e dimessi, siti archeologici di grande pregio, fauna e
flora, con tutto ciò che ne potrebbe derivare sotto l’aspetto
economico dall’integrazione con la storia, la cultura, le
tradizioni e l’identità della Sardegna.
Ecco perché le politiche legate ai fattori ambientali
devono trovare una forte integrazione con lo sviluppo
locale, devono costruire sinergie con lo sfruttamento delle
risorse del territorio: lo sviluppo locale è centrale, è lo
snodo fondamentale, deve essere il punto di partenza delle
198
politiche attive, da cui si sviluppano tutti i ragionamenti,
partendo da bisogni, desideri e aspettative delle comunità
locali, per costruire modelli di sviluppo condivisi e
partecipati dalle popolazioni.
L’agricoltura ha sempre avuto nella nostra società un
ruolo primario, non solo dal punto di vista economicoproduttivo e di sussistenza, ma anche dal punto di vista
sociale: ha in buona parte costituito la base della nostra
cultura, delle nostre tradizioni, ha costruito le nostre radici
e la nostra identità. In questo momento di crisi
drammatica, di sistema, che colpisce in maniera ancora
più violenta la Sardegna e il Mezzogiorno, date le
condizioni di arretratezza strutturali, il settore agricolo
funge da cuscinetto, mantiene un livello di produzione
stabile, che si attesta comunque solamente al 30% del
fabbisogno alimentare isolano e realizza una produzione
assolutamente limitata pari al 4% dei PIL sardo.
Perciò pur convivendo con altri settori produttivi, lo
sviluppo del settore agricolo e agroalimentare, ha una
importanza strategica, costituisce occasione straordinaria
per ricostruire una reale opportunità di
crescita
economica, favorire opportunità di lavoro e realizzare un
nuovo modello di sviluppo concreto sostenibile ed
ecocompatibile della nostra regione.
Il settore agroalimentare ha anche una funzione vitale
nella nostra esistenza perché costituisce ciò di cui ci
nutriamo e attraverso questo soddisfiamo il bisogno
199
primario dell’alimentazione: da ciò deriva la tutela della
nostra salute, dell’ambiente, del miglioramento della
qualità della vita per noi e per le generazioni future.
Per questi motivi, ne siamo fortemente convinti, dobbiamo
assolutamente cogliere l’opportunità che ci viene offerta
dalla valorizzazione di questo settore, consapevoli che il
sistema agricolo necessita da tempo di un intervento
radicale, funzionale, per risolvere quei nodi strutturali che
sino ad oggi hanno bloccato lo sviluppo, affinché possa
compiere un salto di qualità verso la modernizzazione.
Benché siamo usciti dall’obiettivo (1) e siamo considerati
in transizione, si registra un forte ritardo infrastrutturale.
In questa condizione generale, il settore agricolo vive
alcune criticità che si vanno a sommare a quelle generali,
che rendono ulteriormente più grave la situazione del
comparto agricolo il cui superamento costituisce una
condizione imprescindibile per lo sviluppo economico.
Permane nel sistema agricolo e nel comparto una forte
frammentazione aziendale, dove l’85% delle aziende non
supera i 5 addetti, in cui la zootecnia che costituisce il
40% dell’agricoltura, risente eccetto che per il settore
vacca da latte, della eccessiva frantumazione dell’offerta e
di forti diseconomie di produzioni aziendali legate in
particolare alle ridotte dimensioni aziendali.
É ormai necessario definire politiche tese a rendere
economicamente e culturalmente sostenibili le attività di
200
impresa nel settore, individuando percorsi di scelte chiare
e coerenti che si richiamino ad una idea condivisa di
agricoltura intesa come settore che può recuperare
competitività e creare nuove opportunità di lavoro e come
fattore di difesa ambientale e di conservazione della
peculiare cultura sarda, con la finalità di costruire un
progetto strategico per il rilancio e lo sviluppo del settore
agroalimentare, attraverso due importanti opportunità
complementari: lo sviluppo rurale e la multifunzionalità.
Lo sviluppo della economia della Sardegna data la sua
naturale vocazione agricola e l’alta caratterizzazione delle
aree rurali pari all’85% passa necessariamente attraverso il
rilancio e la valorizzazione della ruralità che può essere
considerata la strategia vincente per la realizzazione di un
nuovo modello di sviluppo integrato.
Intendiamo lo sviluppo rurale come la valorizzazione delle
risorse proprie di quell’area, delle produzioni,
all’ambiente, delle risorse naturalistiche, del paesaggio
della cultura delle tradizioni, anche gastronomiche che
appartengono a quel contesto, la valorizzazione dei saperi
e dei mestieri, il mantenimento della sua storia, il
perseguimento della qualità e della tipicità dei prodotti, la
capacità di integrazione e di coesione sociale, e soprattutto
la valorizzazione dell’identità di quei luoghi e di quel
popolo.
Lo sviluppo rurale deve essere contestualizzato, non può
essere erga omnes soprattutto su un territorio come la
201
Sardegna,
che seppur piccola per dimensioni si
caratterizza per una straordinaria differenziazione e
diversificazione delle sue risorse: a distanza di pochi
chilometri, possiamo godere di un ambiente
completamente diversificato, mare, montagna, bosco, lago
con tutto ciò che l’economia, le produzioni, la cultura, la
gastronomia e l’identità che da quello specifico contesto
deriva.
Hanno un ruolo molto importante anche tutte le attività di
ricettività e ospitalità rurale, bed & breakfast, fattorie
didattiche, laboratori del gusto, ecc. quali veicoli di
trasmissione e diffusione della cultura rurale.
Ecco perché lo sviluppo rurale deve trovare una totale
integrazione con lo sviluppo locale e deve
necessariamente costruire una sinergia con le risorse
proprie di quello specifico territorio: lo sviluppo locale è il
baricentro, deve essere il punto di partenza delle politiche
attive, solo attraverso uno sviluppo endogeno, attento e
sensibile ai bisogni della popolazione possiamo costruire
un modello di sviluppo integrato e sostenibile, condiviso e
partecipato dalla popolazione.
Lo sviluppo rurale si realizza anche attraverso la
multifunzionalità.
Con la Riforma Pac del 2003 si pone l’accento su un
modello di sviluppo che si basa sul concetto di ruralità
202
fortemente integrata alla multifunzionalità. In Sardegna
questa riforma assume carattere di grande importanza.
Si mette così in evidenza la possibilità che attraverso
l’attività agricola sia possibile assicurare funzioni
collaterali di importanza strategica per la difesa del
territorio e per la qualità delle vita: assetto idrogeologico
con la manutenzione dei versanti dei corpi idrici, aspetti di
forestazione sostenibile con lo sviluppo di un insieme di
attività che possono essere connesse alla funzione di
attività agricola, attività di trasformazione, attività
turistiche, ecc. in cui la condizionalità, l’ecocompatibilità,
l’ecosostenibilità costituiscono le principali linee guida
che ci proiettano verso una nuova agricoltura non più
basata sulla produzione di beni ma sulla valorizzazione
di tutte le risorse endogene.
Con l’agricoltura che diventa multifunzionale si costruisce
un nesso fondamentale tra agricoltura sostenibile,
equilibrio territoriale, conservazione del paesaggio e
dell’ambiente attraverso la produzione di alimenti, la
sicurezza alimentare, la tipicità dei prodotti, la
biodiversità, il benessere animale, il sostegno
all’occupazione, il mantenimento di attività economiche
delle zone a basso insediamento e la costruzione di un
modello di sviluppo rurale di qualità in grado di offrire
alle nuove generazioni occupazione e sviluppo.
Questo nesso
prodotto-territorio oltre che essere
l’elemento finale strategico della multifunzionalità ha una
203
straordinaria importanza: il territorio inteso nella sua
globalità e complessità è all’origine della tracciabilità e
rintracciabilità del prodotto agroalimentare e ad esso
trasmette la propria identità contro ogni forma di
contraffazione, quanto più questo nesso è forte, è
consolidato, visibile e certificato, tanto più è elevato il
prodotto e la sua qualità, e tanto più sono forti i
produttori.
Un ruolo quindi non più solo economico ma anche sociale
dell’agricoltura.
Qui sta la sostanza della multifunzionalità che costituisce
per noi una grande opportunità: una nuova visione
dell’agricoltura che intreccia funzioni produttive e di
protezione e riproduzione delle risorse naturali,
occupazione e sviluppo equilibrato del territorio, coesione
sociale e sviluppo delle imprese. Perché dietro ogni
prodotto proveniente dal quel territorio ci sono tutte le
specificità, compresa la cultura, le tradizioni, l’identità di
quel territorio e di quella popolazione. Ecco perché la
vitalità del territorio rurale è essenziale per l’agricoltura
cosi come l’attività agricola è essenziale per la vitalità del
territorio.
Abbiamo una grande criticità da affrontare a questo
proposito: noi stiamo consumando il territorio, che non è
una risorsa illimitata, con la cementificazione o non
concedendo ai terreni coltivati la possibilità di rigenerarsi.
204
Ci viene in aiuto la legge, ormai in diritture d’arrivo, che
ha la finalità di creare le condizioni per una riduzione del
consumo indiscriminato del suolo, con la contestuale
valorizzazione e tutela dei terreni agricoli, partendo da una
regolamentazione che abbia una visione d’insieme del
territorio, al fine di tutelarne la destinazione d’uso, sia per
motivi di opportunità economica che di tutela del
benessere della collettività.
Una importante opportunità è costituita anche dalla
integrazione tra agricoltura e turismo e tra zone costiere e
zone interne.
Attraverso la promozione delle produzioni agricole e
agroalimentari integrate con tutte le opportunità
dell’offerta turistica culturale e di svago legate alla
valorizzazione del territorio montano o marino e le sue
ricchezze ambientali, si può costruire un progetto integrato
in grado di offrire un pacchetto vacanza che non
comprenda solamente le zone costiere ma sia in grado di
offrire opportunità culturali e di svago legate alla
valorizzazione del territorio e delle sue ricchezze e
specificità.
Le masse di turisti che frequentano la nostra terra devono
essere messe in contatto con le nostre produzioni agricole
e il turismo deve essere il veicolo delle nostre produzioni
sia nel momento dell’approvvigionamento da parte delle
strutture ricettive, sia in quello della commercializzazione.
205
La Sardegna non è solo mare, come spesso viene
rappresentata.
La montagna e il bosco, infatti non sono solo territorio
inospitale e non fruibile dalle popolazioni, ma sono luoghi
dove possono essere sviluppate attività economiche capaci
di creare reddito e benessere, possono favorire la crescita
di attività assolutamente compatibili sfruttando tutto ciò
che naturalmente l’ambiente del bosco fornisce nonché
tutte quelle attività complementari turistiche e ricettive
che sono in grado di offrire nuove opportunità di lavoro.
Ecco perché il sistema agro-forestale deve diventare un
traino per il comparto agroalimentare, per il settore
turistico, per la tutela e salvaguardia ambientale,
valorizzazione paesaggistica del territorio, per la qualità
della vita, per l’affermazione di una forma di sviluppo
capace di dare prospettive occupazionali a migliaia di
lavoratori e per l’intera economia della Sardegna.
Questi interventi possono essere la soluzione al problema
sempre crescente dello spopolamento delle zone interne,
perché potranno creare occasioni di lavoro per intere
generazioni sinora costrette ad abbandonare le loro radici
alla ricerca del posto di lavoro tanto auspicato e trasferirsi
in città o emigrare alla ricerca di un posto di lavoro che
spesso non c’è. Questo fenomeno negativo anche doloroso
non solo ha provocato sinora lo sradicamento culturale e
identitario delle persone, soprattutto giovani e lo
svuotamento geografico delle aree, ha anche provocato
206
l’abbandono e il degrado ambientale e sociale delle aree
rurali, oltre che la perdita del valore aggiunto a causa del
mancato utilizzo delle risorse.
É perciò molto importante favorire il ritorno dei giovani
alla campagna, avviare una conversione e un ritorno
all’agricoltura, riconoscendo il suo valore assoluto e
strategico, non più marginale come sinora è stato. Cosi
come è importante valorizzare tutte le risorse che dal
settore agricolo possono derivare, prima fra tutte la
zootecnia.
Se parliamo di peculiarità ambientali parliamo anche di
pesca e acquicoltura perché la valorizzazione
dell’eccellente qualità dell’ambiente marino rappresentano
una grande opportunità con ampie prospettive di sviluppo.
Il territorio della Sardegna, come detto, è per l’85% rurale,
ad esclusione di poche rilevanti estensioni urbane, arriva
fino alle coste che si estendono per circa 1840 km e
comprendono spesso gli stagni costieri e le lagune di cui la
nostra isola è particolarmente ricca.
La pesca soffre degli stessi limiti infrastrutturali che
condizionano pesantemente il settore agricolo nel suo
complesso, peraltro comuni alla generalità del sistema
produttivo sardo (invecchiamento degli addetti, incapacità
di fare sistema, difficoltà di penetrazione sui mercati,
ritardi nella programmazione di sviluppo locale integrato,
flotta inadeguata, peso e costi della burocrazia, assenza di
207
pianificazione) ed ha bisogno di crescere in competenza e
capacità organizzativa, ma siamo ben consapevoli di una
domanda crescente di prodotto ed una incapacità del
sistema regionale di dare risposta assolutamente
inadeguata pari a circa il 30%.
Per queste ragioni, crediamo che il settore della pesca
debba essere adeguatamente ripreso in considerazione nel
momento in cui si decide di giocare la carta dello sviluppo
fondato sulle potenzialità locali e sulle filiere di qualità.
La scelta di Eni e Novamont di insediare a Portotorres il
più grande impianto europeo di chimica verde, impone
all’attenzione di tutti la questione del ruolo
dell’agricoltura all’interno della green economy.
Dopo il fallimento della cessione di Versalis ad un fondo
americano il progetto sembra aver ripreso vigore ed esiste
la concreta possibilità che venga portato a termine il
progetto originario, anche se ridimensionato dalla quasi
certezza della mancata costruzione della centrale a
biomassa.
La società nata dall’accordo tra Eni e
Novamont, necessiterà per le sue produzioni e per
l’alimentazione della centrale di una quantità rilevante di
materia prima di origine agricola. Questa esigenza è
presente fin dal primo momento, ma, forse non è stata
adeguatamente presa in considerazione, quasi che si
considerasse scontato che il mondo agricolo considerasse
questa richiesta una straordinaria opportunità. In realtà
non c’era e non c’è niente di scontato e la freddezza con
208
cui il mondo agricolo ha accolto il progetto e tutta lì a
testimoniarlo.
La FLAI, da subito ha posto l’accento su alcuni
problemi ritenuti cruciali, che brevemente richiamo:
l’opportunità di destinare terreni agricoli alla
produzione di biomasse anziché di alimenti;
i margini di remuneratività di tali coltivazioni per le
imprese agricole;
la necessità di tenere conto della penuria d’acqua in
Sardegna;
la possibilità di introdurre nel territorio regionale
coltivazioni a base di OGM.
Coerentemente con le affermazioni fatte finora in
relazione alle possibilità di sviluppo dell’agricoltura sarda
e all’importanza delle politiche di filiera noi riteniamo che
sarebbe sbagliato destinare terreni irrigui alla coltivazione
di biomasse per fini energetici ed industriali; l’uso
ottimale di quei terreni è quello per produzioni alimentari,
per cui le coltivazioni finalizzate ad alimentare centrale ed
impianti dovranno insistere su terreni marginali, o, qualora
sia possibile, entrare nel ciclo di rotazione delle colture.
Ribadiamo la nostra opzione per la destinazione dei terreni
ad attività di produzione agricola ai fini alimentari per
l’uomo e gli animali, da collocare nella politica di filiera e
di valorizzazione delle produzioni alimentari. Eventuali
209
coltivazioni non alimentari potranno aver luogo in terreni
marginali, ferma restando l’inopportunità di introdurre in
Sardegna coltivazioni a base OGM o ad alto consumo
idrico.
É fondamentale per le nostre produzioni l’adozione di
politiche di filiera capaci di migliorare la qualità in una
logica di tracciabilità, una chiara indicazione del luogo di
produzione e trasformazione di un prodotto alimentare.
Per poter competere sulla qualità, e non sul prezzo dati i
costi di produzione, è assolutamente prioritario che i
prodotti sardi siano tutelati non solo attraverso il sistema
dei marchi, ma anche attraverso la tracciabilità che può
essere garantita dalle organizzazioni dei produttori delle
diverse filiere con l’adozione di disciplinari di produzione
e parametri di qualità vincolanti ai quali tutti gli attori
debbano obbligatoriamente attenersi pena l’esclusione
dall’organizzazione.
In un ragionamento di filiera ci si deve chiedere perché
non siano mai state avviate politiche indirizzate a produrre
nell’isola la quota possibile di alimentazione per le bestie
allevate in Sardegna, ciò alla luce del dato in base al quale
il 50% dei terreni irrigui non viene attualmente coltivato,
ed è lasciato al pascolo brado pur in presenza di
disponibilità d’acqua per il favorevole ciclo della
piovosità e per le scelte infrastrutturali compiute negli
scorsi anni.
210
É necessario perciò rimettere a coltivazione questi terreni
con leguminose e foraggi destinate all’alimentazione
animale in una corretta politica di tracciabilità: da ciò con
cui l’animale si nutre fino al prodotto finito.
Ciò costituisce una importante politica di filiera utile a
creare i presupposti per il rilancio dell’attività di
coltivazione e di allevamento.
Perché queste politiche possano realizzarsi è necessario un
forte governo pubblico capace di indirizzare e sostenere le
produzioni, di favorire l’incontro tra le diverse categorie,
di legare la complessiva valorizzazione del territorio a
quella delle sue produzioni agroalimentari in una logica di
sviluppo integrato e sostenibile.
La debolezza commerciale che caratterizza attualmente il
sistema delle imprese agricole in Sardegna la rende
fortemente dipendente dagli intermediari con la
conseguenza che le quote di valore aggiunto si disperdono
in queste figure.
Solo puntando sulla costruzione di questa immagine nel
mondo, saremmo capaci di conquistare fette di mercato
più ampie.
Ci sono già esperienze di eccellenza sia nel settore dei
vini, dei formaggi, dei pomodori, che ci indicano una
buona prassi da seguire affinché le nostre produzioni
possano incontrare il mercato sia locale che nazionale.
211
Una importante opportunità per la commercializzazione
delle produzioni agroalimentari deriva anche dagli scambi
con i paesi dell’area Mediterranea. Cagliari con il suo
porto di transhipment, può rappresentare in questo
processo uno snodo fondamentale per il commercio e gli
scambi d’area nei confronti dei traffici che dai paesi
dell’Oriente sono destinati al mercato americano.
Una importante infrastruttura come il Porto Canale di
Cagliari costituisce una interessante opportunità per la
commercializzazione delle nostre produzioni con
l’occasione di conquistare importanti mercati ora
sconosciuti.
I nodi strutturali che indeboliscono la capacità competitiva
del sistema produttivo regionale producono i loro effetti
negativi anche sul settore agricolo e agroalimentare, la
soluzione dei problemi legati al costo dell’energia,
all’efficienza ed economicità del sistema dei trasporti e
della viabilità rurale, dell’acqua, del credito, della qualità
e alla adeguatezza culturale della risorsa umana, alla
copertura di tutto il territorio regionale con la rete
informatica, al funzionamento adeguato della Pubblica
Amministrazione non potrà che produrre risultati positivi
sul mondo agricolo regionale.
Questi nodi strutturali vanno affrontati con urgenza perché
producono un forte ritardo nello sviluppo del sistema
agricolo e gravi vincoli alle opportunità di crescita
economica e occupazionale della Sardegna.
212
Un rilancio del settore agroalimentare richiede qualità ed
adeguatezza della risorsa umana, capace di raccogliere
l’eredità del passato con la salvaguardia dei tratti peculiari
della nostra agricoltura, ma introducendo le innovazioni
necessarie per essere competitivi in un mercato sempre più
difficile. É fondamentale costruire cultura e capacità
imprenditoriale dei produttori e favorire un modello nel
quale essi acquisiscano coscienza e consapevolezza del
valore del loro lavoro, fuori dalle logiche
dell’assistenzialismo, e individuino forme e misure per
poterlo valorizzare, superando l’individualismo attraverso
la sinergia con forme di associazionismo.
Soprattutto in Sardegna la bassa presenza dei giovani e
delle donne nel mercato del lavoro, fa perdere l’apporto di
capacità, intelligenze e conoscenze e quindi di una
componente rilevante al processo di sviluppo e crescita
tale da incidere negativamente sulle capacità competitive
complessive.
La disponibilità e i costi dell’acqua rappresentano un
annoso problema. Non tanto relativamente alla
disponibilità dell’acqua, che grazie ai notevoli interventi
strutturali realizzati negli ultimi anni non si pone in
termini restrittivi, quanto al costo dell’acqua per ettaro
irrigato che raggiunge livelli che portano gli agricoltori ad
abbandonare i propri terreni.
213
Emerge un quadro normativo di regolamentazione che
sovrintende sia al funzionamento dei consorzi di bonifica
che alla gestione della risorsa idrica multisettoriale.
Le principali leggi di riferimento sono la L. 6 del 23
maggio 2008, Legge quadro in materia di Consorzi di
bonifica, e la Legge n.19 del 6 dicembre 2006,
Disposizioni in materia di risorse idriche e bacini
idrografici.
Quest’ultima nata dall’esigenza di dare corretta attuazione
in Sardegna alla legge n. 183 del 1989 e al decreto
legislativo n. 152 del 2006, nonché alla Direttiva 2000/60
della Commissione Europea che indica come obiettivo di
riferimento, nella gestione della risorsa idrica, la
sostenibilità, intendendola nelle sue tre accezioni di
sostenibilità ecologica, economica e sociale.
La Sardegna è stata la prima regione italiana a legiferare
in materia, adeguando il proprio ordinamento alle direttive
europee. L’aspetto di questa legge di riforma che interessa
maggiormente l’agricoltura è la centralizzazione del
governo della risorsa idrica multisettoriale presso la
Regione, configurata come Autorità di Bacino, con
l’affidamento della gestione ad un proprio ente
strumentale costituito ad hoc.
La Regione quindi pianifica l’uso dell’acqua e definisce le
tariffe idriche all’ingresso per i tre diversi utilizzatori
(Gestore servizio idrico integrato per uso civile, i Consorzi
214
di Bonifica per l’uso irriguo, i Consorzi industriali per
l’uso industriale).
Fissare le tariffe, prevedendo anche la possibilità di
abbassarle col ricorso alla fiscalità generale, costituisce
uno strumento di programmazione che la Regione può
utilizzare in funzione delle proprie strategie generali di
sviluppo.
L’annosa carenza della risorsa irrigua è lì a testimoniare
l’oculata scelte fatta nel 2006 di riformare il sistema idrico
multisettoriale regionale e consentirà la programmazione
di una agricoltura irrigua almeno nei terreni già
infrastrutturati, ma non va mai dimenticato che la
Sardegna è un’isola e quindi il suo sistema idrico è
rigidamente delimitato, si trova al centro del Mediterraneo
con un clima che la espone a periodici rischi di siccità, e
quindi la risorsa va gestita con la massima attenzione e
senso di responsabilità.
La Sardegna è una regione del Sud e il destino del
Mezzogiorno è legato all’Europa, non tanto e non solo
perché la politica di coesione è l’unico strumento di
programmazione delle risorse, capace di affrontare i divari
e i differenziali di sviluppo, ma perché il Sud rappresenta
una occasione unica.
Infatti nel Sud, la Sardegna, con il porto di Cagliari
abbraccia il Mediterraneo, luogo di cultura e
contaminazione, di scambi e di accoglienza, rappresenta il
215
punto strategico della ridefinizione di uno sviluppo
geopolitico oltre che commerciale ed economico di uno
spazio euromediterraneo, in cui l’Europa può giocare un
ruolo fondamentale guardando al continente africano in
forte crescita, al Medio Oriente fino alle crescenti
economie asiatiche.
Certamente per cogliere questa opportunità è necessario
uno spazio politico e sociale coeso e un ruolo attivo e
concertativo da parte di tutti i livelli istituzionali coinvolti.
Per questo è necessario che tutti gli attori sociali, ognuno
nel proprio ruolo, consapevoli che un nuovo modello di
sviluppo economico è possibile si adoperino
proattivamente, con una adeguata strategia di governance,
nel creare le condizioni per valorizzare tutte le
straordinarie opportunità e potenzialità che la Sardegna
offre.
216
La pastorizia e l’agricoltura sarda
nell’economia dell’isola.
On. Luigi Lotto, Presidente Commissione Attività
Produttive del Consiglio Regionale della Sardegna
Seppure con alti e bassi, il processo di ammodernamento
della pastorizia e dell’agricoltura sarda, negli ultimi 70
anni, è andato avanti sia sul fronte organizzativo sia su
quello produttivo. La meccanizzazione spinta da una parte
e la selezione del bestiame dall’altra, accanto al processo
di stanzializzazione delle imprese pastorali legato alla
piccola proprietà coltivatrice, hanno segnato il cammino
del comparto nella seconda metà del secolo scorso.
Pur attraversato da momenti di crisi importanti legate alle
difficoltà di mercato del Pecorino Romano o alla periodica
ricomparsa del virus della lingua blu che ha spesso
decimato le greggi, il comparto ha conservato intatto il suo
peso nell’agricoltura sarda e nell’economia isolana.
Con la produzione di formaggi da latte ovino, in
prevalenza Pecorino Romano, di cui, come è stato
magistralmente evidenziato nella relazione del professor
Pulina, siamo i principali esportatori al mondo, il
comparto pastorale è detentore dell’unico prodotto
agricolo sardo veramente di massa che, se fosse meglio
organizzato, può condizionare il mercato. Le produzioni
lattiero casearie sarde, che rappresentano non meno del
40% della produzione agricola totale isolana, scontano
217
però una carenza di programmazione che ne offusca ogni
prospettiva di sviluppo e ne determina una instabilità di
fondo.
Il rifiuto sostanziale delle imprese di trasformazione,
privati e cooperative, di predisporre e realizzare un
programma produttivo che salvaguardi l’intero comparto
attraverso una virtuosa diversificazione produttiva e una
valorizzazione dei prodotti a marchio di qualità (pecorino
romano, pecorino sardo e fiore sardo) di cui il settore
dispone ma che, per almeno due su tre, ignora, hanno
determinato una debolezza complessiva del comparto.
Paradossalmente, il comparto agroalimentare più forte per
dimensione e per tipologie di prodotto, adatte alla
commercializzazione senza le debolezze di altri prodotti
agricoli (vedi orto frutta), appare incapace di garantire ai
produttori di latte una prospettiva certa e lineare.
La
scelta
dell’assessorato
di
promuovere
la
Organizzazione Interprofessionale tra gli attori dell’intera
filiera del lattiero caseario dell’ovicaprino, va nella giusta
direzione. Va incoraggiata con convinzione e nessuno
deve sottrarsi al dovere di partecipare con tutto proprio
peso e le proprie responsabilità. Potrà essere, questo, il
primo passo verso un processo che porti ad un governo
vero del comparto, dove ad ogni protagonista sia riservato
il giusto spazio e assegnate le altrettanto giuste
responsabilità. Solo in questo contesto, il pilastro
principale del comparto, rappresentato dai pastori, potrà
vedersi riconosciuto il proprio ruolo come anche assegnate
le doverose responsabilità.
218
Un altro comparto, il viti vinicolo sardo, è stato
protagonista
di
un
significativo
processo
di
riorganizzazione negli ultimi 20 anni. Un processo che
può essere guardato con attenzione, visto come esempio e
che, seppure ancora incompleto, lo ha accompagnato
verso una valorizzazione delle produzioni di qualità e una
razionalizzazione degli impianti. Un principio di
“governo” del comparto.
Negli interventi precedenti si è parlato di eccessiva
concorrenza per il prezzo (il presidente Illotto) e di premi
comunitari elargiti slegandoli dalla attività produttiva
(Felice Floris), concordo con le preoccupazioni espresse.
Certamente la filiera dovrà fare passi da gigante nella
direzione di disinnescare le speculazioni, ma potrà farlo
solo se nella Organizzazione Interprofessionale prenderà
piede una vera regia di comparto. Sarà così possibile
creare le condizioni affinché la concorrenza tra gli attori
della trasformazione sia sulla qualità dei prodotti e servizi
offerti più che sulla guerra del prezzo del formaggio e del
latte, la cui formazione non può essere in mano alla OI ma
dipende dal mercato del formaggio. Quest’ultimo però
potrà
essere
positivamente
condizionato
dalla
programmazione produttiva operata dalla OI, così come si
potrà evitare che il soggetto su cui si scarica la
fluttuazione del prezzo del formaggio, con il prezzo del
latte, sia sempre e comunque il pastore.
Credo però che il tema al centro della iniziativa di oggi si
sposi bene anche con la questione più ampia che sta sullo
sfondo della politica regionale.
219
Quale il ruolo della agricoltura e dell’agroalimentare sardo
nel contesto economico isolano?
E non è solo una questione di PIL, pur importante, ma
anche di un ruolo sistemico che l’agroalimentare sardo di
qualità può svolgere in sinergia con il mondo produttivo
dell’artigianato, del turismo e più in generale del terziario.
Una agricoltura sempre più integrata, sempre più legata,
anche da ragioni di multifunzionalità, al resto
dell’economia isolana di cui può essere importante volano
ma dal quale può anche trarre motivo e ragione di crescita.
Ma altre domande emergono con forza dai nostri
ragionamenti.
Quale il ruolo dei pastori negli equilibri sociali dell’isola?
Quale il loro ruolo nel presidio del territorio e nella
salvaguardia e valorizzazione del nostro patrimonio
culturale e identitario?
Quale il loro ruolo nel promuovere lo sviluppo sostenibile
del territorio e nella salvaguardia e valorizzazione del
nostro patrimonio paesaggistico e naturalistico, anche in
ottemperanza alle buone pratiche relative ai cambiamenti
climatici?
L’agricoltura peraltro, e l’agro pastorale in particolare, ha
un ruolo indiscutibile nel titanico sforzo cui è chiamato il
governo regionale per arginare il fenomeno,
apparentemente inarrestabile, dello spopolamento delle
zone interne. Molto dovrà essere fatto in quella direzione a
partire dalla salvaguardia dei servizi primari nelle
comunità interne, passando anche per la promozione del
220
turismo enogastronomico, del turismo attivo, culturale
archeologico etc. ma non si potrà prescindere dal presidio
produttivo del territorio. A questo ultimo compito è
chiamato in primis il mondo agro pastorale, i pastori.
I pastori certo, chiamati anche essi però ad un ruolo più
attivo nella promozione dell’ammodernamento del
comparto, nella integrazione dello stesso con il resto della
economia e nel pretendere una politica di filiera che
valorizzi e stabilizzi le produzioni delle imprese pastorali.
I pastori certo, che sono chiamati a garantire, non solo la
sopravvivenza, ma il suo rilancio su nuove
basi e alla luce delle nuove tecnologie oggi disponibili,
della nostra attività produttiva più antica.
Io non auspico una espansione ulteriore dell’allevamento
ovino generalizzato e ancor meno nelle zone di pianura
irrigua dove è auspicabile la crescita di altri comparti, è
però essenziale la salvaguardia se non il rilancio della
attività pastorale nelle zone interne. In questi luoghi, dove
il pascolo brado è l’unica ma anche la più razionale ed
economica utilizzazione delle unità nutritive.
221
Dott. Pietro Tandeddu, Coordinatore regionale
Copagri Sardegna
Dall’excursus storico sulla pastorizia isolana tracciato
dall’On. Pietro Maurandi si rilevano i profondi mutamenti
che hanno interessato le condizioni economiche e sociali
dei nostri pastori, a partire dall’immediato dopoguerra.
Pur mettendo in conto che l’orologio della storia, in una
regione meridionale e insulare come la nostra, segna
qualche ritardo rispetto alle regioni più avanzate e
dinamiche, non vi è dubbio che le condizioni di vita del
pastore sardo hanno registrato un netto miglioramento
dagli anni cinquanta ai giorni nostri.
Ciò è frutto di alcuni importanti interventi legislativi, che
voglio richiamare io stesso, che hanno introdotto forti
innovazioni nella conduzione dell’azienda agro-pastorale.
In primo luogo, anche se in misura ridotta, la riforma
agraria, più correttamente la cosiddetta “ legge stralcio “,
approvata nel 1950, che prevedeva
la possibilità
dell’esproprio forzoso di terre per poi essere assegnate ai
braccianti e piccoli contadini.
Con la costituzione dell’ETFAS - Ente per la
trasformazione fondiaria e agraria in Sardegna, furono
acquisiti nella nostra Regione oltre 90.000 ha di terre,
222
oggetto di una grandiosa opera di miglioramento fondiario
e teatro di realizzazione di grandi opere infrastrutturali.
A partire dagli anni ’50 svolge un’azione altamente
positiva la Cassa per la Formazione della Proprietà
Contadina che, con la concessione di mutui quarantennali
al tasso fisso dell’1%, consente a numerosi pastori
transumanti delle zone interne di insediarsi stabilmente
nelle pianure del Sulcis (prevalentemente i desulesi), della
Nurra (fonnesi e altri barbaricini), di Olbia (Bittesi e
orunesi) dei Campidani (fonnesi, gavoesi, pastori di
Ovodda, ecc).
Forse è bene ricordare che in quegli anni, la conduzione
prevalente dell’impresa agricola pastorale era in affitto,
cui si ricorreva per fare svernare nelle basse pianure le
greggi che poi sarebbero salite in primavera, nella
maggior parte dei casi, nei pascoli alti comunali gravati
da uso civico.
Con l’approvazione poi della L. 11 febbraio 1971 , n. 11,
meglio nota come “De Marzi – Cipolla” , dai nomi dei
parlamentari presentatori, si compie un ulteriore passo in
avanti; la “ vituperata legge”, come fu definita dai suoi
detrattori, pone termine, attraverso lo stabilirsi di una
durata certa e pluriennale dei contratti e la fissazione di un
canone automatico legato al reddito fondiario, alle assurde
pretese dei proprietari assenteisti, sempre mal disposti ad
investire qualche soldo nei loro terreni, che richiedevano
223
agli affittuari, per il solo periodo autunno-vernino, metà
delle produzioni ottenute.
Interviene poco dopo, la Legge regionale n. 44 di riforma
agro-pastorale, derivazione della L. n. 268 (secondo Piano
di Rinascita), frutto delle conclusioni della Commissione
parlamentare di inchiesta sul banditismo in Sardegna.
La legge n. 44 non esproprierà alcun terreno, nonostante
l’obiettivo di mettere a disposizione della pastorizia sarda
non meno di 400.000 ha di terreni, ma, attraverso acquisti
e permute, costituirà un “ monte pascoli” che, per almeno
12.000 ha, sarà assegnato a singoli imprenditori e
cooperative, spesso giovanili. Un maggior numero di ha,
invece, sarà oggetto di piani di miglioramento agrario che
interesserà diverse zone dell’Isola.
La stabilizzazione dei pastori sul fondo favorirà il loro
passaggio dalla condizione di semplice “guardiano di
pecore” a moderno imprenditore, capace di coordinare
sapientemente i fattori di produzione: terra, capitale e
lavoro. Lo stesso era avvenuto con l’occupazione, da parte
dei pastori sardi, dei poderi mezzadrili abbandonati in
Toscana o l’acquisizione di numerose aziende nel Lazio ,
nell’Appennino emiliano ed in altre aree del Paese.
Un altro fattore di miglioramento sarà costituito dalla
nascita della cooperazione lattiero-casearia, già presente
nei primi anni del novecento e organizzata nella
224
federazione FERLAC da parte del sardista Paolo Pili, poi
passato al partito fascista, che riuscirà ad alimentare un
buon flusso di esportazione di pecorino romano negli Stati
Uniti. Pili sarà isolato dallo stesso fascismo e la
cooperazione verrà messa in crisi come tutti i soggetti
democratici organizzati.
Di cooperazione si tornerà a parlare nel secondo
dopoguerra ed essa servirà ad introdurre un regime di sana
concorrenza tra i pastori associati e industria privata che,
sino ad allora, la faceva da padrone imponendo prezzi del
latte non remunerativi.
Non saremmo onesti infine, se non facessimo cenno al
lavoro prezioso svolto dagli enti pubblici di assistenza
tecnica e di ricerca; penso soprattutto all’attività
dell’Università, dell’istituto Zootecnico e caseario, oggi
confluito in Agris. Va a loro il merito di aver guidato
un’intelligente opera di selezione, di aver reso possibile il
miglioramento dei sistemi di allevamento, di
alimentazione, di aver diffuso le migliori tecniche volte a
salvaguardare la salute animale. É per tutto questo che
oggi disponiamo di una delle migliori razze ovine da latte,
di vere e proprie “macchine da latte”.
Possiamo ora dire di aver risolto tutto? No certamente;
non mancano debolezze, criticità e contraddizioni.
225
Senza andare lontano, pensiamo ai giorni nostri. Il prezzo
del latte ovino che, nella campagna lattiero-casearia 2013
2014 aveva avuto una remunerazione “storica”
normalmente superiore all’euro/litro, ha subito una
preoccupante e repentina caduta; gli industriali caseari
avanzano timidamente ai pastori, per la prossima
campagna, offerte di 50-55 centesimi /litro; si provi a
immaginare la reazione di un lavoratore dell’industria cui
si vada a proporre, improvvisamente, un calo di salario
pari al 40%.
Cosa è avvenuto? In parole povere si è violata la più
elementare legge dell’economia che chiede equilibrio tra
domanda ed offerta. Chiarito che la produzione di
pecorino romano rappresenta la maggiore produzione
(mediamente il 50%) di formaggio sardo, e che esso,
purtroppo, per debolezza della produzione che non riesce
ad imporre nuove regole in materia di contrattazione,
determina il prezzo del latte, è successo che,a fronte di una
produzione media, in tre annate precedenti e consecutive,
di poco meno di 250.000 ql., che è esattamente la quota
vendibile sul mercato mondiale, i caseifici sardi hanno
prodotto, nella campagna 2014-2015, 301.000 ql. di
romano e ben 356.000 ql nell’annata appena trascorsa,
generando scorte difficili da smaltire.
La quotazione del pecorino romano, che aveva raggiunto
vette impensabili (€ 9.50/ Kg), superando addirittura la
226
quotazione del parmigiano reggiano, è attualmente di €
5.40/ Kg.
Incontestabili i limiti culturali ed economici della nostra
imprenditoria. Le cause del male non vanno ricercate
all’esterno; sono all’interno della filiera stessa e fa specie
che il passato non insegni nulla. Nella campagna 19941995, con una produzione di pecorino romano pari a oltre
384.000 ql, il prezzo del latte scese a 55 centesimi/litro e a
51 centesimi nell’annata 2003-2004, con una produzione
di romano di 382.000 ql. circa.
Che fare allora? Dar fiato alla protesta? La protesta può
segnalare il disagio, ma di per sé non porta lontano. Ad
una organizzazione professionale agricola responsabile
compete il dovere della proposta, indicando soluzioni a
breve, di emergenza, e strutturali, atte a costruire stabilità
del sistema e determinare un’equa ripartizione del valore
all’interno della filiera.
Cosa debbono fare i trasformatori poiché il pastore è
l’unico a non avere responsabilità, se non quelle del
controllo sociale dei caseifici cooperativi? Va da sé che
occorre il rispetto di una auto regolamentazione
dell’offerta che sia dettata dalle reali condizioni di
mercato, peraltro proposta e approvata all’interno del
Consorzio di tutela del pecorino romano che fissava in
260.000 ql. la produzione di romano per la campagna
2015-2016.
227
Più attori devono concorrere al superamento della crisi:
Ministero, Regione, Consorzio di tutela del romano e
l’intera filiera.
Il ministero, con la ricostituzione del tavolo nazionale di
filiera lattiero caseario del comparto; con l’emanazione
del decreto attuativo del regolamento comunitario che
impone agli acquirenti di latte di comunicare mensilmente
allo Stato quanti litri ricevono, e ciò al fine di avere
finalmente dati certi sulla produzione di latte; con
l’emanazione, in virtù di un altro regolamento UE, di un
altro decreto che finanzi, con i promessi 6 milioni di euro,
la macellazione di pecore di oltre 4 anni; con
l’emanazione, infine, del bando atto a consentire ad
AGEA di acquistare pecorino romano e pecorino sardo da
destinare agli indigenti in quanto è prioritario alleggerire i
magazzini dalle scorte.
La Regione, con l’approvazione di un programma
straordinario di acquisto di pecorino da destinare alle
mense pubbliche e ai poveri della Sardegna; con
l’accelerazione dell’iter di attuazione delle misure già
approvate in materia di credito, sia quelle a favore delle
imprese industriali, sia quelle relative al prestito di
esercizio per le aziende agricole (i pastori potrebbero così
sfuggire alle caparre e al ricatto degli industriali privati) ;
con il finanziamento di un programma sperimentale di
destagionalizzazione delle produzioni (oggi il latte si
produce da dicembre a luglio, ben poco subito dopo) per
228
soddisfare, in estate e autunno, le esigenze dei caseifici
che producono formaggi molli, nel momento, tra l’altro, di
massimo afflusso dei turisti.
Di grande utilità sarebbero, inoltre due provvedimenti di
natura legislativa che consentano, l’uno, di legare i
benefici regionali disposti per le industrie di
trasformazione lattiero-casearie, al rispetto della
programmazione produttiva del pecorino romano
approvata in sede di consorzio di tutela, l’altro, di
concedere un aiuto straordinario triennale agli allevatori,
in regime "de minimis", per il tramite dei caseifici ai quali
conferiscono il latte, con priorità ai caseifici sociali, alla
sola condizione che non producano pecorino romano o che
si impegnino, per le prossime campagne lattiero-casearie
2016-2017, 2017-2018 e 2018-2019 al rispetto del
programma di autoregolamentazione dell’offerta.
I caseifici sociali dovrebbero invece impegnarsi verso una
maggiore aggregazione dell’offerta di pecorino romano
con lo sviluppo di OP e costituzione di Associazioni di OP
o altre forme giuridiche che possano sviluppare comuni
azioni di marketing e commerciali attraverso un’unica
organizzazione commerciale;
Contestualmente, le produzioni casearie andrebbero
concentrate, oltre che sul pecorino romano, su alcune
tipologie; in primis, pecorino sardo a DOP, che ha oggi
una produzione di poco superiore ai 18.000 ql (2014).
Probabilmente la somma di tutte le etichette di formaggio
229
in commercio e prodotte nei caseifici sardi, ammonta a
circa un migliaio; produzioni, queste, che solo in pochi
casi possono affrontare il mercato nazionale, difficilmente
quello estero.
Al consorzio di tutela del pecorino romano spetta, a nostro
modesto avviso, il compito di inasprire le penalità previste
dal piano di autoregolamentazione dell’offerta per chi
deborda dalla produzione assegnata di romano e la
modifica del disciplinare dello stesso formaggio per
introdurre un” romano da tavola” a basso contenuto di
sale: non oltre il 3%. Qualcuno inizia a produrlo ma non
trova tutela giuridica.
Infine, compito dell’intera filiera è dare gambe
immediatamente all’Organizzazione Interprofessionale del
comparto, che si spera possa essere costituita entro il mese
di dicembre davanti al notaio, perché rappresenta lo
strumento (mai attivato in Sardegna) utile a costruire una
politica di filiera tra tutti i soggetti interessati: produttori
di latte, caseifici privati e cooperativi, distribuzione e
l’apporto, come soci consultivi, delle organizzazioni di
rappresentanza delle varie fasi della filiera, dalla
produzione alla distribuzione, dei consorzi di tutela, della
ricerca.
All’Organizzazione Interprofessionale compete, a norma
di legge, stabilire condizioni di trasparenza nel campo
delle produzioni e dei mercati, promuovere la ricerca di
nuovi mercati di sbocco, elaborare un contratto-tipo di
230
fornitura rispettoso di quanto previsto dall'art. 62 della L.
n. 27/2012 che serva a regolare, in maniera uniforme
sull’intero territorio regionale, i rapporti contrattuali tra
chi vende e chi acquista latte, condividere i parametri da
porre a base del pagamento del latte secondo qualità,
stabilire tetti produttivi entro un’azione programmata di
destinazione del latte, promuovere l’incremento dei
consumi e la destagionalizzazione delle produzioni.
Tutto ciò potrebbe effettivamente, entro un quadro di
concertazione, attenuare i conflitti del passato e far fare al
comparto quel salto di qualità da tempo auspicato.
231
Agricoltura, pastorizia e ambiente in Sardegna
e nel Mediterraneo
Dott. Raffaele Lecca, Presidente Regionale ALPAA
La congiuntura internazionale relativa al mercato del
Pecorino Romano sta creando forti tensioni tra allevatori e
industria casearia sul prezzo del latte; il crollo del prezzo
del pecorino nei mercati internazionali, aldilà di tante
considerazioni, mette in difficoltà gli allevatori, che si
vedono scarsamente remunerato il latte, e le aziende
trasformatrici, che si ritrovano con le cantine piene di
prodotto invenduto.
Questo fatto ripropone una contrapposizione, mai sopita,
che crea forti tensioni tra gli allevatori e l’industria
casearia, e che costringe tutte le parti in causa a riflettere
circa i correttivi da adottare. Sistematicamente, come se il
tempo si fosse fermato, nei momenti in cui le vendite del
Pecorino Romano entrano in sofferenza ritorna di attualità
il fatto che le industrie casearie approfitterebbero della
congiuntura negativa per innalzare i loro profitti a danno
degli allevatori, i quali, a causa anche di mancate politiche
associative, si presentano ai tavoli negoziali con estrema
debolezza.
Si fa un gran parlare di come è cambiato il mondo
pastorale, di come si sia modernizzato, di quanta
tecnologia sia entrata negli allevamenti (ovini) con le
232
mungitrici e con stalle super tecnologiche costruite per
garantire benessere agli animali, insomma di quanto il
vecchio pastore sardo sia diventato imprenditore che
guarda al futuro pensando al proprio lavoro con speranza e
fiducia.
In parte tutto ciò è vero, però credo ci sia ancora molto da
fare affinché vengano superate tutte le criticità che vive il
comparto, e con esse, conseguentemente, una fetta
importante del sistema economico e produttivo della
nostra regione.
La pastorizia è un mestiere antico, è stato per decenni
l’unica fonte di guadagno per decina di migliaia di
persone, e per decenni il popolo sardo è stato identificato,
suo malgrado, con la pastorizia. Quindi a torto o a ragione
la pastorizia e l’agricoltura non potevano e non possono
essere un problema che riguarda solo gli addetti ai lavori,
ma riguardano l’intera classe dirigente isolana, che ha il
dovere di ritenerle a tutti gli effetti come elementi
inscindibili dell’intero comparto economico e sociale della
Sardegna.
La classe politica e dirigente alla fine degli anni 60 inizio
anni 70 ha ritenuto che il sistema economico e sociale
della Sardegna fosse condizionato eccessivamente e
negativamente dal comparto agro-pastorale, e che ciò sia
stata la causa del malessere che ha vissuto la nostra isola.
Nessuno allora contestò tale tesi, pensando che la panacea
potesse essere la sostituzione di quel modello economico,
233
basato appunto su un’economia prevalentemente agropastorale, con una basata sull’industrializzazione. Così ci
fu l’avvento di un’economia basata sull’industria e si
ridimensionò, per ovvie ragioni, quella agricola e
pastorale.
Certo quella scelta consentì alla Sardegna di uscire da una
condizione di arretratezza economica, però forse non si
capì bene che l’industrializzazione si sarebbe potuta avere
facendola convivere con il sistema precedente senza
sostituirlo del tutto. Quel modello, finanziato con ingenti
risorse di denaro pubblico mostra ora evidenti punti di
criticità, al punto che si incomincia a ragionare su come e
su cosa puntare per far uscire la Sardegna da una
situazione di crisi preoccupante.
Noi riteniamo che il comparto industriale, quello
dell’agro-industria e quello dell’allevamento, possono in
modo intelligente convivere, anzi si possono e si debbono
sviluppare delle sinergie interessanti con gli altri settori
produttivi del territorio e in grado di dare un forte
contributo alla fuoriuscita della Sardegna dalla crisi che
sta vivendo.
So bene che il “fenomeno” agro-pastorale è stato
analizzato in tutte le sue componenti, però spesso lo studio
si è concentrato solo sugli aspetti di criticità abbastanza
palesi senza soffermarsi sulle reali potenzialità che il
comparto può esprimere. Riteniamo si debba ragionare su
come il processo sta evolvendo per comprendere appieno
234
quale è il reale contributo che il comparto può offrire
all’intero settore produttivo sardo.
Le ricerche effettuate ci presentano una situazione in cui,
in momenti diversi, la crescita del numero delle aziende di
allevamento, così come il numero dei capi, ma anche la
promiscuità delle specie allevate, ha coinciso con il venir
meno di molte attività agricole, che hanno oggettivamente
e per ragioni differenti, impoverito il mondo delle
campagne. Infatti l’espansione della pastorizia si realizza
tutta a discapito dell’agricoltura, pertanto molti contadini
disoccupati si riciclano nell’allevamento trasformando
l’attività economica svolta precedentemente.
In tal modo è avvenuto un riassetto dell’economia che
tuttavia ha perso una componente essenziale come quella
dell’agricoltura che era, e secondo me rimane, una
componente essenziale del processo produttivo
dell’allevamento. Tuttavia la persistenza e il bisogno di
espandere l’attività pastorale evidenzia la capacità degli
allevatori nell’adattarsi in modo flessibile ai mutamenti,
riorganizzando le risorse a disposizione senza snaturare la
propria base strutturale. Iniziano così ad emergere forme
di aggiustamento economico e sociale in cui coesiste una
forte adattabilità nel saper individuare delle soluzioni
adeguate per la valorizzazione dei suoli in aree marginali e
interne abbandonate dagli agricoltori. Oggi viviamo in un
contesto differente da quello in cui ci siamo trovati
nell’ultimo decennio del secolo scorso, quando comunque
era palpabile il bisogno di riconquistare porzioni di terreno
235
per il pascolo poiché in conseguenza del progressivo
abbandono dell’agricoltura si faceva avanti il degrado dei
terreni con l’aumento delle superfici boscate: per i pastori
diventava al quel punto quasi fisiologico usare qualsiasi
mezzo, anche l’incendio, per garantire i pascoli alle loro
greggi, che avevano bisogno di spazi sempre più grandi
per mantenere una certa redditività nell’attività pastorale.
Oggi l’allevamento di bestiame viene praticato con metodi
imprenditoriali differenti dal passato e l’alimentazione non
è più solamente affidata a fattori climatici e alla crescita
spontanea del pascolo. Infatti l’alimentazione animale non
è più solamente affidata a fattori climatici e alla crescita
spontanea del pascolo, ma alle coltivazioni di produzioni
di foraggere ed altri alimenti integrativi del pascolo
naturale quali i mangimi composti.
Tale dato ha una certa rilevanza economica in quanto
quelle produzioni sono quasi esclusivamente importate in
assenza di tracciabilità dei prodotti e della sicurezza
alimentare. Sarebbe pertanto opportuno che si lavorasse
per riprendere i ragionamenti per la produzione di tutti gli
elementi che concorrono a creare la filiera
dall’allevamento
fino
alla
commercializzazione,
favorendo la pratica della multifunzionalità delle attività
delle aziende del comparto agro-pastorale con ricadute in
termini qualitativi delle produzioni.
Purtroppo invece nonostante il contributo importante dei
tecnici, tanti, troppi allevatori ritengono che sia
indifferente produrre, prescindendo dalla qualità del
236
prodotto, e prestano invece più attenzione alla quantità
della produzione.
Detto quanto sia complesso il mondo agro-pastorale, quei
processi produttivi vanno inseriti a pieno titolo all’interno
di una programmazione complessiva del sistema
economico sardo.
Cosa Vogliamo dire con questa affermazione?
Sappiamo benissimo che le dinamiche del comparto
industriale hanno logiche e interessi che apparentemente
non confliggono con il mondo agricolo, però alcune scelte
fatte sulla industrializzazione, e ora reindustrializzazione,
hanno condizionato e rischiano di condizionare
l’individuazione di un nuovo modello di sviluppo dove
tutte le componenti possono e devono coesistere. Non si
tratta di far valere una supremazia di un comparto rispetto
ad un altro, ma semplicemente decidere quali siano le
priorità, nel rispetto della legge nazionale, sull’uso del
suolo. Pertanto, ora il tema è come si può riequilibrare il
sistema produttivo sardo superando le attuali storture.
L’iniziativa odierna ci permette di affrontare il tema della
pastorizia e ambiente nel mediterraneo, stando lontani dai
luoghi comuni che ricorrono ogni volta che si affronta
questo argomento.
Negli ultimi 10 anni il comparto allevatoriale ha ricevuto
oltre 600 milioni di Euro dalla Unione Europea che sono
serviti a migliorare sensibilmente lo stato di salute degli
animali, la qualità del latte, e hanno favorito
237
l’ammodernamento delle aziende; tra l’altro l’estensione
della misura sul benessere animale, avrà, in positivo,
importanti ripercussioni sulle aziende che hanno superato
indenni i danni provocati dalla PSA (Peste Suina
Africana).
Il contributo comunitario teso a favorire il miglioramento
delle condizioni delle aziende agro-pastorali, è stato però
percepito più come un sostegno al reddito del singolo
allevatore, piuttosto che come intervento per favorire
l’ammodernamento dei sistemi organizzativi aziendali. E
una parte importante delle ingenti risorse economiche
erogate al comparto, sono finite anche ad alimentare una
macchina costituita da enti strumentali che hanno drenato
per anni ingenti risorse.
Parallelamente, in un contesto in continuo movimento e a
causa dell’abbandono della pratica della trasformazione
del latte da parte dell’allevatore, si è consolidata sempre di
più l’attività dell’industria lattiero-casearia, che
unitamente ad una maggiore stabilità del mercato
internazionale, soprattutto americano, e ad una buona
remunerazione del latte, ha determinato una congiuntura
favorevole che ha creato uno stato di benessere per
l’intero comparto.
Accanto
al
consolidamento
dell’industria
di
trasformazione lattiero-casearia, è cresciuta la necessità di
emancipazione degli allevatori, che attraverso la creazione
di un sistema cooperativistico hanno sviluppato un’attività
238
di trasformazione che ha in qualche modo contrastato il
così-detto strapotere dell’industria di trasformazione.
La trasformazione del latte prodotto tramite sistemi
industriali ha di fatto trasformato la figura dell’allevatore,
che è passata da produttore, trasformatore e
commerciante, a semplice mungitore con la conseguenza
che gli elementi passivi dell’attività vengono scaricati tutti
sul primario. Da allora in poi sarà il pastore a subire le
conseguenze delle crisi che ciclicamente si abbattono sul
prezzo del latte. Oggi, nonostante non tutti concordino,
esiste un surplus di produzione del latte; alcuni Paesi
europei, dove la pastorizia è molto diffusa, fanno una forte
concorrenza ai nostri prodotti; alcune aziende del settore
lattiero-caseario sardo sono andate a produrre formaggi
fuori
dalla
nostra
regione
e,
seppur
non
commercializzando il prodotto in Sardegna, la vendita di
quei prodotti erode fette di mercato delle nostre
produzioni.
Altro aspetto non trascurabile è che ormai il pecorino
romano, dopo alcuni anni molto favorevoli, subisce una
contrazione delle vendite soprattutto nel mercato
americano e se, sono azzeccate le previsioni di alcuni
commentatori, con l’avvento alla presidenza americana di
Donald Trump il nostro “Pecorino Romano” farà sempre
più fatica a mantenere le quote di mercato degli anni
passati.
E qui si torna al punto di partenza e cioè, così come per
tutte le monocolture, quando non si diversifica e ci si
239
affida ad un unico cliente il sistema va in crisi, con
conseguenze pesantissime per tutto il comparto. Siamo in
una fase completamente diversa persino rispetto al passato
recente, e non è comprensibile che una parte del comparto
continui a trascurare la necessità di intervenire sui fattori
strutturali che, se non risolti, determineranno forti
sofferenze per il comparto.
Una parte importante degli allevatori ha dimostrato una
grande capacità di cambiamento, rivedendo e
riorganizzando il sistema produttivo. Infatti da un lato
stiamo assistendo al ridimensionamento del numero delle
aziende con la conseguente modifica delle strategie di
allevamento, dall’altro ad una modifica delle strategie
produttive delle aziende di trasformazione che prestano
sempre di più attenzione alla diversificazione e alla
lavorazione del prodotto pecorino romano che diventa
sempre di più una produzione che ottiene il gradimento
dei consumatori locali.
Al punto in cui siamo diventa improcrastinabile puntare
sulla qualità della materia prima, sulla diversificazione del
prodotto, sull’aggregazione delle aziende, sulla politica di
commercializzazione, sul ricambio generazionale.
Tutto ciò è ancor più vero perché se ci guardiamo intorno
ci accorgiamo che esistono già, anche in Sardegna, delle
esperienze nel mondo pastorale che sono considerate delle
eccellenze nel comparto. Molte aziende hanno smesso di
conferire agli industriali per tornare alla trasformazione
diretta, riscoprendo le tecniche di lavorazione che si erano
240
perse nel tempo. I formaggi realizzati prevalentemente a
latte crudo sono fuori dagli standard industriali e si
connotano territorialmente, si distinguono per la qualità
del pascolo, del periodo della mungitura e del tipo di
lavorazione, e sono certificati con appositi marchi
riconosciuti. Il lavoro sinergico degli Enti agricoli di
assistenza e sperimentazione e delle Università e la
disponibilità di allevatori a intraprendere la via della
ricerca e sperimentazione, ha fatto sì che nei mercati e al
consumatore arrivino dei formaggi di altissima qualità
molto apprezzati sia per la bontà sia perché possono
fregiarsi del valore dato dalla connotazione territoriale e
del marchio Sardegna. Certo non siamo ai livelli di altre
esperienze nazionali o comunitarie, dove esistono dei veri
e propri distretti e il prodotto si identifica completamente
con il territorio di provenienza, però anche da noi si
incominciano ad intravedere dei piccoli segnali che vanno
in quella direzione, e i prodotti presenti negli scaffali dei
supermercati e nelle attività commerciali specializzate
incontrano sempre di più il favore del consumatore.
Proprio per le ragioni esposte, a nostro parere, la disputa
tra industria casearia da una parte e pastori (allevatori)
dall’altra non produce nulla di buono né per una parte né
per l’altra. Sistematicamente su un tema come quello del
prezzo del latte pagato dagli industriali del settore viene
invocato l’intervento della politica, come se l’Assessore di
turno possa decidere quanto debba essere pagato un litro
di latte e quanto latte deve essere acquistato dalle
241
industrie. La polemica, anche recente su tali aspetti,
rischia di essere strumentale e utile solamente a sollevare
un polverone per nascondere le vere responsabilità dalle
quali il mondo degli allevatori e delle Associazioni di
rappresentanza non sono immuni.
Con ciò non vogliamo dire che la politica non c’entri nulla
con la crisi che vive il comparto, anzi bisogna che si
prenda consapevolezza che il mondo della pastorizia e
dell’agricoltura è un tassello fondamentale del nuovo
modello di sviluppo previsto dal PRS (Piano di sviluppo
regionale) presentato dalla Giunta del Presidente Pigliaru.
La Regione però deve essere conseguente e mettere in
campo azioni politiche e interventi legislativi che vadano
nella direzione di supportare e tenere in vita le oltre 13000
aziende che costituiscono il comparto e le 34000 aziende
del mondo agricolo. Bisogna che la Regione dia maggiore
impulso alla crescita dell’associazionismo, deve favorire
la costituzione delle OP, deve incentivare le produzioni di
qualità, deve modificare la natura giuridica dei soggetti
che hanno il compito di assistere gli allevatori, deve
mettere in essere azioni che rendano distinti i nostri
prodotti, deve incominciare a dire che probabilmente
bisogna ridurre il numero degli ovini, e che si ritiene
necessario aumentare gli allevamenti dei caprini, che tanto
interesse stanno suscitando in alcuni gruppi che
competono a livello globale e che stanno investendo in
Sardegna cospicui capitali per garantire ai nostri prodotti
nuovi mercati, inserendoli in scenari davvero interessanti
242
attraverso l’utilizzo delle loro reti commerciali e
piattaforme distributive.
Naturalmente la classe politica è chiamata anche a farsi
carico di taluni aspetti che all’apparenza sembra che non
c’entrino nulla con i ragionamenti fin qui sviluppati.
É tanto faticoso e poco redditizio vivere in campagna; è
complicato però immaginare la nostra terra senza la
presenza degli allevatori e degli agricoltori. Sembra una
banalità ma senza la loro presenza la nostra terra sarebbe
un’altra cosa, perché verrebbe cancellata la nostra cultura,
la storia, verrebbe conseguentemente penalizzato il
turismo, le stesse industrie, come del resto succede per la
trasformazione delle carni dei suini, verrebbero
penalizzate in quanto non in grado di produrre prodotti
distintivi. Siamo pure certi che, con il ridimensionamento
delle produzioni del comparto agro-pastorale, la nostra
bilancia commerciale sarebbe ancor più deficitaria. In
sintesi noi continueremmo ad importare i prodotti
alimentari, però vedremo accelerare il processo di
spopolamento delle nostre zone interne.
Crediamo esistano buone ragioni perché si debba
continuare a sostenere il comparto con interventi
economici a sostegno delle attività agropastorali. Del resto
in tutto il mondo occidentale, e nel resto d’Italia, l’attività
agricola è sostenuta economicamente con soldi pubblici,
anzi in alcuni paesi europei gli aiuti, il sostegno legislativo
a favore delle loro produzioni è pure più alto che da noi in
Sardegna; sappiamo bene quanto sia difficile scrollarsi di
243
dosso l’etichetta di settore assistito, ma chiediamo e ci
chiediamo per quale motivo si grida allo scandalo se si
interviene a sostegno dell’agricoltura, mentre non si dice
nulla quando sono altri comparti a godere di interventi e
sostegni di pubblico denaro.
I luoghi comuni hanno il sopravvento, però ci si dimentica
del fatto che le risorse spese nel comparto agricolo aiutano
le attività produttive del territorio, e così facendo si
aiutano le produzioni tipiche, si presidia il territorio, lo si
difende, e si contribuisce a mantenere e preservare
l’incantevole paesaggio della nostra terra.
L’agricoltura, la pastorizia, sono tratti distintivi della
nostra terra; si può sicuramente produrre latte, carne,
pomodori e tante altre cose fuori dai nostri confini
regionali, ma l’aria, il sole, i profumi, il clima, la terra,
non possono essere delocalizzati: questa è la nostra
ricchezza che nessuno potrà rubarci e spetta a noi fare in
modo che il mondo agricolo, quello pastorale,
dell’industria agro-alimentare, diventino un comparto
trainante del nostro sistema economico e produttivo.
244
Mon témoignage entant que bénéficière de la
bourse d’étude du projet «Formed»
Dott. Saad Fikri, Gestione dell’Ambiente e del Territorio
Mes dames et messieurs bonjours, tout d’abords je tiens à
remercier l’association des ex parlementaires et la
fondation de la Sardaigne de m’avoir invité à cet
événement très enrichissant et intéressent pour moi en tant
qu’étudiant en sciences environnementaux. En effet je suis
présent avec vous aujourd’hui pour vous témoigner du
sucée d’un projet qui a été initier par la fondation de la
banque de Sardaigne en collaboration avec l’union des
universités de la méditerrané.
Cette initiative appelé projet FORMED a étais lancer pour
la première fois en 2015 et a permis à un grand nombre
d’étudiants Marocain Algérien et Tunisien de venir
commencer un cycle d’étude de master en Sardaigne, que
ce soit à l’université de Sassari ou de Cagliari. En ce qui
concerne ma promotion 2016/2017 on a été 13 étudiants
marocains diplômé de l’université Mohamed 5 de rabat à
venir continuer nos études de master à l’université de
Sassari.
Ce qui nous permet donc d’étudier dans les meilleures
conditions possibles et cela grâce a une bourse d’étude
245
largement suffisante qui nous permet de résider à la cité
universitaire et de nous restaurer à la Mensa.
Le profil des jeunes étudiant est très divers, on compte
parmi nous des naturalistes, des économistes etc. et tous
d’autant que nous sommes on a réussi à nous intégrer dans
la société italienne et plusieurs parmi nous peuvent déjà se
vanter de parler couramment l’italien.
J’espère que ce projet aboutira à bon port et aura un
résultat satisfaisant tant aux attentes des organisateurs que
des étudiants et je finirais mon témoignage par remercier
infiniment tous ceux qui ont permis par un moyen ou un
autre à me permettre de vivre cette expérience incroyable
qui est de vivre et d’étudier en Sardaigne.
246
L’agricoltura nel processo di sviluppo della
Sardegna
Prof. Aldo Accardo, Ordinario Storia Contemporanea
Università di Sassari
L’agricoltura è stata spesso oggetto di interventi pubblici e
provvedimenti legislativi, nazionali, regionali ed europei,
rivolti a modificare l’assetto fondiario, a migliorare le
condizioni di redditività per gli addetti, ad aprire
prospettive e sbocchi di mercato.
Per restare al secondo dopoguerra in Italia, si possono
citare i decreti Gullo – allora Ministro dell’Agricoltura – e
la riforma agraria del 1950, volti all’eliminazione del
latifondo, diffuso in Sicilia e nel Mezzogiorno
continentale, e alla nascita della piccola proprietà
contadina.
Per quanto riguarda la Sardegna, le prime analisi e i primi
interventi vanno collocati nella fase di gestazione della
prima legge di Rinascita, in attuazione dell’articolo 13
dello Statuto, che recita “Lo Stato con il concorso della
Regione dispone un piano organico per favorire la
rinascita economica e sociale dell’isola”.
Dopo anni di incertezza, nel 1951 venne insediata una
Commissione consultiva che cominciò a lavorare nel 1954
e nel 1958 stese un Rapporto conclusivo sugli studi per il
Piano di rinascita., che sosteneva un programma di
247
investimenti pubblici e privati, riguardanti l’agricoltura e
l’industria.
Nel 1959 venne istituito un nuovo organismo, denominato
Gruppo di lavoro, che in tre mesi elaborò un Rapporto
conclusivo, che assegnava un ruolo preponderante alla
programmazione, da attuarsi nel territorio per zone
omogenee, e attribuiva un ruolo strategico allo sviluppo
del settore industriale. L’aumento del peso dell’industria,
nella formazione del reddito regionale e nella struttura
dell’occupazione, diventava la fondamentale manovra di
politica economica per modificare in profondità la
struttura dell’economia regionale e per innescare un
processo di sviluppo. Un mutamento rilevante di
prospettiva.
Che cosa era successo nel frattempo? Vi era stata, nella
cultura economica e nella politica italiana, la svolta
industrialista per quanto riguarda il Mezzogiorno,
sostenuta con vigore fra gli altri dall’allora presidente
della SVIMEZ (Istituto di Studi per lo Sviluppo del
Mezzogiorno), il professor Pasquale Saraceno. Si era
passati dalla cosiddetta “vocazione agraria” del
Mezzogiorno e delle isole alla politica delle infrastrutture
come precondizione per lo sviluppo, che aveva visto la
nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Per giungere poi
alla svolta industrialista.
L’industria era un corpo estraneo rispetto al Mezzogiorno
e alla Sardegna. Nell’isola era presente l’industria
estrattiva, ma non l’industria manifatturiera se non per
scarsi episodi. Ma proprio questa estraneità, rispetto al
248
tessuto economico e sociale dell’isola, veniva assunta
come
la
situazione
migliore
per
fare
dell’industrializzazione la strategia per lo sviluppo.
In quel periodo circolavano le teorie di diversi economisti
di prestigio internazionale che sostenevano sul piano
teorico quelle posizioni. L’industrializzazione della
Sardegna non era quindi una idea della politica e
nemmeno nasceva – almeno all’inizio – da interessi
precostituiti. Era il risultato di una diffusa opinione,
sostenuta da illustri economisti.
Si possono citare Gunnar Myrdal, Otto Hirshmann e
Francoise Perraux, per i quali lo sviluppo di un’area
sottosviluppata si sarebbe innescato come effetto di shock
esogeni.
In questo clima e con questi riferimenti culturali, si giunse
alla prima legge di Rinascita, in attuazione dell’articolo 13
dello Statuto.
Anche l’agricoltura era naturalmente contemplata nella
prospettiva adottata: l’enfasi posta sull’industria
manifatturiera nasceva da un vuoto rilevante in questo
settore; l’intento era quindi di instaurare un accettabile
equilibrio fra agricoltura e industria. Ma nella fase di
attuazione gli interventi per l’industria prevalsero e
travalicarono gli altri.
La prima legge sul Piano di Rinascita fu approvata dal
Parlamento nel 1962: L. n. 588/1962, Piano straordinario
per favorire la rinascita economica e sociale della
Sardegna, in attuazione dell’art.13 della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n.3.
249
Successivamente la Regione approvò la LR n. 7/1962, che
fissava i compiti della Regione in materia di sviluppo e
indicava le modalità da seguire.
Successivamente, si elaborò lo Schema generale di
Sviluppo, che è in senso proprio il Piano di Rinascita, cioè
la definizione degli obiettivi da perseguire, degli strumenti
da utilizzare e delle risorse da impiegare in un arco di
tempo di 12 anni.
Da questo momento incominciò, dal punto di vista
economico, una storia davvero nuova per la Sardegna, che
inciderà profondamente sulla sua struttura economica e sul
suo tessuto sociale. Si può dire che la storia moderna
dell’economia sarda incomincia con la legge 588 e con il
Piano di Rinascita.
Le condizioni del sistema economico regionale erano
allora caratterizzate da un livello di reddito pro capite fra i
più bassi d’Italia, anche se il più elevato fra le Regioni
meridionali, probabilmente a causa della scarsità relativa
di popolazione in Sardegna. Il reddito per abitante
collocava la Sardegna al 12°-13° posto fra le Regioni
italiane, rispetto al dato medio nazionale oscillava, nel
corso del decennio che precede la politica di rinascita, fra
il 70% dell’inizio e il 60% della fine del periodo.
L’attività produttiva si concentrava in settori scarsamente
dinamici e utilizzava tecniche produttive tradizionali e
consolidate. Il sistema economico era quindi del tutto
tagliato fuori dall’imponete processo di trasformazione e
250
di sviluppo che in quegli anni investiva l’economia
italiana.
Questa situazione si rifletteva in tre aspetti fondamentali.
In primo luogo un basso livello di accumulazione di
capitale, sensibilmente inferiore rispetto alla media
nazionale, con investimenti concentrati in opere
pubbliche, in abitazioni e in opere di sistemazione e di
trasformazione agraria.
In secondo luogo un basso livello di produttività, che si
ridusse drasticamente nel decennio dall’83 al 73% della
media nazionale, in conseguenza della crisi dell’attività
mineraria.
Infine, un flusso migratorio interno verso le città, ed
esterno verso le regioni dell’Italia settentrionale e verso
altri paesi europei. Il flusso migratorio, in dimensioni fino
ad allora sconosciute in Sardegna, era la risultante del
basso livello di reddito in agricoltura, che spingeva fasce
mature di forza lavoro ad abbandonare il settore, e delle
scarse possibilità di trovare occupazione, che le spingeva
ad abbandonare l’isola.
La scelta che venne fatta con la legge 588, e che si
concretizzò in termini operativi con il Piano dodecennale,
fu quella dell’intervento pubblico nell’economia regionale
e della programmazione come metodo di intervento.
Questa scelta nacque dalla consapevolezza che i
meccanismi e i comportamenti spontanei del mercato non
fossero in grado di innescare un processo di sviluppo in
un’area arretrata come la Sardegna.
251
Con gli interventi previsti, l’azione pubblica non si limitò
più alle infrastrutture, come era accaduto fino ad alcuni
anni prima per il Mezzogiorno, ma l’intervento si
proponeva di realizzare determinati interventi per lo
sviluppo e di predisporre a questo scopo gli strumenti e le
risorse necessarie. Interventi di programmazione settoriale
si erano già avuti negli anni Cinquanta. In particolare, la
legge 646 del 1950 e la legge 634 del 1957 possono
intendersi come prime leggi di programmazione in Italia.
La
prima
riguardava
l’infrastrutturazione
del
Mezzogiorno, la seconda riguardava, sempre per il
Mezzogiorno, le agevolazioni finanziarie per lo sviluppo
di attività industriali. Ma si trattava pur sempre di leggi di
carattere settoriale, oppure di programmazione di
interventi pubblici o di interventi delle partecipazioni
statali.
Il Piano di Rinascita per la Sardegna era invece un
intervento intersettoriale, che si proponeva obiettivi di
sviluppo generale relativi all’intero sistema economico
regionale. Si trattava quindi della prima esperienza di
programmazione organica condotta in Italia.
Il modello adottato per la politica di intervento pubblico
nell’economia regionale fu quello dello sviluppo
squilibrato, che si concretizzò nella politica dei poli di
sviluppo. La teoria identifica il processo di sviluppo con la
creazione di una serie di shock esogeni, che mettono in
crisi l’equilibrio di sussistenza e le sue circolarità, e
contemporaneamente creano nel tessuto economico un
252
vuoto di iniziative che può essere colmato da nuove
intraprese, esogene rispetto al sistema originario.
Una volta sconvolto l’equilibrio di sussistenza, e una volta
aperte le relazioni economiche con il resto del mondo, il
sistema economico sottosviluppato si specializzerà nelle
produzioni in cui possiede un vantaggio comparato.
I nuovi insediamenti di attività produttive così sorti
daranno luogo ad altri insediamenti, grazie agli effetti di
collegamento “in avanti” e “all’indietro” con altre attività.
In tal modo si realizza un processo di sviluppo che investe
numerosi settori economici e vaste aree territoriali. La
rottura dell’equilibrio di sussistenza, attraverso la nascita
di imprese di dimensioni adeguate, è quindi il necessario
presupposto affinché il processo di sviluppo si verifichi e
si generalizzi.
Il modello dei poli di sviluppo, che venne prescelto con la
programmazione regionale degli anni Sessanta è
caratterizzato da una sorta di tensione fra due elementi
contradditori: gli effetti diffusivi e gli effetti di
polarizzazione, che avrebbero drenato risorse dagli altri
comparti a favore dei “poli”. La possibilità che lo sviluppo
possa effettivamente diffondersi su tutto il territorio e che
possa investire altri settori oltre quelli degli interventi
originari, resta affidata alla semplice eventualità che gli
effetti diffusivi siano maggiori degli effetti di
polarizzazione.
Il Piano di Rinascita del 1962 esprimeva, in modo
organico e dettagliato, una concezione dirigista
253
dell’intervento pubblico, già presente nella formulazione
dell’articolo 13 dello Statuto, secondo la quale “lo Stato
con il concorso della Regione” deve determinare le
trasformazioni strutturali necessarie per innescare un
processo di sviluppo. Significa che gli investimenti
pubblici non devono limitarsi a fornire sostegno alle
attività produttive ma devono provocarne la nascita e lo
sviluppo sul territorio.
L’idea sottostante è che il mercato non fosse in grado di
innescare un processo di sviluppo, e che i capitali
necessari per farlo non esistessero in Sardegna, dato il
basso livello di accumulazione. Era un’idea corrente negli
anni sessanta e pervadeva le scelte relative alla
programmazione.
Si tratta di un dirigismo forte, che permea il Piano di
Rinascita e che sta in buona misura alla base delle
difficoltà che si incontreranno. Si trattava infatti di una
concezione sostanzialmente anomala rispetto alle
condizioni di un’economia di mercato, che alla prova dei
fatti si dimostrò velleitaria: benché capace di modificare in
profondità l’economia e la società sarda, si rivelerà
impotente a realizzare gli obiettivi così come erano stati
prefissati, che era proprio la logica e la natura stessa del
Piano.
Tuttavia, se era velleitario pensare di realizzare
meccanismi di accumulazione non di mercato in
un’economia di mercato, l’intervento pubblico ha avuto
effetti rilevanti e duraturi, come l’aumento del reddito e
l’espansione dei consumi, solo che essi non erano quelli
254
previsti e ricercati dalla programmazione regionale.
Inoltre, in assenza di un tessuto economico adeguato
all’interno dell’isola, la domanda di beni di consumo si
rivolgeva in grande misura a beni e servizi prodotti al di
fuori della regione.
Il più importante effetto fu proprio quello di introdurre nel
sistema economico regionale un meccanismo anomalo di
accumulazione di capitale, poiché l’intervento pubblico si
innestò in una situazione di fallimento dell’iniziativa
privata nel generare un processo di sviluppo.
L’intervento pubblico rappresentò una forma di
accumulazione surrogata, nel senso che si diffuse per
sopperire all’assenza del meccanismo di accumulazione
tipico delle economie capitalistiche.
L’assenza di accumulazione privata in Sardegna, va
collegata all’assenza di borghesia imprenditoriale che, a
sua volta, deriva dalle vicende storiche dell’isola, in
particolare dalla sconfitta di Giovanni Maria Angioy alla
fine del Settecento. Angioy e il suo movimento erano
portatori delle idee dell’Illuminismo, che nell’Europa
centrale avrebbero creato il clima sociale per lo sviluppo e
l’egemonia della borghesia.
In Sardegna la sconfitta di Angioy, e la distruzione di ciò
che costituiva il suo movimento, ha ucciso sul nascere un
clima ideale e culturale favorevole alla nascita e alla
espansione di una classe borghese, lasciando campo libero
al consolidarsi di un’economia legata ad attività e
modalità arcaiche di produzione e di distribuzione della
ricchezza.
255
Il carattere anomalo dell’accumulazione di capitale in
Sardegna, portava con sé due effetti.
In primo luogo il meccanismo non era ripetibile; si
trattava infatti di scelte che erano affidate a decisioni
politiche consapevoli e perciò destinate a ripetersi solo se
si fossero ripetute le condizioni socio-politiche che le
avevano rese possibili.
In secondo luogo, in assenza della borghesia protagonista
dell’accumulazione, questa funzione venne svolta da
nuove categorie sociali, che assunsero una funzione
centrale nel processo di sviluppo. Questa circostanza
rappresenta una modificazione strutturale della società, dei
suoi equilibri e delle sue relazioni interne.
Verso la fine degli anni Sessanta si approfondì e si diffuse
la consapevolezza della difformità fra obiettivi del Piano
di Rinascita e dati macroeconomici, che non erano dati
meramente statistici ma assumevano i tratti di un disagio
sociale profondo, spia del fatto che le trasformazioni della
società sarda non avevano assunto il carattere dinamico
che ci si proponeva e che probabilmente nuove tensioni e
nuovi disagi si erano aggiunti agli antichi.
La spia macroscopica di questa situazione fu il riemergere,
nel corso degli anni Sessanta, di fenomeni di criminalità
che sembravano scomparsi. In particolare i sequestri di
persona, che fra il 1966 ed il 1968 furono 33 contro una
media di 1 all’anno nel decennio precedente. Mentre la
mappa dei luoghi dei sequestri copriva quasi tutta l’isola,
256
la mappa dei luoghi dei rilasci dei sequestrati coincideva
con le zone interne ad economia agro-pastorale.
Un’attività di riflessione e di indagine fu condotta,
all’inizio degli anni Sessanta, dalla Commissione
parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in
Sardegna, istituita con la legge 755 del 1969 e presieduta
dal senatore Giuseppe Medici.
La conclusione della Commissione fu che le origini
profonde delle forme di criminalità tipiche delle zone
interne della Sardegna andavano ricercate nelle condizioni
della pastorizia nomade. Storicamente il banditismo sardo
nasceva dal conflitto fra regole e valori della società
pastorale e le leggi degli Stati conquistatori.
Anche l’avvento dello Stato italiano, l’approvazione della
Costituzione repubblicana, la costituzione della Regione
autonoma e l’avvio della politica di industrializzazione,
non avevano dato luogo al rinnovamento delle campagne
nelle zone interne. La criminalità aveva modificato i
propri metodi e spostato i propri obiettivi, dalle forme
tradizionali dell’abigeato e dei danneggiamenti di colture,
alle estorsioni e ai sequestri di persona.
L’ostilità del mondo pastorale nei confronti dello Stato, il
sentimento di comprensione e di solidarietà verso i
fuorilegge da parte delle popolazioni, richiedeva
trasformazioni
radicali
dell’ambiente
economico,
neutralizzando o riducendo i fattori che favorivano la
persistenza delle forme tipiche di criminalità dell’isola.
La soluzione presentata dalla Commissione stava quindi
nella trasformazione della pastorizia nomade in attività di
257
allevamento stanziale. Bisognava fornire al pastore quella
stabilità e quella sicurezza che possono derivare dalla
certezza dei pascoli, attraverso attività di allevamento in
imprese moderne.
Premessa per ottenere questo risultato era affrontare il
problema della proprietà dei pascoli, che solo per il 40%
appartenevano ai pastori, favorendo in tal modo la
persistenza di una pastorizia nomade e seminomade.
Erano quindi necessari processi profondi di riforma, che
portassero a far coincidere l’impresa pastorale con la
proprietà dei pascoli. Ciò comportava il reperimento di
terreni da accorpare e da migliorare, per essere poi
assegnati in proprietà o in godimento ai pastori, singoli o
associati.
Il frutto di questa riflessione fu la legge 24/06/1974 n.
268, che aveva come asse portante la riforma agropastorale, nella convinzione che trasformare il pastore in
allevatore e il passaggio dallo sfruttamento della fertilità
naturale del terreno alla sua coltivazione razionale per
sostenere il bestiame, fossero le chiavi di volta per
modificare radicalmente l’economia delle zone interne e la
cultura ad esse legata.
Di conseguenza, agricoltura e pastorizia acquistano un
ruolo centrale nella nuova programmazione derivante
dalla L. 268
Si trattava di innescare un processo di modernizzazione e
di razionalizzazione di un settore fondamentale
dell’economia regionale. Nel 1975, la pastorizia
258
rappresentava il 25% della produzione agricola regionale e
occupava il 33% degli addetti all’agricoltura. Anche le
esportazioni ragionali erano alimentate in misura elevata
dai vari tipi di formaggio: nel 1973 l’esportazione di
prodotti zootecnici, ma in gran parte di formaggio, era
aumentata del 411% rispetto al 1960.
Rilevante era anche il peso dell’allevamento ovino e
caprino nel quadro dell’economia nazionale. La Sardegna
infatti era la regione con il maggior numero di ovini e
caprini: si andava dal 23,5% e dal 22,7% rispettivamente
del 1951, al 30,5 e 25,4 del 1961, al 23,5 e 29,1 nel 1975.
Si trattava quindi di incidere profondamente su di un
settore che produceva una quota rilevante del reddito
regionale.
La legge 268/1974 prescriveva la formazione di un
“monte dei pascoli”, con terreni acquistati o espropriati,
dando la priorità per gli interventi alle zone omogenee a
prevalente economia pastorale, che erano state individuate
con la legge del 1971.
Per dar luogo ad una più estesa e più articolata
partecipazione alla definizione dei programmi, voluta
dalla L.R. n 33/1975, fu indetta una conferenza regionale,
nell’aprile del 1976, cui parteciparono rappresentanti degli
enti locali, delle organizzazioni sindacali, imprenditoriali e
professionali, per discutere la proposta di programma
predisposta dalla Giunta regionale.
La conferenza fu preparata da una capillare consultazione
popolare, che aveva avuto in Sardegna un unico
259
precedente: l’assemblea del popolo sardo organizzata dalle
Camere del Lavoro nel 1950.
Il programma triennale 1976-1978 rappresenta il primo
intervento di aggiornamento del Piano di Rinascita e
comprende, oltre al programma di intervento sui fondi
della L. n. 268, politiche e azioni di coordinamento di
risorse finanziarie provenienti dal bilancio ordinario della
Regione, dai provvedimenti anticongiunturali del governo
centrale, dalla Cassa per il Mezzogiorno e da altre
assegnazioni dello Stato.
L’asse portante della legge 268 era tuttavia rappresentato
dalla riforma agropastorale, che fu specificata in termini
operativi dalla LR n. 44/1976. Si individuò una superficie
di 400.000-450.000 ettari suscettibili di sviluppo agropastorale, dislocati per il 46% in provincia di Nuoro, il
19% in quella di Cagliari, il 18% in quella di Oristano, il
17% in quella di Sassari.
L’enorme complessità del processo di trasformazione
della pastorizia si manifestò immediatamente attraverso le
difficoltà sorte per la formazione del “monte dei pascoli”.
Difficoltà che si possono rilevare dal fatto che la riforma
agro-pastorale incise in misura minore proprio nelle zone
interne.
Infatti, nel 1986, a più di dieci anni dalla L 268,
risultavano acquisiti al “monte dei pascoli” circa 16.000
ettari ed esistevano programmi di acquisizione per altri
26.000 ettari. Inoltre, la distribuzione provinciale dei
terreni acquisiti vedeva al primo posto la provincia di
Cagliari (75%), seguita dalla provincia di Nuoro (17%), da
260
quella di Sassari (8%), e da quella di Oristano (1%). La
situazione non era molto diversa nel 1996, a più di venti
anni dalla 268. In quell’anno i terreni acquisiti al “monte
dei pascoli” ammontavano a circa 20.000 ettari, il 69% in
provincia di Cagliari e il 17% in provincia di Nuoro.
L’aspetto più rilevante di questo fallimento della riforma
agro-pastorale sta nella difficoltà di rendere compatibili
due obiettivi: quello politico-sociale di trasformazione
della pastorizia da nomade in stanziale, e quello
strettamente economico della nascita di aziende di
allevamento efficienti. Il tentativo di conciliare questi due
obiettivi, in una realtà caratterizzata da modelli sociali
arcaici e da un assetto fondiario polverizzato e frantumato,
fu un progetto ardito e ambizioso, che da un lato esprime
un alto livello di progettualità, dall’altro rappresenta la
causa ultima delle difficoltà incontrate.
Con la politica di intervento pubblico, attuata mediante gli
incentivi, l’apparato politico-amministrativo della Regione
diventa arbitro della penetrazione delle risorse finanziarie
pubbliche nel tessuto dell’economia regionale. Su di esso
ricade il potere di individuare i vanali attraverso i quali le
risorse si diffondono nel sistema economico: si
determinano cioè i settori interessati, le singole iniziative
da incentivare, le aree territoriali da privilegiare, gli
obiettivi da perseguire.
Naturalmente vi sono vincoli da rispettare: il volume
complessivo di spesa da destinare a determinati settori, o a
determinati territori, che sono posti da leggi e dai diversi
261
livelli di contrattazione. Ma se si considera l’attività
complessiva della Regione come un insieme di scelte,
legislative da parte del Consiglio Regionale, esecutive da
parte della Giunta e degli Assessori, operative da parte
degli organi amministrativi, il quadro che emerge è quello
di un apparato politico-amministrativo che controlla la
spesa pubblica e la sua destinazione.
Questa situazione comporta che l’intervento pubblico
nell’economia regionale, al di là degli effetti strettamente
economici, ha modificato radicalmente la società sarda, i
rapporti sociali e politici, le relazioni fra ceti e classi
sociali e la distribuzione del potere fra essi. Dato il ruolo
essenziale che i trasferimenti hanno assunto nel
determinare il livello degli investimenti e dei consumi in
Sardegna, il controllo e la gestione di essi, assegna
all’apparato politico-amministrativo un ruolo centrale nel
determinare gli assetti economici, sociali e politici della
società sarda.
In precedenza, il livello dei consumi ed il tasso di
accumulazione era sempre stato assai limitato a causa del
basso livello di produttività del sistema economico
regionale. In quelle condizioni, il reddito proveniva
essenzialmente
dall’agricoltura,
dalla
pastorizia,
dall’attività mineraria e dal commercio. Consumi e
accumulazione, sia pure in misura limitata, derivavano in
gran parte da un elevato tasso di sfruttamento delle
popolazioni agricole e successivamente dei minatori. Le
classi che controllavano il limitato processo di
accumulazione erano le classi dominanti della società
262
sarda, cioè la nobiltà feudale fino alla prima metà
dell’Ottocento e successivamente i proprietari terrieri e la
borghesia commerciale delle città.
Con la politica dei trasferimenti pubblici, è possibile che il
processo di accumulazione si sia ulteriormente depresso. I
trasferimenti hanno assunto un peso preponderante, anche
perché nel frattempo era entrata in crisi l’agricoltura
tradizionale e l’attività mineraria.
Questa circostanza, unita alla tradizionale debolezza della
borghesia manifatturiera, ha comportato che agli agrari e
alla borghesia commerciale come classi egemoni si sia
sostituito l’apparato politico-amministrativo, una nuova
classe, che sinteticamente si può chiamare classe politica.
Il termine classe è giustificato da due circostanze: il
personale politico-amministrativo esercita funzioni
differenziate ma combinate per coprire l’iter complessivo
dei trasferimenti; l’apparato politico-amministrativo
controlla il grosso degli investimenti nell’economia
regionale e quindi l’impiego dei mezzi di produzione.
La trasformazione dell’apparato politico-amministrativo in
classe politica è l’effetto più rilevante sul piano sociale
dell’intervento pubblico nell’economia, certamente più
duraturo degli affetti rilevabili con gli indicatori
macroeconomici. Questa trasformazione ha sconvolto la
struttura economica e gli assetti sociali e politici della
società sarda, ha posto su nuove basi le relazioni fra
l’apparato politico-amministrativo e le altre formazioni
della società.
263
Questa situazione è il risultato dell’intenso processo
storico-sociale che si è sviluppato nel corso degli anni
dell’Autonomia, con aspetti notevoli di sviluppo
economico e di progresso sociale. Le vecchie classi
egemoni erano l’espressione di una economia e di una
società arretrata, di cui era vistosa spia l’assenza di una
borghesia manifatturiera. Per queste ragioni le vecchie
classi egemoni non sono mai riuscite a innescare un
processo di sviluppo per l’isola, paragonabile al livello
medio di accumulazione dell’Italia postunitaria.
É proprio dalla consapevolezza di questa situazione che
derivò la politica dell’intervento pubblico nell’economia
regionale. Lo sconvolgimento dei rapporti di classe, della
natura delle classi e il ruolo della classe politica è entro
certi limiti un risultato voluto dall’intervento pubblico, o
perlomeno è strettamente conseguente ad esso.
La situazione della Sardegna di oggi è ovviamente molto
diversa non solo dal periodo dell’intervento pubblico
nell’economia regionale ma anche dagli anni
immediatamente successivi all’esaurirsi dei suoi effetti.
Fra le modifiche intervenute si possono citare l’avvento
dell’Unione Europea, i processi di globalizzazione che
obbligano a confrontarsi con il resto del mondo, la
finanziarizzazione dell’economia occidentale, la crisi che
oggi attraversa le economie mature. Situazioni che
complicano la nostra vita. Ma c’è anche la presenza in
Sardegna di una borghesia manifatturiera, dotata anche di
264
attività con punte di eccellenza, in grado di competere su
mercato nazionale e internazionale.
Nell’immediato dopoguerra fu la classe dirigente a
reinventare la questione sarda e a dotarla di strumenti
operativi. La classe dirigente attuale, pur così diversa da
quella per composizione e per ruoli svolti, ha nuovamente
la responsabilità di ridefinire l’autonomia come progetto
di autogoverno dei sardi, in presenza di mutate condizioni
in Italia e nel mondo.
Quello della classe dirigente regionale è più un problema
di oggi che del recente passato. Nel dopoguerra regioni
povere e regioni ricche erano alle prese con lo stesso
problema, quello di innescare un processo di sviluppo;
quindi le classi dirigenti delle diverse regioni avevano gli
stessi obiettivi. Oggi le regioni economicamente forti
hanno il problema di competere con altre aree forti
dell’Europa e del mondo. La Sardegna e le altre regioni
deboli, oltre a dover competere con altre economie, sono
ancora alle prese con il problema dello sviluppo.
Da ciò deriva la necessità di selezionare una classe
dirigente che sia in grado di svolgere il proprio ruolo, di
esprimere un nuovo progetto di autonomia, analogamente
a ciò che fece la classe dirigente del dopoguerra.
C’è anche un nuovo clima col quale deve misurarsi la
classe dirigente regionale.
Ci sono innanzitutto sono forti pulsioni accentratrici da
parte dello Stato. C’è anche la diffusa idea che le Regioni
a statuto speciale non servono a niente e bisogna
265
eliminarle. Gli esempi recenti di privilegi e corruzione in
diverse Regioni, servono a corroborare questa idea.
Tuttavia è bene chiarire una circostanza.
La specialità nasce formalmente da un riconoscimento
della Costituzione repubblicana, quindi da una
concessione dello Stato. Ma sostanzialmente la specialità
non è una concessione ma una realtà che esiste prima e a
prescindere dal riconoscimento costituzionale. Essa nasce
dalla struttura, dalla storia e dalla cultura delle Regioni
speciali, quelle di confine e le altre. Nessuno può pensare
di togliere la specialità senza una forzatura che altererebbe
il patto che lega, attraverso la Costituzione, tutti i cittadini.
Molte delle situazioni che hanno caratterizzato il periodo
delle leggi di Rinascita non ci sono più; molte alternative
sono venute meno, quelle positive e quelle negative. Ne
cito 3:
1.La politica meridionalistica non c’è più;
2. La pianificazione/programmazione/ i poli di sviluppo,
insomma la strategia per la crescita-sviluppo non esiste
più;
3. L’UE è ancora presente e importante ma è indubbio che
l’asse Nord/Sud per le politiche di sviluppo si indebolisce
sempre più, si veda il caso della Grecia, e viene sostituito
dall’asse Ovest/Est
266
In queste condizioni, l’unica possibilità, piaccia o non
piaccia, è la mobilitazione di forze endogene. All’interno
di esse l’agricoltura e l’agroindustria acquistano
ovviamente un ruolo centrale. Diventa centrale il
problema dell’assetto fondiario, della pastorizia nomade,
dell’innovazione, della qualità dei prodotti, degli sbocchi
di mercato.
Per questo abbiamo scelto questo tema. La mia relazione
ha solo il compito di richiamare le esperienze storiche
recenti, di collocare la situazione attuale all’interno di un
processo che non ha creato il vuoto, ma esperienze
consolidate, negative e positive, errori e successi, ma da
cui è necessario partire per delineare prospettive possibili
per il presente e per il futuro della nostra terra.
Per questo abbiamo interpellato alcuni attuali protagonisti
dell’agricoltura e della pastorizia in Sardegna e abbiamo
deciso di dare ad essi la parola.
*Il presente testo è la riproposizione, con alcune revisioni,
rielaborazioni e aggiornamenti, di uno scritto da me pubblicato nel
1998: L’avventura economica di un cinquantennio, in Aldo Accardo
(cur.), L’isola della rinascita, Editori Laterza, Bari, 1998.
267
La sfida del futuro della Sardegna nel
Mediterraneo
On. Angelo Rojch, ex Presidente Regione Sardegna
L'incontro promosso dalla Associazione "ex parlamentari"
assume un significato particolarmente positivo, poiché
non guarda nostalgicamente al passato ma coglie la sfida
di un processo di sviluppo con un nuovo rapporto tra
Sardegna e Mediterraneo, in un settore strategico come
l'agricoltura e la pastorizia.
Un’opportunità che la Sardegna non ha saputo cogliere,
eppure l'isola rispetto alla penisola è più vicina all’antica
Numidia, con la quale ha avuto importanti rapporti
economici, culturali e religiosi, come dimostrano i tanti
vescovi confinati in Sardegna, i numerosi contratti
economici stipulati nel XIII secolo che confermano questo
dato storico.
Questo convegno deve portare all’attenzione della
Regione conclusioni e proposte per aprire nuove
prospettive per lo sviluppo agro-industriale e agroalimentare dell'isola e del Maghreb in condizioni di
reciprocità, da realizzare in regime di bilocalizzazione
delle aziende.
Le difficoltà si ripresenteranno: vincere la diffidenza dei
268
sardi, la paura atavica unita alla carenza di liquidità delle
imprese, non sarà facile portare avanti le proposte del
convegno.
Potrebbe essere utile ricordare che durante la mia
presidenza della Regione in Algeria erano impegnati nella
costruzione di case duemila lavoratori. Purtroppo, per una
visione spesso autarchica dell'autonomia, la politica
regionale non ha spinto a elaborare un piano per creare
sinergie economiche e nuovi mercati, dimenticando che la
Sardegna nei confronti dei paesi del Mediterraneo viene
considerata come il nord sviluppato, come l’Europa.
Una politica coraggiosa, lungimirante, strategica, avrebbe
creato, da una parte una rete comune di piccole-medie
iniziative fra imprenditori del mediterraneo e quelli sardi e
dall'altra gli investimenti straordinari dei "paesi del
petrolio" avrebbe salvato tante iniziative, soprattutto nel
momento dalla chiusura di molte fabbriche, attraverso
sinergie come quella della Keller in virtù dei grandi
investimenti in Algeria nel settore ferroviario. Ma anche
nel settore agro-alimentare e agro-pastorale non sono state
colte alcune opportunità; qualche anno fa l'Algeria ha
cambiato politica in materia di agricoltura dismettendo le
aziende agricole pubbliche a favore dei privati con
l'obiettivo di modernizzare il settore.
Gli investimenti in infrastrutture sono arrivati da imprese
269
dei paesi occidentali e cinesi che effettuano imponenti
opere pubbliche, mentre la Regione è assente.
Il mondo imprenditoriale sardo, abbandonato a se stesso,
si è limitato a guardare, pur distante solo 300 km.
Innumerevoli imprese avrebbero potuto cogliere
importanti opportunità.
Purtroppo, mentre i sardi nei tempi antichi intrecciarono
rapporti economici, culturali e sociali con questi paesi, nel
tempo della modernità, la politica è chiusa nei confini
insulari.
La presenza oggi dei due rappresentanti della Tunisia è un
passo significativo sulla via di un nuovo dialogo che
impone, per coerenza, l'apertura anche al mondo
economico dell'Algeria e del Marocco.
Una iniziativa che non deve sfuggire all’assessore alla
agricoltura.
Che fare? Il Maghreb, per ragioni geografiche e di storia,
e in particolare l'Algeria, la Tunisia e il Marocco sono i
paesi con i quali occorre costruire sinergicamente un
progetto comune, con al centro lo sviluppo del settore
agro-alimentare,
agro-industriale,
agro-zootecnico
tunisino, con l'incontro di imprenditori ma anche la ricerca
di spazi di mercato per i prodotti lattiero-caseari della
Sardegna nei paesi del Mediterraneo, e dei prodotti nei
mercati italiani ed europei, veicolati dagli imprenditori
270
sardi.
L'idea di questo convegno può affermarsi se sarà istituita
una cabina di regia sarda. Questo impegno richiede una
politica nuova della Regione.
Esaminiamo alcuni aspetti.
I) Il settore lattiero caseario è l'attività più antica e diffusa
nel territorio dell'isola. É assolutamente prioritario
valutare le potenzialità produttive della filiera latte, di
formaggi e derivati, l'adeguamento della produzione degli
allevamenti per il mercato del Mediterraneo e del medio
oriente, un mercato immenso e ancora da scoprire.
Altresì è necessario verificare la disponibilità di trasferire
e gestire in quei paesi attività di allevamento e attività
produttive di trasformazione
attraverso forme di
partenariati, con i sardi attivi protagonisti, in quanto
depositari di alte tecnologie.
II) Mercato di grande potenzialità è il patrimonio
"pecora", in quanto il mondo arabo consuma
prevalentemente quella carne. Occorre valutare l'entità di
tale patrimonio, la disponibilità alla vendita e
all'allevamento di pecore e montoni estremamente
richiesti e lautamente pagati, per creare una filiera di
allevamento e macellazione per il mondo arabo.
III) Definito il quadro, va istituito un tavolo di lavoro
Sardegna-Maghreb, per continuare con altri tavoli per
271
singole nazioni (Sardegna-Algeria; Sardegna-Tunisia;
Sardegna-Marocco) per estendere il metodo a tutto il
mondo arabo.
Un’iniziativa che deve avere protagonista la Regione,
naturalmente con il contributo delle ambasciate, la
partecipazione attiva e promozionale non solo degli uffici
regionali preposti ma anche di ISIAMED, della
Associazione Sardegna-Algeria e altri organismi.
Indispensabile la partecipazione attiva di tutte le
associazioni di categoria dell'isola.
A tali inziative devono seguire una serie di incontri nei
vari paesi arabi degli imprenditori sardi, con gli
imprenditori del luogo, per studiare nel concreto la
formazione di partenariati, con il beneplacito dei governi
arabi, dei patronati e degli organi della Regione.
Durante tali incontri si potranno concludere accordi per la
vendita del latte sardo e dei relativi prodotti, nonchè la
vendita di migliaia di pecore e montoni.
IV) Tavolo trasporti: un progetto volto a integrare
l'economia sarda col Mediterraneo richiede una politica di
trasporti per scambi di merci e uomini. La storia
dell'archeologia ci ricorda l'esistenza di 153 modelli di
navi sarde a testimoniare l'apertura dei sardi antichi ai
paesi del mediterraneo e del medio oriente.
La Regione con il contributo degli "ex parlamentari”, e
272
con i parlamentari in carica, dovrebbe chiedere l'apertura
di un tavolo coi paesi del Maghreb per affrontare il
problema del trasporto merci e persone tra le due sponde,
chiedendo una "continuità territoriale”, perché la stessa
Europa si apra, attraverso la Sardegna, al Mediterraneo.
In conclusione da ex parlamentare ed ex presidente della
Regione sarda, ho voluto offrire, con il mio intervento, la
testimonianza di un’esperienza della conoscenza di un
mondo, come quello arabo, pieno di difficoltà ma con
straordinarie opportunità per la nostra isola, per i nostri
imprenditori e per i nostri giovani in cerca di lavoro.
273
Prof.ssa Maria Antonietta Mongiu, Presidente FAI
Sardegna
Ringrazio l’Associazione degli ex Parlamentari della
Sardegna nella persona dell’on. Giorgio Carta che ancora
una volta ha voluto invitarmi in questa assise che, con
sistematicità, tematizza argomenti di rilevanza per la
Sardegna. Quello di oggi, in particolare, è tra i più
qualificati perché si riferisce ai cambiamenti climatici e
ambientali globali e sull’impatto che hanno su agricoltura
e pastorizia. Bene lo dice, nella presentazione del
Convegno, l’on. Carta che, memore dell’essere stato
Assessore all’Ambiente, dettaglia le problematiche
relative alle improvvise precipitazioni, alle prolungate
siccità, ai fenomeni di desertificazione, alla sottrazione del
suolo per usi difformi che in Sardegna “sembrano porre
un’ipoteca sul futuro sviluppo di una risorsa, la terra,
ancora largamente sottoutilizzata o male utilizzata”.
Un’allerta dunque su una risorsa, il suolo, strategica per le
quasi certe penurie alimentari dovute all’aumentata
popolazione mondiale ed alla diminuzione di quelle a
rischio di fame. Un’allerta ancora di più in Sardegna che
importa più del 60% del cibo che consuma e che sollecita
alcune domande.
Nell’isola l’agricoltura e l’allevamento sono tuttora
attività rilevanti e voce significativa del reddito regionale?
Vi si possono individuare potenzialità di crescita,
quantitativa e qualitativa, e ricadute occupazionali? Dopo
274
un declino anche culturale della stessa parola agricoltura,
il ritorno dei giovani verso tali attività è orizzonte
operabile, come dicono le aumentate iscrizioni agli Istituti
Agrari ed alla Facoltà di Agraria della Sardegna, a cui
corrispondono
politiche
attive?
Le
produzioni
agropastorali possono assumere un ruolo interdipendente
con il turismo? Infine quali strategie i decisori intendono
assumere per salvaguardare le peculiarità ambientali e
paesaggistiche, contenere il consumo del territorio,
aumentare le produzioni senza che ciò inerisca
negativamente in Sardegna?
Per rispondere ai quesiti che ci interrogano
quotidianamente bisogna porre una questione che aleggia
sullo sfondo e che chiama in causa una parte decisiva della
classe dirigente sarda. Quali le ragioni che l’hanno portata
ad investire, tra gli Sessanta e Settanta del secolo scorso,
sulla chimica di base che sarebbe stata a termine ed
avrebbe avvelenato i nostri territori piuttosto che sullo
sviluppo locale che necessitava di una revisione di modi e
mezzi di produzione del mondo agropastorale.
La storiografia, nelle diverse declinazioni, avrà molto da
indagare su quelle scelte il cui esito fu economico ma
soprattutto sociologico ed antropologico. La deportazione
dalle campagne ha prodotto infatti un’apocalisse culturale
di cui tuttora la Sardegna paga gli effetti. Tra gli altri,
marginalità dei paesi, miniaturistici per numero di abitanti,
e il consumo indiscriminato di suolo sulle coste come pure
nei centri urbani.
275
Che la ricchezza della Sardegna consista nella sua qualità
paesaggistica – ivi compresi i paesaggi agrari - sembra
quasi una tautologia. Che i Sardi di oggi ne abbiano
assunto maggiore consapevolezza lo raccontano le
iniziative tese a dare o riconoscere valore alle produzioni
realmente locali e di qualità, da non confondere con la
moltiplicazione di sagre e sagrette di sedicenti prodotti di
“eccellenza” variamente titolati; migliaia di persone che
hanno partecipato all’iniziativa “I luoghi del cuore” del
FAI con attivi ben nove Comitati e la relativa “campagna”
di promozione, 1023 “luoghi del cuore” segnalati in
Sardegna, cinque con più di 1500 voti e ben tre con più di
10.000 voti; i Borghi della Sardegna parte della rete
nazionale; l’inserimento di paesaggi agrari nell’elenco
nazionale della Coldiretti; beni materiali ed immateriali
nell’elenco dell’Unesco e la richiesta di altri a farne parte;
comitati locali che hanno impedito trivellazioni ed
interventi di c.d. rinnovabili atte a consumare suolo ed a
capitalizzarlo per interessi privati.
Si tratta di un’autocoscienza frutto dell’azione didatticopedagogica di associazioni, insegnanti, comitati che sta
dando frutti e di una comunicazione che ha inerito
positivamente nel cambiamento di punti di vista e di
conseguenza di paradigmi. Stanno inerendo anche
amministratori locali più colti e meno provinciali per i
quali il riconoscimento della qualità dei cosiddetti luoghi
di margine spesso nasce dall’aver fatto esperienze
internazionali.
276
Se l’immaginario diffuso percepisce la Sardegna come
luogo agropastorale e naturale non si riesce a capire
perché questi due ambiti non siano il motore
dell’economia. D’altra parte lo stesso PPR varato nel 2006
si poneva nell’ottica di uno sviluppo sostenibile.
Necessitava, di conseguenza, di provvedimenti
conseguenti che, inizialmente, ci furono. Le successive
amministrazioni si sono arroccate in costosi quanto inutili
tentativi di rigettare quel PPR o di varare ripetuti piani
casa che lo aggirassero. Si registra non a caso che
l’agricoltura è diventata, nei fatti, alibi o foglia di fico per
comportamenti speculativi il cui core business sono
l’energia o l’attività edilizia.
Appare gravissimo che ad oggi l’isola non è dotata di una
legge urbanistica, di una legge sul consumo del suolo, e,
dopo dieci anni, non sia stato completato il Piano
Paesaggistico Regionale pur essendo stata la Sardegna la
prima regione italiana a dotarsene, ai sensi dell’art. 9 della
Costituzione. Sembra quasi che ormai ci sia una netta
separatezza tra la percezione popolare dei luoghi ed i
decisori che non colgono come è cambiato il sentimento
diffuso su natura, paesaggio, agricoltura, cibo, qualità
della vita.
Le dichiarazioni dei decisori politici che l’edificato in
Sardegna sarebbe contenuto e che buona parte della terra è
nella disponibilità dell’agricoltura corrispondono al vero
ove si ragioni che il 96,7% del territorio (32,5% di aree
naturali, boschi e foreste e 64,1 % di aree agricolo
zootecniche) non è costruito e che il 3,3% del territorio
277
riguarda le aree urbanizzate (9,1%, in ambito costiero).
Ma i numeri non dicono tutto. Di fatto la percentuale si
triplica nelle coste.
Se poi, come è stato fatto altre volte, si analizzano le
percentuali di espansione delle aree sottratte
all’agricoltura a partire dal secondo dopoguerra - a fronte
anche dell’aumento delle aree boscate, tra le più cospicue
in Italia - si registra, in proporzione al numero degli
abitanti, un aumento sproporzionato dell’edilizia e delle
case in particolare, specie nei territori costieri. I dati qui di
seguito se ben ponderati porterebbero i nostri decisori a
sospendere ogni tentativo di riprendere l’assalto alle coste
in favore di politiche di recupero e di restauro dei nostri
paesaggi compresi quelli agricoli. Le abitazioni totali in
Sardegna sono infatti 802.149 di cui 459.76 nei comuni
costieri. Sulla percentuale complessiva 208.458 sono
vuote di cui 153.065 sulle coste. Ma anche quelle nei paesi
interni non sono poche e denunciano una desertificazione
non solo antropica ma anche dei mestieri specialmente di
quelli legati alla terra. Una trasformazione così radicale
dal punto di vista culturale non è mai successa nel corso
della storia della Sardegna e merita davvero tutta
l’attenzione
da
parte
della
ricerca
e,
più
complessivamente, da parte di tutte le classi dirigenti
sarde.
Ecco perché, nell’immediato, il compito di tutti è riuscire
a preservare il paesaggio agricolo con le sue colture e
culture materiali.
278
Questa preoccupazione non è recente. La si registra fin dal
mondo antico. Già “La Legge delle XII Tavole” evidenzia
che è netta la distinzione tra il territorio urbano e quello
extraurbano. La tutela del territorio agricolo è la priorità
perché interdipendente con la necessità di nutrirsi.
Religione, simboli, ritualità erano collegate alla terra e
persino la fondazione della città aveva l’aratro ed il bue
come protagonisti. Una serie di scavi ha mostrato che la
manodopera schiavile impiegata nel latifondo romano era
particolarmente tutelata persino dal punto di vista
alimentare. Il suo benessere fisico consentiva di produrre
più derrate che attraverso i contenitori, prodotti in loco ed
atti al suo trasporto, venivano commercializzate. Nelle fasi
successive al tramonto dell’impero romano l’attività stessa
dei monaci con il motto “ora et labora” aveva la
“renovatio loci” come obiettivo primario.
In piena seconda guerra mondiale la Legge 17 agosto
1942, n. 1150) in materia di Urbanistica all’art. 1
recita: “ll ministro dei lavori pubblici vigila
sull’attività urbanistica anche allo scopo di
assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento
edilizio delle città, il rispetto dei caratteri
tradizionali, di favorire il disurbanamento e di
frenare la tendenza all’urbanesimo”.
Eppure la cesura tra abitato e campagna è stata
abbondantemente valicata e stando ad esempio all’area
urbana di Cagliari la soluzione di continuità tra Cagliari ed
i borghi della prima e della seconda cintura, così evidente
279
nella cartografia di Alberto De La Marmora, oggi è
inesistente sostituita da un anello di cemento.
L’attuale disegno di legge in materia di “contenimento del
consumo del suolo e riuso del suolo edificato”, non
approvato in via definitiva dal Parlamento, non soddisfa
quanto quella legge di oltre 70 anni orsono si auspicava. Il
dibattito in corso vede particolari contrapposizioni perché
il dispositivo legislativo non adempie pienamente quanto
l’art. 9 della Costituzione recita, “La Repubblica
promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica
e tecnica. Tutela il paesaggio storico e artistico della
nazione”, che anticipa quanto l’Europa ha voluto con la
Convenzione Europea del Paesaggio firmata a Firenze
nell’ottobre del 2000.
Ecco perché se il Parlamento registra un qualche ritardo
appare necessario che la Regione Sardegna sia più solerte
e coerente con quanto l’Europa ha messo tra i suoi
obiettivi ovvero arrivare al consumo zero del suolo entro il
2050.
Uno degli obiettivi immediati per la Sardegna dovrebbe
essere la diminuzione del differenziale tra il cibo
importato e le derrate prodotte in loco, impedendo ope
legis il consumo ulteriore del suolo con qualsivoglia alibi
in favore della restituzione all’agricoltura di terreni
occupati da usi difformi o non coltivati o ridotti in uno
status semi-naturale. Promuovere le politiche a favore
dell’agricoltura richiede naturalmente avere chiara visione
di cosa rappresentino il paesaggio, l’ambiente, il suolo,
risorse non rinnovabili. La situazione di degrado delle
280
zone industriali dismesse dovrebbe essere un valido
monito per tutti.
Nell’Introduzione al PPR del 2006 ben si precisa che il
paesaggio è parte integrante dell’identità della Sardegna.
Averlo riconosciuto, cambiando radicalmente il
paradigma, significa che è oggetto di tutela ogni
declinazione di paesaggio di cui quello agrario ha più di
altri una dimensione storica giacché la Sardegna è una
delle regioni dell’Europa in cui l’agricoltura è comparsa
prima che in altri luoghi. Ecco perché l’agricoltura in
primis è parte fondante del sistema identitario in quanto
non c’è territorio della Sardegna in cui non se ne registrino
le tracce materiali ed immateriali. Ecco perché il recupero
dell’agricoltura come asse primario non è soltanto
un’operazione economica ma è recupero di senso senza il
quale la Sardegna non ha futuro e possibilità di agire
alcuna politica men che meno una politica turistica.
281
Agricoltura, pastorizia e ambiente in Sardegna
e nel Mediterraneo
On. Pietro Soddu, ex Presidente Regione Sardegna
Prima parte
1. La caratteristica che colpisce di più nei paesaggi della
Sardegna è la grande estensione di superfici incolte. Si
può camminare per chilometri senza vedere un campo
coltivato. In quest’isola di 24.090 Kmq – quasi tre volte
la Corsica – non c’è quel suggestivo intrecciarsi di lande
deserte e oasi di ricchezza che caratterizza i paesi
mediterranei. È solo su qualche migliaio di ettari che si
sviluppano nelle immediate vicinanze dei due capoluoghi i
vigneti e gli oliveti, Dappertutto, con differenti gradazioni
nelle manifestazioni della presenza dell’uomo, si
estendono macchia, lande e garrighe punteggiate di
villaggi distanziati tra loro e circondati da una stretta
fascia di coltivazioni».
Così è descritta la Sardegna degli anni ’30 del secolo
scorso nell’incipit di “Pastori e contadini” di Maurice Le
Lannou , ancora oggi insuperato testo di geografia storica
della nostra isola. E ancora: «La Sardegna è un vecchio
paese rurale. Essa presenta paesaggi antichissimi che,
diversamente da altre regioni del Mediterraneo non sono
stati modificati quasi per niente. […] La Sardegna è una
terra di pastori, l’economia pastorale è di gran lunga
282
l’attività più importante di quest’isola. […]. Le minacce
che incombono sui questi paesaggi così antichi – biblici o
virgiliani sarei tentato di dire – non vengono come in
Corsica dal turismo. […]. I paesaggi della Sardegna
resteranno ancora per molto non contagiati dalle grandi
costruzioni alberghiere».
Non c’è, ma se ci fosse una storia dell’agricoltura sarda
dalle origini fino ai nostri giorni dovrebbe confermare
quello che è contenuto sommariamente in questo brano e
più estesamente in tutto il libro citato e nei manuali di
storia politica generale.
Si scoprirebbe che molti aspetti del settore non sono molto
cambiati dal tempo dei romani ad oggi. Avremo la
conferma che la struttura fondamentale di base è ancora
quella nata e cresciuta dopo che la Sardegna divenne una
colonia agricola prima punica e poi romana. I grandi
cambiamenti avvenuti allora nella provvista di cibo e negli
usi del tempo della civiltà nuragica permangono ancora
oggi soprattutto nel settore agricolo.
Fu allora che l’isola cambiò profondamente diventando,
secondo gli storici antichi e moderni, più che una base
militare una fonte di approvvigionamento granario
essenziale sia per Cartagine che per Roma. Poi le cose
cambiarono e ci furono nel basso e alto Medioevo e nella
prima età moderna grandi carestie e grandi oscillazioni,
nel numero degli abitanti e un progressivo declino della
cerealicoltura, dovuto a un circolo non virtuoso molto
ampio, che comprendeva lo sfruttamento padronale, i
tributi imposti dal regime feudale, le lotte tra contadini e
283
pastori, l’arretratezza delle tecniche agricole mai
rinnovate, i prelievi forzati dei prodotti agricoli a favore
delle città, la pratica dell’usura, le decime ecclesiastiche e
l’isolamento dell’isola, oltre naturalmente alla natura del
suolo, alle devastazioni provocate dalle locuste e alle
condizioni climatiche poco favorevoli. A tutto questo
occorre aggiungere anche la responsabilità della politica
che è stata spesso assente o indifferente, con poche
eccezioni nel tempo lungo della storia, prima con i giudici
di Arborea e poi durante il dominio secolare di AragonaCatalogna e Spagna che hanno tentato, in maniera molto
discontinua, di riformare i regimi contrattuali, l’assetto
della proprietà, il sistema fiscale e in seguito i rapporti
città-campagna, il commercio del grano, il sistema di
macellazione e di vendita delle carni e tanti altri
importanti interventi su aspetti tecnici e giuridici,
soprattutto dal 600 in poi. Ricordo per tutti: la creazione
dei monti frumentari, l’impianto di oliveti e l’innesto degli
olivastri. E più avanti sotto il dominio dei Savoia
l’approvazione della legge sulle chiudende, i programmi
di bonifiche idrauliche, l’uso di nuove tecniche, i piani di
riordino fondiario e da ultimo sotto il regime repubblicano
i miglioramenti genetici degli animali, lo sviluppo della
cooperazione, la riforma agraria e dei patti agrari, lo
sviluppo della piccola proprietà contadina, il monte dei
pascoli, la meccanizzazione, i piani d’irrigazione,
l’infrastrutturazione rurale. Ma ciò nonostante,
l’agricoltura sarda non è molto cambiata e ancora oggi
appare per molti versi più simile a quella dell’epoca dei
284
romani che non a quella moderna dell’Italia settentrionale,
per non parlare di quella degli Sati Uniti, del Canada, della
Francia o dell’Olanda. Forse si tratta di una falsa
impressione, in qualche misura irrazionale. Ma anche se
non corrisponde del tutto alla realtà è fondamentalmente
vera. Qualcosa è certamente cambiata in meglio
soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso ma
l’insieme appare ancora arretrato. Forse si tratta di un
giudizio troppo severo, come succede da noi, che
sottovalutiamo e qualche volta ignoriamo i progressi e i
cambiamenti anche quelli più vistosi degli ultimi
cinquant’anni, grazie ai quali il settore agricolo ha fatto
molti passi avanti, adeguandosi in parte alle esigenze del
nuovo tempo e da ultimo, non da tutte ma da parte delle
imprese più sensibili, persino alla globalizzazione. Questo
adeguamento ha toccato però solo una parte della realtà,
senza incidere nella misura necessaria sull’insieme delle
strutture produttive e sulle cause della progressiva
marginalizzazione dei prodotti locali nel mercato interno
ed esterno. Le ragioni che hanno impedito e impediscono
alla nostra agricoltura e ai nostri prodotti locali di
competere senza handicap sul mercato globale sono infatti
in gran parte da attribuire al ritardo nei cambiamenti
strutturali senza i quali non sarà facile fermare il declino,
invertire la tendenza e bloccare l’inarrestabile
penetrazione nel mercato sardo dei prodotti dei paesi
esteri, non solo di quelli appartenenti all’Unione europea
come è nei trattati, ma anche dei paesi non facenti parte
dell’Unione, africani e asiatici, per non parlare degli Stati
285
Uniti, del Canada e dell’America latina. Possiamo dunque
a buona ragione affermare che il processo di
modernizzazione c’è stato anche in Sardegna, ma non è
stato sufficiente a invertire la tendenza al declino sia in
termini di qualità che di quantità, sia riguardo al controllo
del mercato locale sia alla trasformazione industriale della
materia prima in prodotto finito. Per rendersene conto non
è necessario consultare le statistiche. Basta visitare i
market, piccoli e grandi, e si vedrà facilmente che la
ripartizione tra prodotti locali e prodotti esterni si è
progressivamente spostata a favore di questi ultimi, non
solo nelle produzioni industriali e nei prodotti di lunga
conservazione, ma anche nei prodotti freschi destinati
all’immediato consumo. Si fa un gran parlare di prodotti
agricoli a chilometro zero e si organizzano sagre di tutti i
generi ma la loro incidenza sulla diminuzione delle merci
importate allo stato naturale o trasformate è molto scarsa.
2. I problemi dunque non sono più gli stessi del tempo
antico e neppure della prima modernità. Come tutti i
settori produttivi anche l’agricoltura subisce infatti il
dominio della tecnica e del capitalismo globale. Noi
continuiamo a pensare secondo i vecchi schemi e le
vecchie strutture concettuali, i vecchi modelli culturali,
ignorando che la realtà si è venuta formando nel corso
dell’esperienza autonomistica non è più quella che ha
provocato l’occupazione delle terre incolte, la riforma
agraria e dei patti agrari. Non è più quella della
transumanza, del monte dei pascoli, dei conflitti per gli usi
civici e per le terre comunali; e tantomeno dell’aratro di
286
legno, della trebbiatura con i buoi e della mungitura
manuale. Condividiamo largamente con il resto d’Italia i
cambiamenti negli stili di vita e il passaggio da
un’economia quasi autarchica al mercato globale. Ma
quello che altri hanno fatto in 150 anni noi sardi abbiamo
iniziato a farlo negli ultimi decenni e non è bastato per
colmare i ritardi in tutti i campi, ma soprattutto nel sistema
produttivo agricolo. Alcuni pensano che in fondo il ritardo
non è solo un elemento negativo ma anche positivo perché
è stato conservato qualche elemento del passato che può
rilanciare l’agricoltura utilizzando i saperi e i sapori
antichi. Questo può essere vero, ma è possibile solo dentro
un quadro nuovo di sostanziale avanzamento della
modernità in tutti i suoi aspetti: tecnici, politici, economici
e sociali evitando l’esclusione delle aree territoriali a
prevalente economia agricola dai progressi culturali, civili,
materiali e immateriali del processo di sviluppo, dalla vita
politica e culturale, dall’accesso ai beni offerti dal tempo
libero; in definitiva dalla nuova condizione umana fatta di
luci e ombre , di libertà ma anche di vincoli, comunque
sempre preferibile per tanti versi alla condizione della
precedente società contadina. Tutti dobbiamo ricordare e
riconoscere che la Sardegna è cambiata profondamente nel
secondo dopoguerra con la Repubblica, il suffragio
universale esteso alle donne, la nascita della Regione, la
riforma agraria, la scuola dell’obbligo, il piano di
rinascita, gli interventi infrastrutturali, la scomparsa della
malaria, per citare i più noti. La Commissione
parlamentare d’inchiesta sul banditismo aveva nelle sue
287
conclusioni confermato i progressi compiuti dall’isola ma
anche confermato i molti ritardi, indicando la terapia più
efficace per curare il malessere sociale e il sottosviluppo
nell’attuazione di un unico progetto integrato
comprendente l’ammodernamento dell’agricoltura e la
promozione di un apparato industriale moderno. Non tutto
è andato secondo le previsioni e le attese a causa
soprattutto dell’insuccesso del piano d’industrializzazione
e del mancato decollo dell’agricoltura intensiva irrigua.
Sicché in tutta l’isola e non solo nelle zone interne è
rimasto in campo come protagonista a livello di mercato
globale solo il settore della pastorizia, proprio quello che
sembrava più in ritardo con i tempi. Gli altri comparti
agricoli invece, a cominciare dalla cerealicoltura sono
diventati sempre più marginali comprese la viticoltura,
l’olivicoltura e l’orticoltura che sembravano offrire con
l’avvento dell’irrigazione e della meccanizzazione le
prospettive più favorevoli. Il sistema produttivo che si è
venuto creando negli ultimi decenni ha dimostrato sempre
di più di non essere più in grado di mantenere l’equilibrio
demografico tra città e campagna neppure nelle aree dove
un tempo dominavano la cerealicoltura, la viticoltura e
l’orticoltura, cioè le colture che sembravano destinaste a
una grande espansione. Ma così non è stato è tutte le aree
non costiere, anche le più ricche nel passato, continuano a
perdere residenti e a declinare economicamente. Molti
pensano che un nuovo sviluppo possa nascere da un
diverso turismo esteso a tutta l’isola, utilizzando il grande
patrimonio culturale-ambientale e de “su connottu”. Ma si
288
tratta di un’illusione perché occorre ben altro, occorre
creare un sistema economico efficiente e competitivo in
tutti i settori produttivi, soprattutto, ma non solo, nelle
attività agrozootecniche. Lo sapevamo anche quando è
stato approvato il piano quinquennale in attuazione del
piano di rinascita che però si è realizzato solo in parte e ha
mancato proprio gli obiettivi legati allo sviluppo di
un’agricoltura moderna e la nascita di una moderna
agroindustria. Le cause di tale insuccesso sono tante ma il
mancato sviluppo dell’agricoltura irrigua è una delle più
importanti. Da ciò l’assoluta urgenza di rilanciare lo
sviluppo del settore agricolo per metterlo in grado di
competere con il resto del mondo nel mercato globale e
allo stesso tempo innescare un processo di sviluppo
dell’agroindustria che non può nascere e sopravvivere
senza una produzione agricola quantitativamente e
qualitativamente paragonabile a quella dei paesi più
evoluti e delle stesse regioni italiane. Per un nuovo
sviluppo non basta il fascino dell’antico, occorre un salto
di qualità che si può fare solo con la tecnica, e che non
può essere affidato allo spontaneismo o alla vocazione
naturale e neppure solo all’intelligenza e all’iniziativa
degli operatori ma va pensato, progettato, accompagnato
nell’attuazione, da una forte volontà politica, da una
strategia socio-economica di vasto respiro, tale da unire le
potenzialità di una riforma agraria generale con le
potenzialità della ricerca scientifica, delle strutture
tecniche, della rete istituzionale amministrativa, pensata e
costruita in funzione dello sviluppo anche delle aree
289
interne e non solo delle città e delle aree costiere.
Chiunque è in grado di vedere che non è questa la politica
in campo oggi in Sardegna. Continuare a occuparsi delle
residue sopravvivenze dei problemi dell’inizio del
secondo dopoguerra non ha più senso e anche la guerra
millenaria tra pastori e contadini è finita, ed è finita per
sempre, così come è evidente che la piccola proprietà
contadina non è in grado di organizzare le produzioni
secondo le nuove esigenze del mercato. Tutto dimostra
che non si può più fare a meno di tenere conto delle nuove
tendenze, non per seguirle senza alcuna esitazione o
riserva ma per orientarle e ove manchino le condizioni
naturali per lo sviluppo cercare di crearle, eliminando le
difficoltà e costruendo un ambiente favorevole agli
investimenti privati e alla creatività produttiva delle nuove
generazioni che non possono vivere di ricordi e di
rimpianti e neppure possono rimanere ancorate per sempre
alle tradizioni della vita comunitaria di un tempo che non
esiste più. Dopo gli insuccessi della prima
programmazione cosiddetta “dall’alto” si è passati a una
programmazione cosiddetta “dal basso” che però è fallita
proprio per l’assenza di un quadro generale. I contratti,
patti territoriali e i protocolli firmati tra Regione e enti
locali hanno avuto e avranno poco successo, sembrano
quasi un’invenzione per guadagnare tempo rammendando,
tamponando gli strappi nel tessuto economico e sociale ma
senza produrre apprezzabili miglioramenti sulle strutture
produttive. Dopo tante esperienze dovrebbe essere
evidente che non si uscirà dalla crisi finché non verrà
290
costruita e adottata una visione unitaria di tutte le azioni
rivolte allo sviluppo. Anche la scelta di trasferire nelle
zone interne qualche elemento culturale moderno tipo i
corsi universitari decentrati – trascurando la crisi delle
due università sarde – serve a poco se non è strettamente
collegata con gli obiettivi delle aree interne. Non sono io a
pensarlo, ma la realtà nella sua crudezza a dimostrare
l’assoluta urgenza di un nuovo piano organico dotato di
risorse pluriennali certe e con una missione precisa
coerente con la storia, la tradizione, la cultura cioè con
l’identità e la vocazione naturale di quelle aree. Anche
l’opinione pubblica più attenta ai cambiamenti in corso
pensa che per fermare il declino e rilanciare lo sviluppo
occorre mettere al centro del nuovo piano di sviluppo
l’agricoltura, la terra, le risorse umane legate all’ambiente,
il patrimonio di saperi accumulato nella lunga durata
sposandolo alla scienza moderna in modo da formare
un’alleanza che diventa il motore, il cuore pulsante del
futuro sviluppo. Quasi il contrario dell’attuale
impostazione della politica regionale basata sullo sviluppo
turistico delle aree costiere, sulla diffusione di questo
modello nelle aree interne utilizzando a questo fine il
patrimonio ambientale e culturale più antico, considerato
molto attrattivo. Questa visione va sostituita con una più
ampia, più moderna, più adatta a fermare il declino, a dar
vita a uno sviluppo moderno senza costringere le zone
interne a perdere l’anima e l’identità, anzi aiutandole a
contribuire a far sì che tutta la Sardegna mantenga la sua
specificità etnica, culturale, storica e ambientale non come
291
un documento del passato ma come realtà viva e operante
nella storia presente, superando gli ostacoli che hanno
impedito finora alla comunità sarda di accettare nel tempo
antico e in quello moderno, neppure a malincuore, l’idea
che per stare alla pari con le altre comunità e con il
progresso in corso nel mondo fosse e sia necessario
cambiare i modi, le procedure, gli usi, i vincoli, i ritmi
della società agricola e tra non molto anche quelli della
società industriale. Per spiegare in nostri ritardi ci siamo
rifugiati nel mito, nelle narrazioni a volte prive di riscontri
reali. Ci siamo costruiti un passato quasi su misura per
giustificare e spiegare il rifiuto dei passaggi obbligati cioè
la costruzione di un sistema economico-sociale più in
linea con i tempi. Così sono nati i miti della “costante
resistenziale” e della proprietà comune, che resistono
ancora nonostante tutto. Ai miti abbiamo aggiunto come
giustificazione del sottosviluppo le condizioni naturali,
l’insularità, il clima, l’asperità dei rilievi, le difficoltà di
comunicazione, l’acidità e la scarsa fertilità dei suoli. Ma
neppure tutto questo è sufficiente a spiegare l’assenza di
un’agricoltura meno fragile di quella praticata dai sardi in
tutti i tempi, come dimostra l’eccezione importante del
periodo punico, romano e sia pure in misura minore
dell’Alto medioevo che ha visto crescere esperienze
limitate ma significative nelle aziende dei monasteri. Si
può dire che in quelle epoche le difficoltà vennero
superate o ridotte sensibilmente dall’uso di manodopera
composta da schiavi o servi della gleba che sostituivano in
parte gli animali e costavano anche meno. Ma non è
292
questa la ragione principale e comunque non cancella
l’esperienza di una Sardegna granaio di Cartagine e di
Roma, e neanche il fatto che il grano fosse, durante il
periodo giudicale, catalano-aragonese e spagnolo la
principale fonte di reddito dell’isola, nonostante le varie
contese feudali e la guerra permanente tra contadini e
pastori. Dobbiamo forse in mancanza di esaurienti
spiegazioni arrivare alla conclusione, umiliante e
offensiva, di una incapacità genetica dei sardi di evolversi
verso forme di vita e civiltà più progredite di quella dei
cacciatori, raccoglitori e pastori? Dobbiamo accettare
questa tesi per spiegare gli insuccessi di tutti i tentativi
compiuti per far sviluppare un’agricoltura e un’industria
come quelle nate nel resto d’Italia e d’Europa nella prima
età moderna e nei giorni nostri? Io credo di no. Penso che
il rifiuto da parte dei sardi non nasca da ragioni genetiche
ma sia piuttosto l’effetto della lunga durata delle
dominazioni punica, romana e poi del feudalesimo, del
formarsi di una cultura che in un altro scritto ho chiamato
“vassalleria”, un atteggiamento di tipo cortigiano, servile
che ha caratterizzato i rapporti con le monarchie iberiche
prima e con i Savoia poi fino all’avvento della
Repubblica. È la vassalleria che ha impedito la nascita di
una borghesia operosa e che caratterizza ancora oggi, in
misura preoccupante, i rapporti tra rappresentati e
rappresentanti. Una comunità che rifiuta le responsabilità
di partecipare al cambiamento, che teme di perdere
privilegi e protezioni, che chiede in continuazione grazie,
concessioni, titoli, appalti, uffici ben remunerati e rifiuta
293
di lavorare per un futuro diverso, questo è stata la classe
dirigente sarda per quasi duemila anni. E se questo rifiuto
può anche avere qualche giustificazione per i ceti più
bassi, ne ha molto poche per la classe dirigente se così si
può chiamare una classe di vassalli che è sopravvissuta a
tutte le rivoluzioni e gli sconvolgimenti della storia. Di
tutto questo dobbiamo ricordarci quando parliamo
dell’agricoltura e della comunità sarda, non solo di quella
delle aree più interne, quelle resistenti a tutto secondo la
vulgata più avanti richiamata, ma di tutta l’isola. In un
certo senso dovremo considerare la Sardegna
un’eccezione all’esperienza vissuta dalle società primitive
nel passare dalla caccia e dalla raccolta alla pratica
dell’agricoltura nella quale secondo gli antropologi solo
qualche gruppo di pastori isolati nelle montagne ha
resistito alla rivoluzione che ha visto il passaggio da una
società di raccoglitori e cacciatori a una società che si
procura gli alimenti e quanto necessario per una vita
migliore e più sicura con la coltivazione della terra, con
l’ingegno, con la fatica, con il lavoro, con l’aiuto di
animali addomesticati, con regole, vincoli, procedure,
coercizioni anche dure e severe per uscire da una
condizione umana primitiva molto simile a quella degli
animali. L’ipotesi che tutta la popolazione della Sardegna
abbia rifiutato la rivoluzione agricola contrasta con la
storia reale che ha visto sorgere le città e crescere le
colture nei campi e insieme a questi fatti ha conosciuto
l’evolversi progressivo della condizione generale di vita,
singola e collettiva. Qualcosa di specifico però nei sardi ci
294
deve essere se nell’ottocento dopo tanti secoli dalla
rivoluzione agricola (durante i disordini sociali, ancora
tutti da chiarire come origine, istigazione e interessi in
campo secondo studi recenti di giovani studiosi che si
occupano delle origini della borghesia rurale sarda) fu
coniato il motto molto efficace suggestivo e carico di
richiami e di memorie e ancora in uso :«torramus a su
connottu» per esprimere il rifiuto della “proprietà perfetta”
e la preferenza per gli usi comunitari, allora considerati
dal governo piemontese la ragione fondamentale
dell’arretratezza delle campagne. “Torramus a su
connottu” da allora è diventato di uso comune per
esprimere un giudizio di condanna del presente e una
preferenza per il passato, anche quello meno felice. Oggi
si usa per difendere tutto ciò che il mondo agropastorale
della Sardegna interna ha conosciuto, che per molti
sarebbe da preferire a tutti i modelli di sviluppo più o
meno modernisti e industrialisti a cominciare dai modelli
di vita, dalle pratiche alimentari, dalla qualità dei prodotti
cioè da tutto quello che molti considerano il patrimonio
identitario del popolo sardo, elemento costitutivo primario
dell’identità nazionale sarda. È però inutile continuare in
un conflitto di questa natura che non porta da nessuna
parte. Dopo tanti progetti di cambiamento e dopo tante
esperienze vissute nella logica del superamento delle
condizioni considerate elementi frenanti di una normale
evoluzione sociale dobbiamo provare a conciliare il
vecchio con il nuovo, “su nou chi su connottu” come detto
nel titolo di questa nota. Forse è questa la strada più giusta
295
per ottenere risultati meno incerti e precari di tante
precedenti
esperienze,
non
ultime
quella
dell’industrializzazione e del mancato sviluppo di
un’agricoltura moderna. Conciliare il vecchio e il nuovo
richiede un pian complesso, una strategia di ampio respiro,
una riforma strutturale che purtroppo non sembra
prioritaria né per l’Unione Europea, né per lo Stato, né per
la Regione, che continuano a praticare una politica di
contenimento dei danni forse sperando che la crisi cessi
per via naturale e i danni causati da questo ritardo vengano
ridotti e sopportati con politiche di tipo assistenziale e per
effetto del mercato.
Seconda parte
1. Se M. Le Lannou potesse rivisitare oggi la Sardegna la
troverebbe molto cambiata nelle città e nelle coste, ma
molto meno nell’assetto strutturale delle campagne,
nonostante la presenza di torri eoliche, di piccole e grandi
centrali solari e di altre costruzioni d’uso promiscuo che
rompono la solitudine del paesaggio ne oscurano in parte
il fascino descritto nel suo famoso e già citato “Pastori e
contadini di Sardegna” il quadro di fondo appare ancora
molto simile a quello degli anni ’30 del secolo scorso.
La struttura agronomica e produttiva è infatti più o meno
la stessa e forse ancor di più segnata dalla pastorizia. Ci
sono case, ovili, stalle, strade vicinali, linee elettriche. Ci
sono trattori e fuoristrada, c’è dovunque la presenza di una
moderna strumentazione e ci sono, anche se si vedono
296
raramente, i pastori in jeans e in tuta da lavoro. Ma lo stato
delle campagne dà l’impressione dell’immobilità e
qualche volta dell’abbandono e della trascuratezza, appare
in una parola fermo nel tempo.
Questa impressione è forte e non cambia anche se chi
guarda sa che nella realtà la pastorizia ha realizzato
ammodernamenti molto significativi nel campo della
selezione genetica, dell’orientamento dei tempi dei parti
alle esigenze del mercato, dell’aumento pro capite della
lattazione, della cura del benessere degli animali, nell’uso
di precauzioni igieniche nella mungitura e nella
movimentazione del latte, nella produzione del foraggio,
nell’alimentazione mirata alla quantità e ancor di più alla
qualità del prodotto secondo le esigenze dell’industria di
trasformazione. Ma se l’impressione negativa resta vuol
dire che c’è qualcosa che non va, qualcosa di cui la
politica dovrebbe preoccuparsi, qualcosa di natura
strutturale che non riguarda tanto i singoli allevamenti e i
singoli allevatori ma la condizione complessiva del settore
che la vista delle campagne semi-abbandonate richiama
con forza in tutti i suoi aspetti, non solo in quelli della
produzione, dei processi di trasformazione, della cura dei
terreni ma anche in quelli del mercato e del processo di
equa distribuzione del valore aggiunto ricavato dalla
trasformazione industriale.
Se si vuole che il settore zootecnico continui a essere
anche nel futuro uno dei pilastri fondamentali dello
sviluppo si deve curare tutto il processo senza
297
sottovalutare i cambiamenti in corso e l’ingresso nel
settore di nuovi protagonisti.
Per ottenere risultati reali e duraturi non è sufficiente
adeguare l’offerta alle modifiche della domanda – come
qualcuno pensa –. È necessario anche questo ma è più
urgente affrontare e risolvere i problemi di fondo, anche se
sono più complessi e non facili perché toccano strutture da
tempo esistenti e consolidate. Ma anche semplicemente
adeguare la produzione di latte alla domanda reale non è
facile, perché comporta spostare una parte degli
allevamenti dalla produzione del latte alla produzione di
carne, significa in un certo senso mescolare e far
convivere il sistema olandese con il sistema scozzese,
l’intensivo con l’estensivo in modo razionale, non solo per
rispondere alle esigenze del mercato ma anche per
garantire un migliore stato delle condizioni ambientali e
allo stesso tempo un maggiore benessere della comunità e
degli stessi allevatori. Forse si è finalmente compreso che
il latte prodotto non può aumentare all’infinito, soprattutto
in assenza di forti innovazioni del prodotto trasformato.
Deve restare leggermente al di sotto della quantità
necessaria a soddisfare interamente la domanda se non si
vuole assistere ogni anno a notevoli variazioni dei prezzi.
Eppure il timore che così facendo ci si espone alla
penetrazione di prodotti di altra provenienza c’è ancora
nonostante le più recenti esperienze abbiano dimostrato
che una produzione di latte superiore alle potenzialità del
mercato concorre a creare condizioni di prezzo depressive,
298
trasformando l’aumento del prodotto da fattore positivo in
elemento negativo della remunerazione finale.
Ho detto che nessuno può negare i passi avanti compiuti
negli ultimi anni. Questi però non sono frutto di scelte
politiche, ma dell’adeguamento quasi istintivo della
categoria alla domanda del mercato, ai progressi della
tecnica e delle conoscenze veterinarie nel campo della
selezione-fecondazione, alimentazione e cura degli
animali e anche della più duttile e pragmatica posizione
delle associazioni e questo fa ben sperare in un futuro
meno incerto. Se però si deve cambiare di più, come io e
molti degli stessi pastori crediamo, il percorso d’ora in poi
non può essere lasciato all’istinto e all’iniziativa dei
singoli allevatori o all’opera di mediazione tra
associazioni e imprese trasformatrici. Per ottenere risultati
di un certo valore occorre una nuova visione politica
generale che abbia un orizzonte lungo; occorre
promuovere nuovi strumenti di ricerca, monitoraggio,
credito, assistenza tecnica, formazione professionale;
occorre una più rigorosa regolamentazione dell’esercizio
della professione e tante altre cose tra le quali, non ultima,
la saldatura tra “su connottu” e “su nou”, tra natura e
scienza, tra identità e mercato. Molti sostengono che tutto
questo non è possibile perché l’UE blocca tutto. Ma
l’azione politica e amministrativa della Regione e i
programmi possono sempre occupare gli spazi lasciati
liberi dai regolamenti dell’Unione e utilizzare le risorse
regionali e anche quelle europee per migliorare le
condizioni degli allevatori con nuove normative, nuovi
299
strumenti tecnici, nuovi sistemi di welfare e nuovi
programmi rivolti a rendere non solo più efficiente ma
anche più attraente, interessante e socialmente apprezzata
soprattutto dai giovani la professione di operatoreimprenditore nel campo della produzione, della
trasformazione e commercializzazione dei prodotti agrozootecnici.
La Regione sarda può fare molto e in forma avanzata. Si
tratta di cominciare un percorso che potrà essere faticoso
ma non impossibile se si ha la capacità di cogliere e
assecondare i valori che stanno emergendo nelle nuove
generazioni che vanno sostenuti e accompagnati da
politiche innovative capaci di unire l’economico, il sociale
e il culturale in un unico piano di sviluppo equo,
sostenibile e competitivo.
L’agricoltura sarda, come abbiamo detto è certamente
cambiata, ma per molti aspetti sembra ancora ferma alle
origini. Forse non potrebbe essere diversamente dal
momento che essa dipende quasi interamente da elementi
naturali immodificabili fino a qualche anno fa, come ad
esempio le leggi genetiche, l’andamento climatico, la
fertilità dei suoli per citarne solo alcuni. Questa
immobilità è in certi casi molto appariscente, ma non
corrisponde del tutto alla realtà e soprattutto non è
immodificabile nel futuro anche prossimo. L’agricoltura
non può però cambiare da sola serve il sostegno convinto
e intelligente della politica e della scienza, come ci
insegna la storia e anche la più recente esperienza.
300
La prima cosa da fare è rivalutare l’importanza del settore
primario per l’economia e la condizione sociale della
comunità sarda, che può sembrare elementare e scontata
ma così non è e forse non abbiamo mai considerato la
comparsa dell’agricoltura diversamente da tanti illustri
antropologi la più grande rivoluzione nella storia della
società umana. E anche per questo non abbiamo
partecipato ai cambiamenti nell’uso dell’acqua, nei
processi lavorativi, nella trasformazione dei prodotti e
successivamente nell’uso degli strumenti meccanici e dei
prodotti chimici, nelle rotazioni d’uso della terra, ecc. E
non sembriamo ansiosi di partecipare all’ultimo grande
cambiamento, alla nuova rivoluzione indotta dal mercato e
sostenuta dalla scienza genetica. Essa riguarda tutti i
fattori, compreso il nucleo più antico, quello originario
ritenuto finora immodificabile. Ma la scienza genetica va
avanti senza di noi, procede senza sosta nonostante le
critiche, le riserve e le tante obiezioni di carattere etico
che ha suscitato e continua a suscitare nell’ambito
scientifico ma soprattutto nella più sensibile opinione
pubblica. Gli organismi geneticamente modificati sono
osannati o osteggiati, condannati senza riserve da molti
governi, dalla maggioranza delle istituzioni e dei leader
morali. Ma sono sostenuti con forza crescente da una parte
considerevole degli scienziati e dalle potenti
organizzazioni multinazionali che ne controllano la
produzione e la vendita e utilizzano la grande crescita
demografica in corso nel mondo e la correlata domanda di
cibo per introdurre in misura sempre più ampia gli OGM
301
nell’agricoltura di molti paesi soprattutto ma non solo in
quelli più sviluppati. La Sardegna è ancora fuori da questo
processo ma non è detto che lo sarà nel prossimo futuro.
Non ce ne occupiamo, ma altri possono sempre farlo
infischiandosene del fatto che questa ultima rivoluzione
agraria guidata dalla scienza abbia suscitato obiezioni
etiche e fatto emergere più acutamente la questione
ambientale e la grande inadeguatezza delle strutture
normative e strumentali del settore a far fronte alle nuove
esigenze e ai nuovi compiti. Continuare a
disinteressarsene può essere pericolo e creare problemi
che si aggiungono a quelli esistenti e ai gravi conflitti in
atto o preannunciati. La politica europea, nazionale e
regionale nelle dichiarazioni di principio non ignora
nessuno dei temi trattati. Ma la pratica di governo non è
stata finora conseguente ed ha lasciato libero il campo alle
multinazionali, giustificandosi con l’assenza di specifiche
domande delle associazioni del settore, che insistono a
chiedere interventi di tipo assistenziale a difesa delle
piccole imprese tradizionali e delle realtà regionali più
tipiche e radicate nella cultura e nella tradizione. Nessuno
può negare che anche questo sia utile. Ma le due linee
potrebbero convergere in una politica diretta a realizzare
un sistema di forte cambiamento che garantisca la
sopravvivenza e la valorizzazione delle tradizioni, non
solo come testimonianze del passato ma come beni capaci
di stare nel mercato globale, conservando i sapori e i
saperi antichi, non come sopravvivenza museale ma
trasformandole in risorse dinamiche e remunerative
302
destinate a rivoluzionare l’agricoltura e farla diventare il
fattore centrale dello sviluppo, come si afferma ormai
quasi da tutti.
L’urgenza dello sviluppo però non può giustificare tutto
quel che succede nel settore. La politica farebbe un grave
errore se non tenesse nel giusto conto che le tendenze del
mercato agricolo stanno evolvendo, in assenza del potere
politico, in senso sempre più oligopolistico e globale. Il
settore già da ora appare, se non controllato, fortemente
condizionato da poche multinazionali che puntano a fare il
bello e il cattivo tempo ovunque nel mondo a danno delle
piccole imprese e in contrasto con le dichiarazioni ufficiali
della politica. La Sardegna come già detto, è per ora fuori
da questo processo ma è sbagliato non preoccuparsi di
prevenirne i danni come invece fanno tutti, a cominciare
dalla giunta regionale, che sembra guardare solo al
presente, interessata più alla quantità delle risorse
trasferite dall’Unione europea e alle azioni rivolte a tenere
in vita il sistema esistente piuttosto che alle nuove
politiche da mettere in campo per cambiarlo. Non solo la
giunta ma anche le associazioni sottovalutano il fatto che
così facendo si rischia di non risolvere la crisi e
consegnare le componenti più attive e dinamiche entro
breve tempo nelle mani di società oligopolistiche, non
solo americane, olandesi o svizzere ma anche arabe,
cinesi, russe, molto attive da qualche tempo nel settore e
poco preoccupate dei riflessi di tutto questo sulle comunità
locali e sull’ambiente naturale.
303
Sarebbe però sbagliato dire che tutto quello che succede
nell’isola è negativo. Ci sono segnali e esperienze di segno
diverso se non opposto. Tra queste ultime è
particolarmente importante il ritorno all’agricoltura di un
certo numero di giovani che scelgono l’attività agricola
pur essendo in possesso di titoli di studio in altre
discipline. Si tratta per ora di fatti numericamente poco
rilevanti e certo non in grado di compensare i fenomeni
negativi che abbiamo richiamato. La risposta della giunta
a queste nuove tendenze si è finora limitata a predisporre
un progetto rivolto all’assegnazione di piccole aziende
attraverso bandi pubblici a giovani che ne fanno richiesta.
Interessante come idea, ma troppo limitata e in un certo
senso superata soprattutto se si tiene conto delle tendenze
di mercato che abbiamo citato. È infatti abbastanza
evidente che non basta un progetto limitato a poche
aziende – e per di più costituite da lotti della riforma
agraria abbandonati dagli assegnatari per la difficoltà
incontrata nelle gestioni – per incentivare i giovani a
tornare alla terra. Un progetto così modesto non può dare i
frutti sperati e non potrà che realizzare obiettivi limitati. E
perciò andrebbe sospeso, ripensato e collocato all’interno
di un grande piano organico all’altezza dei tempi, non
condizionato da finalità contingenti e da una generica e
superata concezione assistenziale, che però resiste
nonostante tutto e si aggiunge alle insistenze di certi
ambienti nel difendere vecchie soluzioni legate più alle
problematiche del secondo dopoguerra e alle ormai
anacronistiche e inutili diatribe sugli usi civici, sulle terre
304
comuni, sulla proprietà perfetta, sulle chiudende, sul peso
della rendita fondiaria e della proprietà assenteista, sulla
difesa del mercato locale e la superiorità qualitativa dei
prodotti sardi rispetto a quelli importati piuttosto che alle
nuove domande delle giovani generazioni, più orientate ai
cambiamenti. Molti giovani aspiranti agricoltori hanno
capito lo spirito del tempo e l’esigenza di procedere a una
grande riforma del settore che comprenda gli strumenti
operativi, le tecnologie, l’organizzazione aziendale, le
nuove produzioni, gli strumenti per stare nel mercato
adeguando a questi fini le strutture pubbliche, a
cominciare dall’assessorato e dagli uffici della Regione
per arrivare alle infrastrutture, alla ricerca scientifica, alla
sperimentazione, in sostanza a una politica diretta a
riformare l’intero settore, che deve essere considerato
essenziale per trasformare l’attività agricola nel volano di
un nuovo sviluppo, che non può affermarsi con i vecchi
sistemi ma solo realizzando cambiamenti profondi sia
nella mentalità delle nuove generazioni sia nel mercato
globale. Il sistema è diventato più complesso, un universo
molto differenziato che continuiamo forse impropriamente
a chiamare agricolo, che del vecchio sistema agricolo ha il
suolo, l’ambiente naturale, gli animali e quant’altro
serviva per svolgere questa attività nel passato e che serve
ancora nel presente e nel futuro ma solo se si creano gli
strumenti per affrontare le esigenze emerse con il
progresso tecnico-scientifico, culturale, globale, che
richiede una politica all’altezza dei tempi, richiede un
piano di grande cambiamento, che li comprenda tutti, un
305
piano che ho sintetizzato nell’espressione forse generica
ma immediatamente comprensibile di “nuova riforma
agraria”.
2. Da quanto ho detto prima emerge con sufficiente
chiarezza che se è innegabile che anche in Sardegna
l’agricoltura ha fatto importanti passi avanti è però
altrettanto innegabile che le cose da fare per realizzare un
processo di ammodernamento e di adeguamento in
coerenza col progresso tecnico e con le condizioni del
mercato, oltre a non essere più le stesse richieste nel
passato non sono neppure iniziate nonostante che tutti i
comparti chiedano nuove politiche, non solo quello
cerealicolo e quello zootecnico ma anche quello
vitivinicolo e olivicolo, per citare i più noti. Tutti
chiedono
profonde
riforme
nelle
strutture
dell’informazione, dell’assistenza tecnica, del credito,
dell’istruzione media, superiore e universitaria, della
commercializzazione, della difesa del suolo e delle
biodiversità. La politica agricola è invece sempre la stessa
da anni, prevalentemente orientata, come già detto, in
termini assistenziali
e questo avviene, bisogna
riconoscerlo, anche per l’atteggiamento tradizionalista
della maggioranza non solo delle imprese ma anche delle
associazioni, che a volte appaiono arroccate su posizioni
tradizionali a difesa dei mercati locali dall’invasione dei
prodotti esterni nell’illusione che basti ridurre le
importazioni per rivitalizzare e rendere più redditizio il
lavoro degli addetti, senza riflettere abbastanza che se la
produzione si orientasse prevalentemente a soddisfare il
306
mercato locale, sarebbe un disastro per tutto il settore ma
soprattutto per due dei principali prodotti: il formaggio e il
vino che come è noto hanno bisogno per crescere e
affermarsi di un mercato aperto e non di un sistema chiuso
o come si diceva una volta “autarchico”. Le conseguenze
di un sistema chiuso, di una politica agraria “autarchica”,
sono la crisi della cerealicoltura, dell’orticoltura e della
frutticoltura che hanno nell’orientamento a produrre per il
mercato locale la causa più rilevante. La crisi della
cerealicoltura ha reso la presenza dei contadini in larghe
zone dell’isola sempre più marginale, ridotta a poche
migliaia di addetti impegnati a coltivare spazi di terreno
sempre più ristretti per produzioni destinate al consumo
familiare e locale più che al mercato esterno, naturalmente
con qualche eccezione. Ma non è solo questa la causa
della difficoltà dei contadini, la ragione che li ha portati a
sparire quasi del tutto da tutte le campagne sarde, anche da
quelle che sono state la causa delle guerre puniche. Ce ne
sono tante altre come ho detto e come è noto da tempo da
chi segue l’evoluzione del settore. Guardando le
campagne sarde, anche quelle tradizionalmente dominate
dalla cerealicoltura, come il medio e basso Campidano è
difficile provare la stessa sensazione del geografo francese
J. Sion, che secondo quanto riportato nel libro di Le
Lannou avrebbe esclamato contemplando le grandi distese
di grano: «ora capisco il perché siano state combattute le
guerre puniche». Nelle pianure non solo del Campidano
ma di tutta la Sardegna c’è sempre meno grano, meno
cereali, meno fave e più pecore. Anche questo conferma
307
l’idea che per uscire dalla crisi occorre cambiare il
vecchio modo di ragionare e cominciare ad agire,
aprendosi al nuovo senza rinnegare l’antico ma neppure
fermarsi a rimpiangerlo. L’interesse generale della
Sardegna impone che si faccia tutto quello che serve per
fermare il declino e rovesciare le tendenze negative
espresse dai fatti e confermate dai dati statistici
incontrovertibili. Vediamone alcuni: la produzione
complessiva del comparto cerealicolo copre a malapena il
20-25% del fabbisogno isolano; un po’ meglio si presenta
il comparto olivicolo, che resiste alla concorrenza degli
spagnoli, dei greci e dei magrebini oltre a quella delle
regioni italiane del Mezzogiorno. La coltivazione delle
barbabietole da zucchero è scomparsa, quella dei
pomodori ridotta sensibilmente. Solo i carciofi resistono
almeno per ora. Pesche, agrumi, pere, mele, mandorlo,
noci, nocciole, fichi e castagne sono sempre più scarsi. Il
settore vitivinicolo sembra quello più vitale e moderno.
Ma la viticoltura rappresenta con i suoi 500.000-600.000
ettolitri appena l’1% della produzione nazionale. Una
quantità molto al di sotto delle potenzialità dell’isola e
delle possibilità di collocamento nel mercato mondiale. La
stampa locale esalta i notevoli successi registrati dai vini
sardi in Italia e nel mondo e i produttori sembrano
entusiasti di partire alla conquista degli enormi mercati
internazionali trascurando di considerare i limiti posti
dalla scarsità del prodotto. Sin sono fatti grandi passi
avanti nella qualità e nella presentazione dei prodotti ma
non si può dire altrettanto per l’aumento della produzione
308
che è sempre modesta nonostante si sia parzialmente
sbloccata la possibilità di impiantare nuovi vigneti.
3. Tutto quanto detto conferma l’esigenza, già espressa, di
un cambio di strategia, di una nuova visione, di un piano
organico pensato per rendere l’agricoltura sarda più
dinamica e più in linea con le domande e le condizioni del
mercato. Il piano deve comprendere le linee per la riforma
di tutte le strutture della pubblica amministrazione, nuove
forme e nuovi strumenti di credito e di sostegno societari e
di assistenza all’esportazione, la creazione di aziende
sperimentali e di impianti energetici integrativi del reddito
agricolo e di tutte le altre iniziative necessarie per
riformare le strutture pensate per una realtà economicosociale che non esiste più e se esiste non sopravvivrà ai
grandi cambiamenti che si preannunciano. L’azione della
regione andrebbe supportata meglio dall’Università con le
sue facoltà di Agraria, Veterinaria, Scienze naturali.
Legare insieme scienza e lavoro agricolo è indispensabile
per immettere nell’agricoltura nuove forze dotate di nuove
competenze. Ma andrebbero anche creati nuovi organismi
tipo Crs4 che si occupino esclusivamente di utilizzare le
proprietà delle risorse naturali, delle esperienze e dei
prodotti de “su connottu” per creare produzioni in linea
con le esigenze del mercato. Le riforme avviate e quelle
annunciate non sembrano corrispondere a queste esigenze
ma piuttosto a quelle maturate negli ultimi decenni del
900. Il ritardo della nuova visione è confermato dalla
recente riforma dell’Ente foreste che ha cambiato il nome
in “Forestas” ma ha conservato sostanzialmente una sorta
309
di separatezza dal sistema nel suo complesso con la
riconferma delle funzioni e della missione ereditate dal
secolo scorso, per di più appesantite dal carico di seimila
dipendenti, la maggior parte operai di cantieri destinati più
a ridurre la disoccupazione derivata dalla diminuita
capacità occupativa del settore agro-zootecnico, che ad
affrontare i problemi del settore ambientale, insieme cioè
con quella che avrebbe dovuto costituire la nuova
moderna missione dell’Ente, emersa chiaramente nel
nostro precedente convegno sull’ambiente nel quale anche
io avevo segnalato l’urgenza di un’organizzazione
dell’intera strumentazione del settore pensata ex novo per
attuare una politica ambientale incisiva e moderna rivolta
a garantire il rispetto del principio della sostenibilità dello
sviluppo con un più attento controllo dell’uso del suolo,
dei consumi idrici, dell’uso dei pesticidi e di diserbanti,
dello smaltimento dei rifiuti, delle emissioni di CO2, della
qualità dei concimi, dei residui delle lavorazioni, della
qualità dei mangimi, dell’uso distruttivo dei pascoli e
dell’incidenza negativa sull’ambiente di tanti altri
elementi quasi completamente ignorati come l’impiego
degli OGM, la progressiva sparizione di specie naturali a
danno della biodiversità e tanti altri che non è necessario
richiamare. È vero che di alcuni di questi problemi si
dovrebbe occupare l’Arpas ma è proprio l’irrazionale e
anacronistica divisione dei compiti che porta quasi a
ignorarsi l’un l’altro che andrebbe rimossa per poter
governare le questioni ambientali nel loro insieme. Sono
sempre più convinto di quanto sostenuto in quel
310
convegno. Il fattore ambientale insieme a quello agricolo
dovrebbe diventare centrale in tutte le politiche regionali,
il punto archimedeo sul quale poggiare la leva dello
sviluppo. Non basta però condividere questo a parole. È
urgente una conferma nei fatti e questo è possibile solo
con la riforma della politica agricola e ambientale, già
prevista cinquant’anni fa nel piano quinquennale di
rinascita, purtroppo largamente disatteso forse perché in
anticipo con i tempi e con la mentalità dominante. Sarebbe
ora però, dopo tanto tempo, di convincersi che una delle
cause più importanti della crisi agricola è stata
l’abbandono della visione organica e del coordinamento,
incautamente sostituiti con gli interventi dispersivi
tradizionali e con una politica assistenziale che infatti
continua a vagare nel labirinto della crisi cercando a
tentoni la via d’uscita, lasciando in questo modo le sorti
dell’isola nelle mani di un mercato che, senza l’uso di
strumenti capaci di correggerne le distorsioni e aiutare le
aziende sarde in modi concordati con la UE, a competere
con il resto del mondo, così come richiesto dalla
globalizzazione e dalla libera circolazione delle merci, non
può che rendere permanente e irreversibile il declino in
corso. Non voglio essere frainteso e considerato un
distruttore del passato. Perciò ho intitolato il mio
intervento “Su nou e su connottu” per cercare di chiarire
che la politica deve valorizzare l’esperienza e allo stesso
tempo sostenere il nuovo. La politica agricola non
dovendosi più preoccupare come nel passato di incidere
sulla distribuzione della terra, sulla riduzione delle rendite
311
fondiarie, sulla riforma dei patti agrari, sull’eliminazione
del conflitto pastori-contadini, ecc., può e deve puntare a
ridurre le nuove diseconomie, eliminare gli intralci della
burocrazia e soprattutto modificare le condizioni
strutturali che rendono la nostra agricoltura incapace di
tenere il confronto con il resto del mondo. La nuova
politica deve cioè ridurre il peso di tutto ciò che frena, che
intralcia, che appesantisce, che complica la vita dei
produttori, deve allo stesso tempo puntare a creare le
competenze, i mezzi, le strutture, i capitali e quanto altro
occorre per entrare nel nuovo tempo più attrezzati e più
sicuri.
Evitare di condannare in blocco il passato non significa
che si deve confidare troppo ottimisticamente sulla tenuta
di sistemi che appaiono sempre più deboli, più
testimonianze del vecchio mondo che strutture attive del
nuovo tempo.
Per riuscire realmente nell’impresa di valorizzare tutte le
componenti vitali della società sarda e in particolare gli
elementi costitutivi bisogna evitare di “museificarli”,
bisogna conservarne la natura fondamentale e aggiungere
il nuovo, saldare il nuovo con l’antico: “su nou chi su
connottu” inserendoli nella civiltà post-moderna con gli
strumenti della tecnica.
Tutto il discorso fin qui svolto vale per l’intera Sardegna
ma riguarda soprattutto le zone interne alle quali la
seconda modernità sembra incapace di garantire un futuro
migliore. Lo spopolamento e l’abbandono sono i segni più
evidenti ma non i soli che segnalano che è in atto una
312
rottura epocale, e dicono chiaramente che potrebbe
diventare inarrestabile se prevalesse una visione limitata
che porterebbe come già detto alla museificazione del
territorio, riducendo sensibilmente le potenzialità
economiche del patrimonio etnico-culturale. L’unica
strada per evitarlo è fare in modo che gli antichi beni
preziosi vengano non solo protetti e utilizzati ma in
qualche modo migliorati, fatti diventare parte integrante
del sistema di produzione post-moderno facendo in modo
che da beni locali diventino beni globali. Lo dobbiamo a
noi stessi ma lo dobbiamo soprattutto alle nuove
generazioni che hanno diritto di pretendere di vivere in un
mondo dove sia loro possibile partecipare alla
realizzazione di un modello di sviluppo che richiede
nuove competenze e nuovi strumenti unendo antico e
moderno non per il mercato ma per realizzare un riscatto
atteso da tanto tempo, rivendicato e sperato ma mai
raggiunto. Nel passato abbiamo sperimentato altre strade,
abbiamo fatto importanti progetti originali e coraggiose
esperienze di tipo industriale che hanno creato prima
grandi speranze e poi grandi delusioni, provocato disagi
duri da sopportare e causato ferite ancora aperte. Sarebbe
sbagliato dopo questi insuccessi pensare che non c’è
niente da fare per includere le aree interne nel grande
fiume della prima e della seconda modernizzazione,
salvando quanto di valido resta della civiltà agropastorale
di cui abbiamo parlato e dell’intero mondo rurale che
coincide con le zone interne. Perché l’impresa riesca
occorre rimuovere le cause degli insuccessi dei precedenti
313
progetti e soprattutto è necessario mettere in campo un
nuovo progetto all’altezza dei tempi nuovi.
Ciò vuol dire che non dobbiamo solo accusare o
protestare, ma dobbiamo agire impegnando tutte le nostre
forze perché la crisi in atto non diventi irreversibile, non
condanni al definitivo declino e spopolamento due/terzi
dell’isola, ma apra la strada a uno sviluppo moderno che
non può venire, lo ripeto, dalla creazione di un grande
museo a cielo aperto ma da un’economia viva e vitale che
veda le popolazioni diventare protagoniste della seconda
modernizzazione, utilizzando la cultura de “su connottu”
non come folclore inerte, anche se carico di fascino, ma
come una risorsa viva che concorre a creare una nuova
civiltà più efficiente, più giusta, più equa e più solidale.
Terza parte
1. A questo punto è opportuno fare un breve accenno ai
profili internazionali indicati nel tema del convegno e
sottolineati dalla partecipazione di alcuni esperti del
Maghreb.
Non posso sviluppare ampiamente questo tema non perché
lo ritenga estraneo o marginale, ma al contrario perché
penso che esso meriti un esame non frettoloso o
superficiale. Ma vista l’importanza dello scenario
geopolitico nel quale noi e loro operiamo non parlarne per
niente sarebbe sbagliato. Le esperienze antiche e anche
quelle più recenti ci insegnano che ci sono molti punti in
comune fra la Sardegna e le aree mediterranee del
314
Maghreb e in particolare della Tunisia. Anche se
volessimo non potremmo dimenticare che Cartagine ha
dominato la nostra isola per qualche secolo, ha costruito
città, creato colonie agricole e molte altre attività che
ancora segnano il nostro paesaggio e secondo alcuni
studiosi anche il nostro carattere nonostante siano trascorsi
due millenni e si siano alternati nel tempo diversi regimi
politici e molti cambiamenti importanti nelle strutture
religiose, culturali e produttive. Il tema dei rapporti con i
paesi extracomunitari, compresi quelli della sponda
africana del Mediterraneo, rientra inoltre nel quadro più
ampio imposto dalla globalizzazione, della quale ho
parlato a lungo. Vi rientra in linea generale anche se è
evidente che per molti aspetti si differenzia dagli altri che
ho richiamato per la prossimità territoriale e per la
somiglianza di alcuni prodotti comuni alle due economie
che inevitabilmente si presentano come concorrenziali tra
loro e creano qualche tensione. Lo abbiamo constatato
anche di recente quando la semplice notizia di un
contingente di olio d’oliva importato dal Maghreb esente
imposte provocò una dura polemica nella stampa locale.
L’importanza del problema è più chiara se si pensa che
non è solo l’olio d’oliva in potenziale concorrenza con il
nostro ma lo sono quasi tutti i prodotti agricoli:
cerealicoli, frutticoli, orticoli a anche zootecnici. Ci sono
state e ci sono in corso molte analisi e approfondimenti su
questi temi, oltre a quelli esposti dai relatori presenti al
convegno. Essi ci dicono che la Sardegna condivide con i
paesi mediterranei molte delle problematiche geopolitiche
315
in quanto noi e loro siamo un anello debole, soprattutto se
ciascuno pensa solo a sé stesso e non si creano nuove
forme di collaborazione, ben sapendo che l’Europa reale
di oggi non è l’Europa degli antichi che aveva al suo
centro il mar Mediterraneo, Roma come capitale, il latino
e la cultura cristiana come elementi unificanti. L’Europa
di oggi non comprende la sponda africana né quella
asiatica, entrambe assorbite dall’universo che siamo soliti
chiamare “islamico”, con tutto ciò che questo comporta e
che noi conosciamo perché, già prima dell’anno 1000,
quando l’Islam comprendeva una parte considerevole
della Spagna, dei Balcani, della Sicilia, la Sardegna ha
dovuto difendersi ma anche cooperare con il vicino
Maghreb. Tutto questo fa parte della memoria, è impresso
nell’identità dei diversi popoli e non rende facile
considerarli uguali agli altri europei anche perché il
colonialismo ha lasciato molte ferite e la comparsa più
recente dei fondamentalismi religiosi e politici accentua le
grandi differenze e le ostilità che ci dividono. Ma
nonostante tutto questo ci sono interessi e problemi
comuni di cui noi dobbiamo farci carico consapevoli che
la sorte dell’Europa e ancor più della Sardegna è
fortemente collegata con il mondo islamico mediterraneo
e soprattutto con il Maghreb. Dobbiamo fare di tutto per
evitare contrapposizioni ostili e non limitarci a iniziative
isolate, episodiche, volontaristiche o di natura culturale,
turistica, archeologica, ma agire da un punto di vista più
ampio, politico e economico, realizzando patti e azioni
comuni per difendere interessi convergenti e per meglio
316
far fronte ai problemi drammatici più recenti imposti dalle
migrazioni. Ciò richiede una stretta collaborazione che
superi le diffidenze, le incomprensioni e le divergenze che
indeboliscono entrambi nei difficili e tutt’altro che
scontati confronti con l’UE, nella quale come è risaputo e
dimostrato, dominano le questioni poste dai paesi più
forti, Francia e Germania in particolare.
È difficile ma non impossibile anche il compito più
urgente di trasformare in elementi di forza le grandi
emergenze della geopolitica tra le quali non ultima va
collocato il problema delle incontrollate migrazioni.
Occorre lavorare insieme per conseguire una riduzione
significativa del numero dei migranti per evitare
l’aumento
dell’instabilità,
dell’insicurezza,
della
permanente conflittualità in tutto il bacino del
Mediterraneo.
È interesse nostro e di tutta l’Europa avviare una politica
rivolta a non penalizzare
le economie dei paesi
extracomunitari, a cominciare da quelle dei paesi
maghrebini che anzi vanno aiutati e sostenuti nei
programmi di sviluppo, che sono l’unico vero rimedio alle
migrazioni. Serve cioè più lungimiranza e più coraggio da
parte di tutti, anche da parte nostra, e ci dobbiamo tutti
augurare che questo avvenga. Non dobbiamo aver paura
che l’agricoltura del Maghreb, se cresce e migliora, ci
danneggi. Anzi dobbiamo pensare e fare in modo che la
sua crescita diventi in qualche misura un obiettivo
comune, che richiede naturalmente un indirizzo, un
317
coordinamento e una verifica costante dei patti e una loro
reale attuazione.
2. La geopolitica ha allargato il discorso fin qui svolto
sull’agricoltura e ci ha fatto capire che non tutto dipende
da noi ma da fattori e interessi molto più vasti e
complessi. Questo rende il compito della politica molto
più impegnativo e difficile ma possibile e soprattutto
necessario se vogliamo guardare al futuro con fondata
speranza. Il cammino dell’uomo non è ancora giunto alla
fine. Molti segnali vanno in direzione di un’Apocalisse
sempre più imminente. Altri invece annunciano l’inizio di
un nuovo tempo, indicano che la strada per conseguire
nuove conquiste; mostrano orizzonti nuovi e indicano che
obiettivi che sembravano irrealizzabili sono alla portata
della mente umana; mostrano che sono possibili progressi
finora
impensabili
nella
condizione
di
vita,
nell’uguaglianza, nella giustizia, nell’equità, nel rispetto
dei valori umani, nella dignità e nella fraternità di tutti
senza distinzione; lasciano intravvedere la conquista di
nuovi spazi, nuove conoscenze, nuovi territori e persino
nuovi mondi. Sperare in un futuro diverso non deve essere
considerato tempo sprecato a inseguire illusioni per poi
passare il tempo a lamentarsi degli insuccessi come è
avvenuto per certi progetti elaborati nel passato in
agricoltura, nell’industria, nella condizione urbana e in
quella rurale. Gli insuccessi fanno parte dell’ordine
naturale della vita. Ogni cosa nasce e muore, ci sono stati
e ci saranno sempre successi e insuccessi. Ma è vero
anche che molte cose sono cambiate in meglio: la società
318
ha progredito, la condizione umana è migliorata. Questo ci
autorizza a sperare che le nuove aspettative nate
dall’esperienza che chiedono di colmare i vuoti e
correggere le distorsioni possano essere realizzate in tutto
o in parte nel nuovo tempo da una nuova classe dirigente,
forse non da noi, ma dai nostri figli e dai figli dei figli.
Nessuno fermerà il cammino della tecnica moderna come
nessuno ha fermato l’uso del fuoco donato da Prometeo
agli uomini dopo averlo sottratto agli dei anche se si sa
che la tecnica avrà come conseguenza la diffusione dei
mali in essa nascosti, come è successo con quelli contenuti
nel vaso di Pandora.
Il progresso tecnico però non si è fermato allora e non si
fermerà oggi davanti ai pericoli annunciati o temuti.
Andrà avanti con conquiste sempre nuove, con scoperte e
applicazioni oggi impensate che niente e nessuno può
fermare. Questo è il punto obbligato del vivere umano.
Tocca a tutti ma soprattutto a chi ha la responsabilità
maggiore fare in modo che la tecnica non uccida l’anima
dell’uomo, non cancelli le conquiste del passato, non
distrugga i valori, la memoria, l’identità. L’esperienza,
anche quella legata ai sogni svaniti, è utile per evitare
nuove delusioni e per resistere a forze ostili. Per questo
penso che per non essere completamente dominati dalla
tecnica, per non perdere l’identità e non essere totalmente
omologati al resto del mondo, è essenziale unire il
patrimonio che chiamiamo “su connottu”, che
naturalmente comprende anche le ultime esperienze, con il
nuovo in via di formazione e che ancora non si conosce. E
319
ciò sarà possibile se ritroviamo la fiducia in noi stessi, se
saremo capaci di affrontare il nuovo tempo non
impreparati o disarmati ma con i mezzi e le forme
necessarie per far nascere il nuovo senza distruggere il
patrimonio antico che costituisce la specificità e l’identità
comunitaria.
3. Nel precedente convegno ho citato E. Kant per dire che
non esistono concetti senza esperienza né esperienza senza
concetti. Lo ripeto anche oggi. Tutti possiamo vedere che
l’esperienza ha modificato il nostro orizzonte di
aspettative, ha creato nuove speranze e nuovi concetti che
dovranno orientare la nuova esperienza. Parole antiche
hanno assunto nuovi significati. Anche le parole
agricoltura, pastorizia, ambiente, paesaggio, natura oltre
alle parole libertà, giustizia, sviluppo, benessere
contengono nuovi significati collegati alle nuove attese
nate dalle nuove esperienze. Questo vale per i politici, per
gli intellettuali ma vale anche per il pastore, per
l’agricoltore, per il viticoltore, per l’ortolano, per il
giovane agronomo, per il chimico, per il veterinario, per il
medico, per l’archeologo, per il botanico, per l’artista, vale
per gli uomini e per le donne, per tutti.
I nuovi significati non devono cancellare quelli antichi. E
se è sbagliato vivere il nuovo tempo secondo le strutture
concettuali e valoriali prodotte dall’antica esperienza è
altrettanto sbagliato ignorarle affidandosi interamente alle
strutture concettuali e valoriali imposte dalla tecnica che
ha ampliato l’orizzonte delle attese e cambiato i modelli di
vita non sempre nel rispetto di tutti i diritti umani.
320
Il passaggio che viviamo è molto più rapido e radicale di
tutti quelli che l’hanno preceduto. È più difficile, più
complesso e in parte fuorviante. Sta a chi guida evitare i
guasti maggiori tra i quali la scomparsa del patrimonio
costruito nel lungo tempo della nostra storia. Evitare che
questo avvenga è molto importante ma sarebbe sbagliato
opporsi a tutti i cambiamenti. Occorre agire con coraggio,
saggezza e lungimiranza rispettando il principio di
precauzione ma tenendo presente che il rifiuto del nuovo è
impossibile e comunque senza sbocco, senza alcuna
prospettiva, senza futuro.
Chi non lo condivide sarà costretto ad assistere impotente
alla scomparsa del vecchio mondo senza vedere il nuovo.
Si rinchiuderà sempre di più dentro un mondo diventato
folclore anche in quelle parti che per secoli sono state il
cuore pulsante delle comunità. Per evitare questa
“catastrofe” culturale e antropologica la nuova politica
dovrà, lo ripeto, unire il nuovo e l’antico e dovrà riempire
le parole antiche di nuovi significati e dovrà aprire nuovi
orizzonti, sapendo che c’è la legge naturale della
resilienza a regolare la convivenza uomo-natura e
difendere i diritti di entrambi i mondi, quello umano e
quello naturale. Spetta però all’uomo e non alla natura
usare le possibilità offerte dalla resilienza, trovare il modo
più efficace per garantire la convivenza tra questi due
mondi che può essere travolta dall’irrompere senza freni e
senza limiti nella vita del nostro pianeta della tecnica
moderna. Le modalità vanno ancora scoperte e
sperimentate ma bisogna far presto perché la tecnica è in
321
azione sempre e ci costringe a prendere atto che il
cambiamento di quello che siamo soliti chiamare “su
connottu” è inevitabile e che il suo nucleo vitale può
essere salvato solo se il processo rimane sotto il controllo
dell’uomo. Questo vuol dire che per fermare il declino
delle zone interne non è sufficiente la resilienza ma è
indispensabile l’opera attiva dell’uomo. Non basta
neppure che le nuove generazioni intraprendano un lavoro
agricolo innovativo nelle tecniche, nei prodotti, nei sistemi
di lavorazione e commercializzazione, nel pluriuso della
terra e delle strutture aziendali se si lascia al mercato a
allo spontaneismo individuale la soluzione dei problemi
che stanno portando allo spopolamento. Per invertire la
tendenza occorre rafforzare l’azione pubblica, occorre
predisporre e attuare una serie di interventi di natura
infrastrutturale, ambientale, culturale e sociale. Occorre
anche e soprattutto riformare l’intero sistema politicoistituzionale e l’azione amministrativa; occorre una nuova
visione del ruolo dei servizi sanitari, scolastici, dei beni
culturali; occorre rendere le zone agropastorali meno
periferia e più centro, meno in ritardo e più aggiornate,
meno dedite alla monocoltura e più diversificate e ricche
di occasioni di lavoro moderno. Occorre sostenere le
vocazioni individuali e indirizzarle a realizzare una
struttura produttiva fondata su forme di collaborazione,
che potremmo chiamare “sociali di mercato”,
capitalistiche e tecnicamente avanzate ma anche radicate
nel tessuto sociale locale ed estese a tutti i settori, a
cominciare da quello agricolo. Costruire un’agricoltura
322
sociale di mercato può rendere più facile la presenza nelle
zone interne dell’industria 4.0 di ultima generazione; del
terziario avanzato e di altre attività orientate a difendere la
sostenibilità ambientale e l’equità sociale e sarà più facile
promuovere la partecipazione responsabile di tutte le
componenti sociali al processo produttivo, facendo in
modo che capitale e lavoro collaborino lealmente alla
costruzione di un sistema che porti all’equa distribuzione
dei profitti e al rispetto dei valori sociali, di quelli
tradizionali, di quelli moderni e di quelli post-moderni.
4. Da tutto quanto abbiamo detto finora emerge
chiaramente che la nuova politica agraria non si dovrà
limitare come nel passato a distribuire terreni e
organizzare bonifiche e miglioramenti fondiari e costruire
infrastrutture. Dovrà affrontare un compito più vasto e
impegnativo che consiste nel trasformare l’agricoltura
tradizionale in uno strumento costruito per contribuire a
raggiungere l’obiettivo più importante, che consiste nel
superamento dell’esclusione delle zone interne a
prevalente economia rurale dai processi di sviluppo postindustriale e dall’uso dei nuovi beni materiali e
immateriali, consiste nel non lasciare tutto alle tendenze di
un mercato che appare sempre più dominato dall’attività
speculativa della finanza internazionale e dall’egemonia
della tecnica che lasciate senza freni né controlli
accentueranno e renderanno irreversibile, come ho
sottolineato più volte, il declino delle aree deboli che
diventa inevitabile senza un cambio di paradigma, che
tutti a parole diciamo di volere ma che nei fatti, a
323
cominciare da quelli della politica, tarda a comparire.
Occorre agire per diversificare l’economia delle zone
interne sapendo che le nuove tecnologie e i nuovi sistemi
di produzione anche in agricoltura lasciati a un mercato
senza controlli non aumenteranno l’occupazione ma
semmai la diminuiranno, come è avvenuto nelle zone in
cui l’agricoltura in tutti i suoi vari comparti ha ben altra
dimensione e qualità della nostra. Sarà perciò importante
che la politica trovi i modi adatti per aggiungere alle
attività di produzione agricola, imprese industriali che
trasformino in loco i prodotti. Ma ancora più importante è
ampliare l’orizzonte delle attività verso campi nuovi che
valorizzino le competenze tecniche dei più giovani e gli
offrano la possibilità di realizzare i loro sogni. È
dimostrato da altre numerose esperienze che la crescita
dell’agroindustria e delle attività turistiche legate ai beni
culturali non è sufficiente per creare un nuovo sviluppo.
Non basterà neppure trasferire nelle zone interne le
strutture, gli uffici, gli apparati di ricerca, tutto ciò che è
legato strettamente all’agricoltura ed è localizzato nelle
maggiori città. Occorre tutto questo ma inquadrato in un
grande piano secondo una nuova visione e si potrebbe
dire, un nuovo sogno, capace di mobilitare tutti,
risvegliare le coscienze, alimentare nuove vocazioni,
superare tutti i dubbi, anche quelli che nascono da una
ragione scettica che spinge a pensare che sia impossibile
trasformare i sogni in realtà. Il piano di cui parlo non è
un’utopia irrealizzabile ma un’utopia concreta che punta a
creare una Sardegna unita avendo la consapevolezza che
324
se questo non dovesse accadere il declino continuerà
inesorabile la sua strada che non è detto si fermi alle zone
interne. Bisogna quindi partire dal considerare la Sardegna
una realtà unitaria non solo sul piano tecnico, nel campo
idrico, dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti,
dell’istruzione, della sanità, dei servizi portuali, dei servizi
finanziari, delle imposte e di molti altri settori ma
soprattutto sul piano culturale-sociale, politico e
istituzionale, cioè come una comunità unica e inscindibile
di storia, di cultura e di destino.
Aver diviso la Sardegna creando un’area metropolitana,
una unione di città medie e una serie di piccole unioni tra
comuni in declino, è il frutto di una visione incoerente con
le finalità cui abbiamo fatto riferimento, ha fatto
riemergere vecchie paure e sospetti, ha creato nuovi
problemi e ha complicato quelli antichi, rendendo più
difficile elaborare, approvare e attuare un progetto
comune. Bisogna convincersi che cambiare un destino che
appare ineluttabile è impossibile se non cambia l’orizzonte
nel quale si colloca l’attività della comunità, se la politica
non affronta il problema dell’intero assetto territorialeamministrativo, se per esempio la riforma del sistema
amministrativo e dei servizi e le leggi urbanistica e quella
elettorale in fase di studio ignorassero questi problemi e
non provvedessero a correggere almeno in parte la
divisione che si è creata tra le varie parti dell’isola con i
provvedimenti assunti finora.
Bisogna dunque cambiare prima di tutto la politica, per
orientarla a includere tutte le popolazioni nel processo
325
decisionale, modificando a questo fine innanzitutto le
regole per la selezione della rappresentanza. Occorre
essere consapevoli che se questa continuasse a venire
espressa in proporzione alle popolazioni residenti nelle
varie zone dell’isola non potrebbe che essere espressione
delle città e quindi orientata a risolvere prioritariamente i
loro problemi e solo dopo quelli delle aree interne.
Questo tema non è esplicitamente indicato tra quelli del
convegno ma ne fa legittimamente parte perché è
elemento costitutivo di una politica che voglia le grandi
diseguaglianze tra i vari territori che invece aumenteranno
se la politica non si preoccuperà tanto della
marginalizzazione e dello spopolamento di territori poco
rappresentati quanto piuttosto di quelli che hanno espresso
il maggior numero di rappresentanti. In una società come
quella sarda, in preda a una crisi d’identità oltreché a una
grave crisi economica, tutto si tiene e non basta per
superare la malattia curare alcuni sintomi del male
lasciandone da parte altri anche se più importanti, perché
ciò aggrava la malattia e non favorisce certo la
ricostruzione della fiducia perduta dalle popolazioni delle
zone interne nei confronti delle istituzioni e della politica.
5. A questo punto la domanda d’obbligo è quella di
sempre: che fare? La risposta non può che essere di sintesi
e di genere qualitativo. Essa è già nel titolo dell’intervento
che comprende il percorso, il metodo e i contenuti; indica
una strada per unire “su nou e su connottu”, per rispettare
l’esperienza e valorizzare quanto in essa è ancora valido,
attuale, utile ed efficace perché il futuro sia meno incerto e
326
meno diseguale per tutte le persone e per tutti i territori;
per non perdere l’identità costruita nei secoli per evitare i
conflitti tra nuovo e antico che hanno provocato rigetto e
insuccessi.
Dice
anche
che
bisogna
tornare
all’elaborazione di una programmazione generale unitaria,
ricollocare i problemi della Sardegna nel più vasto
scenario globale e in particolare del Mezzogiorno; andare
oltre l’orizzonte regionale e ragionare in termini
geopolitici più larghi, come già detto a proposito dei
rapporti con i paesi mediterranei della sponda asiatica e
africana. Dice che occorre essere uniti e solidali tra noi per
sconfiggere le ragioni che hanno impedito alla Sardegna di
uscire dal sottosviluppo. Ma dice anche che una parte
molto consistente di queste ragioni è la stessa di tutta
l’Italia meridionale, deriva dalla posizione geografica, dai
rapporti internazionali, dall’insufficiente dotazione
infrastrutturale complessiva, dalle difficoltà nelle
comunicazioni e negli scambi, dal basso livello della
cultura tecnica, da un mercato lasciato a sé stesso e
persino dai pregiudizi che da sempre condizionano la vita
sociale del mezzogiorno e le politiche per il Sud e che
tutto questo richiede una nuova politica meridionalistica
che comprenda anche la Sardegna. Dice inoltre che
dobbiamo tornare allo Statuto speciale, ed in particolare a
un nuovo piano di sviluppo secondo l’art. 13, che pone in
capo allo Stato con il concorso della Regione l’adozione e
l’attuazione di programmi organici per promuovere la
rinascita dell’isola. Dice che è sempre necessaria la
solidarietà e l’impegno dello Stato, ma dice anche che
327
dobbiamo tornare a essere noi i protagonisti e la guida
politica del processo diversamente da quanto succede
nella politica di oggi che appare sempre più dominata
dallo Stato con le sue agenzie, strutture ministeriali, patti,
contratti, firme, cerimonie, inaugurazioni, concessioni di
grazie e benevolenze accompagnate da spettacolari
cerimoniali messi in scena al solo scopo di ottenere
consenso, anche lasciando inalterate le cause più profonde
del malessere. Detto ancor più chiaramente per quanto mi
riguarda penso che bisogna tornare a praticare una politica
e una governance più sobria con meno firme di patti,
meno cerimonie, meno inaugurazioni, meno parole di
circostanza e più fatti. Penso sia bene tornare alle migliori
tradizioni autonomistiche del passato, utilizzandole
secondo le finalità e gli obiettivi richiesti dalla nuova
società e secondo le attese nate dall’esperienza, definite
dalla nuova struttura di valori e dall’orizzonte di
aspettative cresciute in questi anni sia per effetto dei
risultati positivi raggiunti sia per effetto delle crisi che
hanno colpito vaste zone territoriali, alcune categorie
sociali e alcuni settori produttivi tra i quali quello di cui ci
stiamo occupando oggi, cioè l’agricoltura che come
abbiamo detto coincide con le zone interne e coinvolge i
2/3 del territorio e circa la metà della popolazione della
Sardegna.
Penso che tornare al conosciuto significa non solo tornare
alla politica di piano prevista nell’art. 13, ma significa
anche individuare la nuova base per poggiare la leva
archimedea dello sviluppo nella centralità delle risorse
328
agricole, paesaggistiche e culturali, significa usare la
saggezza delle comunità dei contadini e dei pastori e
valorizzare quanto la loro millenaria esperienza ha
prodotto, soprattutto quelle parti che hanno assunto con il
tempo un significato identitario senza il quale non
esisterebbe la Nazione sarda.
La politica più recente ha scelto una strada diversa da
quella che ho indicato seguendo anche le tendenze
nazionali e internazionali prevalenti, segnate da una forte
egemonia del ruolo del mercato e da una modesta
programmazione dal basso totalmente priva di un quadro
generale di riferimento. Questa direzione non è cambiata
neppure dopo la riforma del sistema delle entrate che
avrebbe dovuto dare alla Regione la possibilità di ampliare
le funzioni in alcuni campi, soprattutto nei servizi, ma non
solo.
Lo stesso insuccesso è destinato ad avere una politica
fondata su un generico e scontato principio di insularità
perché le agevolazioni fiscali e la riduzione dei costi di
transazione da sole non bastano pera far riprendere alla
Sardegna la strada dello sviluppo che è possibile solo
dentro il quadro più ampio che ho cercato di definire.
Purtroppo non ci sono segnali di cambiamento e di
integrazione né di allargamento dell’orizzonte ed è
evidente che le politiche fin qui praticate non hanno
prodotto per la loro inadeguatezza nessuna novità in grado
di fermare lo spopolamento delle zone interne, il declino
delle attività agropastorali e, cosa più grave di tutte, la
cancellazione di alcuni degli elementi costitutivi
329
dell’identità della Nazione sarda, della sua unità e del suo
destino futuro.
In questo senso, tornare a “su connottu” significa usare
tutte le energie vecchie e nuove per evitare la catastrofe
annunciata, riprendere la strada maestra della difesa dello
Statuto, del rifiuto della dipendenza e della pelosa
benevolenza, significa combattere la vassalleria postmoderna diffusa a tutti i livelli e riprendere la
contestazione, aprire la mente e il cuore alla fiducia nel
futuro e smettere di pensare che lo sviluppo ci venga dato
in dono. Bisogna difendere il proprio passato, difendere la
storia della propria terra, essere orgogliosi delle tradizioni,
amare i prodotti della civiltà agropastorale, vivere secondo
i canoni del tempo antico, ma occorre fare di più. Bisogna
cambiare, bisogna agire ma coerentemente e con coraggio
anche rischiando di perdere qualche battaglia. Il passato
non può condizionare troppo il presente e il presente
sbaglierebbe a leggere il futuro alla luce dei valori del
passato. È difficile imboccare la nuova via ma imboccarla
è essenziale per non sbagliare ancora. Sollecitare
l’orgoglio e le passioni, contare sull’autostima delle
antiche e mai piegate popolazioni dell’interno non basta;
occorre dare sostegno alla loro testarda, pervicace,
orgogliosa fiducia nei propri mezzi e nella forza della
storia, dell’ambiente naturale e di un’esperienza di vita
originale e diversa dalle altre. Ma occorre anche
convincersi che tutto questo non è sufficiente a cambiare i
corso degli eventi ma che per riuscirci è necessario che la
classe dirigente dimostri di esistere, cioè elabori, approvi e
330
attui un grande progetto, realizzi una visione, adempia una
missione nuova chiamando all’impresa l’intera comunità
sarda. Tutto questo può sembrare un sogno, come ho già
detto, ma è necessario credere che l’impossibile può
diventare possibile, che il sogno di diventare protagonisti
e padroni del proprio futuro si può realizzare se c’è il
concorso di tutti. Come già detto la prima cosa da fare è
cambiare la politica e fare in modo che tutti possano
concorrere a creare le condizioni per realizzare il grande
obiettivo inseguito a lungo e mai raggiunto della libertà e
dell’unità della Sardegna e dei sardi, fare in modo che tutti
possano collaborare con le vecchie e le nuove competenze
lealmente all’impresa.
Nessuno può assicurare che il sogno si realizzi, ma
bisogna provare. Se l’analisi è giusta, se le doti di cui
parliamo sono reali, se le comunità non hanno perso il
senso del loro essere libere e forti, se l’identità ha
mantenuto intatte le sue radici profonde, non è solo un
sogno sperare che la sorte della Sardegna e delle aree
interne possa cambiare e che l’intera comunità sarda possa
guardare con più fiducia al successo di un programma che
in fondo tende a riportare il futuro nelle sue mani.
Maurice Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, tradotto e
presentato da Manlio Brigaglia, Edizioni Della Torre, 1979, con il
patrocinio della Presidenza della Regione Autonoma della Sardegna
Francesco Cetti, Storia naturale di Sardegna, a cura di Antonello
Mattone e Piero Sanna, Ilisso, 2000
331
Conclusioni
On. Giorgio Carta
L’associazione degli ex parlamentari, con questo
convegno ha riportato al centro del confronto dei temi
fondamentali per l’economia della Sardegna.
Agricoltura, pastorizia e ambiente, hanno un valore più
ampio delle singole parole, significano anche, gestione del
territorio rurale, ambiente, paesaggio, energia rinnovabile,
lavoro, attività produttive.
È su questi temi che i relatori e i partecipanti al dibattito si
sono soffermati con approfondimenti accurati, con uno
sguardo al passato e uno al futuro.
Il confronto delle relazioni con i rappresentanti del
Maghreb, ha consentito di acquisire informazioni preziose
che possono essere utilizzate per molteplici scopi anche
nel nostro contesto territoriale. Rinforzare le relazioni con
i popoli del Mediterraneo, testimonianze plurali, culture a
confronto,
esperienza di scambi e relazioni può
rappresentare la svolta per la nostra economia rurale.
Gli obiettivi della politica regionale in materia devono
essere concretamente connessi con quelle che sono le
opportunità che offre la PAC (Politica agricola comune).
La vocazione agricola della nostra isola se connessa agli
332
obiettivi specifici della PAC attraverso l’utilizzo dei Fondi
Europei consente da un lato di creare opportunità di
lavoro, e dall’altro lato di custodire i territori contro
l’abbandono, ma anche di valorizzare e custodire il suolo e
l’ambiente che ci circonda. Le parole d’ordine in questo
contesto devono essere, multifunzionalità, salvaguardia e
innovazione.
L’agricoltura e l’ambiente sono temi che guardano al
futuro.
Per i progetti concreti, occorre adottare la filosofia della
Partecipazione coinvolgendo, le associazioni, le parti
sociali al fine di farle intervenire direttamente nel processo
di definizione delle idee e per accogliere suggerimenti.
Ed è quello che l’Associazione degli ex Parlamentari ha
inteso fare in questo convegno, superando gli steccati, gli
interessi localistici e invitando tutti i partecipanti alla
collaborazione per l’interesse collettivo.
Ringraziamo i numerosi esponenti di prestigio, del mondo
della politica e della cultura, l’università le parti sociali e
tutte le organizzazioni di categoria
che ci hanno
privilegiato con la loro presenza e che, con interventi
diretti o scritti hanno consentito di realizzare questo
volume con gli atti del convegno che ci permetterà di
effettuare ulteriori approfondimenti nelle scuole, con i
ragazzi che rappresentano il futuro della nostra Sardegna.
333
Associazione ex Parlamentari della Repubblica
Coordinamento della Sardegna
Sito web: sardegna.exparlamentari.it
Col patrocinio della:
Col Patrocinio del
Presidente del Consiglio Regionale della Sardegna
PUBBLICAZIONE A CURA DI:
Sito web: www.taulara.com
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