Vicolo CIEco - Consorzio Connecting People

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Vicolo CIEco - Consorzio Connecting People
Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 2 e 3 - NO/ TORINO n° 1 anno 2013 – reg. Trib. di Catania n°19 del 5 Giugno 2012 – distribuzione gratuita
Troppe storie
sembrano storie
dell’altro mondo,
ma lo spazio
in cui accadono
è qui e ora.
Periodico di culture migranti
e dell’accoglienza
anno 5 - N° 1 - marzo 2013
Vicolo CIEco
Dentro le pieghe del luogo simbolo
della controversia sulla lotta
all’immigrazione clandestina in Italia
CIE e dintorni, la speranza
è frutto di fatica e coraggio
Connecting People e Fondazione Xenagos
presentano la proposta di riforma delle misure
di contrasto all’immigrazione clandestina
1 è tempo di cambiare
anno 5 - N° 1 - marzo 2013 (sqm13)
2 Da irregolare a imprenditore
Suggestioni per una nuova visione della clandestinità
4 Irregolari, sans papiers, undocumented migrants
Come si comportano gli altri stati europei
6 Dai CPTA ai CIE, un excursus legislativo
Inasprire le misure non serve a diminuire l’irregolarità
10 Storie e testimonianze intorno alla clandestinità
Direttore responsabile
Serena Naldini
[email protected]
Direttore editoriale
Salvatore Ippolito
Comitato scientifico
Riccardo Compagnucci, Antonio Ragonesi, Salvatore Ippolito
14 I CIE visti da dentro
22
Opinioni a confronto
Perchè i consorzi di cooperative hanno deciso di (non) partecipare
ai bandi di gestione dei CIE
24 CIE e dintorni: la speranza è frutto di fatica e coraggio
Proposta di riforma delle misure di contrasto all’irregolarità
Comitato di direzione
Mauro Maurino, Orazio Micalizzi
Caporedattore
Salvo Tomarchio
30 Press & News
Redazione
Via Sciarelle, 4
95024 Acireale (CT)
[email protected]
33 Terza Pagina
Vol Spécial di Fernand Melgar
Progetto grafico e impaginazione
Tribbù - Acireale (CT)
Direttore creativo Andrea Catalano
Proprietà
Consorzio Connecting People Onlus
Via Conte Agostino Pepoli, 68
91100 Trapani
Editore
Fondazione Xenagos
Via Sciarelle, 4
95024 Acireale (CT)
Registrazione Tribunale di Catania n°19 del 5 Giugno 2012
Stampa Fiordo srl - Galliate (No)
In redazione
Agrin Amedì, Massimo Tornabene, Claudio Praturlon,
Arianna Cascelli, Moreno D’angelo
Foto di Salvo Tomarchio
Hanno collaborato
Maria Pia Fontana
Nello Pomona
Piera Rossi
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Orazio Micalizzi
Presidente Fondazione Xenagos
è tempo di cambiare
“Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò
nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercé
del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era
di nuovo libero. Ma allora si accorse di non saper cosa fare della sua libertà: nel lungo periodo del dominio assoluto
del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri
desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di
tendere a qualcosa, di agire autonomamente. In luogo della libertà aveva trovato il vuoto, perché la sua nuova essenza
acquistata nella cattività se ne era andata insieme col serpente, e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il
precedente contenuto umano della sua vita.”
(Franco Basaglia, Corpo e istituzione, 1967)
A
due mesi a sei mesi. Al CIE di Gradisca d’Isonzo si rittraverso l’associazione con questa storia orienpristinano le sbarre, così come prima della Commissione
tale, Basaglia intende sottolineare la condizione
De Mistura. Si torna indietro. Connecting People, con“istituzionale” del malato mentale. Nello stesso
sorzio di cooperative sociali, sin dalla nascita ha deciso
racconto sono rintracciabili forti analogie con il midi gestire servizi ai migranti nei CIE. Una scelta contegrante trattenuto in un centro di detenzione amministrastata, ma molto discussa e ragionata, compiuta nella contiva che, mano a mano, annette al proprio sé una parte
vinzione che la cooperazione sociale debba andare nei
distruttiva - che finisce per dominarlo, come il serpente
luoghi di sofferenza e portare sollievo
della favola - e diventa un “corpo visalle persone, cercando al contempo di
suto nell’istituzione, per l’istituzione,
trasformare i luoghi stessi e i principi
tanto da essere considerato come parte
ripensiamo le misure
da cui discendono. In questi anni il
integrante delle sue stesse strutture
di contrasto
consorzio ha lavorato per verificare
fisiche.” Nel gennaio del 2007 il Miall’immigrazione
la possibilità che la chiusura di una
nistro dell’Interno Giuliano Amato rinstoria di migrazione possa diventare
graziava la Commissione De Mistura
clandestina
in qualche modo una ripartenza, una
per il lavoro svolto e aggiungeva: “Il
migrazione al contrario con speranze e
CPT (attuale CIE) non è il cuore del
possibilità nuove, e si è scontrato con una realtà fatta di
fenomeno migratorio, ma fa parte di un tema molto più
rifiuti ad accogliere. Ha inoltre utilizzato ogni strumento
ampio, anche se ha assunto un valore simbolico, come se
per sottolineare alle autorità le condizioni dei migranti
chiuderli facesse scomparire l’asprezza dell’immigraziotrattenuti, quando erano poco consone a standard di acne clandestina. Se pensassi che questo basta a risolvere il
coglienza in grado di garantirne la dignità.
problema li chiuderei tutti.” La Commissione proponeva
Tutto questo è stato fatto “restando dentro”, tentando
il “superamento” attraverso lo “svuotamento”: in primo
di capire quali siano i percorsi che dall’insicurezza urbaluogo, non introducendo nei centri gli ex detenuti che,
na e dalla crisi del welfare possano giustificare l’esigenza
da lì in poi, avrebbero dovuto essere identificati durante
di “servizi” dove lo spazio della speranza è oggettivail periodo di carcerazione, anziché trasferiti, a fine pena,
mente ristretto.
in un CPTA per essere identificati ed espulsi; in secondo
Adesso, i tempi sono maturi per una proposta di cambialuogo, escludendo dai centri i casi di potenziali di vittime
mento - elaborata da Connecting People e Fondazione
di tratta o di grave sfruttamento nel lavoro; in terzo e
Xenagos e presentata su questo numero di Storie di
ultimo luogo, ricorrendo alla misura del rimpatrio conQuesto Mondo - che intende aprire una dimensione di
cordato e assistito.
confronto, uno spazio di scambio di idee, un luogo di
A maggio del 2008 cade il governo Prodi e nasce un
dialogo, per comprendere come restituire senso a tante
nuovo governo, con Ministro dell’Interno Roberto Mavite migranti attraverso un profondo ripensamento delle
roni. “Sicurezza” è la nuova parola d’ordine. E in nome
misure di contrasto all’immigrazione clandestina.
della sicurezza il trattenimento nei CIE viene portato da
SQM|1
migrare: un progetto d’impresa
Da irregolare
a imprenditore.
Suggestioni per una nuova visione della clandestinità
La
migrazione economica in Europa negli ultimi venti anni
è avvenuta, per la
maggior parte, attraverso canali spontanei, irregolari e clandestini.
Centinaia di migliaia di donne e uomini attratti dalla possibilità di un
reddito e dalla voglia d’impresa si sono
riversati alle nostre frontiere richiamati
da un mercato del lavoro caotico e non
strutturato.
Centinaia di migliaia di stranieri
hanno intravisto, attraverso i loro intelligence network, la possibilità di sistemarsi nei nostri paesi. E ci sono riusciti,
nonostante la retorica dei governi sulla
necessità di controllo e di respingimento
2| SQM
della presunta “invasione” e malgrado
la valanga di risorse erogate per attuare
provvedimenti repressivi e mantenere
fragilissimi sistemi di controllo delle
frontiere.
Nel frattempo i migranti hanno scovato e occupato essenziali segmenti del
mercato del lavoro abbandonati dagli
italiani, dimostrando una sbalorditiva
capacità di creare impresa.
Di fronte al processo di cui sopra, gli
stati hanno diretto la propria attenzione
unicamente sulle misure di controllo e
contrasto all’immigrazione clandestina che, comunque, hanno ottenuto un
risultato concreto solo nei confronti di
poche decine di migliaia di sfortunati.
Mentre centinaia di migliaia di migranti
si sistemavano nei nostri territori, qualche migliaio di stranieri erano sottoposti
a fermi, arresti, internamenti - pardon!
- trattenimenti, detenzioni amministrative, espulsioni, respingimenti, fogli di
via, deportazioni e perfino tentativi fallimentari di ritorni volontari assistiti. Ma
tutto questo non è riuscito né a frenare,
né a invertire la tendenza migratoria verso l’Europa.
Gli spostamenti della popolazione tra
paesi e tra diverse aree dello stesso paese è una costante nella storia umana e
costituisce un fenomeno di sviluppo sociale ed economico indiscutibile. Quando non è organizzato, esso si produce
ugualmente, se le condizioni lo richiedono, generando movimento di persone
migrare: un progetto d’impresa
da aree depresse o in declino verso centri
di attrazione più stabili e ricchi che domandano nuova presenza produttiva.
I migranti hanno riformato, sviluppato e stabilito interi settori economici,
anche contro o nonostante le nostre leggi. Ad esempio, questo è accaduto con
l’assistenza alle famiglie e agli anziani.
Il bisogno era lì sotto gli occhi di tutti, ma nessuno avrebbe mai pensato di
rispondere a questa esigenza aprendo
all’immigrazione massiccia di colf e badanti. Lo hanno fatto loro, gli stranieri,
fiutando con istinto imprenditoriale le
necessità del mercato e occupandolo in
massa. Dalla fine degli anni Settanta a
stati riammessi nel loro paese di origine.
Il numero complessivo dei migranti rimpatriati attraverso i CIE nel 2012
risulta essere poco più dell’1% del totale
degli immigrati in condizioni di irregolarità presenti sul territorio italiano (326
mila secondo le stime dell’ISMU al primo gennaio 2012), mentre quelli trattenuti sono stati 7.944 (7.012 uomini e
932 donne), il 2,4% del totale.
Possiamo dunque affermare che i CIE
non sono uno strumento efficace, ma
iniziative appena simboliche che al contempo mobilizzano enormi attenzioni
e polemiche sociali e politiche, ingenti
risorse e costi umani altissimi.
come un progetto di impresa da mettere a valore, da trattare come una risorsa
straordinaria? Lo straniero irregolare, in
questa ottica, dovrebbe essere messo in
condizione di ricostruire il proprio programma migratorio, la propria personale
intrapresa. Sono propenso a ritenere che
qualsiasi forma di contatto con un migrante irregolare possa trasformarsi in
un potenziale contributo di cooperazione
allo sviluppo e che, in questo orizzonte di
senso, il trattenimento in centri statali di
identificazione possa diventare una sorta
di “scuola di impresa migratoria”, nella quale il cittadino straniero acquisisca
competenze, strumenti e formazione con
oggi, il nostro paese ha collezionato ben
12 sanatorie, regolarizzando 1 milione e
800 mila immigrati.
Ci accorgiamo della ricchezza del nostro paese dal fatto che i migranti vi
scorgono delle opportunità e delle potenzialità. Dal momento in cui questo
non accadesse più, l’Italia sarebbe una
terra in declino. Partendo da questa
constatazione - dal fatto che centinaia di
migliaia di stranieri credono ancora nel
nostro paese - sembra necessario valorizzare questi flussi migratori spontanei,
irregolari e non organizzati, superando
la visione che impegna i governi solo sul
piano di dispendiose - quanto poco efficaci - misure di contrasto all’irregolarità.
Nel 2011 più di 47 mila stranieri sono
stati fermati o rintracciati in posizione
irregolare sul territorio, un piccolo drappello di irregolari che in principio avrebbe dovuto essere espulso. Almeno la metà
non ha ottemperato l’ordine di espulsione, mentre l’altra metà risulta respinta
alla frontiera. Solo 4.500 migranti sono
Che fare con gli irregolari che hanno
violato le regole dell’ingresso nel nostro
paese? Le risposte obsolete e sgangherate
dei poteri pubblici negli anni novanta e
duemila - con il perfezionamento e l’introduzione del reato di immigrazione
clandestina - hanno dato una risposta
poco lungimirante al fenomeno, negando ai migranti irregolari la libertà di movimento e privandoli della possibilità di
realizzare il proprio progetto migratorio,
addirittura accollandosi, come stato, i
costi assurdi della detenzione, della difficile identificazione e dell’espulsione.
Il trattenimento amministrativo distrugge la rete informale di contatti e
le opportunità del migrante, gettandolo
nell’angoscia del rifiuto da parte dello
stato come fosse un reietto sociale, una
presenza ridondante. I casi di autolesionismo dimostrano che questo rigetto
provoca dei comprensibilissimi disagi
psicologici.
E se ribaltassimo la questione? Se provassimo a considerare ogni straniero
l’aiuto di operatori specializzati nell’impresa transnazionale a partire dal modello cooperativo.
Ecco che, così, i 47 mila migranti fermati nel 2011 dalle forze dell’ordine potrebbero diventare l’avanguardia di un
intervento regolatore dei flussi migratori
dal paese di origine in Italia e costituire
altresì un’importante possibilità di penetrazione economica oltreconfine per
gli imprenditori italiani associati con
le organizzazioni di migranti in Italia.
Imparare un mestiere e raffinare un progetto di impresa individuale e collettiva:
i centri di trattenimento sarebbero così
trasformati in istituzioni che regolano i
flussi irregolari, valorizzandoli come opportunità di sviluppo e cosviluppo.
Salvatore Ippolito
SQM|3
inquadramento del fenomeno
Irregolari, sans papiers,
undocumented migrants.
Come si comportano gli
altri stati europei?
In
Europa ci sono circa 50 milioni di immigrati e circa 8 milioni di immigrati irregolari, ma, nonostante la dimensione
del fenomeno, il vecchio continente arranca per trovare una linea
unitaria.
È con grande eterogeneità, dunque, che da decenni gli Stati
membri strutturano una serie di azioni legislative, amministrative e
politiche per contenere l’immigrazione irregolare.
La presenza irregolare di un cittadino non comunitario può essere punita con la detenzione in Belgio, Danimarca, Regno Unito,
Grecia, Francia, Germania, Irlanda, Svezia. Nei primi quattro stati, la
durata massima è sei mesi, negli altri, invece, un anno. Quasi tutti,
inoltre, danno la possibilità di commutare la pena in una sanzione
Claudio Praturlon
pecuniaria. Sono previste solo sanzioni amministrative e nessuna
misura penale, in Austria, Finlandia, Lussemburgo, Paesi Bassi,
Portogallo e Spagna.
Nel 2012, il Cestim ha censito circa 420 luoghi di detenzione per i migranti senza documenti, per una capienza totale di 37 mila posti. Dalle ultime rilevazioni, risalenti al 2009, la durata massima del
fermo dei migranti è aumentata a dismisura rispetto al tempo necessario per l’attuazione delle espulsioni: da 40 a 60 giorni in Spagna, da 2 a 18 mesi in
Italia, da 3 a 18 mesi in Grecia. In Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia, non è neppure previsto un periodo massimo di permanenza
nei centri. Anche la Germania per gli irregolari prevede un tempo di trattenimento al limite delle nuove prescrizioni europee (18 mesi) e la misura della
carcerazione fino a un anno, che in caso di recidiva può arrivare a un massimo di tre anni. La Francia attua una politica in parte analoga a quella tedesca,
con un alternarsi del ricorso alla carcerazione o alla sanzione amministrativa. Qui però il trattenimento amministrativo non può superare i 32 giorni.
Come l’Italia, anche Spagna e Grecia sono terre di approdo di flussi migratori irregolari in misura maggiore rispetto ad altri paesi.
Le risposte di questi paesi alla problematica sono però differenti. In Spagna, l’immigrazione irregolare non costituisce reato. In Grecia è punibile con la
reclusione fino a 3 mesi, ma nella maggior parte dei casi si adotta una procedura amministrativa di espulsione. E il governo italiano è intransigente con
i migranti senza documenti di soggiorno validi?
Abbiamo provato ad analizzare ciò che succede fuori dall’Italia. Le sorprese non sono mancate. Anche in contrasto con le dichiarazioni di grande tolleranza di molti governanti, la linea adottata è in realtà spesso più rigida di quella italiana, proprio riguardo ad aspetti sui quali frequentemente le critiche
alla nostra politica dell’immigrazione si fanno più aspre.
glossario dei centri
I centri sono pianificati dalla Direzione centrale
dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo.
Sono gestiti a cura delle Prefetture-Utg tramite
convenzioni con enti, associazioni o cooperative
aggiudicatarie di appalti del servizio.
Le prestazioni e i servizi assicurati dalle
convenzioni sono:
• Assistenza alla persona »» assistenza alle persone (vitto, alloggio,
fornitura effetti personali ecc.);
»» assistenza sanitaria;
»» assistenza psico-sociale;
»» mediazione linguistico culturale.
• Ristorazione
• Servizio di pulizia ed igiene ambientale
• Manutenzione della struttura e degli impianti cda
cara
I CENTRI DI ACCOGLIENZA
CENTRI ACCOGLIENZA RICHIEDENTI ASILO
(L.563/95)
(DPR 303/2004 - D.Lgs. 28/1/2008 n°25)
Sono strutture destinate a garantire un primo
soccorso allo straniero irregolare rintracciato
sul territorio nazionale. L’accoglienza nel centro
è limitata al tempo strettamente necessario
per stabilire l’identità e la legittimità della sua
permanenza sul territorio o per disporne
l’allontanamento.
Sono strutture nelle quali viene inviato e ospitato per un periodo variabile di 20 o 35 giorni lo
straniero richiedente asilo privo di documenti di
riconoscimento o che si è sottratto al controllo
di frontiera, per consentire l’identificazione o la
definizione della procedura di riconoscimento
dello status di rifugiato. Vengono utilizzati per le finalità sia centri di accoglienza (CDA) che di centri di accoglienza per
richiedenti asilo (CARA) i centri di Ancona, Bari,
Brindisi, Crotone, Foggia.
cie
CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE
Così denominati con decreto legge 23 maggio
2008, n. 92, sono gli ex ‘Centri di permanenza
temporanea ed assistenza’: strutture destinate
al trattenimento, convalidato dal giudice di
pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e
destinati all’espulsione. Previsti dall’art. 14 del
Testo Unico sull’immigrazione 286/98, come
modificato dall’art. 12 della legge 189/2002,
tali centri si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e
di consentire la materiale esecuzione, da parte
delle Forze dell’ordine, dei provvedimenti di
espulsione emessi nei confronti degli irregolari.
Il Decreto-Legge n. 89 del 23 giugno 2011,
convertito in legge n. 129/2011, proroga il
termine massimo di permanenza degli stranieri
in tali centri dai 180 giorni (previsti dalla legge
n. 94/2009) a 18 mesi complessivi.
L’operatività dei centri e la loro a capienza può
essere soggetta a variazioni in relazione ad
eventuali lavori di manutenzione, ordinaria o
straordinaria.
4| SQM
inquadramento del fenomeno
Gli “undocumented migrants” inseriti nei centri di detenzione corrono l’effettivo pericolo di rimanerci per tutta la vita, poiché non esiste un termine di tempo definito per il trattenimento. Inoltre, per la legge britannica, i migranti senza
documenti di soggiorno validi hanno commesso un reato che prevede una pena
variabile da una semplice sanzione pecuniaria fino a 6 mesi di carcere. La pena
può, in molti casi, tramutarsi in carcere a vita, se le autorità, come spesso avviene, non riescono a provvedere alle
espulsioni. Infatti, spesso, i paesi di
origine o di provenienza non
sono disposti ad accogliere i
migranti.
Il Regno Unito ha introdotto una politica
migratoria mirata all’ingresso dei lavoratori
più qualificati, per cui
le pratiche per i richiedenti asilo seguono un
processo più veloce.
Tutti gli altri vengono
scoraggiati. Esiste un
sistema a punti: secondo l’età, la situazione finanziaria, il
livello di istruzione, le eventuali qualifiche e la conoscenza della lingua inglese.
C’è poi l’obbligo, che decade solo per gli iperqualificati, di presentare un certificato di sponsorizzazione.
Sono previsti l’arresto e sanzioni amministrative per chi ha documenti
falsi, ma anche per i datori di lavoro di irregolari. Le persone fermate alla
frontiera (inclusi i minorenni accompagnati) sono trattenute in appositi centri
gestiti da privati per conto del BIA (Border and Immigration Agency), in attesa
di espulsione.
Regno Unito
Si tratta di uno degli stati d’Europa più esposti ai flussi migratori dal Medio Oriente e dell’Africa. La polizia ha il controllo assoluto della detenzione
amministrativa. Tutti gli immigrati
arrestati vengono trattenuti nelle
stazioni di polizia ai confini, nelle normali prigioni e
in centri che si trovano
nelle isole della costa
turca e ai confini con la
Bulgaria. Le condizioni
di vita in questi campi
di raccolta - in cui il
limite di permanenza,
puramente teorico, è di
3 mesi - è stato aspramente criticato dalle
organizzazioni umanitarie
per le precarie condizioni
igieniche, per il vistoso sovrappopolamento e per la
quasi totale mancanza di assistenza sia legale che sanitaria.
Risulta inferiore al 2% il numero domande di asilo accolte. Nonostante questo, il numero di stranieri in Grecia è molto alto, se rapportato alla popolazione.
grecia
Nicolas Sarkozy, già da ministro dell’interno, aveva fatto della lotta all’immigrazione clandestina uno dei propri
cavalli di battaglia. Nel 2005 aveva
emanato una severa regolamentazione degli ingressi,
istituendo la schedatura
di tutti coloro che inoltrano richiesta di visti o
permessi di soggiorno
attraverso le impronte
digitali e i dati biometrici.
Il soggiorno irregolare
è reato ed è prevista, oltre alla sanzione amministrativa, la reclusione fino
a un anno. Il tempo massimo
per la detenzione amministrativa, prima dell’espulsione dal paese, è di 32 giorni. Nel 2007 le espulsioni
sono state circa 23 mila.
francia
In Germania, l’immigrazione irregolare costituisce reato ed è punibile sia con
sanzioni pecuniarie sia con la reclusione fino a 3 anni, in caso di recidiva. I
centri di identificazione si trovano in prossimità degli aeroporti. Ci sono poi 32
centri di detenzione in cui il periodo di permanenza prima dell’espulsione può
essere esteso sino a 18 mesi. Lo straniero può essere detenuto per sei settimane
anche mentre è in attesa della
decisione sull’espulsione.
L’orientamento
della
politica tedesca sull’immigrazione è emblematico.
Fra il 1995 e il 2004, gli
stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza
sono stati quasi 1 milione e 300 mila, ossia
l’1.5% della popolazione. La Germania è il
paese europeo che conta più immigrati, quasi
sette milioni, e, pur avendo
instaurato delle restrizioni
al diritto d’asilo nel 1993, rimane ancora il paese europeo più
liberale: in Europa, alla fine del 2008, i rifugiati erano 1,6 milioni, di cui più di
580 mila ospitati nella sola Germania. Dal 2005 ha avviato una politica di
incoraggiamento dell’immigrazione qualificata, che consente di ottenere
la residenza e il permesso di lavoro fin dall’inizio. Requisito essenziale: avere
una concreta offerta di lavoro e il permesso dall’Agenzia tedesca per l’impiego.
germania
Nel 2005 il governo Zapatero emanò una sanatoria in base alla quale, su 700
mila domande di regolarizzazione, ne furono accolte 600 mila. Nell’autunno
dello stesso anno, la “grande paura” per gli assalti degli irregolari a Ceuta e
Melilla comportò una netta inversione di tendenza. Le due enclave africane
della Spagna furono recintate da alte barriere, nel tempo sempre più alte, di
filo spinato, le coste del Nord Africa furono sottoposte a continuo e imponente monitoraggio radar esteso anche ai punti nevralgici delle coste spagnole e
fu attivato un pattugliamento navale congiunto tra le Canarie e l’Africa. Con
l’adozione di questi provvedimenti l’immigrazione clandestina si è più che dimezzata.
Questo non ha tuttavia evitato il
collasso dei campi d’accoglienza: è
di pochi mesi fa la notizia di
circa 900 irregolari rinchiusi
nei centri a fronte di una
capienza di 190 posti.
Nei quattro anni
della prima legislatura
Zapatero, i migranti
senza documenti di
soggiorno validi espulsi
dal paese sono stati 370
mila, il 43.4% in più di
quanti ne aveva mandati
via Aznar.
Il governo di Madrid ha stabilito una rigida programmazione dei flussi, ha previsto sanzioni amministrative per chi favorisce l’immigrazione clandestina (compresi i datori di lavoro), oltre all’immediata espulsione
degli irregolari. Per entrare nel territorio spagnolo serve la prova di avere sufficienti mezzi di sostentamento per la durata del soggiorno.
I CIE (Centro de internamento extranjeros) sono limitrofi alle principali città e il limite massimo di permanenza è fissato in 60 giorni. Ma gli
irregolari possono essere fermati all’uscita per prolungarne la permanenza. Alle
Canarie e a Ceuta e Melilla si trovano invece i CETI (Centro de estancia temporal) dove vengono trattenuti gli immigrati che varcano il confine o arrivano via
mare. Il 90% di questi viene espulso. La Spagna risulta il Paese che fa più ricorso
ai rimpatri forzati, più di 40 mila ogni anno.
spagna
SQM|5
inquadramento del fenomeno
Dai CPTA ai CIE, un excursus legislativo. Inasprire
le misure non serve a diminuire l’irregolarità
L’
istituzione degli allora denominati Centri di Permanenza
Temporanea e Assistenza (CPTA) è avvenuta in origine
ad opera della cosiddetta legge Turco-Napolitano (art. 12, l. n.
40/1998, poi art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione).
Essi rappresentavano - e rappresentano - un luogo di detenzione
amministrativa in cui uno straniero, destinatario di un decreto di
espulsione immediatamente eseguibile, viene trattenuto se si rivela
impossibile procedere con l’espulsione stessa - in quanto si rendono necessari ulteriori accertamenti sulla sua identità - oppure in
assenza del vettore o dei documenti di viaggio.
Fin dalla loro istituzione, tali strutture sono state al centro di violente critiche (per tutti, si ricorderà la definizione “istituzione totale” da
parte dell’etnopsichiatra Roberto Beneduce), soprattutto perché il
Arianna Cascelli
trattenimento rappresenta, come confermerà la stessa Corte Costituzionale, una limitazione della libertà personale. E il fatto che, negli
allora CPTA, il trattenimento fosse previsto per soli cittadini stranieri,
senza che essi avessero commesso alcun reato e per ragioni a loro non imputabili (mancanza dei documenti di viaggio e/o del vettore), lo rendeva
sospetto di incostituzionalità, come hanno poi seppur indirettamente dimostrato, nel 2000, le questioni sollevate dal Tribunale di Milano di fronte alla Corte
Costituzionale con specifico riferimento alla libertà personale (art. 13, commi 2 e 3, della Costituzione Italiana).
Pur giudicando “non fondata” la questione di costituzionalità, per non avviare un aperto conflitto con il parlamento e il governo, in quell’occasione la
Corte si è comunque espressa in modo molto severo e ha espressamente ricondotto il trattenimento alle “altre restrizioni della libertà
personale, di cui si fa pure menzione nell’articolo 13 della Costituzione”, ricordando anche come, dato il “carattere universale della libertà personale”, le garanzie collegate alla sua tutela non devono subire nessuna attenuazione rispetto agli stranieri (Corte Cost., sent. n. 105/2001).
Posto
quindi che tali aspetti critici hanno caratterizzato l’istituto del trattenimento fin dalla nascita, va pur sempre detto che, a differenza di
quanto oggi avviene, il suo utilizzo in origine era decisamente più marginale.
La legge Turco-Napolitano prevedeva infatti un doppio sistema di espulsioni, coercitiva l’una (con accompagnamento coatto alla frontiera), obbligatoria
l’altra (intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro 15 giorni). Solo nella prima ipotesi - che rappresentava comunque l’eccezione, poiché era
prevista soltanto per i casi di particolare pericolosità sociale (espulsione per motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato, traffici illeciti o appartenenza
ad associazioni di stampo mafioso) - si sarebbe proceduto con il trattenimento, in attesa dell’effettiva esecuzione dell’espulsione.
Trattenimento che era altresì limitato in termini temporali, potendo protrarsi solo “per il tempo strettamente necessario” alle verifiche da effettuarsi prima
di eseguire l’espulsione, e comunque non oltre “complessivi venti giorni”, prorogabili di altri dieci nel caso fosse “imminente l’eliminazione dell’impedimento all’espulsione o al respingimento” (art. 14, 5 T.U.).
Tale
logica è stata completamente capovolta dalla riforma introdotta con la legge n. 189/2002, la cosiddetta Bossi-Fini, la quale, in primo luogo, ha introdotto la possibilità di procedere con il trattenimento dei richiedenti asilo, qualora essi fossero già destinatari di un procedimento
di espulsione, ipotesi non prevista affatto dalla precedente normativa. Ma soprattutto, ha generalizzato il regime di espulsioni eseguite in maniera
coattiva e, di conseguenza, ha ampliato in modo notevole i casi di trattenimento degli stranieri in situazione irregolare.
Invertendo il meccanismo sopra illustrato, infatti, trasforma in eccezione l’intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro quindici giorni, che si applica
soltanto a coloro che non hanno provveduto a rinnovare il permesso di soggiorno entro i termini. La norma, per tutti gli altri casi, diviene la disposizione
dell’espulsione con decreto immediatamente esecutivo, procedura che prevede l’applicazione del trattenimento in tutti i casi in cui sia impossibile l’immediata effettuazione dell’espulsione.
Dalla riforma del 2002 usciva inoltre appesantita anche la disciplina della detenzione amministrativa nei centri, con l’innalzamento del periodo massimo
di permanenza a sessanta giorni, e la possibilità che la proroga venisse concessa anche sulla base di gravi difficoltà per il reperimento dei titoli di viaggio
o nelle pratiche di identificazione. Inoltre, con lo stesso intervento, anche per quanto riguarda la disciplina dello status dei soggiornanti regolari si è andati
verso un allargamento degli ambiti dell’incerto, del precario, del temporaneo, a seguito ad esempio delle modifiche introdotte in merito ai termini di validità
del permesso di soggiorno in caso di perdita del posto di lavoro, ridotti da un anno a sei mesi, ma anche al limite temporale entro il quale inoltrare la
richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno, aumentato da trenta a novanta giorni prima della scadenza.
6| SQM
inquadramento del fenomeno
Si
ricorderà peraltro come alcune delle disposizioni relative al trattenimento della riforma in questione sono state giudicate incostituzionali dalla
Corte Costituzionale (sentenze n. 222 e n. 223 del 2004), tant’è che la legge è stata più volte rimaneggiata per aggirare il giudizio della Corte.
Tuttavia, è significativo sottolineare il fatto che, se le modifiche in seguito introdotte hanno consentito di superare i più gravi problemi di incompatibilità
con la Costituzione, anche successivamente non sono mancate forti critiche alla disciplina del trattenimento. Più recentemente, pur premettendo che non
spetta alla Corte Costituzionale esprimere valutazioni sull’efficacia della risposta scelta dal legislatore per regolare alcuni aspetti del fenomeno dei flussi
migratori, essa non ha potuto fare a meno di notare nella normativa molteplici “squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica
la verifica di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativa della
stessa” (Corte Costituzionale, Sentt. 263/2008 e 22/2007).
La
prima stonatura che emerge da una più attenta analisi della normativa, peraltro, è l’intenzione del legislatore di costituire un circolo vizioso tra
CPT e carcere, introducendo figure di reato per condotte di semplice disobbedienza, quasi nella consapevolezza dell’impossibilità di operare
tutte le espulsioni ordinate, e tentando così di instaurare un altro tipo di controllo dello straniero irregolare, che per questa e per altre ragioni si trova
spesso a “circolare” tra carcere e CIE.
Nonostante le contraddizioni di una disciplina che rende più precarie le condizioni degli immigrati regolari, e allo stesso tempo estende i casi ai quali
applicare il trattenimento, creando nuovi reati per condotte precedentemente illecite solo dal punto di vista amministrativo, ancora recentemente si è
tornati a legiferare in materia di sicurezza e irregolarità, più sull’onda del sensazionalismo che a seguito di un preciso disegno.
In particolare, sono stati inaspriti alcuni aspetti della disciplina del trattenimento: in primo luogo, è stata modificata la denominazione dei
centri (da “centro di permanenza temporanea” o “centro di permanenza temporanea ed assistenza” a “centro di identificazione ed espulsione” (legge n.
125/2008, art. 9). Ma soprattutto, dopo un lungo periodo di gestazione è stato introdotto, mediante maxiemendamento al ddl “sicurezza” (ora, legge n.
94/2009), un ulteriore prolungamento del tempo massimo di trattenimento dei centri fino ad un totale di centottanta giorni, elemento
ACCORDI DI RIAMMISSIONE DEGLI IMMIGRATI CLANDESTINI
che rende ancor più intollerabile la permanenza nelle strutture, in
NEI PAESI DI PROVENIENZA
un crescendo di contraddizioni e “leggi manifesto” che ha portato
Patti bilaterali sono stati firmati con Slovenia, Macedonia, Romania, Georgia, Ungheria,
fino all’approvazione del reato di clandestinità, senza produrre le
Lituania, Lettonia, Estonia, Jugoslavia, Croazia, Francia, Austria, Albania, Bulgaria, Macondizioni per l’eliminazione delle cause dell’irregolarità.
rocco, Slovacchia, Tunisia, Svizzera, Grecia, Spagna, Algeria, Nigeria.
Il primo è stato firmato con la Slovenia il 3 settembre 1996. L’intesa è stata raggiunta con Slovenia, Macedonia, Romania, Georgia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Estonia,
Jugoslavia, Croazia, Francia, Austria, Albania, Bulgaria, Marocco, Slovacchia, Tunisia,
Svizzera, Grecia, Spagna, Algeria, Nigeria. Questi Stati si sono impegnati a riammettere i
propri cittadini entrati in Italia privi delle condizioni legali.
Unico presupposto necessario, l’accertamento della nazionalità dell’immigrato che
si vuole riconsegnare.Faranno fede documenti di viaggio, carta d’identità, certificato
di nazionalità. Nei casi in cui non siano disponibili questi documenti, l’immigrato sarà
sottoposto ad una audizione presso la più vicina rappresentanza diplomatica del Paese che dovrebbe riammetterlo. Lo stesso trattamento viene applicato per i cittadini
di Paesi terzi.
III
PROCEDURA DI RIAMMISSIONE
Art. 5
1. Le domande di riammissione presentate In applicazione dei precedenti articoli 2 e
3 sono trattate dai Ministeri dell’Interno dei due Stati contraenti.
2. La domanda di riammissione dovrà specificare i dati relativi all’identità al documenti personali eventualmente in possesso del cittadino dello Stato terzo, al
suo soggiorno nel territorio della Parte richiesta ed alle circostanze del suo
ingresso irregolare nel territorio della Parte richiedente. Tali dati dovranno
essere sufficientemente esaurienti, in modo da soddisfare le richieste di ciascuna Autorità.
3. La Parte richiesta deve comunicare per iscritto la propria decisione alla Parte
richiedente, in linea di massima entro otto giorni. L’autorizzazione alla riammissione ha una validità di un mese dalla data della sua notifica. Qualora l’interessato debba rimanere a disposizione dell’Autorità giudiziaria dello Stato
richiedente, i Ministeri dell’Interno stabiliranno di comune accordo una proroga di detto termine.
Che
la conseguenza della stretta sul trattenimento non
abbia portato progressi in termini di lotta all’irregolarità, emerge già dai dati relativi al periodo in cui la riforma è
stata applicata (rielaborazioni Caritas-Migrantes su dati del Ministero dell’Interno, Dossier Statistico Immigrazione, 2007). Difatti,
eccezion fatta per l’anno stesso dell’introduzione della riforma, in
cui sono state effettivamente allontanate 88.501 persone, l’impatto
della nuova normativa sul numero di espulsioni eseguite è andato
scemando, finché i numeri si sono assestati su valori anche più
bassi di quelli registrati prima dell’entrata in vigore della nuova legge; questo, a fronte di una stima della presenza di irregolari che ormai dall’anno 2000 supera costantemente le 200.000 unità, valore che si riesce ciclicamente ad abbattere soltanto grazie all’effetto
delle frequenti sanatorie. L’eredità che l’evoluzione del contrasto all’irregolarità ci lascia non è dunque un’immigrazione
più regolata, una stretta sulle sanzioni per chi favoreggia
o impiega irregolari, ovvero un meccanismo che garantisca
l’effettiva esecuzione delle espulsioni, ma la moltiplicazione degli
obblighi per l’accesso legale al territorio italiano, la precarizzazione
degli stranieri in regola, l’intasamento dei centri di trattenimento. In
conclusione, sembra ancora che si stia procedendo mediante una
combinazione di misure che, nei fatti, produce l’effetto opposto a
quello (almeno a parole) desiderato, causando cioè un aumento
dell’irregolarità, anziché una sua riduzione.
SQM|7
inquadramento del fenomeno
Se lo scafista è un minore
non accompagnato
Tra
i minori stranieri non accompagnati che entrano nel
circuito penale, quello dei “piccoli scafisti” è un fenomeno emergente connesso all’allarme suscitato da qualche sbarco
avvenuto recentemente anche sulle coste siciliane. Sebbene nel
corso del 2012 gli arrivi di clandestini via mare siano diminuiti, le
Maria Pia Fontana
statistiche evidenziano un sensibile incremento dei minori stranieri
non accompagnati (Caritas, Dossier statistico 2012) quasi sempre
nella qualità di passeggeri dei barconi. Nelle ipotesi meno frequenti
in cui a carico del ragazzo sussista l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, specie con l’aggravante dell’associazione a delinquere
finalizzata all’ingresso illegale di stranieri, le possibili conseguenze sanzionatorie sono in astratto quelle molto severe previste per gli adulti (ex art. 12 D.L.
286/98, così come modificato dalle norme del cosiddetto “pacchetto sicurezza”), sebbene con la diminuente della minore età. Inoltre, complessivamente ardua appare la predisposizione di efficaci progetti di recupero e di reinserimento sociale, tesi anche a mitigare l’azione meramente repressiva.
Come
è noto, il nostro ordinamento riserva ai minori di età che infrangono la legge penale una risposta che riconosce la specificità della
condizione di soggetto in età evolutiva e ciò si è concretizzato soprattutto nell’emanazione del DPR 448/’88 sul processo penale a
carico di imputati minorenni. Tale norma ha, infatti, sancito il diritto dei ragazzi che hanno compiuto i 14 anni (perché prima di tale età non sono imputabili) ad avere non solo un proprio giudice specializzato ed esperto (Tribunale per i Minorenni) ma a essere sottoposti a uno specifico processo penale,
calibrato su apposite norme e su sbocchi processuali di favore. Tuttavia, nonostante ciò rappresenti un’importante riconoscimento della specificità della
condizione giovanile, la norma, adottata alla fine degli anni ’80, non è immune all’inevitabile obsolescenza innescata dai numerosi mutamenti intervenuti
nello scenario sociale e internazionale. Essa, infatti, viene emanata in un periodo storico in cui la presenza di ragazzi stranieri non accompagnati in Italia
è un fenomeno assolutamente marginale e molti dei suoi istituti e principi, come il principio di adeguatezza, di minima offensività del processo penale, di
residualità della detenzione, faticano a essere applicati per questo particolare target di imputati, che non può contare su una rete parentale di sostegno
e su risorse abitative.
Si segnala, in particolare, il differente trattamento tra minori italiani e stranieri rispetto all’applicazione della carcerazione (sia in fase
cautelare che esecutiva) proprio per la difficoltà di identificare per questi ultimi delle alternative alla detenzione. I ragazzi stranieri, inoltre, sono soggetti a
un regime carcerario maggiormente afflittivo, anche perché con maggiore frequenza vanno incontro a trasferimenti di istituto penale con conseguente
interruzione della continuità del trattamento e del rapporto con le figure educative, psicologiche e sociali di riferimento.
Inoltre,
l’effettiva applicazione dei suddetti principi e istituti posti alla base dell’intervento penale minorile, oltre a richiedere la disponibilità
di risorse familiari, culturali e sociali, non può prescindere dalla conoscenza approfondita della personalità del ragazzo e del suo
contesto ambientale di origine.
Il gap di conoscenza del background familiare del minore straniero peraltro non viene colmato dalla semplice previsione di un mediatore culturale a
supporto dell’azione degli operatori minorili della giustizia, così come previsto da vari documenti e indicazioni ministeriali. Tale figura, non ancora presente
in modo uniforme in tutti i servizi minorili della giustizia italiani (Uffici di Servizio Sociale Minorenni, Centri di Prima Accoglienza, Istituti Penali per i Minori)
nonostante la sua indispensabile funzione di facilitazione e ponte tra minore, operatore e contesto sociale, non può sostituire l’apporto conoscitivo fornito
dall’indagine familiare e ambientale dell’OIM (Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) che sembra necessaria specie nei casi in cui il ragazzo è
inserito in reti delinquenziali nelle terre di provenienza, ha una storia personale particolarmente travagliata o tende a omettere e a falsare dati conoscitivi
rilevanti. Allo stato attuale queste indagini sono precluse per i minori di nazionalità marocchina ed egiziana, a causa del veto posto dai governi dei paesi
di origine. Sussiste, quindi, il rischio concreto che il minore non accompagnato di queste nazionalità rimanga un soggetto difficile da conoscere sotto il
profilo della personalità, e ciò complica la predisposizione di programmi di aiuto mirati.
Aspetto di problematicità sembra anche il coinvolgimento dei tutori, rappresentanti dei minori e garanti dei loro diritti, nei programmi di recupero penale, vista da un lato la lentezza con cui gli stessi tutori vengono nominati e il persistere di modalità di collaborazione molto eterogenee, più legate
a specificità individuali che a buone prassi di intervento e a visioni di sistema che prevedano l’identificazione di strategie operative condivise tra l’Autorità
Giudiziaria minorile, Uffici del Giudice Tutelare e servizi minorili della Giustizia.
All’
interno della categoria dei minori stranieri non accompagnati scafisti rientra peraltro una tipologia di situazioni personali estremamente differenziate. Troviamo, infatti, il ragazzo che prende parte genericamente alla divisione dei compiti durante il viaggio (es. perché gli viene imposto
di distribuire il cibo/acqua, controllare il motore) e che quindi rappresenta una sorta di braccio esecutivo dello scafista adulto, che talvolta è anche un
parente o un conoscente del giovane e della sua famiglia senza che la fattiva collaborazione del ragazzo lo esima dal pagare al conducente l’importo
8| SQM
inquadramento del fenomeno
dovuto per la tratta. Oppure troviamo il caso del ragazzo che ha un ruolo più attivo nella pianificazione e nella organizzazione del viaggio da cui trae un
guadagno economico pur avvalendosi della complicità di adulti, sia come membri dell’equipaggio che come componenti della rete dei basisti. Ciò lascia
intendere la tendenza delle organizzazioni criminali ad avvalersi di persone più giovani e come tali meno sospette.
Si comprende chiaramente come nella prima ipotesi il vissuto del ragazzo sia molto diverso. Egli spesso fatica a comprendere il disvalore sociale del
fatto contestato e manifesta piuttosto un risentimento verso il coimputato maggiorenne che lo ha illuso, sfruttato e infine “incastrato”. In tale ipotesi, in cui
peraltro è oggettivamente complessa l’identificazione dell’effettiva responsabilità penale del minore, diventa molto difficile per l’operatore sociale italiano
costruire un rapporto di fiducia superando la cortina della diffidenza e della paura che il ragazzo nutre verso “i grandi”. Tuttavia, se sempre occorre mirare
al recupero del minore, soprattutto in questa ipotesi occorre investire energie nella predisposizione di programmi di aiuto e di inserimento sociale
attraverso la costruzione di legami alternativi rispetto a quelli delinquenziali. A tal riguardo, la misura della messa alla prova, quale forma di
diversion processuale che precede la condanna e, in caso di esito positivo, cancella il reato, rappresenta lo strumento di elezione rispetto a tale sfida
educativa, pur nelle sue difficoltà attuative, riconducibili all’assenza della rete parentale di sostegno, che impone l’attuazione della misura in un contesto
comunitario, e alla scarsità di opportunità formative e lavorative.
I
Per i “piccoli scafisti” accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina,
specie con l’aggravante dell’associazione a delinquere finalizzata all’ingresso
illegale di stranieri, le possibili conseguenze sanzionatorie sono severe come
quelle previste per gli adulti.
note di approfondimento
II
Dalla fine degli anni ’80, il nostro ordinamento riserva ai minori una risposta
specifica. Tuttavia, molti dei principi di questa norma faticano a essere applicati
per i minori stranieri non accompagnati, fenomeno marginale quando essa è
stata emanata.
Mappa dei C.I.E.
Milano
Via Corelli
Gorizia
Gradisca d’Isonzo
Bologna
Torino
III
IV
V
VI
La figura del mediatore culturale non può sostituire l’apporto conoscitivo
fornito dall’indagine familiare e ambientale dell’OIM, necessaria nei casi in cui
il ragazzo è inserito in reti delinquenziali nelle terre di provenienza.
Le organizzazioni criminali tendono ad avvalersi di persone più giovani,
perché meno sospette.
È difficile per l’operatore sociale costruire un rapporto di fiducia superando
la cortina della diffidenza che il ragazzo nutre nei confronti degli adulti,
che lo hanno illuso e sfruttato.
La messa alla prova è lo strumento d’elezione per l’inserimento sociale
del minore attraverso la costruzione di legami alternativi rispetto a quelli
delinquenziali.
Caserma Chiarini
C.so Brunelleschi
Modena
Bari
Palese
Roma
Brindisi
Ponte Galeria
Restinico
Crotone
Loc. S. Anna
Trapani
Catanzaro
Serraino Vulpitta
Lamezia Terme
Trapani
località Milo
Caltanissetta
Contrada Pian del Lago
Maria Pia Fontana
assistente sociale
specialista e sociologo
Formatore presso il Centro di cultura per
lo sviluppo dell’E.A.S. di Acireale (CT) e dell’Università Cattolica di Milano; Specialista nella
realizzazione di indagini sociali e sulla personalità dei minori sottoposti a procedimento
penale e nell’attuazione di progetti educativi
individualizzati a favore dei minori; Componente
del Gruppo Piano del Distretto socio-sanitario
di Giarre (CT) D17 per gli interventi previsti dalla legge n.328/2000; referente area tematica
Immigrati; supervisore di tirocinio per gli studenti del corso di laurea in Servizio sociale e
in Sociologia.
SQM|9
storie e testimonianze
intorno alla clandestinità
Migranti tra diritto (alla salute)
e reato (di clandestinità).
Parlano i medici
L
mig
]
diritto
a legge 94/2009 - il cosiddetto “pacchetto sicurezza” - emanata dal governo italiano nel luglio del 2009 ha sollevato un forte dibattito in molti settori.
Anche tra gli operatori sanitari si è accesa
una polemica in particolare attorno all’art.
1 comma 16 che introduce il reato di ingresso e soggiorno irregolare. Quando il
mo mai denunciato nessuno.” “La norma
fu dapprima superata dall’atteggiamento del personale medico e paramedico”
aggiunge Luca Roberti, medico chirurgo
dello stesso Pronto Soccorso, “e successivamente del tutto abolita.”
Insomma, nonostante il pacchetto sicurezza, le cose hanno continuato a fare il
tori pubblici. Con un solo patto implicito:
tenere un comportamento adeguato. “Mi
è successo,” racconta Anna Maffiotti, “di
ospitare in pronto soccorso, soprattutto
nelle fredde notti di inverno, le persone
clandestine che non
avrebbero potuto
avere un rifugio per
mancato possesso di documenti di soggiorno si è trasformato in un illecito penale, per un periodo sembra divenire obbligatoria la denuncia per pubblici ufficiali e
incaricati al pubblico servizio.
Ma Arianna Maffiotti, responsabile del
Pronto Soccorso presso l’Ospedale S. Lorenzo a Carmagnola, provincia di Torino,
dichiara: “Nel nostro pronto soccorso non
abbiamo mai tenuto conto delle normativa sui clandestini e soprattutto non abbia-
loro corso. “L’accoglienza e le prestazioni
sono rimaste nello standard abituale,” afferma Roberti. “Anzi posso tranquillamente affermare che buona parte dei codici
bianchi, soggetti quindi al pagamento di
ticket di 25 euro, venivano trasformati in
codici verdi, totalmente esenti dal pagamento del ticket previsto.” Molto spesso
capita anche che alcune zone dei presidi
ospedalieri si trasformino per i senzatetto
in vere alternative sussidiarie dei dormi-
la notte, garantendo loro anche un
pasto caldo.”
L’unico obbligo a cui sono tenuti medici e infermieri è la segnalazione alla
Direzione Sanitaria per tutti quei pazienti che non posseggono il tesserino
sanitario, al fine di avviare la procedura
di recupero dei crediti nei confronti dei
paesi di origine dei pazienti. “Non tocca a
noi fare i poliziotti,” dice la dottoressa Maf-
10| SQM
storie e testimonianze intorno alla clandestinità
fiotti. “L’unico nostro interesse è garantire
adeguate prestazioni a qualsiasi persona si rivolga al nostro ospedale.”
L’art. 35 del Decreto 286 del ‘98 vieta al
medico di segnalare, in caso di assistenza,
un immigrato irregolare, salvo vi sia obbligo di referto. “Si tratta di un’eccezione al
generale obbligo di denuncia per pubblici
ufficiali o incaricati di pubblico servizio,”
spiega Enrico Chiara, medico e presidente
di FO.QU.S., cooperativa torinese di medici di famiglia. “Il divieto non è compromesso nemmeno dall’art. 365 del codice
penale (1),” continua il dottor Chiara. “Vi
è obbligo di referto solo in caso di delitti
procedibili d’ufficio,” precisa, “ma non lo
è il reato di immigrazione clandestina, di
natura contravvenzionale, e il comma 2
esonera il medico dall’obbligo di referto
qualora la segnalazione esponga l’assistito a procedimento penale.”
Di fronte al tentativo del governo, tramite il pacchetto sicurezza, di obbligare i
medici alla denuncia, gli ordini si rifiutarono, minacciando la disobbedienza civile.
“L’introduzione del reato di clandestinità,” continua Enrico Chiara, “ha generato una condizione di ambiguità tale
Nord Africa. “Quando nel 2011 ci è stata
chiesta la disponibilità,” ricorda Chiara,
“non conoscevamo la dimensione reale della domanda. Gli 80 ospiti iniziali
sono diventati quasi 500, su più centri,
fra Torino e Cuneo. Limitato il budget,
il modello ministeriale inadeguato per
sedi decentrate, nuclei spesso piccoli,
centri ora inclusi nelle realtà municipali, ora lontani.” Una realtà niente affatto
scontata che richiedeva il coraggio di
innovare e una capacità non comune di
sperimentare strade nuove. “Abbiamo
fatto rete, ‘inventato’ funzioni e procedure, integrandoci con gli operatori non
sanitari. Abbiamo imparato,” continua
Enrico Chiara, “a gestire budget e personale ed elaborato modelli, individuando risposte e strumenti utili per un
target di migranti extraeuropei, spesso
non in regola con quanto richiesto dal
servizio pubblico. Senza contare, poi, il
contatto con le diverse culture, e con le
storie individuali. Una grande esperienza clinica e umana,” conclude il medico.
E adesso che i centri di accoglienza
aperti in seguito all’emergenza profughi dal Nord Africa hanno
serrato i battenti, Enrico
Chiara e la sua cooperativa
(1)
L’art. 365 del codice penale tratta della cosiddetta “omissione di referto”:
“chiunque, avendo nell’esercizio di una
professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera
in casi che possono presentare i caratteri di un delitto procedibile d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità
indicata nell’art. 361, è punito con la multa fino ad euro 516.
Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale”.
[reato
granti
da spingere gli ordini professionali dei
medici, degli assistenti sociali, degli
psicologi, i collegi degli infermieri e
delle ostetriche, parte del mondo universitario, le ONG e altre organizzazioni religiose e laiche ad allinearsi in una netta
e ferma opposizione sotto il segno dello
slogan “Noi non segnaliamo”.
I medici di FO.QU.S. hanno collaborato
con il consorzio Connecting People nei
progetti di accoglienza dei profughi del
restano in prima linea nel dedicare il proprio impegno ai
migranti. “Oltre ad occuparci dei vulnerabili rimasti nel progetto di
accoglienza Nord Africa,” afferma Chiara,
“operiamo nelle iniziative “Tutti Inclusi” e
FER. Si ipotizzano altri interventi, di cui sapremo a breve.”
Claudio Praturlon
SQM|11
storie e testimonianze intorno alla clandestinità
A
lcuni passi, di corsa, per arrivare lì col
fiatone e il sorriso stampato in faccia.
Un cancello in ferro, sverniciato e arrugginito, aperto per accogliere, non per trattenere. Così, nei miei pensieri d’infanzia,
avevo immaginato la fuga dall’Africa.
Del viaggio che mi ha portato qui, invece, ricordo il rumore sordo e costante del
motore di una carcassa galleggiante, condannata ad affondare, che si trascinava in
mare aperto. Ho cominciato a farci caso
quando il fiato di 250 persone ha rimbombato nel silenzio. Ero sotto shock, me ne
accorgo solo adesso. Respiravo affannosamente, come se tutta l’aria contenuta in
quello spazio non fosse sufficiente ai miei
polmoni. Man mano che cominciavo a riacquistare lucidità, vedevo allontanarsi la
motovedetta maltese che aveva risposto
al nostro SOS, riparando il guasto. Lo sapevamo, non tutti raggiungono la meta.
Trascorsi altri due giorni di viaggio, avvistavo le coste italiane. Quando siamo stati
soccorsi a Lampedusa, i militari distribuivano dell’acqua in bottigliette azzurre. La
mia la gettai all’indomani, in un albergo
isolato del nord d’Italia. Ci avevano spiegato che quella sarebbe stata la nostra
casa per un po’ di tempo. Uscii fuori a
fare una passeggiata, per capire dove mi
trovavo. Non ci volle molto tempo, il sole
si era mosso di poco. Mi circondavano alte
montagne con un cappello bianco e pochi
anziani.
Per un anno continuai a sentire il rumore
sordo di quel motore. Eravamo lontani da
tutto. Niente si avvicinava a noi. Gli alber-
12| SQM
Al mattino,
b at t i
le mani!
Testimonianza
di Romeo, profugo emergenza
Nordafrica
gatori non parlavano la nostra lingua e a
noi non era data possibilità di imparare la
loro. Solo il cuoco, Alfredo, era disponibile. Mi insegnava un po’ di italiano mentre
io mi offrivo ad aiutarlo. Ma non un corso
di lingua, niente lavoro e men che meno
soldi. Un giorno il disagio esplose e occupammo la strada. Finalmente qualcuno ci
ascoltava.
Intanto venivo diniegato dalla Commissione prefettizia. Presentai ricorso, ricevendo anche in appello un rigetto. A quel
punto dovevo lasciare l’Italia. Non avevo
denaro e da un mese era nata mia figlia.
Fu Alfredo, il cuoco, a darmi una mano,
ospitandomi con la sua famiglia per tre
mesi. Sono stati giorni molto lunghi per
me. Non potevo uscire. In Camerun se la
polizia ti ferma senza documenti finisci
dentro. E io non conoscevo nessuno. Certo, la mia compagna e mia figlia si trovavano in una comunità a Torino, non distante
da me. Ma chissà dove sarei finito io.
Un pomeriggio Alfredo mi raggiunse con
un’espressione allegra sul viso. Mi disse: “Il
governo italiano concederà un permesso
umanitario a tutti gli immigrati provenienti dalla Libia”. Ne ero felice. Dovetti aspettare ancora qualche giorno per vedere mia
figlia. Ma già all’indomani, svegliandomi,
ripresi una vecchia abitudine camerunense: al mattino, quando sei seduto sul letto,
batti le mani e dillo che è una bella giornata!
Sono riuscito a entrare in un progetto
di accoglienza dove mi è stata data la
possibilità di svolgere un tirocinio. Si
concluderà fra tre mesi e forse verrà rinnovato. Spero anche in un’assunzione, ma
non ne ho certezza. In questo momento
sto cercando un posto in cui dormire per
andare avanti con il tirocinio. Il progetto
di accoglienza terminerà tra pochi giorni.
Ho trent’anni, osservo la vita attraverso
lo sguardo curioso di mia figlia che porto a giocare nel cortile della comunità in
cui vive insieme a sua madre. Loro continueranno a ricevere assistenza. Io nel frattempo farò ciò che posso. Quando le osservo, ripenso alle mie sorelle: donne forti
e speciali che alla morte precoce dei miei
hanno dato tutto pur di farmi vivere e non
chiedevano altro che un po’ di freschezza
per quelle gambe gonfie e stanche, e un
po’ di allegria per quegli occhi che tanto
dolore avevano visto.
Agrin Amedì
storie e testimonianze intorno alla clandestinità
Emergenza
NordAfrica
e “vulnerabilità”
“C
onclusa” la cosiddetta emergenza
Nordafrica proviamo a dare un ordine ai nostri pensieri che spesso affiorano
in maniera disordinata, alle sensazioni e alle
emozioni che ci accompagnano nel lavoro
quotidiano: il senso di smarrimento, di incertezza e insicurezza che ha caratterizzato
questo anno e mezzo di accoglienza e che
con fatica abbiamo provato a contenere.
Fermarsi a riflettere, condividere, forse
ci permette di provare a dare significato
a ciò che accade e a provare a generare
processi culturali di produzione di senso.
Dal mese di giugno 2012 abbiamo accolto in due centri dislocati sul territorio dei
comuni di Giarre ed Aci S. Antonio entrambi nella provincia di Catania, ottantasei migranti in fuga dalla Libia.
L’attesa ha caratterizzato il periodo
dell’accoglienza. La procedura di riconoscimento di Protezione Internazionale, infatti,
è perdurata per alcuni beneficiari quasi un
anno e sei mesi e si è conclusa con un elevato numero di dinieghi ottenuti e successivi ricorsi avverso la decisione della Commissione Territoriale di riferimento, per poi
giungere nel mese di novembre 2012 in
prossimità della chiusura dell’emergenza,
ad un riconoscimento di Protezione per
tutti i migranti accolti, garantendo loro l’asilo in Italia.
Le storie raccolte negli incontri con i migranti in accoglienza ci raccontano di uno
stato di sospensione in cui non ci si sente
“né in cielo né in terra”, appartenenti né a
questo né ad un altro mondo, pervasi da
un senso di insicurezza ed incertezza per il
proprio futuro e un’impossibilità a progettare, a provare a ricostruire, nonostante le
risorse personali, una nuova vita nel paese
ospitante.
Un tempo che non scorre vuoto, ma con
fatica e grande impegno tra corsi di ap-
prendimento della lingua italiana, e per alcuni il conseguimento della licenza media
ma per tutti in un’impossibilità ad avviare
percorsi di inserimento lavorativo stabili e
duraturi; chi negli ultimi mesi del 2012 conclude le proprie pratiche amministrative
riesce ad intraprendere corsi di formazione professionale pur nell’incertezza della
durata dell’accoglienza e comunque nella
consapevolezza di una prossima ed imminente chiusura.
E difatti, a conclusione dell’emergenza
Nordafrica, si tratta di scegliere tra un contributo all’uscita anche se non si è ancora
in possesso di documenti, o altrimenti di
rimanere in accoglienza fino alla conclusione delle pratiche amministrative, perdendo
il “benefit”.
Ciò disorienta, confonde, soprattutto
perché una parte di quei soldi potrebbero essere inviati alla famiglia nel paese di
origine, che attende ormai da tempo un
sostegno e che adesso fa fatica a credere
che in Italia si aspetta anche più di un anno
per il rilascio dei documenti e poi che non è
così facile trovare lavoro...
La decisione disorienta ancor più chi ha
una maggiore fragilità psichica, così proprio chi ha comunque diritto all’accoglienza in quanto “vulnerabile” vi rinuncia, per
accettare il contributo economico.
Si è concordi nel ritenere che la migrazione forzata rappresenta una particolare
esperienza migratoria complessa, che per
la sua molteplicità di perdite e per la condizione di sradicamento porta con sé una
sua vulnerabilità psicologica. Chi migra
sente fortemente a rischio tutti gli aspetti
della sua identità (S. Inglese, 1996), e alle
rotture e alle perdite materiali e simboliche
si affiancano ulteriori cambiamenti e perdite dei ruoli sociali, in particolare del lavoro.
La vulnerabilità psicologica connessa alla
migrazione (M.R. Moro,1994) deve essere
però ripensata in riferimento non soltanto alla diversità culturale e all’impatto che
questa ha sul migrante nonché alle storie
personali di torture, violenza e trattamenti
disumani, ma anche e ancor più in relazione alle logiche del nostro sistema di accoglienza.
L’esperienza di chi migra è un’esperienza di frammentazione, di perdita,
proprio per la profonda e complessa
condizione di sradicamento; il percorso
per il migrante è quello di riuscire a situarsi dentro una trama esistenziale, di trovare
nuovamente un proprio “posto nel mondo”.
Ecco allora che l’intera struttura istituzionale e sociale che accoglie il migrante e con
cui lo stesso interagisce deve essere chiara, caratterizzata da interventi ben definiti
nel tempo, meno dispersivi e confusi, non
incerti né frammentati, che rischiano altrimenti di riproporre gli stessi vissuti di esclusione provati con la migrazione forzata.
Una riflessione critica impone così la necessità di attivare con impegno e responsabilità una serie di strategie istituzionali
e sociali volte a facilitare la possibilità di
chi migra di radicarsi in un nuovo territorio sociale e culturale anziché obbligare il
migrante a rimanere in una condizione di
“sospensione esistenziale”; ciò si rivela generatore di vulnerabilità e pone dunque
le basi dei vissuti di disagio e sofferenza
psichica che incontriamo sempre più nel
nostro lavoro, aprendo la strada a gravissimi processi di marginalizzazione ed esclusione sociale che caratterizzeranno, se non
affrontati, gli anni a venire.
Piera Rossi
Nello Pomona
SQM|13
i cie visti da dentro
Al buio si vive senza ombra
clima, regole e quotidianità del cie
S
in dalla notte dei tempi gruppi di uomini
e donne, costretti in un dato luogo e sottratti allo sguardo esterno, hanno suscitato nell’ambiente circostante timore e pregiudizio.
14| SQM
Questo è ciò che accade, solitamente, nelle dinamiche dominanti che si sviluppano intorno ai CIE
(Centri di Identificazione ed Espulsione). Urbanisticamente isolati e spesso situati in vecchie caserme
riconvertite a tal scopo, si presentano - il più delle
volte - con alte mura di cemento armato che delimitano un’area soggetta al controllo delle forze di
Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza ed Esercito.
i cie visti da dentro
L’accesso di esterni ai CIE viene autorizzato
dalle locali prefetture e si svolge sotto la stretta
vigilanza del personale e delle forze dell’ordine
impegnate nella gestione del campo; parola che
evoca nell’immaginario comune più impressioni:
da luoghi in cui vengono mantenuti sotto controllo dei gruppi di persone indesiderate, a zone
di restrizione o di privazione dei diritti. La pratica
dell’esclusione è una caratteristica che risale ai
tempi antichi. Come se la storia si ripetesse - direbbe Umberto Eco - ora i migranti incarnano i
nuovi esclusi, le persone di seconda classe come
erano stati i lebbrosi, i folli e i tossicodipendenti:
categorie che devono essere recluse in strutture e
dispositivi di segregazione per evitare che “contagino” o “impauriscano” i nazionali. Il 70% dei trattenuti nei CIE ha già scontato una pena in carcere,
terminata la quale non era ancora identificato in
modo certo. Il restante 30% ci finisce perché non
ha un documento di soggiorno valido: alcuni hanno perso un lavoro regolare o hanno sempre lavorato, ma in nero; altri ancora sono stati fermati
direttamente al loro arrivo in Italia. E tra le mura
che contengono questa pluralità di volti e realtà,
come un brusio di sottofondo, aleggia perennemente un tintinnio di chiavi e serrature. In ogni
cella, corridoio, ufficio, è riconoscibile sempre lo
stesso odore: di muffa e candeggio, miscelato
alle pareti che portano lo stesso colore. Assenza,
controllo e attesa si traducono in una sottile
tensione latente, che serpeggia lungo ogni
tragitto reso possibile. In questi posti si può
trovare degrado: psicologico, umano e, spesso,
anche sanitario. Nonostante i servizi, anche efficienti, erogati dagli enti gestori, le competenze
sviluppate dalle équipe psicosociali, l’attenzione
e la cura del personale impegnato a garantire un
ambiente pulito e sicuro, gli effetti di un’istituzione
così pesante, inevitabilmente, saltano all’occhio:
non avere cura di se stessi vuol dire anche non
preoccuparsi dell’ambiente nel quale si è costretti
a vivere.
In alcuni CIE i migranti trascorrono 22 ore su
24 in celle da sei/otto persone, con un bagno in
comune e non un tavolo per poter consumare civilmente i pasti, allungati da un operatore oltre le
sbarre. In certi casi, si arriva a negare l’introduzione di libri, nelle celle, perché considerati materiale infiammabile. “Così,” confessa un cosiddetto
‘trattenuto’, “qui, al massimo puoi diventare un
professionista delle carte da gioco, mentre in carcere ho conseguito un diploma.”
Si tratterebbe di disposizioni preventive di sicurezza predisposte della Prefettura. La finalità è
quella di ridurre il rischio di fuga e il verificarsi di
possibili disordini, che poi si verificano lo stesso.
Quando si contengono decine di persone contro la loro volontà - con l’obiettivo, ufficiale, di
verificarne l’identità - diviene inevitabile attuare
significative limitazioni della libera espressione
individuale. Il fine è quello di prevenire possibili
situazioni di pericolo, anche se spesso, paradossalmente, ne diventano il motivo scatenante.
Percorrendo i corridoi di un Centro di Identificazione, dove tutto sembra anonimo, impersonale e
distante, può capitare di incontrare migranti diretti
all’infermeria mentre è in corso la somministrazione delle terapie farmacologiche. Sono circa i
due terzi dei trattenuti - accomunati dall’incapacità di comprendere i motivi della loro condizione,
dal bisogno di evadere o, semplicemente, dall’esigenza umana di alzarsi in piedi e attraversare
il corridoio - a chiedere un supporto medico che
spesso consiste nell’assunzione di psicofarmaci.
Come può capitare di incontrare un uomo che si
forze dell’ordine, assorti in una ripetizione costante e impersonale delle proprie mansioni. L’alienazione, in questi casi, diviene lo strumento per
non mollare. Al buio, infatti, si vive senza ombra.
È questo l’aspetto che colpisce maggiormente:
la sensazione di assoluto isolamento, la voglia di
scappare, di incontrare altra gente, di far sapere
la tragedia di quel posto che continua a consumarsi al buio dei riflettori.
“La cosa che rimprovero loro di più,” confessa
l’operatore di un CIE “è, che una volta usciti, non
ne fanno parola, dimenticano tutto e si vaporizzano. Invece vorrei rivederli: per strada, sui giornali,
a denunciare questo loro vissuto. È l’unico mezzo
per rendere consapevole quella società che preferisce non vedere.”
La rabbia dei trattenuti
sta dirigendo in un ufficio, magari dallo psicologo
o dall’assistente sociale, dopo aver già esaurito
la tappa dell’infermeria. “Lì c’è una finestra,” ti
dice. “Quando mi è concesso ne approfitto per
fare una chiamata e guardare per qualche minuto
fuori. Sono qui da un anno e non ho ancora capito
dove sono”.
Un meccanismo perverso produce una sorta di
distacco temporale: una malattia del tempo, che
si dilata enormemente nel futuro mentre il passato viene a ridursi a qualche briciolo di ricordi,
dai quali ti devi distaccare emotivamente per non
sentire dolore. In questi luoghi non esiste il
tempo come lo intendiamo normalmente
- cioè una dimensione sociale e affettivorelazionale - ma esiste solo il tempo del
“trattenimento”. Immobile e immutabile. Forse
non si potrebbe neanche parlare di tempo, ma di
un ritmo che marca giornate sempre uguali.
Un clima da istituzione totale si riflette in tutto,
compresa la meccanicità degli operatori o delle
In alcuni CIE i migranti trascorrono 22 ore
su 24 in celle occupate da 6 o 8 persone
Agrin Amedì
SQM|15
i cie visti da dentro
Barriere fisiche e mentali
a confronto con l’equipe psicosociale del Cie di Gradisca
16| SQM
i cie visti da dentro
“D
ammi una tuta nuova o mi taglio...
Te l’ho detto che mi spacco la testa.
Devo chiamare mia madre. Io lo so,
tu lo sai chi sono?” Un giovane uomo entra urlando in infermeria. È di origine tunisina e vuole
essere ascoltato. “Io ho una fidanzata, dammi una
scheda, mi serve una scheda per chiamarla.”
Quando si parla di identità, in un certo senso,
si parla anche di possibilità. L’uomo si riconosce
come un’entità a sé stante nella misura in cui riesce a esercitare un ruolo attivo in relazione a due
elementi fondamentali: lo spazio e il tempo. La
capacità di stabilire connessioni tra le varie rappresentazioni di sé e gli oggetti che lo circondano,
di organizzare autonomamente il proprio tempo
e di relazionarsi ad esso con un ruolo di potere,
ha come risultato la presa di coscienza della propria identità, percepita come definita e collocata
in una deteminata dimensione spazio-temporale.
Alle limitazioni di questa possibilità, segue una
graduale perdita della percezione di sé fino al
completamento - potremmo dire - di una totale
spersonalizzazione e alla produzione di meccanismi di auto-difesa. Volti, mani, schiene e gambe
delle persone rinchiuse nei CIE riportano spesso
cicatrici, lividi e gonfiori. Forse l’estremo tentativo
di rimanere ancorati al proprio corpo. Come nelle
classiche prassi carcerarie dove i detenuti tendono ad attribuirsi una personalità, attraverso la produzione di tatuaggi sul corpo, nel caso dei CIE a
questa tendenza si somma una variabile culturale.
Nella maggior parte dei casi incontriamo uomini di
origine araba e, con essi, molti casi di autolesionismo. Come osservato dall’équipe psicosociale
di Gradisca, l’autolesionismo, secondo questa
cultura, è anche una dimostrazione di virilità, di
un naturale istinto di auto-conservazione.
Per travalicare l’orrore dello spazio senza
fondo e senza uscite si devono creare dei riferimenti limitativi, immaginare nuove barriere, regole, altri codici spazio-temporali.
Si cercano, insomma, disperatamente risposte;
come nel caso dell’uomo sulla sedia a rotelle, che
si avvicina per chiedermi: “Dove siamo? Quando
usciamo? Voglio un po’ d’aria, mi manca l’aria.
Adesso hanno messo la rete anche sopra la testa,
io soffoco così. Voglio solo un po’ d’aria, posso
avere dell’aria?”
Nel medico i migranti rintracciano l’unico interlocutore in grado di offrire risposte certe sul proprio
stato di salute - che è una variabile dell’essere.
“Vengono qui per trovare dei riferimenti correlati
al proprio stato di benessere,” afferma Antonino
D’Angelo, responsabile sanitario della struttura. È
un medico di esperienza consolidata con i migranti, frutto di 15 anni di collaborazione con il Consorzio Connecting People. “È fondamentale lavorare
in équipe,” dichiara, “con il corpo infermieristico,
gli psicologi, i mediatori e l’assistente sociale, che
costituiscono il gruppo di lavoro che opera in un
CIE. Considero il placebo come disquisizione di
patologie,” spiega. “Se a seguito della somministrazione, il paziente riferisce un miglioramento
delle proprie condizioni, è chiaro che entrerà in
gioco il lavoro dello psicologo. Qui vengono a cercare ogni tipo di risposta e, al fine di poter essere
loro di aiuto, è fondamentale che comprendano la
distinzione tra l’istituzione CIE (definita dallo Stato)
e il nostro servizio finalizzato alla tutela e alla cura
della persona.” D’Angelo considera fondamentale
il mantenimento di questa distinzione nel paziente
ai fini medici e psicologici. Questo, infatti, diviene
l’unico terreno nel quale è possibile definirsi e definire qualcosa. In uno studio medico, il paziente
può trovare la storia della sua salute - una parte
di se stesso - e non tutto il complesso della sua
esistenza. Una volta compreso questo, il paziente
lascerà oltre la porta tutto il resto, relazionandosi
con una maggiore disponibilità e aumentando la
possibilità di trarne beneficio.
“Sotto l’aspetto normativo,” aggiunge un ope-
seguente rischio per la salute di se stesso e degli
altri.” Il medico ricorda un episodio felice della sua
lunga esperienza, avvenuto nel CIE di Restinco in
provincia di Brindisi, sempre sotto la direzione di
Connecting People. La situazione del centro, vincolata dalla Prefettura a misure di sicurezza meno
restrittive dato un numero inferiore di episodi
di rivolta e tentativi di fuga, consentiva l’utilizzo
giornaliero di un campetto da calcio esterno alla
struttura. Venne organizzato un torneo con l’obiettivo di ridurre l’uso degli psicofarmaci da parte dei
migranti trattenuti. Le squadre furono formate secondo il criterio dell’assunzione o meno di terapie
farmacologiche. Questo comportò che nelle prime
partite, giocate alle quattro del pomeriggio, coloro
che assumevano psicofarmaci capitolarono con
risultati indecorosi: 15 a 0, 10 a 0. Man mano la
voglia di vincere portò i ragazzi a non presentarsi
più alla somministrazione delle tre. “Questa partita iniziarono a giocarla davvero, riuscendo perfino
a vincerla. Festeggiammo anche la riuscita della
scommessa: l’assunzione di psicofarmaci era stata ridotta del 70%. Fu una bella partita!”
Antonino D’Angelo,
medico di grande
esperienza nel campo
dell’accoglienza
ai migranti
ratore, “si tratta di pura follia. Il CIE è un luogo
di reclusione in cui, paradossalmente, l’internato
viene definito ‘ospite’. Ma un ospite che non può
andarsene non è un ospite!”
Per garantire un equilibrio psico-fisico, D’Angelo
considera fondamentale che la maggior parte del
tempo che i migranti trascorrono in un CIE non sia
caratterizzato da tempi morti. “L’uomo è un contenitore di stress e il vuoto può esserne paradossalmente una causa: il nostro compito è di evitare
che il paziente superi una certa soglia di sopportazione, oltre la quale è inevitabile un’esplosione
improvvisa dell’energia accumulata, con un con-
è fondamentale che
comprendano la distinzione tra l’istituzione
CIE e il nostro servizio
Agrin Amedì
SQM|17
i cie visti da dentro
Felicità e tristezza del clown
testimonianza di un trattenuto
M
i ero chiuso in un appartamento alla
periferia di San Salvador per godermi
l’ultimo riposo prima del viaggio. Avevo atteso oltre due mesi quella partenza. Guardai
l’orologio e aprii un flacone di quel liquido amaro
che serve per anestetizzare la gola e impedire di
vomitare. Poi, ho ingoiato mezzo chilo di cocaina.
Capsule di polvere bianca, ciascuna grande come
una noce. Ne mandai giù una dopo l’altra, fino ad
arrivare a 70. Presi un taxi per raggiungere l’aeroporto dove avrei preso il volo 960 dell’American
Airlines verso Miami. Lì avrei incontrato gli altri
corrieri e compagni di viaggio. Il taxi aveva quasi
raggiunto l’aeroporto quando Raminez mi telefonò
con voce terrorizzata: “Scappa Diego, scappa! Miguel ha perso il carico e ora ci fanno fuori tutti.” Mi
affrettai a comprare un biglietto per Roma, dove
mia zia viveva ormai da anni, imbarcandomi in tutta fretta sul primo volo disponibile.
Fu proprio un gran colpo di fortuna, nei pressi
di Brescia, trovare subito lavoro come magazziniere. Il signore per il quale io e altri dieci stranieri lavoravamo era molto anziano. Ogni mese
tratteneva dal nostro stipendio una somma di
denaro, destinata a metterci in regola con i documenti. Ma per un caso del destino, prima del
documento, sopraggiunse la sua morte. Mentre
osservavo quell’occasione svanire, compresa la
somma accantonata nel corso dei due anni che
mi si spiegò essere indispensabile per l’ottenimento di un Permesso di Soggiorno, caddi in un
profondo sconforto. Chiusi per alcuni giorni le finestre di casa con me dentro, negandomi la luce.
Ero così triste, e la dolce Isabelle continuava a
starmi accanto, nonostante lo stato in cui versavo.
La conobbi dopo qualche mese dal mio arrivo in
Italia e mi innamorai subito dei suoi modi di fare,
tipici di Cuba. Man mano i cambiamenti positivi a
cui andai incontro conferivano alla mia vita una
fisionomia totalmente nuova e diversa, che solo
fino a qualche anno prima non avrei potuto immaginare. Cominciai a convincermi anch’io che, in
fondo, una vita diversa e più felice fosse possibile.
Andai avanti per un po’ di tempo con dei lavoretti in nero finché non fui fermato dalla polizia
che, verificando la mia situazione, mi concesse
10 giorni per lasciare il territorio. Rafael sarebbe
nato dopo due mesi, decisi di non rispettare l’or-
18| SQM
dine. Rimasi con Isabelle e il suo pancione, finché
non venni ripescato di nuovo. Quando accadde,
mi ritrovai subito in un CIE.
Ogni tanto penso che con gli errori commessi a
San Salvador, questa condizione un po’ me la meriti. Forse mi trovo a scontarli adesso e, stupidamente, questa volta non sono l’unico. Ora ho una
famiglia che si dispera insieme a me. Purtroppo
da quando sono qui soffro di una forte insonnia
che non mi fa dormire anche per giorni. Uno dei
miei compagni di stanza è completamente pazzo:
brucia sempre qualcosa, urla tutto il giorno e se
non si taglia lui, prova a tagliare gli altri. È un continuo sfogo di paranoia e deliri... L’unica cosa che
posso fare è ascoltare mp3, ma alle volte evito
anche quello. Mi sento in pericolo quando le mie
orecchie non sono sufficientemente vigili. È da un
anno che sono in questo posto e non so quanto
tempo ancora dovrò passarci. Non so cosa sarà il
domani. Fisso il mio tatuaggio per non pensare.
Il clown da noi indica la faccia triste e felice che
risiede, forse, in ognuno di noi.
È da un anno che sono
in questo posto e non
so quanto tempo ancora dovrò passarci.
Non so cosa sarà il
domani.
Agrin Amedì
i cie visti da dentro
La terra dà frutto,
la pietra no
incontro con un trattenuto in attesa del riconoscimento di apolidia
“S
ono figlio di una famiglia di mamma
araba e papà spagnolo, ho perso mia
madre in Algeria dopo il terremoto.
Sono un apolide, ho vissuto la mia vita da solo,
sono cresciuto insieme agli zingari, ad Almeria.
Adesso, però, non sono solo. Ho trovato l’amore
e mi sono fermato qui. Ho trovato l’amore di una
donna italiana e così ho ritrovato una mamma,
una sorella, tutto.”
Felpa e pantaloni neri, cappellino in testa e volto
da gitano. Enrico si presenta con un sorriso educato e ci riassume così, in poche parole, i suoi
primi 46 anni di vita, il percorso difficile e contorto
che l’ha portato in Italia e dentro il CIE di Gradisca
da ormai oltre dieci mesi. Circa 15 anni di carcere per i motivi più vari in diversi paesi europei,
eppure davanti ai nostri occhi ci si presenta una
persona apparentemente mite e piuttosto lucida.
Una traccia di rassegnazione emerge dalle sue
parole, ma gli occhi tradiscono una speranza che
non è ancora sconfitta.
Enrico giunge in Italia 15 anni fa. Si stabilisce
a Rimini, dove per sopravvivere fa mille lavori,
tutti imparati in carcere: “So montare i pannelli
solari, ho fatto l’elettricista, il carpentiere e l’aiutante in cucina. Sempre in nero. Ho imparato
tutto in carcere. Ho anche vinto una borsa di
studio, una volta.”
Enrico un giorno sbaglia treno: in uno dei suoi
tragitti quotidiani, va in direzione Milano invece di
Venezia. Viene fermato e non ha documenti. Dieci
mesi di carcere e poi trasferimento al CIE. C’è un
dettaglio, però: Enrico, i documenti, non può averli, perché non li ha mai avuti. “Sono un apolide,
non ho mai avuto documenti. Ho fatto domanda,
ma il percorso è lungo. Sono già passati 10 mesi.
Nel frattempo la mia compagna si è ammalata e
non riesce più a lavorare. Devo aspettare il mio
momento. Io ho una casa, un avvocato, sono
sempre rintracciabile. Uscirò di qui, prima o poi,
non ha senso rimanerci. Voglio fare l’agricoltore
e stare tranquillo, invece non si può fare nulla.”
Enrico sorride quando gli chiediamo un giudizio
sui giorni passati al CIE, un sorriso amaro e con-
Lui ci risponde con una massima: “Qui dentro ci
sono persone di pietra e persone di terra. E, come
in tutto il mondo, la terra dà frutto, la pietra no.”
sapevole: “Peggio del carcere, non ci sono attività.
Neanche un libro si può leggere. Io cerco solo di
uscire sano da qui”. Finiti i 18 mesi di attesa al
CIE, se non sarà stato possibile riconoscere la
sua cittadinanza, Enrico otterrà un foglio di via e
verrà invitato a lasciare l’Italia: “Voglio svegliarmi
al mattino, vedere sempre lo stesso panorama e
rimanere a casa per aiutare la mia compagna.
Non desidero più nient’altro. Questo è il mio unico obiettivo. Se fossi costretto a partire dall’Italia,
venderei tutto e andrei in Messico, più lontano
possibile. Aprirei una pizzeria e mi metterei a cucinare.”
Salutandoci, Enrico butta un occhio alla finestra.
Qui, la primavera stenta ad arrivare. Noi gli chiediamo se almeno è riuscito a farsi qualche amico.
Ma gli occhi tradiscono una speranza che
non è ancora sconfitta.
Salvo Tomarchio
SQM|19
i cie visti da dentro
Oltre la TV, gli mp3
e le carte da gioco
A tu per tu con Gianni Scardina, direttore del CIE di Gradisca d’Isonzo
I
ncontriamo Gianni Scardina, il direttore del CIE
di Gradisca d’Isonzo mentre parla con un paio
di ospiti nel corridoio della direzione. Ci saluta con
un sorriso gentile e ci fa segno di aspettare. Barba incolta, modi affabili ma sguardo fermo che ti
scruta da dietro gli occhiali. Ci invita a seguirlo in
una stanza vicina “per avere un po’ di calma in
più”. Si siede insieme a noi con l’aria di chi vuole
raccontare anche per liberarsi un po’.
Qual è la giornata tipo dell’ospite di un CIE?
Molto semplice. Dalle 8 alle 9 viene somministrata la colazione in stanza. Dalle 9 alle 13 a turni
di un’ora si esce e si sta dentro il cortile dove si
può giocare a calcetto. Alcuni vanno a prendere
la propria terapia, altri a parlare con l’assistente
sociale e lo psicologo, a farsi visitare o a telefonare. Dalle 14 alle 20 ricomincia il turno per l’ora
d’aria. Dalle 20 inizia la distribuzione della cena.
Dalle 21 alle 23, stanza per stanza, escono per
la somministrazione della terapia. Dalle 23 alle 9
non si può uscire dalle stanze. Così per 365 giorni
all’anno.
Cosa hanno a disposizione gli ospiti dentro
le stanze?
Hanno la televisione, un lettore mp3 e le carte
da gioco. Con qualche difficoltà accedono anche
a qualche libro. Per regolamento c’è una piccola
biblioteca, ma tutto il materiale infiammabile è al
momento vietato, compresi i libri, per disposizione
della Prefettura.
Il regolamento è stato concepito per un tempo
massimo di trattenimento di 2 mesi, come era
all’inizio. In seguito, i mesi sono diventati 3, poi 6,
poi 12 e infine gli attuali 18. Non è previsto nessun altro spazio ricreativo se non una moschea a
20| SQM
cui si accede il venerdì, in gruppi di 15 persone.
Ritieni possibile delineare il profilo di un
ospite-tipo all’interno di un CIE?
No, non è possibile. Qui dentro si crea un mix letale tra persone che hanno lavorato vent’anni nei
campi in Sicilia, hanno perso il lavoro, non hanno
più il permesso di soggiorno e non possono nemmeno riscuotere i contributi regolarmente versati
e persone che, invece, si trovano in Italia da anni e
hanno solo spacciato droga. Nel CIE arrivano migranti trovati sprovvisti di documenti di soggiorno,
indipendentemente da quale tipo di vita abbiano
condotto nel nostro paese fino a quel momento.
Ma per chi ha lavorato in Italia per vent’anni,
l’identificazione non dovrebbe essere facile
e veloce?
Bisogna comunque inoltrare una richiesta al
consolato per provvedere al rimpatrio. Arriva da lì
il nulla osta per l’accompagnamento alla frontiera. Ci sono consolati che rispondono in fretta, altri
che, invece, non danno quasi mai riscontro o con
tempi lunghissimi. Se alla fine dei 18 mesi non vi
è stata alcuna risposta, il migrante viene accompagnato fuori dal CIE e, per ordine del questore,
ha sette giorni per lasciare il territorio nazionale.
E come fa a lasciare l’Italia?
Non è chiaro. Ci troviamo davanti a tanti paradossi. Anche chi ha lavorato per anni in Italia e,
per esempio, è in possesso di un libretto postale,
spesso ha enormi difficoltà a recuperare i propri
risparmi prima di tornare nel proprio paese d’origine. La burocrazia uccide noi italiani a volte,
figuriamoci cosa può succedere a uno straniero
in queste condizioni. Noi cerchiamo di aiutarli an-
che dopo l’uscita dal CIE, chiaramente con tutti gli
oneri del caso. A volte capita che alcune ONG se
ne occupino, per altri invece non c’è nulla da fare.
Come si è configurato il rapporto con il
territorio di Gradisca? Per quanto traspare
all’esterno, ci si ferma al “NO CIE” senza aggiungere a questo pensiero una fase costruttiva e progettuale.
Di base c’è un’ignoranza di fondo anche sulla
differenza tra il CIE e il CARA. La gente non distingue i motivi per cui i migranti sono alloggiati
in questi centri. Gli stranieri, però, fanno parte
del contesto italiano, partecipano da tempo alla
nostra economia. I migranti possono essere una
risorsa, ma sono usati solo come perfetti capri
espiatori.
Fuori dal CIE qual è la presenza dei migranti
sul territorio?
Si esce da qui solo per essere rimpatriati, trasferiti o con in mano un decreto di espulsione,
che prevede l’accompagnamento fuori dal cancello. Usciti dal CIE, dunque, si vaporizzano. A
volte li rimprovero che fuori da qui non dedicano
nemmeno un minuto a far conoscere all’esterno
quello che succede tra queste mura. Ma credo
che sia una reazione normale e comprensibile. Ci
sono casi di ospiti che attualmente vivono sul territorio di Gradisca, si sono sposati e hanno messo su famiglia. Ma non si riesce assolutamente
a costruire nessun legame, con il territorio o chi
rimane dentro.
Mi sembra di notare un’assenza di prospettiva. Un’ottusità di fondo nel modo in cui viene
trattata l’intera questione dei CIE, che produ-
i cie visti da dentro
ce solo problemi e sprechi. A volte sembra
quasi che l’intero sistema non sia progettato
per essere efficiente.
Se i tempi di permanenza fossero più corti, per
ogni CIE passerebbero più persone. Questo porterebbe a un processo di identificazione più efficiente e veloce. Il rischio di rimanere per 18 mesi
in un CIE non ha funzionato come deterrente per
l’immigrazione irregolare. Se un consolato non risponde nei primi 6 mesi, difficilmente risponderà
nei successivi 12. L’identificazione, ad esempio,
potrebbe avvenire già in carcere, smaltendo il lavoro dei CIE, in cui spesso i casi più difficili sono
quelli degli ex detenuti.
Come si esce da questa situazione?
Il sistema deve essere profondamente rivisto.
Si riesce a provvedere al rimpatrio solo del 50%
degli ospiti trattenuti nei CIE, che rappresentano
poco più dell’1% dei clandestini in Italia, con costi
economici e umani altissimi.
Quanto è difficile restare lucidi e impassibili?
Noi lavoriamo per i migranti, li aiutiamo nelle
pratiche legali, agevoliamo i contatti con l’ester-
no. Curiamo i loro problemi di salute, che, fortunatamente, gravi non sono quasi mai. Ma anche
farsi curare per un mal di denti significa andarsene dalla propria stanza e avere qualcuno che ti
tratta come una persona, prendendosi in carico il
tuo disagio. Alcuni non vedono l’ora di uscire per
una visita medica specialistica, solo per sapere o
ricordare come è fatto il mondo fuori. La stessa
richiesta di psicofarmaci spesso è solo la conseguenza della forte assunzione di stupefacenti a
cui molti degli ospiti erano assuefatti prima di accedere al CIE. L’équipe psicosociale lavora proprio
per ridurre al minimo queste situazioni.
Il paragone con il carcere mi viene spontaneo. Negli istituti penitenziari, esiste un sistema di regole condivise e stabili e sono previste delle attività volte a riabilitare la persona.
Nei CIE, invece, non esistono spazi formativi:
il tempo sembra sospeso e l’incertezza e l’instabilità regnano su ogni aspetto della vita
quotidiana.
In carcere le regole sono chiare: ad ogni azione corrisponde una reazione, ad ogni scelta, una
conseguenza. Qui, al contrario, se un migrante
danneggia qualcosa, viene denunciato. E poi?
Niente, continua a restare nel CIE.
E i migranti che si comportano bene, ottengono
qualche agevolazione? No, nessuna.
Non c’è alcuna differenza di trattamento tra chi
non crea mai problemi e chi invece si comporta
come se non avesse nulla da perdere.
Che bilancio riesci a fare del tuo lavoro qua
dentro?
Quando ho accettato di diventare direttore di
questo CIE, provenivo da un’esperienza di assistente sociale. Pensavo di riuscire a cambiare
qualcosa, anche all’interno di un quadro così
restrittivo. Dopo due anni e mezzo di direzione,
mi rendo conto di non avere ancora raggiunto la
distanza giusta per osservare le cose. Ci sono costantemente decisioni da prendere - e scomode
- perché hanno grandi conseguenze sulle vite già
infragilite delle persone costrette a vivere qui. Fin
quando le norme resteranno queste, ho seri dubbi che l’esistenza dei trattenuti in un CIE possa
avere qualche miglioramento.
Il “centralino telefonico” è l’unico strumento per avere un contatto con l’esterno
Salvo Tomarchio
SQM|21
?
Perché (non) gestire servizi alla persona all’interno dei CIE?
Serena Naldini
OPINIONI
CONFRONTO
Nome
Cognome
Organizzazione
Nome
Antonio
Cognome
Calvano
Gian Giacomo
Parigini
ARCI Torino
Organizzazione
Croce Rossa Italiana - Piemonte
Torino
C
he cosa replica a coloro che forniscono servizi alla persona all’interno dei CIE, ritenendo che qualsiasi persona - soprattutto se
costretta in un luogo che non ha scelto - abbia diritto al sostegno
di operatori sociali?
I CIE sono luoghi di reclusione per persone che non hanno commesso reati. Si può rimanere
rinchiusi per 18 mesi, un periodo lunghissimo per una persona che ha commesso solo un illecito
amministrativo, che ha l’unica colpa di non avere documenti in regola. In Italia 18 mesi di detenzione sono normalmente frutto di un reato grave. I reati leggeri si traducono - giustamente a
nostro parere - in pene alternative al carcere.
Mentre nelle prigioni ci sono procedure consolidate per la tutela dei diritti delle persone,
pur con molti limiti e contraddizioni e i detenuti possono accedere, almeno in teoria, a una
serie di percorsi che ne attenuano la durezza, i CIE sono al di fuori dal controllo della società
e del territorio. Sono luoghi in cui viene messa in atto una vera e propria persecuzione e un
trattamento disumano e degradante.
Sul piano giuridico nei CIE le persone dovrebbero essere trattenute per il tempo necessario a organizzare il loro rimpatrio. I dati dimostrano che il rimpatrio, se non
si attua nei primi 20 giorni, diventa pressoché impossibile. Peraltro negli ultimi anni i rimpatri
forzati sono diminuiti, nonostante il prolungamento del periodo di trattenimento, e forse anche in ragione di questo. Infatti, i posti a disposizione sono 1200 circa in tutta Italia: se sono
occupati dalle stesse persone per un periodo superiore, l’aritmetica spiega che vi sono meno
possibilità di prima di rimandarne a casa un numero maggiore.
Il costo sociale è altissimo perché spesso si tratta di quella che i francesi chiamano“doppia pena”.
La maggioranza di coloro che vengono trattenuti nei CIE sono persone che hanno scontato una
pena in carcere. Se lo stato non è riuscito a definire la loro nazionalità nel periodo del carcere o
a concordare il rimpatrio con il paese d’origine, non si capisce perché debba riuscire a farlo nei
18 mesi della detenzione nei CIE. Questo periodo viene quindi a configurarsi come una proroga
22| SQM
C
he cosa replica a coloro che sostengono che operare all’interno dei CIE significa legittimare l’esistenza di luoghi nei quali non
vengono rispettati i più elementari diritti umani o, come sostiene
Giuliano Amato in una recente intervista a La Repubblica, di una “prigione
per reietti, nella quale non valgono le garanzie”?
Credo che la domanda possa essere assolta a partire dalla natura e dagli scopi di ogni associazione. E in questo senso parlo per la CRI, di cui faccio parte.
Esiste una questione sempre aperta, che costituisce un punto di forza per la CRI e per i vulnerabili da
essa assistiti, ma che ha lo svantaggio di appannare spesso la sua immagine presso il largo pubblico.
È la questione, ammetto, delicata della neutralità. Secondo questo principio la CRI deve astenersi dal
prendere posizione in conflitti, o anche solo contrasti, di tipo ideologico, politico o di altra natura, sempre avendo quale unico riferimento la salvaguardia dell’uomo e la tutela della sua dignità.
Occorre denunciare, sollecitare interventi, chiedere cambiamenti di norme,
ma nel frattempo, occorre essere accanto a chi si trova, in quell’istante, in difficoltà. Alla CRI, spetta questo secondo compito. Essa lascia il primo, altrettanto importante, ad
altre organizzazioni.
Questa lunga premessa per venire al tema dei CIE. Operarvi significa legittimarli? No, con tutta
evidenza. La CRI si deve astenere per statuto sulla questione, ideologica e politica, se i centri di
questo tipo debbano o meno avere legittimazione sul piano normativo. Gli operatori della CRI
hanno ovviamente una loro opinione sul punto, ma essi sono tenuti ad atteggiarsi nel rispetto del
principio di neutralità. Ecco il punto delicato, che spesso richiede sforzi importanti a ciascuno di noi.
È sempre difficile far tacere la propria opinione. Ma appartenere alla CRI significa anche questo.
La CRI non è nuova a contestazioni di questo tipo. Nel corso degli anni Sessanta si propose una
questione analoga, che mise il Sodalizio in qualche difficoltà, al punto che esso dovette trarre la
forza per darsi quelli che oggi si chiamano i “sette princìpi”, dei quali ho citato la neutralità. Si disse
allora che, poiché la CRI organizzava persone e strutture per intervenire nei conflitti armati a so-
OPINIONI
CONFRONTO
della pena, in un luogo in cui si hanno meno diritti. La presenza di questi luoghi di detenzione
speciale produce una rappresentazione negativa dell’immigrazione: la necessità e la presenza di
carceri speciali rafforza infatti l’idea, purtroppo molto diffusa, che gli stranieri devono essere più
controllati degli italiani, che sono strutturalmente pericolosi.
Per queste ragioni, noi pensiamo che i CIE vadano chiusi e che questa possa essere una scelta
in coerenza con il principio di uguaglianza contenuto nell’art.3 della nostra Costituzione. Ancora
più rilevante in questo senso è il principio contenuto nell’art.13 della Costituzione, la cosiddetta
riserva giurisdizionale, laddove si dice che “la libertà personale è inviolabile”. La si può limitare solo
attraverso “l’intervento dell’autorità giudiziaria nei casi previsti dalla legge”. In questo caso non c’è
alcuna condanna di alcun tribunale, ma solo una convalida del giudice di pace, autorità che non
interviene in nessun altro caso sulla libertà delle persone. La Corte Costituzionale ha convalidato
la coerenza di queste strutture con la nostra Costituzione, ribadendo tuttavia che il ricorso ad esse
deve essere limitato a casi eccezionali e limitati nel tempo. Queste caratteristiche sono oramai
chiaramente superate e - ancor più dopo l’approvazione della cosiddetta Bossi Fini - i CIE sono
luoghi fuori legge, e comunque al di sotto di qualsiasi standard accettabile per una democrazia.
Quali sono le azioni che l’ARCI sta portando avanti dirette alla
chiusura dei CIE?
L’ARCI denuncia l’assoluta insostenibilità di questi luoghi fin dalla loro nascita, nel 1998, con
l’approvazione della legge Turco-Napolitano, sia sul piano giuridico, del diritto, che su quello
culturale e sociale. Abbiamo promosso campagne nazionali e internazionali per la chiusura
dei centri di detenzione. Siamo intervenuti molte volte anche promuovendo azioni giudiziarie
sulla gestione dei centri e sulla loro strutturale mancanza di garanzie.
Il nostro numero verde SOS Diritti riceve tante telefonate di denuncia dei soprusi che subiscono i detenuti, che si traducono in interventi dei nostri operatori
e/o avvocati.
Abbiamo realizzato pubblicazioni e analisi molto dettagliate su quanto succede in questi
luoghi di negazione del diritto (ricordiamo un numero monotematico della rivista Carta dal
titolo “CPT: Chiuderli Presto Tutti!”). Attualmente stiamo preparando un’azione giudiziaria per
provare a dimostrare ancora una volta l’incostituzionalità dei CIE partendo da un’analisi diversa
da quella usata finora sul piano giuridico. Infine, anche quest’anno, partecipiamo alla campagna europea Open Access per chiedere l’accesso alle organizzazioni indipendenti.
Per evitare l’uso dei CIE, vi sono a suo avviso delle strutture o servizi
alternativi che andrebbero creati o rinforzati?
I CIE dovrebbero essere chiusi e la loro esistenza non può essere giustificata con l’assenza di
un’alternativa. Sarebbe come dire che, in assenza di una soluzione per eliminare gli omicidi,
non si può cancellare la pena di morte.
La cosiddetta direttiva rimpatri - che abbiamo contrastato perché per la prima volta introduceva in una legge europea la possibilità di detenzione ai fini dell’espulsione fino a 18 mesi
– prevede, sì, il ricorso alla detenzione amministrativa, ma solo come soluzione limite. In tutti
gli altri casi suggerisce soluzioni alternative, commisurate alle diverse condizioni delle persone
oggetto dei provvedimenti. Prevede innanzitutto il rimpatrio volontario, ossia una forma di
collaborazione da parte dello straniero irregolare che deve ovviamente prevedere una contropartita in termini di possibilità di rientro nel paese di arrivo o di contributi per il rientro nel
paese d’origine. Si può poi passare a forme di controllo meno pesanti e progressive, come, ad
esempio, l’obbligo di rimanere in una determinata area.
Prima dell’entrata in vigore della Bossi-Fini, la previsione di allontanamento senza divieto di
reingresso, molto usata dai questori, ha consentito il rimpatrio di migliaia di persone: più del
60% delle persone che hanno ricevuto l’ordine di allontanamento del questore, hanno risposto
positivamente, tornando nel paese d’origine.
A ciò dovrebbe anche corrispondere una riforma della legislazione sull’immigrazione che
introduca il permesso di soggiorno per ricerca di lavoro e la possibilità di convertire i permessi
di soggiorno brevi in permessi per lavoro, qualora ce ne siano le condizioni. Ciò abbatterebbe
drasticamente il numero di persone senza permesso e quindi renderebbe ancor più inutili - di
quanto non siano già in questa condizione - i CIE.
stegno dei feriti e delle popolazioni coinvolte, essa, così comportandosi, legittimasse la guerra. È
sempre lo stesso tema: farsi coinvolgere equivale a legittimare? Ma chi non vede, oggi, gli evidenti
limiti di una simile conclusione? Come qualsiasi organizzazione umanitaria, la CRI ha in massimo
spregio qualsiasi condizione suscettibile di sottoporre l’uomo alla sofferenza. La guerra, prima di
ogni altra cosa. E poi la malattia, la povertà, la discriminazione, l’assoggettamento e ogni altra
condizione che veda l’uomo piegato. Quanto alle leggi, la CRI si astiene dal giudicarle, nella misura
in cui questa astensione le consente di operare a favore di chi soffre. L’idea che astenendosi
dalla gestione dei CIE si superino i CIE ha qualcosa di simile a quella, di molti
anni fa, secondo la quale la CRI, inviando contingenti umanitari in caso di guerra, ostacolava il superamento della guerra.
In entrambe le situazioni - questo è il solo elemento accomunante - vi sono persone vulnerabili
ed è compito della CRI prendersi cura di loro. La gestione dei CIE è una via per raggiungere tale
scopo, senza che ciò legittimi alcunché.
Quanto all’osservazione di Amato, come non condividerla? Che il CIE sia un luogo di restrizione
della libertà di movimento è appena evidente. Che coloro che vi si trovano siano assai spesso dei
reietti, in senso etimologico, è altrettanto amaramente vero.
Quanto alle garanzie, occorre capire a quali si fa riferimento. Non vale per Amato, che è persona
rispettabile, ma occorre dire in generale che la crudezza dei termini non vale molto se non è associata a un’effettiva azione volta al cambiamento. La politica e le istituzioni hanno deciso i CIE e potranno deciderne la chiusura. Finché ci saranno, la CRI e le altre organizzazioni che vi operano non
sono lì a nobilitare i CIE, bensì a lavorare affinché i servizi alla persona siano gestiti secondo principi
di dignità e umanità. Certo che è molto difficile farlo in un contesto in cui, oltre alle contestazioni
ideologiche, vi è anche l’ostilità delle persone accolte, che vivono la legge come profondamente
ingiusta o assurda. Ma che sia molto difficile non è un buon motivo per sfilarsi.
Come descriverebbe le attività della Croce Rossa all’interno dei CIE?
La CRI si occupa dei servizi alla persona con la professionalità che le deriva dalla lunga esperienza conseguita in contesti difficili, in applicazione dei principi che le sono propri, in una situazione resa complessa dalle obiettive condizioni di difficoltà in cui si trovano le persone accolte.
Gli operatori e le operatrici sono preparati, ma non infallibili. Essi possono compiere errori, come
tutti, piccoli e grandi, ogni giorno. Ma l’appartenenza a un Sodalizio con valori identitari così
forti e radicati, pur non potendo costituire una garanzia assoluta di corretto operato, è una forte
tutela contro comportamenti e atteggiamenti censurabili. Deve essere chiaro che quanto vale
per la CRI, vale per altri operatori altrettanto capaci e attenti al dato umanitario. Nessuno in
questo campo deve ritenere di avere la palma del migliore.
Ritiene che l’ente gestore possa avere un ruolo per migliorare le condizioni di vita delle persone nei centri? Se sì, a suo avviso, in che direzione
andrebbe diretta l’azione di riforma e con quali strumenti?
L’ente gestore è al centro di questa possibilità. Ma deve tenere presenti due punti essenziali.
Da un lato, non deve mai smettere di pensare a iniziative finalizzate a rendere meno difficile la
vita delle persone nei CIE. Dall’altro, deve evitare la tentazione di convincerle che la loro rabbia
sia immotivata. Da molto tempo ormai non mi occupo più del CIE, ma ricordo bene come in
tante occasioni all’entusiasmo di aver creato qualcosa di importante, in termini di attività e
partecipazione, subentra la frustazione di verificare che una fase di protesta, o di rivolta, ha
spento tutto e occorre ricominciare per tentare di ricreare quel minimo di rapporti essenziale
per una gestione accettabile delle strutture. Bene, la chiave non sta solo nelle attività. Non si
può pretendere che le persone siano felici della loro condizione.
Molte si trovano in un CIE con la consapevolezza di aver ricevuto un rifiuto da parte di uno
Stato dal quale speravano di ricevere accoglienza. Provano il dolore, acuto, che può dare la
sensazione del fallimento di un progetto di vita. L’atteggiamento del personale può e deve far
passare il seguente concetto in tanti modi, senza necessariamente esplicitarlo letteralmente:
“io non so se è giusto o no che Tu sia qui dentro, ma sono qua a fare la mia parte perché Tu non
sia e non Ti senta solo e perché i Tuoi diritti fondamentali, pur in una condizione di restrizione
prevista dalle leggi, siano conservati e rispettati.”
SQM|23
2011
Il futuro passa da qui
manifesto per un
pacchetto integrazione
2012
Proposta
DI RIFORMA DELLE MISURE DI CONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ
CIE
dintorni
la speranza è frutto di
fatica e coraggio
Mauro Maurino
Antonio Ragonesi
24| SQM
Proposta
DI RIFORMA DELLE MISURE DI CONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ
Premessa
N
ell’immaginario collettivo i
Centri di Identificazione ed
Espulsione (CIE) sembrano
essere gli unici luoghi in cui
si pratica la lotta alla clandestinità. Questo vale sia per coloro che li vorrebbero
abbattere, sia per coloro che invece continuano a chiedere con decisione politiche di ordine e rigore contro i migranti
irregolari.
Questa visione, però, non corrisponde
alla realtà. In effetti, dei circa 544 mila
stranieri irregolari presenti in Italia nel
2010 (Rapporto Caritas 2011) - di cui
circa 47 mila sono stati fermati dalle
forze dell’ordine (European Migration
Network) - solo 7039 (pari all’1,2% del
totale degli irregolari) sono transitati dai
CIE (Rapporto Caritas 2011).
La lotta alla clandestinità, inoltre, non
si fa solo utilizzando lo strumento del
rimpatrio: fanno parte di questo impegno anche le politiche volte a rendere
meno precaria la situazione degli stranieri in Italia affinché un numero sempre inferiore di essi entri o semplicemente lambisca la sfera dell’irregolarità.
In ogni caso, la situazione attuale dei
CIE in Italia non è più sostenibile. Nel
2012 la Commissione Diritti Umani del
Senato ha pubblicato un rapporto in cui
definisce le condizioni di internamento
nei CIE “peggiori di quelle delle carceri”. Pur essendo stato introdotto nel
2008 uno schema di capitolato di appalto comune per la gestione dei centri, in
realtà la Commissione ha rilevato ancora
molta disomogeneità nella qualità dei
servizi erogati, determinata nel dettaglio
“dal tipo di convenzione stipulata tra le
singole Prefetture e gli enti gestori del
servizio, sulla base delle risorse disponibili e della capienza del centro.” Una
delle criticità più evidenti è la convivenza nei CIE di persone con storie molto
diverse alle spalle: vittime di tratta, ex
detenuti, individui in fuga dalla povertà,
lavoratori in nero, migranti che hanno
perso un lavoro regolare, persone con
una famiglia e una vita in Italia, persone
appena arrivate. Come denunciato, tra
gli altri, da Medici senza Frontiere, sono
luoghi dove “si intrecciano in condizioni di detenzione storie di fragilità estremamente eterogenee tra loro da un punto di vista sanitario, giuridico, sociale e
umano, a cui corrispondono esigenze
molto diversificate”.
A fianco di queste considerazioni, occorre ricordare che per essere strutture,
come specificato sul sito del Ministero
dell’Interno, finalizzate ad “evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul
territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle Forze dell’Ordine,
dei provvedimenti di espulsioni emessi
nei confronti degli irregolari”, la loro
efficacia è tutta da dimostrare: dei 7039
migranti transitati dai CIE nel 2010 solo
circa il 50% è stato effettivamente espulso, una cifra pari allo 0,6% degli irregolari (Rapporto Caritas 2011). Nel 2011,
il numero dei migranti rimpatriati attraverso i CIE rappresenta l’1,2% del totale
degli immigrati in condizioni di irregolarità presenti sul territorio italiano (326
mila, dato ISMU al 01/01/2012). Nel
2012, si confermano dati analoghi, con
rimpatri effettuati per poco più dell’1%
degli irregolari.
A fronte di questa scarsissima efficacia
materiale, i costi anche economici - oltre
che umani - sono molto elevati. Secondo il rapporto della Commissione Diritti
Umani del Senato, l’Italia negli ultimi
cinque anni ha speso oltre cento milioni
di euro per rimpatriare poche migliaia
di cittadini stranieri. Per ogni cittadino
straniero rimpatriato, vengono pagati
5 biglietti aerei: quello dello straniero e
quelli di andata e ritorno per i due agenti
che lo scortano, che devono anche ricevere una formazione specifica e continui
aggiornamenti.
A questa spesa, si vanno a sommare i
costi di costruzione e gestione dei servizi
nei CIE.
Da uno studio sul CIE di Torino effettuato nel 2011 da alcuni ricercatori
dell’International University College of
Turin, emerge che l’ampliamento del
2009 ha avuto un costo di 14 milioni
(78 mila euro a posto letto).
Elevati anche i costi di gestione dei servizi all’interno dei centri: lo stesso studio
rileva che per ogni migrante trattenuto
nel 2011 è stata spesa una somma di
40/45 euro al giorno, oltre 1.200 al
mese, escluse i costi per la sorveglianza
delle forze dell’ordine. In un anno, in
Italia, si sono spesi 18 milioni e 607mila
euro (dati aggiornati a febbraio 2012).
E certamente la chiave per risparmiare
non è quella delle gare al massimo ribasso, deleterie per la qualità dei servizi
all’interno dei CIE, già non sempre di
standard elevato.
Tutto ciò premesso, riteniamo urgente
un cambiamento radicale basato principalmente su tre assi d’intervento:
LEGITTIMARE LA DISCUSSIONE
La prima riguarda la dimensione
culturale. Deve essere innanzitutto
legittimata la discussione intorno
a questi luoghi e alle ragioni che li
hanno determinati e trasformati nel
tempo.
DIMINUIRE GLI INGRESSI NEI CIE
La seconda concerne un sistema di
riforme delle politiche migratorie
destinate ad aumentare per i migranti
le occasioni di condurre una vita
regolare, nella legalità, in Italia e
limitare nettamente gli ingressi nei
CIE, molto spesso legati a tortuose
procedure amministrative.
MODIFICARE LA GESTIONE
La terza è direttamente relativa ai
CIE e prende in esame una serie di
modifiche alla gestione di queste vere
e proprie carceri amministrative.
I
Legittimare la
discussione
Oggi in Italia la discussione sui CIE si
limita al tutto o nulla. Le notizie hanno il
sapore dello scandalo oppure del silenzio
omertoso. Viviamo in un dibattito surreale tra denuncia e reticenza e, nel mezzo,
il vuoto.
I CIE sono strutture da abbattere o, al
contrario, da moltiplicare e diffondere?
Devono mantenere i cancelli aperti o addirittura prevedere recinzioni elettrificaSQM|25
Proposta
DI RIFORMA DELLE MISURE DI CONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ
te? Le posizioni polarizzate e diametralmente opposte sul tema non permettono
una riflessione ponderata indispensabile
per rendere fertile la discussione.
Ma è più che mai necessario aprire uno
spazio per il confronto, uno spazio per la
costruzione.
I paesi di provenienza vengono interpellati per chiedere la loro collaborazione nell’identificazione del malcapitato?
Forse oggi, dopo la primavera araba, è
arrivato il momento di interrogare i diversi governi sulle proprie responsabilità
e l’Italia deve favorire questo processo,
tenendo sempre conto del supremo interesse che esprime la persona umana.
I CIE non sono fabbriche di “espulsi”
dalla società, reietti che non hanno né
patria, né futuro. Chi entra in un CIE
per essere identificato deve avere la possibilità di scegliere quale strada intenda
intraprendere. Deve quindi essere possibile uscire da un CIE anche senza l’espulsione in tasca. Diventa urgente una
riforma copernicana della gestione di
questi centri che permetta innanzitutto
ai Prefetti e ai Questori di utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione per
consentire il riavvio di progetti migratori spezzati dopo l’ingresso nel sistema
della detenzione amministrativa. Se, al
contrario, i CIE continuassero a essere
identificati come l’ultimo miglio prima
della fine, l’anello conclusivo di un girone infernale, questo significherebbe
la sconfitta culturale, civile e morale di
un grande paese, impotente di fronte a
qualcosa che non riesce a gestire.
Tutti gli attori che partecipano all’istituzione, alla direzione, alla gestione di
questo sistema di detenzione amministrativa sono certamente in possesso di
una parte di soluzione all’impasse, ma
nelle condizioni attuali della discussione
sembra più prudente tacere che rischiare
di enunciare una qualsivoglia affermazione, esponendosi così ad attacchi da
più fronti in qualità di temibili aguzzìni
oppure di impenitenti buonisti. Gli enti
gestori dei CIE, additati in alcuni ambienti - anche istituzionali - come coloro che fanno business sulla pelle dei
migranti, possono spesso esprimere più
di un’idea su questi luoghi nei quali,
non di rado, oltre a gestire un appalto
afferente alla loro mission aziendale, si
26| SQM
interrogano ed elaborano proposte che
vanno oltre la mera erogazione del servizio richiesta dalla convenzione con la
Prefettura di turno.
ii
Diminuire gli
ingressi nei CIE
A) Proteggere la regolarità
In Italia, troppe persone avviano in
modo regolare il loro progetto migratorio di studio o di lavoro, per poi scivolare
nell’area dell’irregolarità. Già nel 2007
la commissione De Mistura, voluta
dall’allora ministro dell’interno Amato,
annotava nel proprio rapporto “la presenza rilevante nei CPTA [attuali CIE]
di stranieri che erano stati regolari e il
cui permesso di soggiorno non è stato
più rinnovato in mancanza degli stringenti requisiti reddituali ed abitativi
previsti dalla legge (irregolari di ritorno/overstayers); colpisce in particolare
che sovente trattasi di persone aventi alle
spalle periodi anche molto lunghi (superiori al decennio) di presenza continuativa in Italia.”
Nel biennio 2008-2010, per gli effetti
della crisi economica, il tasso di disoccupazione degli stranieri è cresciuto del
73% contro il 32% degli italiani (dati
Dossier Statistico Immigrazione 2012).
Gli effetti della crisi, seppur riguardino
tutti, per un migrante in possesso di un
permesso di soggiorno legato a un contratto di lavoro, sono più complessi, perché investono l’intero progetto di vita.
Inoltre, i migranti sono inevitabilmente
più fragili, poiché impiegati in settori
più esposti alle fluttuazioni economiche,
spesso assunti con contratti a termine e
meno protetti da ammortizzatori sociali
e familiari.
Per intervenire sulle cause di questo
circolo vizioso, occorre ipotizzare una serie di interventi nell’ambito di un sistema di politiche di welfare ad hoc rivolte
a queste categorie di persone, teso a evitare il fallimento dei progetti migratori
e a permettere un accompagnamento a
fronte di un temporaneo insuccesso.
Alcuni esempi.
- Se oggi vi è un discreto numero di
studenti stranieri che nel corso del primo anno di studi non riescono a inserirsi
e a superare l’ostacolo del primo esame
in italiano, potrebbe essere utile e conveniente strutturare servizi di supporto agli
studenti del primo anno finanziati attraverso una piccola quota aggiuntiva sulle
tasse universitarie. Considerando che gli
studenti universitari stranieri sono circa
64.000, con un contributo di 10 euro al
mese sarebbe possibile mettere a disposizione degli studenti servizi di supporto
per un totale di oltre 7,5 milioni di euro.
- Per i lavoratori migranti potrebbe es-
Proposta
DI RIFORMA DELLE MISURE DI CONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ
sere organizzata una cassa mutua in cui
conferire contributi capaci di dare un
reddito per un certo periodo di tempo riconosciuto dallo stato italiano ai fini
del rinnovo del permesso di soggiorno - a
chi perde il lavoro per ragioni indipendenti da se stesso.
La costruzione di tratti di welfare dedicato agli stranieri è una delle conquiste
di civiltà capaci di portare ricchezza agli
italiani. L’attrattività esercitata dall’Italia sugli studenti universitari rappresenta un investimento sul futuro delle
relazioni con altri paesi, sulla possibile
costruzione di reti commerciali e apertura di nuovi mercati.
presenza di ex detenuti nei centri di trattenimento amministrativo finisce per
penalizzare - come osservava nel 2007
la sopracitata Commissione De Mistura - “gli stranieri a cui carico sussistono
solo provvedimenti di allontanamento
conseguenti alla perdita di regolarità di
soggiorno, nonché persone più deboli e
vulnerabili che sono esposte ad un clima
di costante tensione e potenziale intimidazione interna ai centri.”
Nello stesso anno, Amato e Mastella,
ministri dell’Interno e della Giustizia
del governo Prodi, hanno emanato una
circolare secondo la quale l’identificazione degli stranieri detenuti dovrebbe
avvenire durante la loro permanenza in
ficare radicalmente l’attuale situazione e
inaugurare una diversa gestione dei centri stessi, liberati dalle tensioni generate
da un simile paradosso.
III
Modificare
la gestione
A. Dare speranza
Nei CIE non sono previste attività formative o lavorative che facciano riferimento a un “fuori”, a un “dopo”, come
se le persone, una volta uscite dall’Italia
- se espulse - non continuassero ad ave-
B. Moltiplicare le opportunità di
emersione dall’irregolarità
È necessario identificare canali strutturali che permettano l’emersione dall’irregolarità, andando oltre lo strumento
della sanatoria. Citiamo, ad esempio, la
regolarizzazione del migrante in presenza di un’azienda o di una famiglia
che esprima l’intenzione di avviare un
contratto di lavoro con il migrante stesso oppure di fronte al progetto di avviare
un’impresa autonoma, la cui fattibilità
sia dimostrabile e giustifichi l’apertura
di una attività presso la Camera di Commercio.
C. Avviare l’identificazione dei
detenuti in carcere
Gli ex carcerati vivono assieme a categorie di persone molto differenti: lavoratori stranieri che hanno perso l’impiego, migranti che hanno un impiego
irregolare, migranti senza fissa dimora,
migranti appena giunti sul territorio italiano. Circa il 60% dei migranti detenuti
nei CIE provengono dalle carceri italiane. Questo dato finisce per qualificare
la permanenza nel CIE come una sorta
di pena supplementare - che può durare fino ad un anno e mezzo - inflitta a
persone che hanno già pagato il proprio
conto con la giustizia. Inoltre, l’elevata
La barberia è uno dei pochi spazi autogestiti dai trattenuti
carcere e l’espulsione deve seguire la fine
della pena, senza passaggio dal CPT (attuale CIE). Dopo sei anni la direttiva è rimasta inapplicata e l’identificazione comincia da zero al momento del rilascio,
momento nel quale lo Stato Italiano dichiara che una persona già condannata
e detenuta risulta ancora da identificare.
Appare evidente che, se nelle carceri
non viene attuata l’identificazione nonostante la circolare Amato, esistono degli
impedimenti. Appare altrettanto evidente, però, che poco o nulla sembra essere
stato tentato sino ad ora per rimuoverli.
Riuscire a intervenire su questo aspetto
della questione consentirebbe di modi-
re una vita. Il giurista Paleologo definisce il trattenimento nei CIE una forma
di detenzione “afflittiva”, scollegata da
un reato, da finalità riabilitative e dallo scopo che esplicitamente si propone:
l’espulsione. Su questo ultimo punto, la
legge italiana non si è adeguata alla Direttiva Europea Rimpatri, che prevede il
trattenimento amministrativo solo se è
finalizzato al rimpatrio. La Commissione De Mistura, già citata sopra, nel 2007
aveva segnalato l’urgenza di modificare
l’approccio normativo, “riconducendo
l’espulsione alla sua natura di provvedimento necessario da applicarsi come
ultima ratio, laddove tutte le altre posSQM|27
Proposta
DI RIFORMA DELLE MISURE DI CONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ
sibilità di regolarizzare si siano rivelate
in concreto non possibili.” E proseguiva:
“L’efficacia dell’esecuzione coattiva degli allontanamenti (e pertanto la credibilità complessiva del sistema) risulta
infatti fortemente legata alla necessità di
ridurre tali provvedimenti ad un numero contenuto.”
Oggi, entrare in un CIE rappresenta
il punto di non ritorno di un progetto
migratorio. L’espulsione è quasi certa:
in alcuni casi si concretizza con il rimpatrio, in altri con la raccomandazione a
lasciare il paese e con l’avvio di una vita
precaria, priva di possibilità di regolarizzazione.
È importante smontare questo meccanismo, definendo una via d’uscita legittimata e condivisa che dia all’ente gestore dei servizi alla persona all’interno dei
CIE il potere di segnalare al Questore o al
Prefetto le situazioni che potrebbero avere una seconda opportunità, evitando di
restare incastrati nel limbo della espulsione amministrativa.
B. Dare un senso al tempo
costretto attraverso attività
Un tempo vuoto, scandito soltanto dai
pasti, dalle visite mediche e da poco altro caratterizza spesso il CIE. Un tempo
sospeso, un limbo in attesa del nulla. È
questa la caratteristica forse più triste di
questi luoghi in cui si fa fatica a dare senso al tempo che passa, poiché quasi nulla
è possibile fare.
Investire in attività formative e lavorative esattamente come avviene nella
maggior parte delle carceri italiane agevolerebbe per le persone i processi di elaborazione di quanto sta loro accadendo
e consentirebbe di dare un’orizzonte al
qui e ora, altrimenti difficile da scorgere.
Questa impostazione permetterebbe inoltre alle persone di imparare e di lavorare,
fornendo loro strumenti utili a un possibile rimpatrio come a un, più probabile,
rilascio con espulsione. O, ancora, a un rilascio con un permesso straordinario del
Prefetto in presenza, ad esempio, di un
percorso di apprendimento e reperimento di una risorsa lavorativa.
Il cambiamento radicale dell’approccio
comporta una rivisitazione dell’organizzazione quotidiana dei centri, che preveda maggiore libertà di movimento per gli
enti gestori e una relativa apertura delle
strutture verso l’esterno.
Tale trasformazione per le Prefetture
significa certamente un’assunzione di
rischio sin qui inedita, ma non più di
quanto lo siano le restrizioni alle libertà
personali degli “ospiti” in nome della
sicurezza. Il tempo vuoto, per citare nuovamente De Mistura, determina infatti
“una situazione di totale passività e inattività nella vita quotidiana e [contribuisce] in modo significativo ad innalzare la
tensione interna al centro. Tale tensione
costituisce spesso un motivo addotto per
l’adozione di ulteriori e maggiori restrizioni all’agibilità interna, producendo un
circuito negativo che si autoalimenta.”
C. Gli enti gestori devono avere
più coraggio
Le organizzazioni che gestiscono i servizi alla persona all’interno dei CIE non
di rado si fanno carico di restituire brandelli di senso al tempo che scorre nei
centri. L’azione è poco visibile, ma spesso
efficace.
La stagione dei miglioramenti sembra
essersi arrestata dopo l’allungamento a
18 mesi del tempo massimo di detenzione. Da quel momento il lavoro di promozione di un relativo agio è stato sostituito
da una silenziosa difesa di alcuni principi di rispetto dei diritti umani.
È arrivato il momento per riprendere a
lavorare sul miglioramento delle condizioni e, a tal fine, è necessario che gli enti
gestori mostrino più coraggio per affrontare il livello del confronto con le istituzioni locali e nazionali, uscendo dai limiti del cliché che li vede preparati solo a
mantenere lo status quo per contribuire,
invece, a proporre una radicale riforma
della detenzione amministrativa anche
grazie all’immenso bagaglio di esperienza e di originale attività di gestione quotidiana a contatto con i migranti.
La speranza, così come il senso del futuro in questi luoghi, non nascerà spontaneamente ma sarà il frutto della fatica
quotidiana, del coraggio di contraddire,
della sapienza dei piccoli passi che aprono un nuovo cammino.
Non forniamo più le difese di ufficio.
La petizione degli avvocati del Foro di Roma
Nello scorso mese di febbraio, in seguito a una rivolta nel CIE di Ponte Galeria (RM) che ha portato a nove arresti, gli avvocati del Foro di Roma sono
intervenuti con una petizione da presentare dinanzi al Consiglio dell’Ordine
degli avvocati allo scopo di ritirare la disponibilità a fornire difese di ufficio
per le convalide degli arresti nei CIE. Così, senza un legale, tali arresti
rischiano di non essere confermati. Il tono della lettera è durissimo: “La
drammatica situazione dei centri di identicazione ed espulsione di Ponte
28| SQM
Galeria pone a noi difensori la scelta di portare un contributo sostanziale.
L’invito ai colleghi è quello di “non prestare il loro nome e la loro
attività al procrastinarsi indecoroso della violazione della dignità
umana.” I penalisti sottolineano come questo dramma riguardi persone
già toccate da grandi difficoltà che vengono rinchiuse, in condizioni ancora
peggiori di quelle delle carceri, senza nulla da scontare, se non la propria
condizione di migranti sprovvisti di un valido permesso di soggiorno.
Proposta
DI RIFORMA DELLE MISURE DI CONTRASTO ALL’IRREGOLARITÀ
Non rispettano i diritti umani e sono inefficaci.
I CIE vanno superati.
Intervista telefonica ad Alberto Barbieri, Medici
per i diritti umani onlus (MEDU)
Arianna Cascelli
Di che cosa si occupa MEDU e perché avete scelto di monitorare i CIE? Medici per i diritti umani è organizzazione un’umanitaria il cui
obiettivo è portare aiuto sanitario alle popolazioni vulnerabili. Nel fare
questo, MEDU cerca anche di testimoniare i diritti umani e, nello
specifico, di denunciare gli ostacoli nell’accesso alle cure. A questo
aspetto è collegato il tema più ampio del rispetto dei diritti umani,
che sono indivisibili.
In riferimento alla situazione italiana, c’è un’attenzione particolare
verso i CPT, prima, i CIE adesso, perché rappresentano un buco nero
nell’ambito del rispetto dei diritti umani. È dal 2004 che, per queste
ragioni, abbiamo avviato un osservatorio sui CIE per monitorare la
tutela dei diritti umani nelle strutture. Quest’anno il monitoraggio
è stato svolto su ampia scala e verso la fine del mese di aprile è
prevista l’uscita del rapporto nazionale.
Quali criticità comporta per la garanzia del diritto alla salute l’istituto del trattenimento e la permanenza nelle strutture a ciò dedicate?
I problemi sono moltissimi e collegati tra loro.
Tra i principali c’è sicuramente “l’extraterritorialità sanitaria” di cui
soffrono i CIE. Le ASL non hanno accesso all’interno delle strutture
e l’assistenza medica è offerta dal personale sanitario dell’ente gestore, che però offre soltanto l’assistenza di base. Anche l’accompagnamento ai servizi del territorio per eventuali visite specialistiche
è raro e spesso difficoltoso a causa della necessità di reperire la
scorta per ogni uscita.
Inoltre, le condizioni degradanti di permanenza inducono spesso
gravi disagi psichici, che vengono esternalizzati mediante atti violenti
contro la struttura e contro se stessi. Molti dei migranti trattenuti fanno uso di ansiolitici e moltissimi provengono dal carcere dove già ne
facevano uso. La mancanza di figure specialistiche incide quindi molto, soprattutto nel caso degli psichiatri per queste tipologie di disagio.
Un’altra caratteristica problematica tipica dei CIE è legata al fatto
che lì “salta” il rapporto medico-paziente: i medici partono sempre
dal presupposto che il paziente stia fingendo, i migranti lamentano
di non essere mai presi sul serio nel loro disagio. Il rapporto medicopaziente è basato sulla fiducia, che in quei contesti viene meno.
Che cosa dovrebbe cambiare?
Le nostre conclusioni definitive emergeranno dal rapporto che
stiamo elaborando, ma sostanzialmente crediamo che l’unica soluzione possibile sia una profonda riforma del sistema che porti al
superamento dei CIE. Per migliorare la tutela del diritto alla salute
si potrebbe, sin da ora, rafforzare il servizio psichiatrico all’interno
dei centri e garantire l’accesso alle ASL, migliorare il servizio di assistenza legale, etc. Ma sono le strutture stesse a essere inadatte
alla tutela del diritti umani delle persone. L’unica vera soluzione è il
cambiamento radicale del sistema e il loro superamento.
In una recente dichiarazione, avete affermato che i CIE, oltre a non garantire il rispetto dei diritti umani, sono istituti
inutili. Può fornirci dei dati in merito?
Ad esempio, nel 2012 in Italia c’erano circa 320.000 irregolari, di
cui nei CIE circa 8.000;. Di essi, solo la metà sono stati espulsi. Si
tratta di poco più dell’1%, a testimonianza del fatto che il sistema
attuale costringe a costi umani altissimi, a fronte di una profonda
inefficienza materiale.
il sistema?
inefficace e costoso
2010
544 mila stranieri irregolari
47 mila fermati dalle forze dell’ordine
7039 di essi transitati dai CIE (pari all’1,2% del totale degli irregolari)
circa il 50% di questi è stato espulso (0,6% degli irregolari).
2011
326 mila stranieri irregolari
circa l’1,2% di questi è stato espulso attraverso i CIE.
2012
320 mila stranieri irregolari
poco più dell’1% di questi è stato espulso attraverso i CIE.
Nel quinquennio 2007-2012, l’Italia ha speso oltre 100 milioni di
euro per rimpatriare poche migliaia di cittadini stranieri.
1 rimpatrio costa allo stato italiano 5 biglietti aerei (1 per il migrante,
2 di andata/ritorno per i 2 agenti di scorta).
Gestione dei servizi in un anno si sono spesi 18 milioni e 607mila
euro (dati aggiornati a febbraio 2012), escluse le spese per la sorveglianza delle forze dell’ordine, quelle di gestione della struttura e
quelle per costruirla.
fonti: dossier statistico immigrazione 2011 - 2012, European Migration Network, ISMU
SQM|29
P re s s
& news
Emergenza conclusa?
A poco più di un mese dalla
chiusura i dubbi restano.
“L’emergenza Nordafrica si è conclusa con un editto da parte del
Governo, insomma nel peggiore
dei modi possibile”. Così dichiara
Orazio Micalizzi, presidente
della Fondazione Xenagos,
commentando la circolare del
ministero dell’Interno che dichiara chiusa l’emergenza dei profughi
arrivati in Italia dopo la ‘primavera araba’. “Durante questi mesi
– continua Micalizzi – il Governo
è sempre intervenuto in ritardo,
scaricando sui Comuni e sugli enti
gestori la responsabilità di affrontare una situazione emergenziale senza strumenti adeguati”.
“Purtroppo – aggiunge Salvatore
Ippolito, presidente del Comitato Scientifico di Xenagos - il
ministero ha ignorato gli appelli a
creare dei tavoli regionali coordinando istituzioni locali ed enti
gestori, capaci di fornire un supporto e un avvio all’integrazione.
Il tavolo di coordinamento istituzionale nazionale ha prodotto solo
dichiarazioni d’intenti, ritardando
la formulazione di un piano di
azione concreto’.
“L’esperienza di accoglienza
portata avanti con la concertazione della Protezione civile è di
gran lunga la più costosa di tutta
la storia del nostro Paese - spiega
Ippolito - con una spesa di oltre
un miliardo di euro che nella gran
parte dei casi è servita solo per
la fornitura di vitto e alloggio,
secondo un modello di accoglienza senza alcuna prospettiva di
integrazione. Adesso “nel giro di
pochi giorni, si è chiesto agli enti
gestori di chiudere l’emergenza
Nordafrica e di mettere fuori dalla
porta oltre 15.000 persone. Con
una circolare il Dipartimento per
l’Immigrazione ha ordinato alle
Prefetture di approntare, entro
il 28 febbraio, i titoli di viaggio
per i profughi, cioè il documento
che, in assenza di passaporto, può
consentire la libera circolazione
in Italia, e soprattutto quelle che
vengono definite ‘misure per favorire percorsi di uscita’. E dunque
rimpatri volontari e assistiti e una
buonuscita di 500 euro a testa”.
“Migliaia di persone sono uscite
dall’accoglienza, senza prospettive. Non è difficile prevedere i
problemi di ordine pubblico e le
negative ricadute sociali che gli
enti locali saranno chiamati ad
Salvo Tomarchio
30| SQM
affrontare. I percorsi formativi, di
inserimento lavorativo e di integrazione sono stati bruscamente
interrotti, in molti casi a poche
settimane dal conseguimento del
l’obiettivo del titolo di studio.”
“Mentre non è chiaro cosa accadrà ai vulnerabili è nota la
gravità della situazione in cui si
troveranno i soggetti ‘fragili’: i
tanti individui non formalmente
riconosciuti come vulnerabili ma
che si trovano in situazione di
oggettiva difficoltà, come nel caso
dei minori, di bambini, spesso
neonati, con entrambi i genitori
che si troveranno espulsi dall’accoglienza. ‘Facciamo appello –
conclude Mauro Maurino, del
Cda della Fondazione Xenagos - agli enti gestori più radicati
sul territorio e soprattutto alle
reti delle cooperative sociali di
sperimentare modelli alternativi
di uscita dall’emergenza, richiamiamo alla loro responsabilità le
amministrazioni locali e regionali
e pretendendiamo una rettifica
alla direttiva ministeriale”.
P r e s s & news
Breve cronistoria dell’Emergenza Nordafrica
a cura di Salvo Tomarchio
2011
2012
2013
- Con DPCM del 12 febbraio 2011 è
stato dichiarato lo stato di emergenza umanitaria nel territorio
nazionale per l’eccezionale afflusso
di cittadini provenienti dal Nord
Africa (lo stesso verrà poi prorogato al 31 dicembre 2012, con DPCM
del 6 ottobre 2011).
- Con DPCM del 7 aprile 2011 viene
dichiarato lo stato di emergenza
umanitaria nel territorio del Nord
Africa per consentire un efficace
contrasto all’eccezionale afflusso
di cittadini extracomunitari nel
territorio nazionale.
Il 3 agosto un nuovo DPCM estende
la dichiarazione dello stato di emergenza ad altri Paesi del continente
africano.
- Il 12 aprile 2011 un Piano per
l’accoglienza dei migranti e con
Ordinanza n. 3933 del Presidente del Consiglio dei Ministri, si
affidava l’attuazione dello stesso
alla Protezione civile. Le misure
di accoglienza predisposte dalla
Protezione civile sono coordinate a
livello regionale. Con l’OPCM 3933
del 13 aprile, il Governo, effettuava
una prima assegnazione al Fondo
della Protezione Civile.
- Il 3 agosto un nuovo DPCM estende la dichiarazione dello stato di
emergenza ad altri Paesi del continente africano.
- Con DPCM del 6 ottobre 2011 viene prorogato al 31 dicembre 2012
lo stato di emergenza in relazione
all’eccezionale afflusso di cittadini
appartenenti al Nord Africa.
- Con il DPCM del 15 maggio
2012, sono prorogati i permessi
di soggiorno per motivi umanitari
a favore di cittadini nordafricani.
Il termine di sei mesi, di cui al
D.P.C.M. 5 aprile 2011, come prorogato dal D.P.C.M. 6 ottobre 2011,
relativo alla durata dei permessi
di soggiorno rilasciati per motivi
umanitari, è prorogato di ulteriori
sei mesi, alle medesime condizioni
di cui ai predetti D.P.C.M. e agli
oneri derivanti dalla sua attuazione si provvede a carico del Fondo
nazionale di Protezione Civile.
- L’ODPC n. 33 del 28 dicembre
2012 è finalizzata a regolare la
chiusura dello stato di emergenza
umanitaria e il rientro nella gestione ordinaria.
Il soggetto attuatore diventano le
prefetture territoriali, che sono i
soggetti responsabili per la gestione della fase di uscita dall’emergenza e prosecuzione in regime
ordinario delle iniziative finalizzate all’accoglienza e a favorire
i percorsi di uscita dal territorio
nazionale.
Si decide inoltre che le commissioni territoriali lavoreranno fino
al 30 giugno 2013 per espletare le
pratiche in corso.
- Il 18 febbraio 2013 la circolare n.
1424 a firma del capo dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione Angela Pria, dispone la
chiusura dell’emergenza Nordafrica. Tra le misure presenti spicca
all’ultimo punto l’argomento
“misure per favorire i percorsi di
uscita”.
Citando l’ODPC n. 33 del 28 dicembre 2012 il ministero ribadisce che
in relazione alle risorse disponibili
la fase ordinaria si concluderà il 28
febbraio, e prevede di “utilizzare
quale misura di uscita la corresponsione di € 500,00 pro capite”
per ogni ospite nei centri.
[...]
La lettura non finisce qui!
Consulta la rassegna stampa su:
www.storiediquestomondo.it/press
Quick Link
Gli stranieri Down non possono diventare italiani. Lo dice la legge
http://bit.ly/WyqzYY
(Linkiesta)
”Una detenzione peggiore del carcere” Giuliano Amato boccia i Cie
(Repubblica.it)
Ripensare il desolante sistema dei Centri di identificazione e espulsione
http://huff.to/16ICxE8
(Huffington Post Italia)
foto: repubblica.it
http://bit.ly/Zib9IH
SQM|31
P r e s s & news
Bibliografia
ragionata sui CIE e
sull’immigrazione
illegale
Giuristi ed esponenti politici,
medici e letterati. Il tema dei
CIE, toccando i nervi scoperti
della nostra società, ha attratto le più diverse attenzioni e
sensibilità, sia scientifiche sia
letterarie. In ambito accademico, la sociologia è la disciplina
che ha meglio connesso il tema
dei migranti irregolari con
quello del resto della comunità
nazionale.
Rilevante è la ricerca pubblicata nel 2008 da Sonia Paone
incentrata sul tema degli spazi
e dei luoghi di vita. Nel suo
Città in frantumi. Sicurezza, emergenza e produzione
dello spazio, (edizioni Franco
Angeli), la Paone inserisce i
CIE all’interno delle evoluzioni
avvenute negli ultimi decenni
nelle nostre città: luoghi in cui
le polarizzazioni sociali e spaziali hanno portato gruppi privilegiati a rinchiudersi, in nome
della sicurezza, in quartieri
sempre più blindati e sorvegliati e relegato i gruppi in declino sociale nelle periferie più
estreme. In questo contesto le
risposte spaziali date per arginare l’aumento della pressione
migratoria si sono concretizzate nei CIE che, materialmente
quanto simbolicamente, hanno
contribuito a ridurre ulteriormente lo “spazio pubblico”,
inteso come luogo di relazioni
democratiche e di rappresentazione di istanze valoriali.
Del 2004, ma ancora di stringente attualità, è il lavoro cura-
to da Luigi Maria Solivetti,
Immigrazione, integrazione
e crimine in Europa (edizioni
Il Mulino), nel quale, utilizzando dati e statistiche ufficiali,
si traccia un quadro esaustivo
delle relazioni che intercorrono
tra immigrazione, integrazione
e criminalità, elementi centrali
nel dibattito che sottende la
necessità (o meno) nel nostro
ordinamento dei CIE. La conclusione cui giunge Solivetti è
che “l’attuale espansione della
criminalità dei non-nazionali
sembra potere essere riportata
a un quadro caratterizzato non
solo e non tanto da disuguaglianza e deprivazione relativa
ma soprattutto da illegalità”
e che “la generosità economica verso i più deboli e più in
generale il rispetto dei diritti,
un clima di legalità diffusa, la
fiducia e l’apertura da parte
della società ospitante, sembrano aspetti rilevanti per il
contenimento della criminalità
dei non-nazionali”.
Una scrupolosa analisi della
qualità e della dinamica della
produzione legislativa in materia d’immigrazione nel contesto
italiano è quella realizzata da
Andrea Villa nel 2008 nel suo
Immigrazione: legislazione
italiana tra fonti del diritto
e rappresentazione sociale (edizioni Kimerik) in cui
emergono in tutta evidenza le
difficoltà incontrate dal potere
legislativo nel fornire “risposte giuridiche” a un fenomeno
estremamente complesso e che
necessita, per essere compreso,
di un approccio quanto meno
multifocale.
Accanto a questi lavori, vanno
Massimo Tornabene
32| SQM
segnalati gli studi e le inchieste
che dall’introduzione dei CPT
prima (1998) e dei CIE dopo
(2008) ne hanno descritto,
nel concreto, il funzionamento. Ancora utile, per un primo
orientamento, appare il rapporto curato da Luca Leone
per Medici senza frontiere nel
2005 (edizioni Sinnos), Centri
di permanenza temporanea e assistenza, anatomia
di un fallimento, in cui in
modo analitico sono analizzate
le condizioni strutturali dei
Centri allora presenti e delle
“deficienze estremamente gravi
e rilevanti” che ne caratterizzano il funzionamento.
Del marzo 2012 è invece il Rapporto sullo stato dei diritti
umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per
migranti in Italia a cura della
Commissione straordinaria per
la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, che per
le restrizioni subite accomuna
implicitamente i migranti trattenuti nei Cie a quelli detenuti
in carcere (reperibile su http://
bit.ly/YdGvFz).
Infine appare utile per dare
volti, nomi e storie agli uomini
trattenuti nei Cie la raccolta
di testimonianze curata dallo scrittore Marco Rovelli e
pubblicata da Bur nel 2006: il
titolo, Lager italiani, al momento della pubblicazione suscitò vivaci polemiche ma ebbe
il merito di riaprire il dibattito
sul problema della chiusura dei
centri nonché la questione dei
diritti umani nel loro nesso con
i diritti di cittadinanza.
Vol
Spécial
Durata: 100’
Anno di produzione: 2011
Produzione: climage
Regia: FERNAND MELGAR
gni anno, in Svizzera, migliaia di persone vengono incarcerate
perché senza permesso di soggiorno. Possono essere private
della libertà per un periodo di due anni in attesa dell’espulsione. Dopo il film La Forteresse (Pardo d’oro al Festival internazionale
del film Locarno), il regista Fernand Melgar ha trascorso nove mesi
nel centro di detenzione amministrativa di Frambois, a Ginevra, uno
dei 28 centri di espulsione per irregolari in Svizzera. Nel film Vol
Spécial - vincitore di numerosi premi e menzioni speciali - Melgar ha
raccontato la sua esperienza. Storie
di Questo Mondo l’ha intervistato.
O
Come è nata l’idea di Vol Spécial?
Durante il dibattito suscitato da La
Forteresse, sono stato colpito da
quanto il pubblico ignori le conseguenze drammatiche dell’irrigidimento delle leggi sull’asilo e sugli
stranieri. Il termine “richiedente
asilo” rappresentava un sinonimo
di “delinquente” e l’asilo consisteva in una forma di abuso del bene
sociale. Mi è sembrato urgente realizzare un film per mostrare la realtà misconosciuta della detenzione
amministrativa e dei rimpatri forzati. 150 mila sans papiers vivono in
Svizzera. La grande maggioranza
lavora, paga le tasse e i contributi
di previdenza sociale. Si occupa dei
nostri anziani, guarda i nostri bambini, pulisce appartamenti e ospedali. Senza di loro, numerosi alberghi
e cantieri chiuderebbero, privati
di manodopera a buon mercato.
Ma vivono con una spada di Damocle sulla testa: in ogni momento, possono essere arrestati, detenuti ed espulsi dalla Svizzera senza
processo. Quindi ho proseguito la riflessione avviata a Vallorbe, per
chiudere il cerchio aperto da La Forteresse. Per tentare di cogliere
meglio questo movimento oscillatorio tra speranza e disperazione
che caratterizza tanti destini migranti.
Ha conosciuto storie particolari di migranti durante le riprese del film?
Mi piacerebbe piuttosto raccontarle di un incontro che mi ha condotto a girare Vol Spécial. Durante le riprese de La Forteresse, ho fatto amicizia con
un giovane traduttore iracheno minacciato di morte. Subito dopo il diniego
della domanda di asilo, è stato arrestato per essere espulso. Facendogli
visita nel centro di detenzione di Frambois, ho scoperto la più profonda
angoscia umana che mi sia stato concesso di vedere in questo paese. Fahad mi ha parlato dei suoi compagni di
sventura: uomini innocenti annientati
dalla loro incarcerazione, padri strappati ai propri figli, clandestini sfruttati
per lavoro o giovani sull’orlo del suicidio, interrotti nella loro ricerca di una
vita migliore. Tutti erano trattati come
dei criminali, ma la loro unica colpa era
di non possedere un permesso di soggiorno. Alcuni restavano rinchiusi per
mesi poiché non c’era alcun accordo
di riammissione con il paese di origine.
Qualche tempo dopo, l’espulsione brutale di Fahad tramite volo speciale mi
ha scioccato. Una notte sei poliziotti di
Zurigo hanno fatto irruzione nella sua
cella per prenderlo e portarlo via.
Che cosa le ha lasciato Vol Spécial
come scoperta?
Dopo ogni partenza tramite volo speciale, abbiamo chiamato i rimpatriati
per sapere com’era andato il viaggio.
Ogni volta, le testimonianze erano
angoscianti. Non soltanto si sentivano
buttati via dalla Svizzera come sacchi
della spazzatura, ma erano tutti profondamente segnati da strascichi fisici
e psicologici legati alla deportazione. Alcuni si sono fatti arrestare o depredare al loro arrivo dai poliziotti del loro paese, talvolta sotto il naso dei
rappresentanti delle autorità svizzere. Abbiamo quindi deciso di continuare a seguirli e raccontare le loro vite dopo l’espulsione. Questi ritratti costituiscono l’oggetto di un documentario web co-prodotto da RTS e ARTE
disponibile a questo link: http://www.volspecial.ch/fr/webdoc/
Serena Naldini
SQM|33
studiotribbu.it
.it
www.fondazionexenagos.it