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Letteratura
di viaggio
del terzo
tipo
Andrea Cortellessa
È passato ormai più di mezzo secolo da quando Claude Lévi-Strauss, nel 1955, premetteva a uno dei capolavori della letteratura antropologica, Tristi Tropici, trenta
pagine straordinarie dal titolo Fine dei viaggi, destinato a divenire una formula-tipo
per non dire uno slogan: «Viaggi, scrigni magici pieni di promesse fantastiche, non
offrirete più intatti i vostri tesori». La «grande civiltà occidentale» – che ha coltivato
il mito psicologico, etico ed esistenziale del Viaggio; ha edificato la sua potenza sulla raccolta e l’ordinamento delle informazioni sul Lontano e sul Diverso; è giunta a
sistematizzare tutto questo in una disciplina scientifica, l’Etnografia, coi suoi protocolli e i suoi dispositivi – è responsabile del genocidio di tutta questa Diversità:
«Ciò che per prima cosa ci mostrate, o viaggi, è la nostra sozzura gettata sul volto
dell’umanità». Ogni luogo è appiattito su modelli imposti dalla loro stessa circolazione (paradosso solo apparente: chi ha gli strumenti per viaggiare, e così Conoscere l’Altro, con la propria mera presenza all’Altro espone e impone la propria superiorità tecnologica e militare ma in primo luogo intellettuale: appunto con l’esibire
la propria curiosità, la propria intraprendenza, l’imperialismo implicito – insomma – nella propria sete di Conoscenza). Mentre la coscienza del Viaggiatore, sempre
più informato dai mezzi di comunicazione, cioè dall’esperienza dei Viaggiatori che
lo hanno preceduto, sempre meno incontra nel viaggiare quello choc del Diverso e
dell’Inaspettato. Sempre meno è in grado di fare l’Esperienza di cui, nel mettersi in
Viaggio, andava in cerca.
Cortocircuito senz’altro non nuovo. Se è vero che lo troviamo enunciato
già nella canzone di Leopardi Ad Angelo Mai (vv. 87-90):
Ahi, ahi! ma conosciuto il mondo
non cresce, anzi si scema, e assai piú vasto
l’etra sonante e l’alma terra e il mare
al fanciullin, che non al saggio, appare.
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E ancora, con precisione anche “cartografica” (vv. 98-100):
e figurato è il mondo in breve carta;
ecco, tutto è simile, e, discoprendo,
solo il nulla s’accresce.
Pochi decenni dopo, nel grande componimento che nelle Fleurs du Mal proprio al
Voyage s’intitola, Baudelaire esclama addirittura (VII):
Amer savoir, celui qu’on tire du voyage!
Le monde, monotone et petit, aujourd’hui,
Hier, demain, toujours, nous fait voir notre image
Une oasis d’horreur dans un désert d’ennui!
Ma questo amer savoir e questo désert d’ennui, in Baudelaire e in chi ha seguito la sua
strada, non fa altro che instillare il più ardente desiderio del suo contrario. Il feu che
brûle, nei celeberrimi versi conclusivi (VIII: «Nous voulons, tant ce feu nous brûle
le cerveau, / Plonger au fond du gouffre, / Enfer ou Ciel, qu’importe? / Au fond de
l’Inconnu pour trouver du nouveau!»), è il fuoco delle avanguardie che verranno: e
che davvero sfideranno Enfer e Ciel, invasate dalla sete inestinguibile di un nouveau
sempre più arduo. Cioè di quella che s’è definita, da allora, Modernità.
Così che non si sbaglia, forse, a indicare proprio nell’amarezza, nella tristezza del Lévi-Strauss anni Cinquanta (che commenta le proprie esperienze brasiliane di vent’anni prima), una prima consapevolezza del fatto che un paradigma
fondamentale era mutato, e che alla Modernità si stava avvicendando un’epoca differente: quella in cui, per molti versi, ancora conduciamo la nostra esistenza. Una
quieta tristezza ammanta quanto segue, smorzando e infine estinguendo i bruciori
del modernismo. Lévi-Strauss è il primo a saperlo, nel cominciare il suo libro con le
parole: «Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni» (mio il corsivo).
Perché la fine dei viaggi non indica certo che da allora abbiamo smesso di
viaggiare. È anzi proprio l’eccesso di viaggi (cioè la loro trasformazione commerciale in Turismo: risponde a un caso eloquente che la prima grande azienda turistica
venga fondata da Thomas Cook negli anni Quaranta dell’Ottocento, in stretta contemporaneità dunque col primo diffondersi della fotografia…) ad aver posto fine al
sogno, al mito del Viaggio. Il sogno di conoscere l’Altro, si diceva, ma anche il mito
di trasformare – appunto tramite tale Conoscenza – in primo luogo Noi Stessi: quel
«seguir virtute e canoscenza» che aveva spinto l’Ulisse del XXVI dell’Inferno (che a
Dante guarda caso parla sotto forma di fiamma) a mettersi «per l’alto mare aperto»,
pieno dell’«ardore» di «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore».
Una fine, dunque, non tanto in termini sociologici (per cui gli una volta happy few
rimpiangono i propri privilegi inopinatamente democratizzati: come Evelyn Waugh quando, già nel ’46, poteva intitolare un suo libro di racconti Quando viaggiare
era un piacere); bensì in termini esistenziali, etici, in senso lato concettuali.
Viaggio Moderno per eccellenza era stato – all’alba del Novecento, come
la Traumdeutung freudiana con la quale ha consonanze sorprendenti – Heart of
Darkness di Conrad, che comincia con l’evocazione della propria infanzia da parte
di Marlow (al quale presta la sua memoria l’autore, che qualche anno dopo inscenerà infatti un episodio molto simile nell’autobiografia A Personal Record):
quand’ero ragazzino avevo una grande passione per le carte geografiche. Per ore e ore contemplavo il Sudamerica, l’Africa, l’Australia,
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e mi perdevo nelle glorie dell’esplorazione. A quei tempi c’erano ancora molti spazi vuoti sulle carte terrestri, e quando ne vedevo uno
che mi pareva particolarmente invitante (a dire il vero, lo erano tutti per me), ci mettevo sopra il dito e dicevo: «da grande andrò lì».
E proprio come il viaggio verticale, l’inabissarsi psichico della psicoanalisi, lo spingersi orizzontale di Marlow all’interno del Continente africano, sino a terribilmente raggiungere il suo cuore rivelatore, equivale a uno sprofondare in Noi Stessi e, al
tempo stesso, alla conquista e alla sottomissione dell’Altro.
Se è stato il desiderio di Conoscere il Mondo il vettore del viaggio chiamato Modernità, la sua inarrestabile spinta in avanti (o anche e reversibilmente, all’indietro: regredendo dentro il proprio cuore di tenebra), al di là dello spleen dei poeti romantici
un’effettiva e materiale fine dei viaggi non può che coincidere col momento in cui gli
ultimi spazi bianchi sulle mappe, inesplorati e non cartografati, vengono finalmente raggiunti. Emblematico e struggente l’episodio della spedizione al Polo Sud – ultima Thule dell’Avventura – di Robert Scott, all’inizio del 1912: allorché dopo tre mesi
di marcia massacrante (che al ritorno costerà loro la vita) questi Ultimi Esploratori
infine raggiungono sì la meta agognata, ma solo per trovarvi conficcata la bandiera norvegese della spedizione rivale di Roald Amundsen, che li ha preceduti di poche settimane. (Le bellissime fotografie raccolte da Filippo Tuena – che all’episodio
ha dedicato anche un romanzo notevole, Ultimo parallelo – nei Diari antartici dello stesso Scott, di Ernest Shackleton e Edward A. Wilson, ci mostrano anche un gouffre ulteriore e non meno lancinante: lo spaesamento degli esploratori, registrato
in quelle pagine al limite della follia, dipende anche dal fatto che da “conquistare”,
in quelle condizioni estreme, non è più, come in passato, un luogo fisico e tangibile come una vetta o una sorgente bensì un punto geografico astratto, dai sensi indistinguibile da quanto lo circonda.)
Se dal destino di pochi individui coraggiosi ci spostiamo alle sorti dei popoli, e alle coordinate della Storia, non meno emblematico appare – per tornare
in Africa, cartina di tornasole, sempre, della nostra idea di Lontano – l’episodio di
Fashoda, che data invece al 1898: proprio alla vigilia della pubblicazione del racconto di Conrad, dunque. Proseguendo i rispettivi viaggi al cuore di tenebra della propria espansione coloniale, lungo un asse orizzontale i Francesi, da Dakar a Gibuti, e
in verticale gli Inglesi da Città del Capo al Cairo, finirono per incontrarsi nel settembre di quell’anno in Sudan, appunto nei pressi della piccola città di Fashoda (ora Kodok), lungo l’alto corso del Nilo. Dopo qualche settimana di stallo militare (in qualche modo paragonabile alla Crisi di Cuba del secolo successivo) le due diplomazie
raggiunsero infine un accordo, fissando nelle sorgenti del Nilo e nel fiume Congo il
confine delle rispettive sfere d’influenza. Il Sudan andò agli Inglesi e le due potenze posero le basi di un’alleanza di lunga durata, la cosiddetta Entente cordiale. (Che
sarà fra le cause peraltro, allo stringersi della crisi successiva, della Grande Guerra.)
Sarà non a caso uno dei pionieri della letteratura postmodernista, Thomas
Pynchon, a individuare in questo episodio – da lui chiamato «la Situazione» – un
turning point decisivo, ponendolo nel 1961 al centro del racconto Under the Rose, che
due anni dopo entra, modificato, nel terzo capitolo del suo primo romanzo di grandi proporzioni, V.. Nella prefazione tarda ai propri racconti giovanili, Slow Learner,
dice Pynchon che sua «“fonte” principale» era stata nell’occasione la Guida dell’Egitto di Karl Baedeker (1899). E in effetti i personaggi di Pynchon sono i primi a sostituire il proprio bagaglio di pre-informazioni (ipostatizzato appunto nella madre di
tutte le Guide Turistiche, il Baedeker) all’esperienza reale: talché lo spazio africano,
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da sede per antonomasia dell’Altrove e dell’Ignoto – hic sunt leones – diventa appunto, viceversa, la più risaputa «terra del Baedeker». Anziché indicare uno spazio ignoto e proprio per questo «invitante», come faceva il Marlow di Conrad, l’Africa di Pynchon è uno spazio già noto, e proprio per questo tutt’altro che invitante: «qualsiasi
itinerario, con tutti i cambiamenti di direzione, le fermate d’emergenza e le deviazioni di centinaia di chilometri, ha un carattere temporale e fortuito». Si manifesta
così per la prima volta il post-spazio che trionferà nel capolavoro Gravity’s Rainbow
(1973), la Zona: dove «le nazionalità sono in movimento» in «un grande flusso senza
frontiere».
In questo contesto, ha commentato Gabriele Frasca, la Storia resta – al
modo del progenitore Joyce – un incubo dal quale si può solo tentare di svegliarsi. Ma gli universi di Pynchon, al contrario della Dublino esplosiva di Ulysses, restano chiusi nella cornice di una rappresentazione data (come mostra l’allusivo finale di Gravity’s Rainbow). E allora quella grande V., che campeggia in copertina al
primo grande romanzo postmodernista, la si può leggere – oltre che in infiniti altri modi – come un grande segno di Visto, stampato in modo indelebile su ogni immaginabile porzione di spazio: in un mondo definitivamente chiuso nella propria
stessa rappresentazione. Se quella del postmodernismo è, come descritto già nel ’67
da John Barth, una literature of exhaustion, tale esaurimento non si riferisce solo alle
storie, e alla Storia, cioè ai tempi, e al Tempo; ma anche agli spazi, cioè allo Spazio.
La Space Odyssey, capolavoro di Stanley Kubrick, che dopo lunga lavorazione giunge sugli schermi cinematografici l’anno seguente – anziché l’Alba di una nuova Era,
come parrebbe suonare trionfale la musica superomistica di Friedrich Nietzsche e
Richard Strauss – ci appare il Tramonto, l’atto conclusivo di una tradizione culturale millenaria.
Chi ha sintetizzato meglio questa condizione è stato Gianni Celati, nel
1991, introducendo all’antologia Narratori delle riserve: «il visibile è sempre il già visto, il dicibile sempre il già detto […]. D’ora in poi possiamo anche vivere senza nuove
visioni del mondo».
Chi viaggia dopo questa soglia sa di farlo in condizioni paradossali. Di recente un
giovane saggista torinese, Luigi Marfè, ha dato un titolo eloquente a un suo libro
densissimo di spunti teorici e letture di testi più o meno noti: Oltre la ‘fine dei viaggi’.
Individuando quattro tipologie di reazione all’impasse codificata da Lévi-Strauss. Il
viaggiatore come «collezionista erudito» (i cui alfieri vengono scelti in Sacheverell
Sitwell e Claudio Magris, ma ulteriori rappresentanti sono indicati in Mario Praz,
Tommaso Landolfi, Roland Barthes, Italo Calvino e José Saramago; lecito aggiungere a siffatto catalogo, ancora, Emilio Cecchi e Alberto Arbasino), intento a decifrare
quella che Hans Blumenberg ha chiamato la «leggibilità del mondo» con un brulicante sovraccarico di rinvii a luoghi già visti (e già scritti); il «meta-viaggiatore» (attitudine i cui campioni vengono indicati in Nicolas Bouvier e Bruce Chatwin, ma
della quale altri rappresentanti citati sarebbero Fosco Maraini, Jean Baudrillard, Jonathan Raban e Gianni Celati), il quale assume concettualmente la fine del Viaggio
come Destinazione a una Meta, per insistere al contrario su un incessante, inoggettivato nomadismo (anche nell’accezione deleuze-guattariana del termine); colui che
soffre di dépaysement cioè l’esule, il rifugiato, lo sradicato per forze maggiori di carattere storico e politico (Primo Levi e Winfried G. Sebald: ma anche Vladimir Nabokov, Iosif Brodskij, Edward W. Said: ai quali aggiungerei senz’altro, fra i mille altri perseguitati dal «secolo cane lupo» di cui parlava Osip Mandel’štam, almeno Paul
Celan e Amelia Rosselli); e infine l’«anti-turista politico» (esemplificato su Camilo
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José Cela e Ryszard Kapuścińki ma a partire da Guerre politiche di Goffredo Parise,
per poi annoverare Franco Fortini, Alberto Moravia sino a Peter Handke): colui che
vuol verificare de visu la realtà mistificata dall’ideologia, e smentirne i luoghi comuni propagandistici. Una nuova frontiera viene infine indicata da Marfè in quelli che
chiama i «controviaggi», quelli dei migranti e in generale di coloro che provengono
da realtà postcoloniali (come Predrag Matvejević, V.S. Naipaul, Derek Walcott, Salman Rushdie, Haneif Kureishi o Jamaica Kincaid), i quali capovolgono il vettore psichico della tradizione millenaria del racconto viaggio – e possono così indicare una
strada, pure, a quegli scrittori del Centro (per esempio François Maspero e Iain Sinclair) che cercano «gli spazi di alterità del mondo in cui vivono». Dalle Periferie al
Centro, insomma, anziché dal Centro alle Periferie: sino a mettere in discussione, si
capisce, le nozioni stesse di Centro e di Periferia.
Molte e diverse, insomma, sono le strade percorse dopo la fine dei viaggi.
E pare arrivato il momento di farsi domande che attraversano trasversalmente, direi, queste pur utili tipologie. Proprio un autore indicato da Marfè fra i più tipici rappresentanti del Collezionismo Erudito (e che ci s’immaginerebbe dunque più soggiacente al già detto collezionato), Giorgio Manganelli, nel primo e più importante
dei suoi grandi Viaggi, quello in Africa del 1970 (al momento relegato da Adelphi in
un’edizione fuori commercio a cura di Viola Papetti; e si veda quanto ne ha scritto
la curatrice nel suo almagesto biografico Gli straccali di Manganelli), mostra invece
da subito la più lucida consapevolezza di questo problema, quando scrive (otto anni
prima di Orientalism di Edward Said) che «il viaggiatore europeo percorre l’Africa
portandosi dietro un sistema di immagini europee, ricordi elaborati culturalmente,
schegge di idee; ancor più, si porta seco una quantità di esigenze, di allusioni europee. Certi gesti, certi oggetti europei, sono sintomi, si collegano alla condizione europea come una malattia, sono contagiosi, e lentamente e fatalmente si diffondono».
L’Africa è insomma una «menzogna» (un’«illuminante figura retorica che riassume
secoli di fantasie di liberazione, essenzialità, solitudine», «un miraggio e un incubo
nati dal nostro passato e dal nostro angustiato presente»): e non potrebbe porsi quale rompicapo più seducente, dunque, per il cultore della Letteratura come menzogna.
In quello stesso 1970 stava attraversando l’Africa un altro viaggiatore d’eccezione. Werner Herzog, in compagnia dell’operatore Jörg Schmidt-Reitwein, era alla
fine delle riprese di Fata morgana (film che uscirà l’anno seguente). Non conosco altra immagine che meglio di questa di Herzog decostruisca lo stereotipo di «liberazione, essenzialità, solitudine» tradizionalmente associato all’Africa. Agli antipodi ormai dallo spazio bianco al centro della mappa di Conrad, l’Africa di Herzog è ormai
una provincia dell’Europa, o meglio un suo immenso deposito di rifiuti: imbarazzante coacervo di scarti e residui – in forma di oggetti abbandonati e non meno preterite
usanze –, esatto correlativo letterale della metaforica «nostra sozzura gettata sul volto
dell’umanità» di cui aveva parlato Lévi-Strauss. La stessa ammaliante, ipnotica scena
iniziale – un aereo che atterra su una pista nella savana, superando con lentezza irreale strati d’aria calda e tremante, in una sequenza ripetuta identica per ben otto volte
– è un emblema dell’allucinatorio falso movimento (come quattro anni dopo, sintomaticamente, ribattezzerà un archetipo del Viaggio Occidentale come i goethiani Anni di
pellegrinaggio di Wilhelm Meister un collega e connazionale di Herzog, Wim Wenders)
che, nel post-spazio della post-modernità, ha ormai preso il posto del Viaggio (e non
sarà un caso, probabilmente, se nel 2005 Celati darà lo stesso titolo a una sua storia
pseudo-etnografica su un immaginario popolo africano, i Gamuna).
Ma al di là dell’Africa «figura retorica» esiste poi un’Africa percorsa realmente, l’Africa che secondo Manganelli «è sempre fuori e intorno»: qualcosa che malgrado
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tutto destabilizza i nostri stereotipi, nonché le categorie culturali e psicologiche che
vi sono sottese. C’è una sua pagina straordinaria che, diversi anni dopo la decisiva
esperienza africana, la rievoca in modo rivelatorio:
Rammento quando vidi la prima volta il Partenone […]: io venivo dal mio unico viaggio nell’Africa nera, un mondo magmatico e dove l’uomo è animale minoritario e
intento a proteggersi con antiche magie. Sull’Acropoli di Atene, davanti al Partenone, provai un odio profondo e insieme, oserei dire, nobile. […] Il Partenone era ai
miei occhi, in modo sublime, un mito che detestavo: la chiarezza intellettuale, la superbia geometrica, l’ignoranza del magma, del disordine, del sogno, dei demoni e
dell’incubo; avevo di fronte l’ossessivo mito di ciò che sarebbe stato Europa; ma avevo in mente gli spazi planetari, il fango organico dell’Africa: la sua splendida paura,
l’indecifrabile bellezza degli animali, la riluttanza alla forma, l’ignoranza di qualsivoglia geometria.
Dunque, viaggiare con bisacce di amore e di odio, ed attingere all’una o
all’altra, come detta la passione; giacché viaggiare è una esperienza passionale.
Un luogo può essere ridotto a stereotipo, certo. Ma, per via «passionale» (cioè, in questo caso, psichica), può anche servire a de-stereotipizzare un altro luogo: a “odiarlo”, magari, sino a renderlo reale. Un luogo può essere fatto reagire sull’altro, insomma, se ovviamente il Collezionista non si limita all’Erudizione ma ad essa aggiunge
la Passione: cioè la capacità di subire, di patire in prima persona l’affezione che quel
luogo gli dà. La “malattia Africa”, quasi per via omeopatica, riesce in questo caso a
mettere in fuga il “contagio Europa”.
Ed è insomma vero, come ha scritto Manganelli in un’altra pagina giornalistica, che «ogni viaggio comincia con un vagheggiamento e si conclude con
un invece»: il viaggio reale, pur duplicando magari minuziosamente quello antiveduto dal «vagheggiamento» di un immaginario codificato, quasi mai si limita a
ribadirlo punto per punto. Magari per una piccola incrinatura, una commessura
quasi impercettibile, lascerà trapelare un invece che, dalle nostre aspettative, anche solo per un minimo si discosta. Ed è in quell’interstizio che bisogna immergersi, come nelle pieghe e nelle fessure in cui viaggia l’Alice di Lewis Carroll… Quasi
sempre l’esperienza concreta del viaggio, al di là della sua concettualizzazione, si
rivela un caso di eterogenesi dei fini. Si parte cioè con un progetto, un’intenzione,
appunto una Meta; poi però incontriamo qualcosa d’imprevisto, qualcosa che ci fa
deviare dall’itinerario dato.
Emblematico il caso di Herzog, proprio: partito per l’Africa con l’idea di girarvi gli esterni di un film di fantascienza, su degli alieni che visitano la Terra dopo
l’estinzione della razza umana (progetto in qualche modo realizzato con un film
“fratello” che si colloca all’altro capo della sua parabola, The Wild Blue Yonder del
2005), per poi finire per realizzare appunto – invece – Fata morgana. Qualcosa di simile è capitato a Vincenzo Latronico nel primo volume realizzato entro il progetto Humboldt, Narciso nelle colonie: quando, bighellonando neghittoso sulle tracce
dell’autoesilio di Rimbaud, nei pressi del lago Abhe vicino a Gibuti, scopre invece il
luogo dove Kubrick era andato a girare, qualche anno prima di Herzog, il suo film di
fantascienza: appunto 2001, a Space Odyssey. Vero capolavoro retorico, quello di far
iniziare il futuro (un futuro, peraltro, dalla nostra prospettiva ormai a sua volta archeologico…) ai primi albori dell’umanità. Ma al di là di questo riesce simbolico, in
fondo, che proprio l’Africa sia stata individuata come il set ideale di tanto immaginario fantascientifico (la piana tunisina dov’è stato girato l’episodio di Tatooine nel
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primo Star Wars di George Lucas, 1977, è per questo oggi divenuta un’attrazione turistica…). Il suo spazio, pur come s’è visto desolatamente “secondo”, non può certo
essere caratterizzato dalla sovrapproduzione semiotica che schiaccia lo spazio europeo sotto una civilisation millenaria. Come ironizza Manganelli nel 1970, «Qualunque sia la sorte dell’Africa, pensa l’europeo con sollievo, occorreranno secoli per
farne una Svizzera». Per poi proseguire: «L’Africa preistorica, estranea al tempo, è
toccata e ferita da un secolo denso di futuro; ed è appunto questo futuro a dare straordinaria potenza ad una metafora che altrove pare consumata. La disperata speranza africana può essere placata solo da una impetuosa aggressione di futuro». Il
luogo, ogni luogo, è sempre carico di una potenza, grande o piccola che sia: lo spazio
di un futuro – malgrado tutto – sempre possibile.
Il viaggio del Terzo Tipo, insomma, certo non è più quello “di primo grado” cui ci aveva abituato la sua grande tradizione, non prevede più cioè l’esperienza
di accrescimento e metamorfosi che una volta si mostrava in grado di promettere;
ma non è più neppure e solamente lo strutturale disinganno, la conferma malinconica del proprio svuotamento, il meta-viaggio “di secondo grado” che si limita
a registrare il compunto esaurimento di sé. Non è più l’Assolutamente Diverso, insomma, ma non è più nemmeno il Sempre Uguale. È piuttosto lo spazio dell’invece,
per dirla con Manganelli: che non si può concepire senza l’immanenza dell’Uguale
ma neppure senza che qualcosa, in essa, trascenda in qualcosa di Diverso. Uno spazio intermedio, interstiziale, intermittente: simile a quella sede di negoziazione che
Homi Bhabha (il filosofo indiano-americano, autore di The Location of Culture, che
va forse riconosciuto come il maggior pensatore del postcolonialismo), ha chiamato «terzo spazio»: quello in cui identità e alterità si confrontano e si ibridano sino al
punto, quasi, di scambiarsi di ruolo.
Ma arrivati a questo punto, si capisce, il discorso non riguarda più solo la
letteratura.
testi citati
Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques, Paris, Plon, 1955 (trad. it. di Bianca Garufi, Tristi Tropici,
Milano, il Saggiatore 1960).
Giacomo Leopardi, Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica, Bologna,
Per le stampe di Jacopo Marsigli, 1820 (poi in Id., Canzoni, Bologna, Per i tipi del Nobili e Comp.,
1824; eccetera).
Charles Baudelaire, Le Voyage, in «La Revue française», 10 avril 1859 (poi in Id., Les Fleurs du Mal,
Paris, Poulet-Malassis et De Broise, 1861; eccetera).
Evelyn Waugh, When the Going was Good, London, Duckworth, 1946 (trad. it. di David
Mezzacapa, Quando viaggiare era un piacere, Milano, Adelphi, 1996).
Joseph Conrad, Heart of Darkness, in «Blackwood’s Edinburgh Magazine», 1000, february 1899
(e nei due numeri successivi); poi in Id., Youth, a Narrative; and Two Other Stories, London,
Blackwood, 1902 (cito dall’edizione bilingue a cura di Giuseppe Sertoli, che riporta in appendice
il Diario del Congo, Torino, Einaudi, 1999).
Robert F. Scott, Ernest Shackleton, Edward A. Wilson, Diari antartici, a cura di Filippo Tuena,
Roma, Nutrimenti, 2010 (e si veda pure, a cura dello stesso Tuena, Scott in Antartide. La spedizione
Terra Nova (1910-1913) nelle fotografie di Herbert Ponting, ivi 2011).
Filippo Tuena, Ultimo parallelo, Milano, Rizzoli, 2007; poi ivi, il Saggiatore, 2013.
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Thomas Pynchon, Under the Rose, in «The Noble Savage», 3, may 1961; poi in Id., Slow Learner, New
York, Little, Brown and Company, 1984 (cito dalla trad. it. di Roberto Cagliero, Sotto la rosa, in Id.,
Entropia e altri racconti, Roma, e/o, 1988).
Thomas Pynchon, V., Philadelphia, Lippincott, 1963 (cito dalla trad. it. di Giuseppe Natale, V.,
prefazione di Guido Almansi, con una nota di Claudio Gorlier, Milano, Rizzoli, 1992).
Thomas Pynchon, Gravity’s Rainbow, New York, Viking Press, 1973 (trad. it. di Giuseppe Natale,
L’Arcobaleno della gravità, Milano, Rizzoli, 1999).
Gabriele Frasca, Understanding V, in La dissoluzione onesta. Studi su Thomas Pynchon, a cura di
Giancarlo Alfano e Mattia Carratello, Napoli, Cronopio, 2003.
John Barth, The Literature of Exhaustion, in «The Atlantic», august 1967 (trad. it. di Paola Ludovici,
La letteratura dell’esaurimento, in Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in
America, a cura di Peter Carravetta e Paolo Spedicato, Milano, Bompiani, 1984).
Gianni Celati, Note d’avvio, in Id., Narratori delle riserve, Milano, Feltrinelli, 1991.
Luigi Marfè, Oltre la ‘fine dei viaggi’. I resoconti dell’altrove nella letteratura contemporanea,
prefazione di Franco Marenco, Firenze, Olschki, 2009.
Giorgio Manganelli, Viaggio in Africa, a cura di Viola Papetti, Milano, Adelphi, 2006 (edizione
fuori commercio).
Viola Papetti, Viaggio in Africa, in Ead., Gli straccali di Manganelli, Viddalba-Suna, Sedizioni, 2012.
Gianni Celati, Fata morgana, Milano, Feltrinelli, 2005 (ma i brani raccolti nel volume risalgono
agli anni Ottanta: sul nutrito repertorio africano di Celati rinvio al mio Africa, nel numero
di «Riga» su Gianni Celati curato da Marco Belpoliti e Marco Sironi nel 2008; da aggiungere
al repertorio è ora Passar la vita a Diol Kadd, libro e dvd con un saggio di Mario Sesti, Milano,
Feltrinelli, 2011).
Giorgio Manganelli, In giro con bisacce d’amore e d’odio, in «Corriere della Sera», 3 luglio 1983 (poi,
col titolo Viatico, in Id., La favola pitagorica, a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Adelphi, 2005).
Giorgio Manganelli, La mia Germania, così educata e sentimentale, in «Corriere della Sera», 23
ottobre 1985 (poi, col titolo Prima dell’altro pianeta, in L’isola pianeta e altri Settentrioni, a cura di
Andrea Cortellessa, Milano, Adelphi, 2006).
Vincenzo Latronico e Armin Linke, Narciso nelle colonie. Un altro viaggio in Europa, MacerataMilano, Quodlibet-Humboldt, 2013.
Homi Bhabha, The Location of Culture, London, Routledge, 1994 (trad. it. di Antonio Perri, I luoghi
della cultura, Roma, Meltemi, 2001).
The Third Space. Interview with Homi Bhabha, in Identity, Culture, Community, Difference, a cura di
Jonathan Rutherford, London, Lawrence-Wishart, 1990.
biografia
Andrea Cortellessa è nato a Roma nel 1968. È Professore associato di Letteratura italiana
contemporanea all’Università di Roma Tre. Ha pubblicato saggi su rivista e in volume (il suo
ultimo lavoro è la riedizione di Gruppo 63. Il romanzo sperimentale, a cura di Nanni Balestrini
[1966], L’orma 2013), e curato testi di autori del Novecento per editori come Adelphi, Aragno,
Bruno Mondadori, Chiarelettere, Einaudi, Fazi e Garzanti; ha diretto e dirige collane di saggi e
testi per Le Lettere, Aragno e L’orma. Con Luca Archibugi, nel 2010 ha realizzato per RaiCinema
il documentario Senza scrittori (01 distribution 2011). Collabora al «manifesto», a «Tuttolibri» e
ad altre testate. È nella redazione delle riviste «alfabeta2» e «il verri» e collabora ai programmi
culturali di RAI-Radio Tre.
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