creature operaie - Libertà Edizioni

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creature operaie - Libertà Edizioni
LibertàEdizioni
Mauro Cicconetti
CREATURE OPERAIE
RACCONTI
LibertàEdizioni
A Filippo per l’amicizia
A Geltrude per l’amore
CREATURE OPERAIE
PROLOGO
Tutti coloro che cadono nella “rete” pensano sia per
poco, che certamente avranno dalla sorte altre possibilità, non finiranno di sicuro i loro giorni rinchiusi in un capannone freddo e fatiscente, a combattere contro tutti e contro tutto e che, in fondo,
l‟esperienza da operaio sarebbe stata uno sbiadito
ricordo di una vita radiosa costellata da successo e
benessere, utile al massimo come racconto notturno
per spaventare nipotini a caccia di streghe.
Permettetemi di dire che, purtroppo, le cose non
stanno esattamente così, infatti, nel momento preciso in cui si varca fisicamente il “grande cancello”,
cambia il corso della propria vita!
Il tempo e lo spazio come li si conosce, non saranno più misurabili con gli elementi che hanno sempre accompagnato la nostra vita.
Come la ruggine gratta il ferro, lo sfinisce, lo consuma, allo stesso modo la fabbrica ti prende, ti avvolge nella sua cortina di fumo impenetrabile, ti
droga quotidianamente con il suo tepore malato.
Ogni mattina il “grande cancello” si apre riproponendo sempre lo stesso copione di devastante apatia, poi ecco le grida strazianti di una povera sirena
spiaggiata che urla le sue tragiche ore, scandendo i
suoi rintocchi di morte.
Si entra al mattino con il buio, si esce la sera con le
tenebre che invadono tutto, sempre lì, pronte a divorare pensieri e sensazioni. Il rumore serafico del9
le serrature delle vetture dei poveri operai alla fine
del turno, fa scattare la combinazione della libertà,
la chiave di volta per tornare finalmente liberi di
respirare, liberi di annusare il profumo inebriante
delle proprie idee. Attenzione però, perché presto
sarà nuovamente l‟alba, tutto ricomincerà e sarete
ricacciati nelle vostre fabbriche, perché voi siete gli
schiavi senza catene del terzo millennio, siete operai!
Ma esiste in natura una definizione scientifica per
descrivere l‟operaio?
La risposta è no!
Ma vediamo se sia possibile capirne di più con alcune riflessioni, necessarie a riassumerne le tipologie più diffuse e le stravaganze degenerative.
L‟esposizione troppo prolungata dentro ad una fabbrica può causare profonde ferite mentali, che possono provocare vere e proprie spaccature
all‟interno della calotta cranica, dando vita al famoso “fenomeno dei buchi neri”: zone dove la psiche
devastata del povero operaio manifesta allucinazioni di ogni tipo, come megalomanie di potere, sdoppiamento della personalità, fino alle visioni più incredibili.
Ed è proprio qui che la natura malata ha il suo giogo più perfido e meschino, mischiando realtà e fantasia, lucidità e follia, creando figure dagli aspetti
più diversi, mostri di ogni estrazione socialepolitico-culturale e talvolta, nei casi estremi, anche
esseri di altri mondi. Queste creature impalpabili,
nel gergo comune della fabbrica, vengono da tutti
chiamati “colleghi”.
Nell‟immaginario collettivo, fino a qualche decennio fa, l‟operaio veniva catalogato ed analizzato dal
“sistema” con caratteristiche ben precise, come la
barba incolta di almeno una settimana, lo stuzzica10
denti 24 ore su 24 incastonato tra lingua e premolare, i più audaci ne tenevano una preziosa riserva nel
taschino della camicia (quest‟ultima ovviamente di
flanella), l‟alito misto carbonara-vino rosso,
l‟appartenenza politico-sindacale dichiaratamente
di sinistra, la puzza di grasso sempre addosso e per
finire il linguaggio (per usare un eufemismo) molto
colorito, del tipo tre bestemmie vinci una frase di
senso compiuto.
Ora le cose, con l‟avvento dell‟emancipazione sociale, la globalizzazione e l‟informazione mediatica
diffusa anche negli angoli più remoti della Terra,
hanno portato l‟operaio ad una situazione radicalmente cambiata.
Il nuovo operaio si è staccato di dosso l‟etichetta
che lo vedeva da generazioni marchiato come rozzo
e privo di istruzione. Tecnologia, cultura, benessere, non sono più parole sconosciute e solo per pochi, hanno invaso le nostre case e il nostro modo di
vivere, migliorando notevolmente il modo di approcciarsi al prossimo, senza tralasciare però
l‟ambiente lavorativo ed in particolare la fabbrica,
che resta comunque, seppur in modo diverso rispetto al passato, un mondo isolato, che raccoglie al
suo interno tutto quanto può servire per sviluppare
le esperienze più straordinarie e affascinanti.
Perché oggi ogni singolo operaio del terzo millennio possiede caratteristiche strettamente personali
(difetti degenerativi), veri e propri “marchi di fabbrica” utilissimi al datore di lavoro per catalogarne
la specie di appartenenza e che, accentuati dal citato “fenomeno dei buchi neri”, lo rendono unico e
indispensabile.
Normalmente un individuo sviluppa un solo difetto,
anche se in maniera molto marcata, rendendosi facilmente contrastabile nell‟eventualità di una perdi11
ta totale della ragione. Solo in alcuni casi lo schiavo proletario viene attaccato da difetti multipli; per
questi il contratto nazionale del lavoro prevede la
possibilità (da parte della proprietà) dell‟abbattimento
immediato del soggetto e la sostituzione con un nuovo
esemplare monodifetto.
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LOTTERIA DEL PRECARIO
(L’INTERINALE)
Nata in questo ultimo decennio, quella dell‟interinale
rappresenta una vera ricchezza per le industrie ed
anche per i governi di tutto il mondo (escluso per i
lavoratori, ma cosa importa!), garantendo lavoro a
basso costo quando lo si richiede per eliminarlo ad
emergenza finita, come una pallottola di carta buttata nel cestino dei rifiuti.
La storia dell‟algerino Hamza Machot è l‟emblema
di quello che può accadere quando si entra nel turbine dei contratti a tempo, quando cioè la nostra esistenza viene segnata dal marchio del precario.
La signorina che lo ebbe “in cura” durante il suo
primo colloquio all‟agenzia interinale fu molto gentile e disponibile. Come spesso avviene in questi
punti di raccolta lavoro, gli chiese con squisita cortesia: «Allora, chi è il prossimo, avanti forza datevi
una mossa.»
Hamza avanzò lentamente e un po‟ impaurito, mentre la segretaria lo invitava cortesemente a presentarsi: «Nome, cognome, luogo e data di nascita e
naturalmente il permesso di soggiorno, veloce.» Il
povero algerino, che naturalmente non aveva capito
nulla delle parole della ragazza, se la cavò abbastanza bene allungandole il suo prezioso permesso
di soggiorno senza dire nulla. La signorina, dopo
qualche minuto e dopo avere constatato l‟autenticità
del pezzo di carta, riprese la simpatica conversazione con Hamza e gli disse: «Signor Machot, mi
ascolti bene, ci sarebbe un posto di lavoro per lei,
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naturalmente a tempo determinato alla Foster &
Johnson, si occupano di impianti di refrigerazione;
che fa, accetta?» chiese bruscamente la ragazza.
Hamza, che ancora una volta non aveva capito nulla, rispose di sì, come gli avevano consigliato di fare al suo paese ogni volta che qualcuno gli poneva
una domanda.
Così cominciò l‟avventura lavorativa di Hamza
Machot, extracomunitario come tanti, in un paese
schifosamente retrogrado e razzista. Per dirla tutta,
quel primo impiego non sarebbe dovuto durare poi
tanto, visto che la ragazza gli aveva propinato un
nuovo tipo di contratto, chiamato “contratto a cagata”, che entrava in scena in quei periodi dell‟anno
nei quali le imprese hanno l‟esigenza di maggior
manovalanza per un aumento improvviso del lavoro, dovendo per ovvi motivi fronteggiare anche
l‟emergenza più breve, come quella della pausa
caffè o la pausa cesso, in cui il malcapitato sostituto
spariva in circostanze misteriose quando l‟operaio
titolare tirava lo sciacquone del water per riprendere regolare servizio.
Per Hamza le cose non andarono così, superò brillantemente quel primo esame ricco di insidie, riuscendo a lavorare per altri due mesi in quella prestigiosa multinazionale, cominciando così una lunga e tortuosa avventura nel precariato lavorativo.
«Buongiorno Mascot, hai dormito bene stanotte?»
gli disse amichevolmente il suo collega durante
un‟esperienza lavorativa presso una famosa azienda
dolciaria nei pressi di Torino. «Bene, grazie amico,
ma io mi chiamo Machot» rispose un po‟ seccato
l‟algerino, perché quella storia del nome storpiato
andava avanti da quasi due mesi, finché una mattina l‟amico operaio, dopo aver ripassato per tutta la
notte come uno scioglilingua di rara difficoltà
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l‟intricato nome del collega, si presentò al lavoro
con il sorriso stampato in faccia e la soddisfazione
di aver finalmente imparato il nome correttamente.
Si guardò un paio di volte in giro cercando l‟amico,
ma non lo vide, chiese informazioni al suo superiore che lo liquidò frettolosamente dicendogli «Chi
cerchi? Hamza Caciot? Gli è scaduto il contratto
ieri, preparati che oggi comincia un ragazzo nuovo
credo sia egiziano, o qualcosa del genere.»
Il ragazzo guardò dritto negli occhi il suo superiore
e visibilmente emozionato gli disse: «Si chiamava
Hamza Machot.»
L‟algerino, durante la sua lunga carriera lavorativa
vissuta in giro per mezza Italia, fu anche fortunato
protagonista di una vicenda finita sui giornali nazionali, infatti il proprietario di una fabbrica che
produceva pasta fresca in cui rimase a servizio per
diversi mesi, sfruttando a dovere le possibilità pressoché illimitate di attingere da quel pozzo inesauribile che sono i contratti a tempo determinato, si inventò con un‟operazione di marketing a dir poco
pittoresca e lungimirante, il “contratto lotteria”.
L‟imprenditore aveva organizzato per il 6 gennaio,
attraverso la vendita di biglietti da 5 euro l‟uno, la
“gran lotteria del precario”, ovvero sei mesi di contratto con durata continuativa chiaramente a tempo
determinato, da effettuarsi nell‟anno a venire. In
questo modo il Padrone, con una mossa astuta e
senza precedenti, dava la possibilità di lavorare per
qualche mese in più ad uno di questi poveracci senza nome, facendo pagare a loro le spese per lo stipendio, era davvero un premio di insana generosità.
Naturalmente la prevendita andò a ruba, a tal punto
che ci furono scontri e tafferugli tra i precari per
accaparrarsi i preziosi tagliandi; le violenze furono
sedate solo dall‟intervento della polizia a cavallo
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che disperse i facinorosi. Inutile dire che nel giro di
poche ore i biglietti furono completamente esauriti!
Il 6 gennaio, alle 10 in punto del mattino, nel piazzale della fabbrica addobbata a festa per
l‟occasione, avvenne l‟estrazione tanto attesa.
Affacciato alla finestra del suo mega studio, che
dava perfettamente sulla folla festante, prese la parola con l‟aiuto di un megafono rimediato in circostanze fortunose, il Dio Padrone in persona. Con
voce forte e sicura, dapprima tenne un comizio politico sullo stato attuale del nostro paese, poi passò
in rassegna l‟andamento generale della sua azienda,
snocciolando dati che avrebbero fatto addormentare
anche un cocainomane appena fatto, in seguito,
prima di andare via, grazie al suggerimento di un
tirapiedi, gli venne in mente il motivo per cui tutta
quella gente era lì ad ascoltarlo sparare cazzate e,
tagliando corto, disse: «Infine amici cari, in questo
giorno di festa per tutti noi, sono lieto di annunciare
il vincitore della prima edizione della “gran lotteria
del precario”.» A questo punto ci fu da parte del
Supremo un mescolio di palline che pareva non finire mai, seguito da quella folla speranzosa che oscillava la testa avanti e indietro, nello stesso modo
in cui il Divino agitava le sfere colorate, finché,
scelta la pallina vincente, guardò con perversa soddisfazione la folla ammutolita, la aprì, e finalmente
disse: «Il numero vincente è il seguente
AD45759003, complimenti al vincitore, arrivederci
a tutti, ci vediamo lunedì mattina puntuali al lavoro» e se ne andò frettolosamente.
Hamza controllò, ricontrollò, richiese la sequenza
vincente a sette operai diversi poi, convintosi della
vittoria, esultò composto, guardando verso il cielo
ringraziando Allah, mentre la gente delusa si incamminava lentamente verso il parcheggio. Natu16
ralmente tutti guardavano il proprietario del fortunato biglietto con invidia e bramosia di vendetta,
fulminandolo ripetutamente con sguardi colmi di odio.
In seguito, grazie a quella botta di culo clamorosa,
venne contattato addirittura da una piccola TV locale che, appassionatasi alla strana vicenda, lo volle
in studio per parlare liberamente della controversa
“lotteria”, che tanto scalpore aveva destato in tutta
la provincia.
Si presentò agli studi televisivi in perfetto orario,
bianco come un lenzuolo e tremante di paura. Lo
portarono ai camerini per il trucco e parrucco, dove
venne dapprima incipriato abbondantemente rendendolo simile ad una bambola di porcellana, successivamente cosparso di polvere gialla, secca e
puzzolente, che un tempo doveva essere probabilmente fondotinta, poi fu costretto a farsi cotonare,
strappare, acconciare e malmenare i suoi poveri capelli. Profondamente a disagio per tutta quella gente che si occupava di lui, in preda a decine di tic orrendi, gli venne somministrato un sedativo. Ridotto
ormai ad un ectoplasma imbalsamato, non potendo
più muovere nessun muscolo della faccia perché
bloccato dalla maschera di gesso, ebbe inizio la
puntata dal titolo tutt‟altro che rassicurante “Extracomunitario o extraterrestre ?” Ospiti in studio, oltre
naturalmente a Hamza Machot, ET l‟extraterrestre,
Kunta Kinte (protagonista del kolossal Radici) e
l‟oscuro signore di Guerre Stellari Dart Fener.
Dopo una lunga attesa, e dopo essere stati catechizzati a dovere dalla conduttrice del programma su
cosa potevano dire e soprattutto su cosa non potevano dire, ebbe inizio la trasmissione. Presero la
parola per primi i suoi illustri colleghi che dissero,
nelle rispettive lingue madri, più o meno le stesse
cose (almeno credo, visto che nessuno capì mezza
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parola, il budget del programma non prevedeva traduttori provenienti da altri pianeti). Poi venne il
momento dell‟algerino che, in un italiano ormai affinato dai lunghi anni passati nel nostro paese, alla
domanda della giornalista su una correlazione tra extracomunitari ed extraterrestri, prima riprese possesso della propria faccia che gli si sgretolò per via di
una espressione contratta del viso, liberandolo definitivamente dalla colata di cemento che si era impossessata di lui, infine rispose, fregandosene completamente della domanda della presentatrice e del
motivo per cui era stato invitato alla trasmissione,
con un monologo destinato a lasciare il segno nella
piccola emittente. Iniziò il suo sfogo liberatorio:
«Ho visto cose che voi italiani non potete neanche
immaginare: navi cargo cariche di precari scioperanti affondare al largo del Po, ho visto lo stesso
operaio lavorare nella stessa ditta per tre anni, rinnovando il contratto ottocento volte; ho visto cinesi
assunti con contratto a tempo indeterminato (molto
pochi), ho visto precari talmente precari da essere
costretti a morire su impalcature precarie, ho visto
le scintille di una saldatrice balenare nella faccia di
un precario napoletano (licenziato il giorno dopo).
Sono tutte cose che andranno perdute per sempre,
come scarti di pasta rigettati nell‟impastatrice. È
tempo di migrare, domani mattina stessa partirò alla volta della Germania, sperando di avere più fortuna, in ambito lavorativo, di quella che ho avuto
qui da voi.»
Non so perché quel giorno prese la decisione di
mollare tutto, forse quella stabilità che gli era sempre sfuggita era diventata un fardello troppo pesante, persino per un precario DOC come lui.
Come diceva De André, “dai diamanti non nasce
niente, dai precari nascono i fior”.
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IL BALLO IN MASCHERA
(IL DONNAIOLO)
“Martedì 20 febbraio alle 21, i ragazzi del magazzino organizzano una festa mascherata alla fabbrica, con la musica del DJ Barletta, 15 euro a persona
e consumazione illimitata, per prenotazioni rivolgersi a Spadino.”
L‟annuncio era stato messo in bacheca già da qualche giorno e non aveva lasciato indifferenti gli operai a cui l‟idea solleticava parecchio, una bella serata senza mogli e fidanzate, perché l‟invito era solo
per il personale addetto dell‟azienda.
L‟organizzatore dell‟evento era naturalmente Spadino, un simpatico quarantenne che lavorava alla
Ditta come addetto al “controllo qualità” e aveva
l‟importante compito di verificare il buono stato
della merce prima di finire stivata in magazzino.
Fisicamente non era quello che possiamo definire
una bellezza rara, aveva una statura medio bassa,
capelli corti neri e cotonati, un viso piuttosto piccolo e rotondo ben curato, ma quello che stupiva erano gli occhi, uno verde ed uno azzurro, che attiravano le donne come due grossi magneti.
Da ottimo menestrello qual era, durante la pausa
pranzo era solito raccontare le vicende sentimentali
che lo vedevano coinvolto nei weekend a caccia di
“bella robetta”, termine con cui amava identificare
da maschilista integerrimo qual‟era, il sesso debole.
Come quando, durante una serata trascorsa in un
famoso locale della riviera romagnola, riuscì a portare a segno il colpo della vita: si intrattenne infatti
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in un famoso albergo nelle regali stanze di una Duchessa svedese, per poi scoprire con enorme imbarazzo che il Duca, suo marito, guardava l‟adulterio
attraverso gli occhi di una finta Gioconda appesa
alla parete. Naturalmente raccontava anche delle
scappatelle avute all‟interno della fabbrica, come
quando si fermò a fine turno per controllare della
merce urgente in partenza l‟indomani mattina, finendo a controllare le enormi tette di una rappresentante dell‟azienda, della quale non fece il nome
per galanteria. La ragazza venne comunque individuata da tutti, il seno, ma soprattutto il bollino verde dell‟accettazione sulla chiappa sinistra, erano
prove inequivocabili dell‟avvenuto collaudo.
In fabbrica, come dal parrucchiere, si viene a sapere tutto di tutti, in questo senso anche “il donnaiolo” non faceva eccezione, in contrapposizione ai
successi sentimentali così ben decantati da Spadino, vi erano decine di testimonianze, spiate, appostamenti di operai invidiosi, uscite di gruppo con i
colleghi, che raccontavano un altro aspetto significativo della vicenda, quello legato alle conquiste
non proprio edificanti. Infatti, le vittime del nostro
amateur, non erano sempre da copertina, tutt‟altro,
chi lo aveva visto in azione raccontava di uno Spadino alle prese con una massa organica informe,
forse di sesso femminile in evidente stato di decomposizione, o quando una sera era stato avvistato
lungo l‟arenile di Rimini in compagnia di una
“stecca” alta due metri, che non poteva pesare più
di 25 chili e lui, nel tentativo di avvolgerla in un
bacio passionale, strinse troppo la presa e le spezzò
la schiena. Dopo qualche secondo di imbarazzo,
decise di liberarsi del cadavere gettandola in mare,
la donna andò a sbattere contro gli scogli frantumandosi in mille pezzi.
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Ma il fatto più cruento e più nascosto della vita sessuale del nostro eroe avvenne qualche anno prima,
in occasione della consueta asta di beneficenza che
tutti gli anni la moglie del Signore Padrone indiceva, per raccogliere fondi alla “lotta contro il fisco”.
Naturalmente erano stati invitati tutti, compresi gli
operai, gradino più basso della catena alimentare.
La donna, che in gioventù doveva essere stata una
dama avvenente, all‟età di settant‟anni aveva ormai
perso tutto il suo sex-appeal, il culo basso e largo,
la pelle rugosa e bruciata dalle lampade, non formavano nel complesso un quadro positivo, ma si
sa, spesso la paura e un po‟ di potere, possono fare
molto.
Fu così che la donna si invaghì al primo sguardo
del seducente Spadino, che dapprima cercò di respingerla con galanteria poi, all‟insistenza della
vecchia infoiata, provò a parlarle e a spiegarle che
lui era un dipendente di suo marito e che si trovava
in una posizione sfavorevole, ma la megera gli disse che se non si concedeva subito a lei, non avrebbe
più avuto un datore di lavoro, e così si concesse
nella toilette delle “signore” alla moglie del Padrone. Fu come una rapida galoppata con un cavallo
zoppo, che per fortuna durò solo pochi minuti,
“Jack Trapassa”, che era il nomignolo dell‟arnese
del donnaiolo, ancora una volta aveva fatto il suo
sporco lavoro, calmando con pochi colpi ben dosati
le bollenti iniziative dell‟anziana porcella. Dopo
quel fugace incontro, i due non ebbero più occasione di vedersi e l‟uomo custodì gelosamente quel
drammatico ricordo dentro di se, finché…
Il magazzino era stato ripulito, sgombrato, liberato,
lavato e addobbato per la festa, Spadino aveva organizzato tutto nei minimi dettagli, al bar aveva
messo i “fratelli Negroni”, che a dire il vero non
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avevano nessuna parentela ma si vantavano di ubriacarsi insieme con regolarità da più di vent‟anni,
conoscendo ogni tipo di superalcolico e le esatte
miscele di tutti i cocktail. Al guardaroba era stata
posizionata la rocciosa Veronica, un‟operaia della
produzione, molto svelta e capace, con due cosce
alla Rumenigge, utile per gli spostamenti laterali e
la resistenza notturna, mentre alla cassa naturalmente c‟era lui, il donnaiolo, nella maschera che
più gli si addiceva, quella di Rodolfo Valentino.
Gli ospiti cominciarono ad arrivare numerosi, verso
le 21 e 30 la sala era già quasi completamente esaurita, alle 22 e 15 gli organizzatori dovettero chiudere il “grande cancello” della fabbrica, tenendo fuori
un esercito di Topolini e Paperini incazzati neri.
All‟interno, le storie e le maschere più originali, si
miscelavano fra loro in un intreccio di situazioni
davvero bizzarre. Potevi trovare tranquillamente
seduti ad un tavolino Gesù, con un inquietante kit
fai da te per improvvisare una crocifissione, parlottare del più e del meno con un bel Lucifero rosso
fiammante, che vaporizzava zolfo dal polsino della
manica, oppure la bella Cenerentola ubriaca fradicia che limonava a testa in giù sopra ad un muletto,
in compagnia di un bel Tarzan in evidente difficoltà
con la sua liana, il tutto nel massimo riserbo possibile, perché per quella sera dovevano impersonare
solo la loro maschera.
Rodolfo Valentino si godeva la splendida serata,
appoggiato al bancone del bar offriva da bere contemporaneamente alla bella Marilyn e ad una procace Maria Antonietta dal collo mozzato, intrattenendo una frizzante conversazione con le due dame. La prima si scolò in 20 minuti 5 Negroni (che
era diventato il cocktail della serata), che la fecero
precipitare al suolo in pieno coma etilico; due finti
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barellieri la scortarono fuori dalla festa diretti verso
un vero ospedale. La bella Maria Antonietta invece,
colta da una dolorosissima “cervicale” derivata da
quella strana postura a cui era costretta dal suo personaggio, si fece curare dal Doctor House che gli
riscontrò due tumori maligni, una rara forma di cirrosi epatica e cinque ernie cervicali, il tutto facilmente curabile con due aspirine e un po‟ di riposo.
Rodolfo era rimasto solo al bancone del bar, con il
bicchiere a fargli compagnia; gli si avvicinò la
Marchesa di Pompadour che gli chiese gentilmente
se poteva sedere per bere qualcosa in sua compagnia, naturalmente il galante seduttore acconsentì.
Fu una breve e divertente conversazione sulla buona riuscita della serata, la Dama si complimentò più
volte con il bel Rodolfo, poi come un fulmine a ciel
sereno, andando contro tutte le regole del gioco, la
Marchesa si rivelò agli occhi del latin lover.
L‟uomo impallidì, sotto le nobili vesti della Marchesa si celava il corpo appassito della vecchia
consorte del Padrone; non sapendo come arginare
quella furia selvatica, cercò di divincolarsi e di
scappare dal bar, ma fu prontamente arpionato dalla
donna che lo trascinò sotto al bancone, per consumare da vera predatrice il suo pasto carnale.
La Marchesa aveva forse smarrito l‟antico fascino,
ma non certamente le bramosie d‟amore e anche in
quell‟occasione, non volendo essere da meno del
suo giovane stallone, strappò via le vesti al povero
Rodolfo che tornò Spadino, gli si buttò sopra e cominciò a cavalcarlo come una fantina furiosa,
quando all‟improvviso, proprio in dirittura d‟arrivo,
venne colta da un malore prepotente e fulmineo, ritrovandosi in pochi secondi disarcionata nelle verdi
praterie dell‟aldilà.
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L‟uomo, che sul principio non si era reso conto di
nulla, osservò con enorme stupore il suo fedele
“Jack Trapassa” spegnersi lentamente, spaventato
dalla strana reazione, scosse la vecchia per trovare
risposta ad una terribile sensazione che si era impadronita di lui. Sensazione avvalorata dai fatti, perché la Marchesa di Pompadour era morta sul colpo.
Quando tirò fuori la testa da sotto il bancone, si rese subito conto che la festa era quasi finita, solo
pochi irriducibili continuavano a ballare al centro
della pista. Spadino, per non destar sospetti, si rimise alla meglio le sue vesti maltrattate, tornando
ad indossare i panni di uno spennacchiato Valentino e, approfittando del fatto di non essere stato visto da nessuno, decise di liberarsi al più presto del
cadavere. Ai fratelli Negroni, che fortunatamente
dormivano ubriachi sopra il bancone del bar, sottrasse due grossi sacchi neri della spazzatura, che
ritirò fuori solo a festa conclusa, vi mise dentro alla
meglio la Marchesa e la caricò nel bagagliaio della
sua macchina. Guidò per tutta la notte senza mai
fermarsi, finché alle prime luci dell‟alba trovò nelle
paludi di Comacchio il posto giusto dove seppellire
la nobildonna.
Scavò per tre ore con una piccola paletta da spiaggia rubata alla festa ad un bagnino distratto, infine,
stremato, gettò il corpo senza vita della donna nella
grossa buca e la coprì accuratamente, sperando che
la melma di quei posti e un po‟ di pioggia battente
avrebbero fatto il resto.
La notizia della scomparsa della first lady ebbe naturalmente un immediato risalto mediatico, come
sempre avviene in questi casi gli inquirenti che seguivano le indagini non vollero scartare nessuna pista plausibile, dal rapimento a scopo di estorsione,
alla fuga d‟amore, al suicidio, all‟assassinio. Anche
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in fabbrica si chiacchierava molto della vicenda,
nessuno però fece mai un lontano collegamento tra
Spadino e la vecchia signora, così, a poche settimane dalla scomparsa, fu lo stesso Padrone che, stanco e inconsolabile, attraverso un comunicato invitò
la stampa, la giustizia e tutte le maestranze aziendali ad una lenta e progressiva archiviazione del caso,
per poter riuscire a tornare a vivere serenamente.
Ad onor del vero, l‟anziano Signore riuscì a smorzare quasi subito il suo dolore, facendosi accudire
come un bambino capriccioso da due belle badanti
russe, che riuscirono in breve tempo a sanargli le
ferite.
Tutti i mesi, nel giorno dell‟anniversario della
scomparsa della moglie del Padrone, il povero Spadino, gonfio di rimorso, nei panni di Rodolfo Valentino prendeva una giornata di permesso dalla
fabbrica per andare alle valli di Comacchio e deporre un gigantesco mazzo di fiori nel punto esatto
dove era stata sepolta la Marchesa. Dopo pochi minuti l‟omaggio floreale veniva risucchiato dalla
melma della palude, ma a Rodolfo piaceva pensare
che fosse la Marchesa ad allungare le mani da sotto, gradendo il pensiero.
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L’INSAZIABILE
( IL PLURIGENITORE )
Moglie a carico, figli di ogni età e animali domestici in serie, sono le semplici ma difficilissime caratteristiche per rientrare in questa categoria.
Ermino Ridolfi era il tuttofare; stimato e ben voluto
in fabbrica, rientrava perfettamente in questo quadro generale. Entrato in azienda ancora single, manifestò quasi subito il suo difetto degenerativo: con
un eccesso di testosterone nel sangue cinque volte
superiore alla media, aveva un‟attenzione molto
particolare per il gentil sesso, inizialmente sfogata
con normali rapporti sessuali occasionali, che con
l‟andar del tempo diventarono manie ossessive.
Cominciarono i viaggi in località di piacere, ogni
tipo di vacanza era buona per prendere l‟aereo verso mete peccaminose e una volta, durante una forte
crisi di astinenza, si finse malato, partì per la Thailandia e spedì il certificato medico direttamente da
lì, mettendo come residenza, durante la malattia, la
curativa Phuket.
Naturalmente era anche assiduo frequentatore di
localini notturni, dove poteva fare sempre nuove
amicizie e nuove esperienze. Proprio in uno di questi centri del piacere avvenne il colpo di fulmine
che centrò in pieno il giovane mandrillo. Durante
una serata fra amici finita come sempre a puttane,
si decise di chiudere la nottata, andando al “Grande
Martello”, famoso nightclub della città. Mentre gli
spettacolini si alternavano velocemente, Erminio
incrociò accidentalmente lo sguardo con quella che
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sarebbe diventata la madre dei sui figli, si trattava
di una bella contorsionista nana peruviana, che era
alle prese con un numero sensazionale, tentava infatti di entrare all‟interno di una carta del Pocket
coffee per poi farsi richiudere e confezionare. Il
numero riuscì perfettamente, scatenando nella testa
profondamente segnata del ragazzo, incredibili sequenze sessuali difficilmente ripetibili.
I due si conobbero a fine serata fuori dal locale e
scattò immediatamente quel sacro fuoco che caratterizza tutte le vere storie d‟amore, per di più, la
bella contorsionista era una ninfomane senza eguali
e, non pensando alle conseguenze, si costringevano
a vere maratone del sesso, certamente piacevoli, ma
che lasciarono con gli anni effetti da girone dantesco.
In soli sette anni di vita coniugale, i due inanellarono un filotto impressionante, nacquero, in sequenza, Matteo (asmatico), Tommaso (sano), Vittoria
(affetta da nanismo), Gianluca (con i piedi palmati)
e Anselmo (strabico), ultimo della covata. La madre, dopo quel quinto difficile parto, in via precauzionale si fece chiudere le tube e la coppia decise in
seguito, anche per amore dei figli che crescevano
vedendo costantemente i genitori fornicare dappertutto, di tentare la via della guarigione, attraverso
un cammino difficile ed insidioso. Decisero quindi
di affidare i propri problemi ad un esperto strizzacervelli che, dopo un percorso lungo, tortuoso e soprattutto costoso, portò la coppia ad un miglioramento netto e sostanziale.
Ora, al povero operaio non rimaneva altro che il risultato del suo incedere così ardito, cioè problemi
di ogni genere: affitto, bollette, scuola, asilo, la
spesa quotidiana, erano solo alcune delle preoccupazioni che affliggevano tutti i giorni Erminio, che
dal canto suo era costretto a lavorare in fabbrica,
27
anche fino a venti ore al giorno, senza mai dormire.
Scene pietose si manifestavano normalmente alle
porte del “grande cancello” con il plurigenitore che,
seduto su un pezzo di cartone sulla soglia dello stabilimento, elemosinava qualche spiccio per sbarcare il lunario, oppure si organizzavano, tra i suoi colleghi più cari, lacrimevoli collette in suo favore, naturalmente nel tipico spirito della fabbrica, cioè con
umana perfidia.
In casa la situazione era anche peggio: i coniugi litigavano per denaro, ma anche per i bambini che
presentavano problemi di ogni tipo e andavano
guardati a vista, per evitare incidenti domestici che
in passato avevano causato l‟intervento degli assistenti sociali. Come quella volta che la piccola (in
ogni senso) Vittoria stava per affogare in un bicchiere d‟acqua lasciato accidentalmente sul tavolo
dallo sbadato Tommaso o quando Gianluca, a causa
dei fastidiosi piedi piatti, aveva sbattuto la testa,
planando come una papera sul pavimento bagnato
contro la vasca da bagno, procurandosi un violento
trauma cranico.
Erminio si rivolse anche all‟aiuto dei parenti, che
dimostrandosi “veri serpenti” gli chiusero le porte
in faccia. Per arginare la crisi economica, la famiglia chiese un prestito, che le banche concessero ad
un tasso da usura, ottenendo in cambio: il quinto
dello stipendio a vita, la liquidazione, la pensione
fino a quel momento maturata, l‟utilitaria, il motorino e l‟unico figlio sano, venduto in seguito ad una
famiglia benestante milanese. Completamente esaurito e con un nero futuro davanti, Erminio pensò
anche di farla finita, senza mai trovare il coraggio
per compiere l‟estremo gesto.
Fu nell‟unico posto dove Erminio era veramente
amato che trovò la forza e la motivazione per svol28
tare, la fabbrica. Conobbe infatti una transessuale
brasiliana di nome Luana, una ragazza dalle abbondanti forme e molto bella, ma dalla voce roca e mascolina, che ad Erminio ricordava in maniera impressionante quella del suo Capo reparto, facendolo
sentire perversamente spiato e controllato. Attratto
da quella sensazione di peccato, si riprese completamente nel giro di pochi giorni, sentendosi nuovamente vivo.
Luana era una delle tante “lucciole” che la sera andava a vendere l‟amore sui marciapiedi e arrotondava le spese con lavoretti saltuari, per questo motivo trovò quell‟impiego a tempo determinato in
fabbrica, tre mesi che le permisero sia di rinnovare
il permesso di soggiorno e guadagnarsi il diritto di
rimanere in Italia, sia di adescare nuovi clienti per
allargare il suo giro d‟affari, per la verità già piuttosto ricco. Al riguardo, quasi tutti gli operai si concessero una scappatella, cedendo al peccato carnale
in nottate d‟amore con la bella trans, negando tutto
l‟indomani ed evitando accuratamente Luana per
non destare sospetti; solo Erminio, che aveva ripreso grazie a lei tutta la virilità di un tempo, aveva instaurato un rapporto sincero e amichevole anche al
lavoro, affezionandosi pericolosamente a Luana.
Una mattina, con la pioggia fredda e fastidiosa di
una brutta giornata di marzo, ancora tipicamente
invernale, sconsacrando quel santuario impenetrabile che è la fabbrica, irruppe con un‟onda di piena,
tra lo stupore generale e completamente fradicia, la
moglie di Erminio, che poco prima aveva ricevuto
una misteriosa telefonata anonima da presunti “amici”. Dapprima si arrampicò faticosamente sul
palmo della mano del marito, poi, visibilmente contrariata, gli disse: «Puttaniere schifoso, lavora qui
vero la tua amichetta travestita? Chi è, chi è, dim29
melo o ti stacco una falange.» Ad Erminio non rimase altro da fare che confessare tutte le sue colpe,
da vero signore però non coinvolse in quella sceneggiata napoletana la bella Luana, ma rispose alla
moglie con dignità: «Mi sono innamorato di
un‟altra donna, non so dove andrò, ma non tornerò
più a casa con te.»
La piccola donna, completamente fuori di sé per la
rabbia, saltò giù dalla mano e, guardandolo negli
occhi (almeno ci provò), riprese il discorso: «Il mio
avvocato ti farà avere tutte le condizioni per il divorzio, ti farò lavorare solo per mantenere me e i
nostri figli, senza lasciarti neanche un centesimo.»
Gli sfasciò uno stinco con un calcio, poi scappò via
in lacrime, surfando su una grossa foglia di castagno.
La fabbrica era tutta un brulicare di risa e di commenti per quell‟insolito fuori programma. «Ha avuto quello che si meritava, ecco quello che capita a
chi va con i travestiti» commentavano con unanime
disprezzo e convinzione un gruppetto di operaiacci
della peggior specie che il mese precedente, in soli
quindici giorni, avevano dilapidato il loro stipendio
andando a puttane.
La sera, all‟uscita dal lavoro, senza un posto dove
andare, il povero Erminio venne affiancato in macchina dalla bella Luana che, con tono sicuro e gladiatorio, gli disse: «Verrai a stare da me, da oggi
sarai mio ospite, guadagno abbastanza da mantenere entrambi, e poi è anche colpa mia se ti trovi in
questa situazione.» All‟uomo, che non aveva alternative, non rimase altro da fare che accettare
l‟invito e, con un laconico «Grazie», montò sulla
vettura del trans verso casa sua.
Faticosamente, e attraverso mille privazioni, le cose
per il plurigenitore tornarono in una condizione di
precario equilibrio. La moglie, come gli aveva giu30
rato in fabbrica, mantenne la promessa, portando
via quel poco che era rimasto da togliere all‟ormai
ex marito e lasciandolo spoglio di tutto, tranne che
della propria dignità. Luana, affezionatasi a lui dopo tutto il tempo condiviso insieme e con il permesso di soggiorno agli sgoccioli, decise di fargli
una proposta e improvvisamente gli domandò:
«Andiamo a vivere in Brasile, tu ed io.» Erminio
trasalì, poi dopo un istante, illuminato da quella
proposta così eccitante, sbattendosene delle conseguenze rispose con fermezza «Sì».
E così, a un anno esatto dalla burrascosa rottura con
la moglie, alle prese come allora con una giornata
di pioggia torrenziale, fredda e verticale come a
marzo non si ricordava da secoli, in pantaloncini e
maglietta il fuggiasco Erminio giunse all‟aeroporto.
Infreddolito ed emozionatissimo, scosso da spasmi di
freddo che a stento riusciva a controllare, aspettava
seduto e angosciato l‟amica, che dopo un‟attesa di
quasi mezz‟ora sbucò in fondo alla sala d‟aspetto.
Luana però non era sola, ma in compagnia della ex
moglie di Erminio e a gran velocità si avvicinavano
verso l‟uomo, in evidente imbarazzo.
«Credo che voi due dobbiate parlare» disse il travestito allontanandosi rapidamente e offrendo loro la
possibilità di un confronto civile e ragionevole. A
tal proposito, la bella contorsionista tascabile cercò
subito di catturare l‟attenzione di Erminio sfoderandogli una testata nelle palle, lui accusò il colpo e
si sedette su una panchina ansimando pesantemente, mentre lei strappava una sedia dalle mani di un
barbone mezzo addormentato e ci si arrampicava
sopra, in un ultimo disperato tentativo di riprendersi il suo uomo. «Brutto bastardo, non puoi abbandonarci, almeno pensa ai tuoi figli, cosa diranno di
un padre che li abbandona per un travestito, cosa
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gli racconterò quando saranno grandi?» e gli sferrò
un destro in piena bocca, facendolo barcollare. Poi
riprese la pacata conversazione con l‟amato già abbondantemente insanguinato: «Proviamo a riprenderci quello che il destino ci ha tolto, pensa ai bei
momenti trascorsi insieme, alle notti d‟amore, a
quella volta che lo facemmo nel forno, io dentro e
tu fuori o a quando lo facemmo sotto la doccia e tu
mi salvasti mentre venivo inesorabilmente risucchiata dallo scarico, non buttare via tutto…» La
donna si alzò dalla sedia e lo centrò alla bocca dello
stomaco, facendolo cadere a terra, gli si gettò sopra
e quasi strozzandolo gli domandò: «E adesso rispondi a questa semplice domanda, sei ancora innamorato di me o no?» Erminio se la scrollò di
dosso, si girò strisciando come un verme verso di
lei, la guardò dalla testa ai piedi (bastò poco), la
prese, la buttò nel tunnel dello smistamento bagagli, le si gettò sopra e si cibò delle sue prelibatezze
carnali. In un attimo la coppia ritrovò il suo antico
amore, sfoderando a memoria le prime otto posizioni del Kamasutra. Durante la scorribanda sessuale, Erminio vide attraverso un pertugio di fortuna
Luana, che si incamminava rapidamente verso il
checkin. Avrebbe voluto salutarla per l‟ultima volta, avrebbe voluto stringerla forte e ringraziarla di
tutto quello che aveva fatto per lui, ma poi pensò
che forse era meglio così. Riprese la concentrazione a fatica e condusse la moglie verso la nona posizione del libro.
32
CANTICO DELL’AMATO SIGNORE
(IL PADRONE)
Non dovete sentirvi in difficoltà quando passo io
non dovete chinare il capo e abbassare lo sguardo
sentitevi in diritto di parlare, di chiedere, di pensare
siete il cuore pulsante della mia economia
siete il braccio armato che protegge il mio fortino
siete la parte vivente delle mie aspirazioni
sprigionate la vostra creatività per il mio benessere
godete anche voi delle mie conquiste terrene
abbeveratevi alla sorgente della mia generosità
mangiate gratis alla mensa delle mie fabbriche
siate sempre fedeli come bestie addomesticate
io sono buono, sono giusto, sono il Padrone
dominate i vostri istinti ribelli
soffocate i vostri moti reazionari
limitatevi a fare quello che vi si chiede di fare
educatevi ad un comportamento giusto e passivo
educatevi alla remissione e all‟obbedienza
allontanate chi vuole corrompervi con delle idee
diffidate di tutto quello che io non condivido
usate la mia testa, con il vostro sudore
usate la vostra precarietà, per la mia sicurezza
fate tutto questo in nome del nostro Regno
perché siete agnelli nelle mani di Dio
33
LA CALLA (IL GAY)
Il suo nome di battesimo era Achille, ma tutti in
fabbrica lo chiamavano “Calla”. Un matrimonio
buttato alle spalle e un rapporto difficile con il suo
unico figlio, era quanto gli rimaneva della sua prima vita, triste e mai voluta veramente. All‟inizio la
convivenza con la moglie andò bene, pian piano
però si rese conto che “amore e passione” (se mai
erano esistiti) avevano lasciato il posto a “rassegnazione e noia”, trascinando avanti una relazione
mai davvero desiderata. Alla continua ricerca della
strada da percorrere, non sapendo ancora di non essere come tutti gli altri, aprì il suo cuore ad una
forma di amore particolarmente difficile e facilmente condannabile, specie in un mondo superficiale come quello della fabbrica, chiuso, stereotipato e capace di rendere la vita un inferno. Achille
aveva scoperto la propria via e il suo cammino,
quello vero; la Calla era la conseguenza della metamorfosi che l‟aveva trasformato, in breve, in un
fiore da cogliere.
Incontrò Stanislao durante un picchettaggio selvaggio nella piazza della sua città, non lo aveva mai
visto prima o forse era la prima volta che lo vedeva
sotto quella luce vivida e chiara. Tutte le fabbriche
della zona si erano riversate in strada per il tradizionale sciopero del venerdì, alcuni manifestavano
per il disboscamento dell‟Amazzonia, altri per
l‟assenza della maionese dalle mense o, come la
Calla e Stanislao, per la mancata diretta TV del
“ballo delle debuttanti”. La prima volta gli sguardi
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si trovarono per un istante e, rapiti da un destino
che li aveva voluti mettere alla prova, si cercarono
disperatamente, scavalcando corpi che parevano inermi e superando distanze incolmabili, infine si
centrarono in pieno procurandosi una ferita lacero
contusa alla fronte.
La polizia era schierata in tenuta antisommossa e il
corteo dei manifestanti diretto verso “non si sa dove” cercava di forzare il blocco imposto dalle forze
dell‟ordine. All‟inevitabile scontro, Stani (come lo
aveva rapidamente ribattezzato l‟amica) e Calla
cercavano di difendersi dai soprusi della gendarmeria prendendo a borsate chiunque gli passasse a tiro, in un frastuono di urla e di botte. Il bilancio della manifestazione fu terribile, a terra giacevano i
corpi senza vita di decine di rossetti e specchietti,
usati strenuamente come arma di difesa. Calla se la
cavò con due unghie finte rotte e l‟amputazione di
un collant, mentre Stani, che aveva difeso il suo
germoglio d‟amore facendo scudo con il corpo, aveva subito la rottura di un jeans “Armani”, la frattura scomposta di un orecchino di brillanti e il distaccamento di numerose paillettes dalla maglietta.
Quella situazione estrema e pericolosa, cementò da
subito la loro unione, creando le basi per una relazione stabile e destinata a durare nel tempo.
La coppia, che aveva preso a frequentarsi assiduamente al limite della convivenza, decise di trascorrere il “ponte” del primo maggio organizzando una
bella gita al mare. Partirono di buon mattino in
compagnia di altri colleghi ammogliati alla volta
dei lidi ravennati, dove avevano prenotato ombrelloni e lettini al “Bagno Pucci”.
Sotto un sole tiepidamente caldo, all‟insegna della
tintarella e del divertimento, l‟allegra combriccola
trascorse una giornata da sogno, abbozzando addi35
rittura, su di un mare calmo ed invitante, un timido
bagno rinfrescante, per poi ripararsi nella morbida
trama di un soffice asciugamano, ascoltando la risacca delle onde infrangersi tenue contro la battigia.
Calla era vestita solo di un elegante perizoma leopardato griffato “D&G” mentre Stani, che era molto più articolato nei modi e nelle soluzioni, portava
un micropantaloncino a vita bassa, infradito con
frammenti di zirconi incastonati sul collo del piede
e una canotta stretta in vita e aperta sul petto, facendo fuoriuscire uno stomaco abbondante e un pelo fitto e arruffato.
Per trascorrere la notte, avevano prenotato una
stanza nella piccola “Pensione da Titti”, due stelle,
dieci camere in tutto e tanto buon umore, tipico di
quelle parti. Dopo una cena frugale ma ben articolata, si regalarono il dessert in camera da letto,
dandosi l‟amore a vicenda fermandosi a tutte le stazioni, come un trenino rapido e puntuale.
Poi fu di nuovo fabbrica, con i suoi ritmi e le sue
regole e a Calla questo non andava giù, non voleva
stare lontano dal suo Stani nemmeno per un minuto.
Anche se condividevano la mensa, visto che le loro
rispettive aziende distavano poche centinaia di metri l‟una dall‟altra, a lei non bastava, gelosa e possessiva com‟era voleva avere l‟amato sempre sotto
controllo, anche perché nubi nere si addensavano
all‟orizzonte: già più volte aveva visto Stani parlottare con un suo collega, un certo Vladimiro,
anch‟esso gay dichiarato…
Apro una piccola parentesi e mi chiedo perché la
stragrande maggioranza dei gay da fabbrica abbiano tutti nomi sovietici, come Palmiro, Vladimiro,
Stanislao, Ivan, Igor ecc. Forse hanno pagato il
“regime” casalingo dei loro padri comunisti? O sono solo casualità? Ma riprendiamo da dove erava36
mo rimasti: per non farsi sfuggire la preda conquistata con fatica, Calla organizzò una cenetta romantica a casa sua, perché, come disse al telefono al
compagno, aveva delle comunicazioni urgenti che
lo riguardavano.
Gli servì la cena da vera regina di casa, stando attenta a tutti i dettagli, ma solo a fine serata confessò
il vero motivo dell‟incontro e gli chiese senza mezzi termini: «Mi vuoi sposare?» Stani cadde dalla
sedia spezzandosi un polso, più tardi rispose di sì.
Quale posto migliore di Las Vegas, la patria della
trasgressione, per suggellare il loro amore? Una
settimana dopo avevano già organizzato il viaggio:
un mese tutto per loro per girare l‟America. Era
quanto erano riusciti a strappare con i denti ai loro
rispettivi capi reparto, cioè quindici giorni di “matrimoniale” più altre due settimane di ferie fuori
stagione, davvero il massimo. Naturalmente la prima tappa fu il Nevada, destinazione Las Vegas, dove scelsero per testimoni una coppia di ultra novantenni che, dopo un breve fidanzamento di settantatre anni si era decisa a fare il grande passo, poi affittarono a buon mercato, come funzionario di nozze, un obeso signore con un paio di baffi sottili vestito da Freddie Mercury, infine scelsero i Sex Pistols come gruppo musicale per intrattenere la coppia e qualche sagoma cartonata usata dagli organizzatori per fare atmosfera. Fu una cerimonia sobria e
raffinata, poi folleggiarono tutta la notte nella stanza di Barbablu.
L‟intera vacanza scivolò via troppo rapidamente e
si ritrovarono sull‟aereo che gli avrebbe riportati a
casa in un batter d‟occhio. Non sembravano esserci
problemi di nessun tipo, l‟aereo appariva forte e
ben tenuto, anche le condizioni climatiche sembravano favorevoli a un volo tranquillo, invece, dopo
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pochi minuti dal decollo, iniziarono delle forti turbolenze. Tra i passeggeri fu il caos, si ritrovarono
sottosopra, sballottati a destra e a sinistra, strapazzati e mescolati, agitati e shakerati, tutti tranne loro
due, saldati in un abbraccio profondo. Qualche minuto più tardi il pilota si presentò ai passeggeri con
la cloche in mano, ammettendo di aver forse perso
il controllo dell‟aereo e consigliando ai presenti
preghiere rapide e di facile presa. Tutti si accalcarono davanti ai finestrini per godersi la rapida discesa
a terra e l‟immediata ascesa al Supremo; videro nel
giro di pochi secondi spezzarsi come un grissino
l‟ala destra, seguita a ruota dal motore sinistro, perdendo in fine quel poco che ancora rimaneva. Solo
la fusoliera con i suoi ostaggi all‟interno resisteva,
disposta a lottare fino alla fine con i passeggeri.
A poche decine di chilometri dalla morte, Stani si
liberò dalla morsa del compagno e, preso da un istinto primordiale, tirò fuori il cellulare, compose
un numero e dall‟altra parte del mondo rispose
Vladimiro. Ci fu una rapida (ovvio) conversazione
in cui Stani salutò per l‟ultima volta l‟amico poi,
prima dell‟impatto, trovò il tempo per un ultimo respiro e gli disse: «Saluta tutta la mia famiglia, dì
loro che li ho sempre amati anche se non hanno mai
accettato la mia condizione di “diverso”. Ringrazio
il cielo per avermi permesso di conoscerti, addio.»
La comunicazione si interruppe, era finito il credito
e Stani si sentì tirare per il braccio da Calla che, visibilmente contrariata, disse: «No, scusa carino ci
stiamo schiantando e tu telefoni ad un altro uomo,
ci stiamo schiantando e tu ringrazi Dio per avertelo
fatto conoscere, e poi te l‟avevo detto di fare una
ricarica da 50 euro, invece sei il solito tirchiaccio,
ci stiamo schiantando e tu non hai un solo pensiero
carino per me, ci stiamo…» Puffff.
38
AMICO (IL VAGABONDO)
Carluccio era alle “squadratici” da ormai troppi anni, assuefatto completamente dal suo iPod, usato
clandestinamente come morfina per lenire la “fabbrica“, canticchiava quei motivetti con trasporto,
lasciandosi andare ad esternazioni canore molto
sentite, del tipo “ni-na-ne-ni-na-na”, anche perché
le parole proprio non volevano entrare. Il giovane
Doni, che quella mattina gli avevano affiancato per
imparare il “lavoro”, gli disse scherzando: «Noto
con piacere che anche tu parli il ninanese, lo sai che
è la lingua più cantata in Italia?» Divertito dalla discussione, il “cantante” si lanciò in un assolo da
rock star, usando la scopa come chitarra e il trapano
come microfono, finendo quasi per sgozzarsi con il
cavo elettrico, naturalmente in un “ninanese” quasi
perfetto.
Il ragazzo, simpatico e goliardico, aveva la capacità
di divertire e, anche se ancora acerbo per la sua
verde età, riscuoteva in mezzo agli operai un notevole successo; in quella landa senza pace di anime
nere, era come manna dal cielo.
Doni, col tempo, non solo divenne un brillante collega con cui condividere piacevolmente la giornata,
ma rapidamente tutti capirono che nascondeva ben
altre virtù, era infatti un “vagabondo” senza eguali.
Mente diabolica e cervello fino, ne fecero di fatto il
nemico giurato di tutto il patriziato aziendale. Entrato in fabbrica con l‟aiuto di qualche Capo reparto
corrotto, inizialmente si nascose dietro ai panni di
bravo ragazzo, diligente e capace, poi, una volta as39
sunto, cominciò a tessere una fitta ragnatela di astuzie e trabocchetti disseminati lungo il perimetro
della fabbrica, facendo affiorare poco a poco i suoi
piani criminosi, senza lasciare tracce che potessero
comprometterlo. Altruista e magnanimo con i colleghi, ma soprattutto dotato di una grossa capacità
intuitiva, Doni riuscì in poco tempo ad individuare
nuovi adepti da traviare e coinvolgere nella rete
dell‟ozio, scatenando contro di sé tutta la dirigenza,
che aveva trovato in lui il cancro da estirpare con
ogni mezzo a disposizione. Per questi pericolosi
segnali destabilizzanti, la direzione decise di convocare per un primo confronto “conoscitivo” il
giovane anarchico fancazzista.
In una piccola saletta al primo piano, usata normalmente per ricevere rappresentanti o piccoli fornitori, al cospetto del suo Capo reparto e di un dirigente di basso livello, avvenne l‟incontro. Gli mostrarono un grafico che riproduceva la situazione
produttiva prima e dopo il suo arrivo, a tal proposito prese la parola il dirigente per illustragli il problema nei dettagli: «Mi saprebbe spiegare il perché
di un rallentamento produttivo così marcato dal
momento in cui lei è stato assunto in questa ditta?
Non solo, in questo ultimo periodo l‟aumento di infortuni e malattie da parte del personale è salito del
40% rispetto all‟anno passato, ha qualche spiegazione in proposito?»
L‟operaio, per nulla intimorito dalle accuse del vassallo, rispose tranquillamente: «Non vedo come tutta questa vicenda possa riguardarmi, noi operai cerchiamo di svolgere sempre al meglio il nostro lavoro; per quanto riguarda la malattia, invece, le posso
dire che l‟influenza quest‟anno è stata particolarmente “cattiva”, una vera epidemia, lo dice anche il
telegiornale.»
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«E gli infortuni?» lo incalzò il potente gerarca.
«Beh, non volevo dirlo per non creare inutili polemiche, ma ci fate lavorare in condizioni tutt‟altro
che confortevoli, manca praticamente tutto: dalla
saletta ristoro, dove potersi sedere durante la pausa
caffè, all‟illuminazione, che è assolutamente insufficiente; i riscaldamenti funzionano un giorno sì e
un giorno no, l‟attrezzatura che ci passate è scadente e può diventare col tempo estremamente pericolosa, la carta igienica nei bagni è troppo ruvida, i
pavimenti sono crepati e disconnessi, spesso le merendine nelle macchinette sono scadute, la scollatura della centralinista è troppo marcata, la TV della
sala mensa trasmette solo Rete 4. Mi dica lei se in
un quadro simile si può lavorare in sicurezza. In
tutta onestà le posso dire che sono dovuto intervenire spesso per calmare gli animi turbolenti dei
miei colleghi, stanchi di questa situazione; in futuro
continuerò ad adoperarmi perché le cose vadano
sempre nel modo migliore, come certamente saprà,
ho molto a cuore le sorti di questa azienda.»
Il dirigente e il suo delfino rimasero a bocca aperta.
Presi per il culo in modo elegante e signorile da un
giovane operaio nullafacente, le due prestigiose figure si resero conto del perché il ragazzo riscontrasse fra gli operai un simile successo. Poi, ritrovata la calma e la serenità tipicamente dirigenziali,
l‟alto funzionario chiuse il breve incontro minacciando: «Avrebbe potuto sfruttare le sue doti in ben
altro modo, ma non lo ha fatto, e ora pagherà. Voglio essere onesto con lei e dirle che lavora ancora
qui solo perché non abbiamo prove sufficienti per
sbatterla fuori, ma le garantisco che sarò io stesso a
prendermi la soddisfazione di organizzare la sua resa con ogni mezzo, anche il più scorretto, perché
sappiamo che è lei la mente di questo teatrino de41
stabilizzante, il burattinaio che muove i fili di un
gioco molto pericoloso. Attiveremo tutti i nostri
canali per attingere prove schiaccianti e mandarla a
casa, ora torni pure a non far niente.»
Quelle minacce, così dirette e precise, avevano ottenuto il solo risultato di far capire a Doni che il
suo tempo alla fabbrica stava per finire. Avendo
innescato una bomba ad orologeria che di lì a poco
sarebbe esplosa, decise di continuare il percorso intrapreso mesi prima, cercando come sempre di divertirsi e di divertire gli altri, lavorando sempre
meno, portando avanti la sua personale battaglia
contro l‟impiego lavorativo e a favore della libertà,
in perfetto stile anarchico.
Fermare l‟opera del vagabondo era difficile, ma
non impossibile, ogni uomo ha infatti il suo tallone
d‟Achille e l‟azienda, che questo lo sapeva bene,
decise di fare leva sugli operai più gretti e avidi.
Cominciò a giocare sporco mettendo, come nel FarWest, delle vere e proprie “taglie” sotto forma di
livelli e superminimi, convincendo senza troppi
sforzi diversi proletari a collaborare. Avvalendosi
di spiate, lamentele, testimonianze false e confessioni incisive e pressanti da parte di operai corrotti,
la direzione decise di intervenire per la seconda
volta, fissando, per il giorno seguente alle nove del
mattino, un incontro con il giovane Doni nella sala
“gold” dell‟ultimo piano.
L‟indomani, alle 8 e 45, Doni venne prelevato di
peso durante la prima pausa caffè da due enormi
buttafuori e diretto verso l‟ascensore dell‟azienda.
Cercò di fermare il sopruso intimando l‟alt ai due
energumeni e spiegando che all‟incontro ci sarebbe
andato, ma con la delegazione sindacale, in modo
da tutelare la propria posizione. I due gorilla si mi42
sero a ridere, aumentando la presa e sollevando di
peso il loro carcerato.
«Fermatevi subito!» gridarono gli RSU che, attirati
dalle urla del giovane, assistettero a tutta la scena
minacciando conseguenze legali. I due bestioni,
colti in flagrante come bambini con le mani nella
marmellata, si bloccarono di scatto, facendo precipitare a terra il vagabondo. Fu solo grazie
all‟intervento diplomatico di un alto dirigente che
la situazione tornò alla normalità, ma non senza ripercussioni. Infatti, per quell‟eccesso di potere da
parte dell‟azienda, la delegazione chiese ed ottenne,
in cambio del silenzio, diverse agevolazioni durante l‟incontro del loro assistito. Anzitutto la possibilità di portare testimoni chiamati dalla difesa, analizzare e determinare l‟autenticità di eventuali prove, fermarsi nell‟ora di pranzo, mangiare al ristorante a spese della azienda e che la giornata, così
stressante per il “vagabondo”, gli venisse calcolata
come straordinario.
Nella stanza ovale, quella del potere, alla presenza
della santissima trinità, Padre Figlio e Amministratore Delegato, in fila sui rispettivi troni, ebbe inizio
il secondo atto del processo ai danni del giovane.
Vennero portate numerose prove ed anche diverse
testimonianze di operai voltafaccia che gli scaricarono merda addosso, pensando di costringerlo in
breve ad una resa drammatica ed incondizionata,
ma non andò esattamente così. Dopo le varie deposizioni, in aula ci fu un clamoroso colpo di scena;
dalla tasca interna della giacca, con fare plateale di
una mossa studiata a tavolino, Doni estrasse teatralmente un piccolo registratore e disse: «Vostro
Signore e Padrone, vorrei mettere agli atti questa
prova schiacciante, che dimostrerà la mia buona fede e la trama ordita ai miei danni da un manipolo di
43
dirigentuncoli al fine di raggranellare prove sufficienti per allontanarmi dall‟azienda. Chiedo dunque
al Presidente il permesso di ascoltare la registrazione.»
Naturalmente, dall‟alto della sua equità e della sua
amorevole benemerenza, il Divino acconsentì con
un cenno del capo.
Un Serafino ammaestrato, posizionato nell‟angolo
della sala, prese il nastro dalle mani del vagabondo,
svolazzò verso la parete opposta dove era collocato
il registratore, vi inserì la cassetta e una musica celestiale risuonò nelle orecchie del giovane: «… le
garantisco che sarò io stesso a prendermi la soddisfazione di organizzare la sua resa con ogni mezzo,
anche il più scorretto, perché sappiamo che è lei la
mente di questo teatrino destabilizzante, il burattinaio che muove i fili di un gioco molto pericoloso.
Attiveremo tutti i nostri canali per attingere prove
schiaccianti e mandarla a casa…»
Il giovane, che aveva registrato l‟intera precedente
conversazione, mise nel sacco con quella mossa astuta la “Sacra Famiglia” al completo. A quelle parole così nette e inequivocabili, l‟Amministratore
Delegato crollò dal suo trono alto tre metri sfracellandosi al suolo, il Figlio fulminò il dirigente che si
era macchiato di simile comportamento gettando le
ceneri nel water, il Padre si bestemmiò addosso
sgretolando le ali del Serafino e trasformandolo in
un orrendo eunuco, mentre la piccola delegazione
sindacale prese a masturbarsi avidamente nel vedere il simbolo del capitalismo in difficoltà.
«Chieda quello che vuole, mi dica cosa le serve e
sarà suo, ma non mi rovini» si scusò piagnucolando
il Presidente. La scena fu memorabile, da una parte
i nemici di sempre che gli leccavano il culo, implorando perdono, dall‟altra un ragazzo qualunque che
aveva nelle mani la possibilità di colpire a morte
44
l‟odiato sistema e, per finire, i tre sindacalisti che arrivarono all‟orgasmo contemporaneamente, spruzzando a fontanella sopra le teste dei presenti un getto
di piacevole delizia.
«Basteranno 50.000 euro» rispose seccamente
l‟errabondo. Il potente Signore prese atto della richiesta del giovane e, quasi deluso, gli disse: «Devo ammettere di essere dispiaciuto, i miei informatori l‟avevano descritta come un “michelaccio” estroverso e anticonformista, ma si sbagliavano di
grosso, non è altro che un comunissimo operaio pidocchioso, se è soltanto una questione di soldi,
gliene do 70.000, in cambio della registrazione originale e delle sue dimissioni firmate.» Poi tirò fuori
dal cassetto della scrivania il suo blocchetto degli
assegni di papiro con intarsi in madreperla, ne
compilò uno e lo tirò addosso al giovane, che lo
raccolse e lo intascò. Il ragazzo, prima di uscire,
prese dalla tasca un foglietto unto e stropicciato,
scritto di suo pugno la sera prima, dove in poche
righe rassegnava le immediate dimissioni.
Il mattino seguente una strana lettera appiccicata in
bacheca richiamò l‟attenzione dei primi curiosi;
pochi minuti più tardi l‟intera comunità operaia
commentava impazzita il contenuto dell‟incredibile
missiva, che recitava così:
“Amici cari,
è con profondo rammarico che devo annunciare le
mie dimissioni irrevocabili. Malintesi e dissapori
con le più alte cariche aziendali mi hanno spinto a
questa sofferta decisione, posso affermare comunque che il mio compito si era ormai concluso da
tempo, riuscendo (almeno spero) a portare una ventata di ottimismo e di speranza, cercando in tutti i
modi di farvi capire che cambiare questo sistema
chiuso e dispotico è possibile. Ed ora, prima di di45
venire patetico, voglio concludere questa lettera regalando a tutti un sentito e commosso abbraccio e,
come segno tangibile delle mie parole, in perfetta
armonia con le mie idee, ho lasciato a ognuno di
voi, nei rispettivi armadietti, un contributo in denaro per una somma totale di 70.000 euro elargiti dalla proprietà, come risarcimento morale dei soprusi
arrecati alle vostre maestranze in questi anni di tirannia, dando a me l‟onore di provvedere alla distribuzione equa ed omogenea del denaro. Augurandovi
nuovamente tanta felicità, amorevolmente saluto.
L‟operaio Doni.”
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LA SACRA SINDONE (LA PUZZOLA)
«Lavasecco, oggi darai una mano al Cabotti, dovete
finire entro sera le cinquanta macchine per quel nuovo cliente, domani mattina abbiamo il camion pronto alle 8 per caricare» sentenziò il Capo reparto del
montaggio ai due operai.
Apparentemente la cosa sembrerebbe del tutto
normale, se non fosse per un piccolo dettaglio: Lavasecco, lavoratore instancabile e affidabilissimo,
era conosciuto da tutti come “la puzzola”.
Il povero Cabotti ebbe un mancamento e fu letteralmente preso al volo dal Lavasecco, che per lo
sforzo cominciò a colare sudore come un rubinetto
aperto; Cabotti in un primo momento si riprese,
poi, respirando l‟odore acido e malsano che fuoriusciva dal corpo della puzzola, stramazzò al suolo in
preda a violente crisi epilettiche. Rinvenne miracolosamente poche ore dopo in ospedale, credendo di
essere scampato ad un attacco terroristico effettuato
con armi chimico-batteriologiche.
Questo era solo l‟ultimo di una lunga serie di episodi che aveva visto coinvolto Lavasecco, costretto
da quella dannata mutazione ormonale a portarsi
addosso un fardello difficilmente sopportabile. Non
era mai stata una questione di scarsa igiene, anzi,
aveva dilapidato un‟autentica fortuna, i risparmi di
una vita (in questo caso possiamo veramente parlare di soldi sudati) nell‟acquisto di profumi, deodoranti, creme per il corpo e ogni genere di prodotti di
bellezza, il tutto naturalmente con il medesimo risultato, nessuno.
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Da sempre il mese di luglio è per tutti gli operai
quello più difficile da superare, vuoi per il caldo insopportabile, che in quegli ambienti è davvero disumano, vuoi per il traguardo delle ferie ormai
prossime, ma che non vogliono arrivare (da uno
studio eseguito da una famosa università americana, si è scoperto che una giornata qualunque del
mese di luglio equivale a cinque giorni di lavoro in
un normale periodo dell‟anno), ebbene quella fu
l‟estate più torrida degli ultimi quarant‟anni.
Dopo quel brutto episodio il Lavasecco venne isolato per parecchi giorni e, per evitare nuovi incidenti, tutti gli operai vennero dotati di una maschera antigas che dovevano obbligatoriamente indossare se si trovavano nelle vicinanze della puzzola, che
riceveva ogni comunicazione a lui destinata attraverso l‟altoparlante della fabbrica. Tutto questo
finché una perturbazione atlantica abbassò vertiginosamente le temperature, riportando la situazione
alla normalità.
Per qualche inspiegabile motivo, l‟abbigliamento
aziendale, magliette, pantaloni, felpe, giubbotti e
quant‟altro, viene consegnato sempre nei periodi
dell‟anno meno indicati. Quella volta capitò verso
la fine di luglio e fu l‟inizio del dramma.
«Tutti in fila, coraggio, una felpa, un pantalone e
due magliette, taglia unica, quindi prendetele pure
da soli; naturalmente la Direzione obbliga tutti voi
a mettere durante l‟orario di lavoro gli indumenti
che vi sono appena stati consegnati, lasciandovi la
libertà di indossarli anche all‟esterno» sbraitò il
Responsabile di Stabilimento durante la consegna.
Partirono dei «Grazie» sommessi e poco convinti,
solo Coatti (il sovversivo del gruppo) ebbe la forza
di rispondere per le rime al tiranno, dicendogli in
tono ironico: «Proprio materiale di prim‟ordine,
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100% pura plastica, e la dovremmo indossare anche
fuori, nella vita privata… piuttosto vado in giro avvolto dai sacchetti della mondezza, che poi è la
stessa cosa.» Partì qualche applauso di fortuna, stroncato subito dallo sguardo di ghiaccio del Responsabile che, rosso in volto e terribilmente incazzato, rispose: «Facciamo gli spiritosi, il materiale non è di vostro gradimento? Benissimo, l‟abbigliamento appena
consegnato, che era destinato al prossimo autunno,
deve obbligatoriamente essere indossato a partire da
domani mattina. Chiunque venisse trovato sprovvisto, verrà immediatamente licenziato!» Nemmeno
Coatti riuscì a rispondere a una simile affermazione, che suonava come una condanna a morte, ma
dovette subito guardarsi le spalle perché gli sguardi
dei suoi colleghi si facevano sempre più minacciosi. Capito il pericolo scappò rapidamente verso
l‟uscita della fabbrica.
La situazione precipitò subito di mano, a nessuno
in realtà importava più di tanto di dover mettere
qualche panno in più, in fondo mancavano solo pochi giorni alle ferie estive, ma erano tutti terrorizzati da cosa poteva scatenare tale punizione alla povera puzzola, che apparentemente prese la cosa con
distacco poi, una volta metabolizzata la notizia,
piombò in una profonda crisi d‟identità. Credendo
di essere la reincarnazione del rivoluzionario francese Robespierre, si arrogò il diritto di vita o di
morte sui dirigenti della fabbrica, sentenziando:
«Compagni, il momento della nostra vittoria è vicino, le generazioni a venire parleranno a lungo delle
nostre gesta, scrivendo di noi come degli eroi, capaci, con la sola forza delle nostre idee e del nostro
coraggio, di sconfiggere in maniera rapida e definitiva tutta la nobiltà aziendale. Allestiremo al di fuori della grande piazza (il piazzale della fabbrica)
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uno strumento di grande democrazia, la ghigliottina, giudicando in maniera imparziale e al di sopra
di ogni ragionevole dubbio, tutto il patriziato industriale presente in questa dimora del peccato…»
Completamente in preda al personaggio che magistralmente interpretava, prese carta e penna e cominciò a scrivere un inquietante elenco, che una
volta completato andò a leggere alla folla impazzita:
«Questa la lista delle persone che dovranno presentarsi alla sbarra per regolare processo: Direttore Industriale Rag. Carlo Vestioli, Direttore delle risorse
umane Mauro Luigi Della Valle…» Fu interrotto
bruscamente da un collega che lo schiaffeggiò violentemente per farlo riprendere; la pantomima era
durata anche troppo, con il rischio che qualche pezzo grosso sentisse quei discorsi di pura follia mettendo seriamente nei guai tutto il personale. In seguito accompagnò a casa il Lavasecco, che era nel
bel mezzo della sua arringa conclusiva nei confronti del Capo reparto della produzione.
Il giorno seguente, al lavoro, si presentarono tutti
con una certa puntualità; anche il Lavasecco, che
tutti davano per sicuro “ammalato”, si presentò alle
porte del “grande cancello” in perfetto orario. Alle
8 del mattino faceva già piuttosto caldo, la temperatura esterna misurava 33°, quella interna era stata
rimossa anni prima, per evitare crisi di panico e
malesseri degenerativi nei momenti più caldi e più
freddi dell‟anno, ma doveva essere piuttosto alta,
perché le borse termiche degli operai contenti il cibo del pranzo cominciavano minacciosamente a
sfrigolare.
Verso le 10 del mattino, con un caldo insopportabile tipo Sahara e nel bel mezzo di una tempesta di
sabbia, Lavasecco cominciò a sprigionare sudore
solido, sotto forma di lapilli di lava. Come una fon50
tanella zampillante, spruzzava magma incandescente e altamente tossico in un raggio di 20 metri, investendo praticamente tutta l‟area produttiva. Il fenomeno durò pochi secondi, poi all‟improvviso si
arrestò, riportando tutto ad uno stato di apparente
normalità.
I poveri operai si trascinarono orribilmente fino al
gracchiare stanco e affaticato della sirena del mezzogiorno, che conduceva tutto il gruppo proletario
nello spogliatoio. Non potevano immaginare che di
lì a poco sarebbero stati testimoni di uno dei fenomeni più straordinari e inspiegabili a cui si sia mai
assistito, l‟apparizione della “Sacra Sindone”.
Nel frattempo un temporale tipicamente estivo, intenso e repentino, aveva rinfrescato l‟ambiente e
abbattuto violentemente le temperature riportando
le condizioni lavorative in uno stato più che accettabile. Il Lavasecco, distrutto da quella mattinata
infernale e provato dalle terribili esalazioni che egli
stesso produceva, vista la situazione climatica profondamente cambiata tentò un ultimo sconsiderato
gesto, il cambio della maglia. Già in passato per
simili tentativi era dovuto ricorrere all‟intervento
dei vigili del fuoco, che erano sempre riusciti a
scrostare l‟indumento ossidato; questa volta però,
con una strana espressione di beatitudine nel volto,
s‟era convinto a fare tutto da solo e infatti avvenne
il miracolo. Probabilmente per qualche alchimia
prodotta dall‟aria così fresca e piacevole, il contatto
diretto con la pelle provocò lo scollamento della
maglia che, messa controluce in uno strano gioco di
colori, evidenziò il sacro sudario dove venne avvolto Gesù Cristo.
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La reliquia è tuttora esposta all‟interno del Duomo
di Torino, al fianco della sua famosa gemella, mentre il Lavasecco dopo quegli episodi misticoreligiosi non manifestò più nessun problema di sudorazione (questo è stato il secondo miracolo della
storia), risultando agli esperti che lo ebbero in cura
per diversi mesi perfettamente guarito.
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L’ABBANDONO (IL LECCHINO)
Sarebbe banale e riduttivo descrivere la figura del
lecchino limitandosi all‟aspetto legato al desiderio
morboso di compiacere al diretto superiore, infatti
la storia del “mulettista” Gargiulo merita un‟analisi
più ampia e approfondita. Vari aspetti e particolari
caratteristiche ne fanno un personaggio di ben altro
spessore: dotato di un‟intelligenza perfida e sopraffina, in grado di emozionarsi se l‟esigenza lo richiede simulando comprensione e affetto, è come
un angelo capace di sputare zolfo.
Nato a Bergamo ma di origini meridionali, da anni
era per tutti il “mulettista”, capace di guidare qualsiasi mezzo, dal triciclo per infanti fino al bilico da
100 metri, acquisendo nel tempo un‟esperienza invidiabile anche per un pilota di Formula 1. Quella
della guida, però, non era la sua unica passione, da
anni seguiva dei corsi serali in “lecchinaggio” con
approfondimenti specifici in “devozione estrema e
appagamento del superiore, dovere o piacere?” a
cura del Prof. Emiliano Fedele.
Sacrifici comunque ripagati, perché col tempo Gargiulo si era guadagnato le simpatie del proprio Responsabile, finendo per diventare il suo consigliere
personale o, meglio, lo spione a cui rivolgersi per
conoscere spaccati sulla vita di fabbrica di ogni operaio, ottenendo in cambio un briciolo di finta
umanità e di riconoscenza dal proprio superiore.
Odiato e temuto dai colleghi al punto di doversi
guardare le spalle, i messaggi anonimi, divenuti
minacce verbali neanche troppo velate, erano ormai
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all‟ordine del giorno, ma lui, conscio del pericolo
ma determinato ad adempiere alla sua missione,
non rallentò nemmeno per un istante, convinto
com‟era che l‟unica strada per il successo passasse
da lì. In fondo comprenderne veramente pensieri e
opinioni era impossibile, viveva una vita in prestito, respirava costantemente emozioni che non erano
le sue, per un fine effimero e superficiale, ma che
era tutta la sua vita, per poi gridare un giorno a tutto il mondo «Sì, sono un pezzo di merda, ma che
conta qualcosa!»
Fino a che, una sera piovosa di fine marzo,
all‟ennesima “soffiata” del Gargiulo, questa volta
su di un tornitore che si era assentato dalla produzione per partecipare a un‟importantissima finale di
calcetto, scoppiò la rivolta. La mattina seguente infatti, dopo la decisione da parte della Commissione
interna, composta dalla Santissima Trinità, di allontanare lo sventurato calciatore a tempo determinato,
si scatenò una vera caccia all‟uomo.
Circondato alle 10 del mattino, durante la pausa
caffè, da un gruppetto di operai particolarmente focosi, fu prelevato, imbavagliato e trascinato nei
cessi in fondo al corridoio della fabbrica, dove nessuno avrebbe dovuto sentire il suo “pentimento”.
Sbattuto su una vecchia sedia, fino a quel momento
utilizzata per cambiare qualche lampadina fulminata, ma che calzava a pennello per quella scena da
film “pulp”, fu preso letteralmente a calci e pugni,
umiliato e insultato violentemente. Il “pentimento”
fu breve ma intenso, qualche minuto dopo, per sua
fortuna, bussarono alla porta del bagno, erano le
addette alle pulizie per le consuete faccende mattutine, che lo salvarono dal linciaggio. Dopo qualche
secondo, ancora intorpidito dalle botte ricevute,
Gargiulo riprese un briciolo di lucidità e decise di
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scappare dalla finestrella del bagno in cui era stato
rinchiuso, ma le sorprese per lui non erano ancora
finite, al parcheggio trovò la sua auto con le quattro
gomme bucate e la carrozzeria rigata da un poco
rassicurante teschio sulla fiancata sinistra; terrorizzato scappò a tutta velocità.
Per la prima volta dopo tanti anni di lavoro si mise
in malattia, ripresentandosi in fabbrica dopo due
settimane perfettamente guarito, senza segni e senza ecchimosi sul volto. Del fattaccio non si seppe
mai nulla ufficialmente, ma tutti sapevano cos‟era
successo; la paura e un profondo senso di omertà
avevano definitivamente insabbiato la vicenda e
anche il Gargiulo non rivelò alcunché dell‟episodio,
nemmeno al suo amato Capo reparto.
Dopo quella vicenda, il “lecchino” cambiò apparentemente tattica, come gli diceva sempre il suo
professore durante le lunghe lezioni serali: «Se la
strategia che avete adottato non funziona, non importa, l‟importante è non smettere mai di leccare!»
Così fece, durante i mesi successivi al fattaccio elaborò diverse strategie alternative, trame complesse ed elaborate degne di un vero stratega militare,
capaci di imbrigliare e di pizzicare chiunque fosse
in fallo, stando attento però a non esporsi come in
passato. Poi arrivò il colpo di genio che caratterizza
tutti i più grandi fuoriclasse: apparentemente cambiato anche agli occhi degli operai che da tempo
non riuscivano più a collegarlo a episodi di “spionaggio di fabbrica”, si fece passare per un grosso
studioso e conoscitore in campo psichiatrico; in realtà le sue conoscenze non erano altro che qualche
lettura rubata su alcune riviste specializzate e nozioni elementari ricavate da antichi fallimenti universitari. Aveva persino affisso in bacheca degli
annunci che dicevano “Il Prof. Gargiulo riceve solo
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su appuntamento, il sabato e la domenica, dalle 14
alle 18”, con tanto di tariffario.
Scontato dire quanto” materiale” ci sia all‟interno
di una fabbrica e di quanto bisogno abbiano questi
sventurati di qualcuno che li ascolti; lui era riuscito
nell‟impresa di unire l‟utile al dilettevole, incassava
denaro per le sue prestazioni e spifferava furtivamente al suo capo i segreti più reconditi della vita
dei suoi odiati colleghi.
Finché ad agosto, indebolito dal caldo, dalle ferie
che non si decidevano ad arrivare e soprattutto dal
doppio lavoro che lo stava distruggendo fisicamente e mentalmente poiché durante le sedute di psicanalisi assorbiva tutti i problemi dei colleghi, fu colpito, come da un‟aquila in picchiata verso una preda facile e sicura, dal disturbo dell‟operaio. Nel caso del Gargiulo esso si manifestò, in maniera terrificante, con la “sindrome del cane da guardia”, ovvero finì con l‟assumere una vera e propria dipendenza fisica e morale per la persona che più amava
al mondo, il suo Responsabile, perdendo di fatto
ogni tipo di volontà sulla sua persona. Si presentò a
casa del suo amato Capo in uno stato catatonico:
«Gargiulo, cosa ci fai qui, oggi è domenica, dovresti essere a casa, a lavorare per me» gli disse preoccupato il superiore, ma non ricevette risposta, né in
quel frangente, né in futuro. Gargiulo scostò leggermente il suo “nuovo padrone”, prese lo zerbino
adagiato fuori dalla porta, lo scrollò dalla polvere e
vi si appollaiò sopra, restando in quello stato per i
giorni a venire, abbaiando giorno e notte su chiunque si avvicinasse al suo padrone.
Non sapendo come risolvere la situazione e consapevole di avere ormai ottenuto il massimo dal povero Gargiulo, il Responsabile, in partenza per le
vacanze al mare, lo caricò di peso in macchina con
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il resto della famiglia, poi, dopo qualche chilometro
in autostrada, fu costretto suo malgrado ad abbandonare il fedele quadrupede in una piazzola di sosta. Piangente ed impaurito, Gargiulo vagò per tutta
la vita in cerca del suo padrone.
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“MITRAGLIA” (IL CHIACCHIERONE)
Gli operai della fabbrica erano tutti seriamente preoccupati, perché Gaetano, operaio qualificato in forza
alla produzione, era tornato a lavorare dopo sei mesi di malattia, il “grande cancello” riapriva le sue
vecchie braccia per accogliere il più grande “parlatore” che la storia moderna ricordi.
La lunga assenza forzata dall‟azienda si era resa
necessaria per curare la frattura scomposta di tibia e
perone della gamba destra, riportata durante una
banale caduta da cavallo. L‟operaio, appassionato
di ippica e padrone di un bel puledro maculato, era
solito cavalcarlo andando al piccolo trotto per cercare un po‟ di serenità lontano dal trantran cittadino
e, forse esagerando un pochino, quella fatidica domenica parlò all‟orecchio dell‟animale per quattro
ore consecutive, confidandogli i suoi segreti, le sue
speranze e naturalmente le aspettative di vita, scatenando la belva inferocita in un galoppo forsennato, fino a disarcionare il fantino facendolo planare a
15 metri di distanza. All‟uomo, come detto, fu riscontrata la frattura della gamba, mentre
all‟animale, oltre la lesione permanente del timpano, fu diagnosticata una rarissima forma di stress.
Gaetano si diresse dal suo Capo reparto alle 8 e 5
minuti del mattino e lo salutò amichevolmente dicendogli, in modo molto sintetico: «Ciao Capo, finalmente sono tornato, ti sono mancato? Come
vanno le cose qui? State facendo straordinario in
questo periodo? Non ho problemi a fare qualche
ora in più, qualche soldo extra in tasca fa sempre
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comodo, se non sbaglio Matteo ha dato le dimissioni, se vuoi posso andare io a ricoprire il suo ruolo, tua moglie ha partorito? A proposito, ho notato
che il Direttore ha cambiato auto, certo che
quest‟anno la tua Juve non ti sta dando tante soddisfazioni; avete spostato la marcatempo dall‟altra
parte della fabbrica, ottima scelta perché è più vicina al parcheggio; secondo il mio modestissimo parere dovresti cambiare pettinatura, perché questa ti
invecchia parecchio, prova a fare come ho fatto io,
tirati i capelli indietro e fatti una bella tintura nero
corvino…»
Alle 10 e 47, dopo vari tentativi di spegnere quello
strano essere, cercando sotto il camice qualche tasto che indicasse la scritta “off”, il Responsabile
scappò via in lacrime, lasciando l‟uomo nel bel
mezzo di un discorso sugli alieni, ma tutti alla fabbrica avevano sempre pensato che il vero alieno
non poteva che essere lui.
Dopo una breve pausa caffè, dove Gaetano intavolò
un acceso dibattito tra lui, il cucchiaino e un bicchiere di carta, sulla necessità di incentivare il riciclaggio per salvare quello che rimaneva del nostro
pianeta e di una ricerca più assidua di materiali
biodegradabili, per un uso sempre più limitato della
plastica (per precisione dobbiamo dire che il cucchiaino e il bicchiere non erano dello stesso parere,
rivendicando il loro diritto alla vita), alle 11 e 20,
dopo aver salutato cordialmente la macchina del
caffè, si diresse verso il vice Capo reparto per farsi
assegnare da lui un nuovo incarico. Lo trovò nascosto dietro ad una fila di bancali, vicino
all‟imballatrice, si salutarono da lontano e, prima
che il vice potesse assegnarlo ad una postazione, fu
bombardato di parole.
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Agonizzante a terra dalle troppe ferite che il chiacchierone gli aveva inflitto, il vice riuscì a strappare
un lembo di grembiule del nemico, tentò di scriverci sopra col suo sangue il nuovo incarico assegnatogli, ma suonarono a morte le campane del mezzogiorno. Gaetano raggiunse la mensa con la propria vettura, andò a sedersi a una tavolata di suoi
colleghi, dove riuscì a mangiare primo, secondo e
frutta senza mai smettere di parlare; gli altri operai,
che non avevano le sue stesse doti, provarono ad
assecondarlo annuendo ritmicamente con la testa
per qualche minuto ma lui, indomito, continuava,
incalzandoli sempre con nuove discussioni, finché,
colpiti da una forte nausea, vomitarono a turno nel
bagno l‟intero pranzo.
Al rientro, attraverso il megafono, gli venne assegnata d‟ufficio la prima postazione della catena di
montaggio, la più dura della fabbrica. Per quella
mansione occorrevano attenzione e vigoria fisica,
in quanto si assemblava la “carcassa” della macchina, voluminosa e pesantissima. Gaetano, che
sopportava egregiamente la fatica, trovò anche il
tempo per una litigata tremenda con il collega della
seconda postazione, che lo attaccò dicendogli:
«Guarda come mi consegni la macchina, mancano
la metà delle viti, è normale, pensi solo a parlare!»
Il chiacchierone, a cui non moriva certamente la
lingua in bocca, gli rispose con un‟arringa di due
ore, al termine delle quali l‟operaio l‟implorò in ginocchio di perdonarlo e di chiuderla lì.
La sirena delle 18 decretò il triplice fischio su quella pesante giornata lavorativa e una marea operaia
defluì dalle proprie prigioni in pochi minuti. Anche
Gaetano si diresse verso il suo scooter, le giornate
ancora piacevolmente tiepide di settembre regalavano quella tonificante sensazione di frescura sul
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viso e, nel breve tragitto che lo separava da casa,
non fece altro che parlare di come lo smog e
l‟inquinamento avessero rovinato la sua bella città,
andando incontro inevitabilmente ad un serrato attacco di insetti, mangiandosi fra gli altri due mosche, un‟ape e una cacca di piccione.
«Ho preparato uno spuntino, tesoro» gli disse la
moglie gioviale nel vederlo rincasare, «Grazie, ma
ho già fatto un aperitivo al volo per strada» le rispose con una punta di disgusto.
Più tardi, la sua brama di parole si spostò sulle figlie, volle sapere al dettaglio la loro giornata ( e lui
naturalmente gli illustrò la sua), cosa avevano fatto
a scuola, come avevano trascorso il pomeriggio e
insieme diedero una lentissima occhiata ai compiti.
Spolpate a dovere dal padre, alle 8 della sera dormivano entrambe profondamente.
Ora non rimaneva che sistemare la moglie, la mise
nel mirino intorno alle 20 e 30, l‟attaccò da terra e
da mare, distruggendo ben presto le sue scarse difese. Costringendo la donna a ritirarsi sconfitta nelle
proprie stanze, l‟uomo, rimasto finalmente solo, si
mise comodamente in poltrona per seguire Il Processo di Biscardi in religioso silenzio.
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LA SFIDA (IL SAPIENTINO)
Ogni fabbrica, dalla più piccola alla più grande, dispone al suo interno di un tuttologo, un sapiente individuo capace di rispondere a tutte le domande a
cui viene sottoposto; ad ogni argomento egli si riferisca, dallo sport alla politica, dalla religione alla
meteorologia, lui non ha dubbi, ma solo certezze.
Antonio Fiore, prestigioso magazziniere di punta
della Grande Fabbrica, era per tutti “il Sapientino”;
figura di spicco della Famiglia dei “saldatori”(clan
fondato all‟interno della fabbrica negli anni ‟70),
godeva di profondo rispetto e molti lo veneravano
come una divinità, portandogli quotidianamente
omaggi di ogni genere. Un paio di volte all‟anno,
davanti ad un altare improvvisato nella saletta del
caffè, venivano sacrificati animali di piccola taglia
in suo onore ed era l‟unico operaio dello stabilimento ad avere una segretaria personale, dovendo
far fronte a numerosi impegni e al pellegrinaggio
continuo, che anche da altre aziende limitrofe lo
vedeva costantemente protagonista. Tutti volevano
sapere, tutti chiedevano informazioni meteo, nozioni di fisica, formazioni di calcio degli anni ‟80,
informazioni sulle civiltà del passato, quesiti di matematica e consigli su quale credo politico fare affidamento (per la verità anche il Sapientino aveva
difficoltà su questa domanda, limitandosi a un poco
convincente «Ognuno segua il suo cuore»).
Tutti chiedevano tutto, lui rispondeva con assoluta
sicurezza, documentando ogni volta le sue affermazioni; ad esempio, alla domanda di un antijuventino
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sadico e accecato dall‟odio, su quale fosse la formazione tragicamente sconfitta in Coppa dei campioni ad Atene nel 1983, lui rispondeva quasi in
trance: «Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea,
Bettega, Tardelli, Rossi, Platini, Boniek, “Gazzetta
dello Sport”, 26-05-83». Così faceva su ogni argomento, destando ammirazione e rispetto, ma calamitandosi addosso l‟invidia e l‟insolenza dei “montatori”, il clan rivale, nato intorno alla metà degli
anni ‟80 in contrapposizione a quello dei saldatori,
con l‟unico scopo di distruggere il prestigio e il
buon nome del gruppo.
Emilio Scalori, detto “il Duca” perché vantava origini nobili, era il rampollo della Famiglia dei montatori. Giovane e abbastanza dotato intellettualmente, era considerato l‟alter ego del Sapientino, etichetta che lui non aveva mai accettato considerandosi al di sopra di chiunque, anche del Maestro, che
odiava profondamente perché aveva più volte messo in discussione la sua metodologia di giudizio,
spesso priva di documentazione, ma soprattutto il
suo titolo nobiliare, che secondo il “tuttologo” era
clamorosamente inventato.
Fu alla fine di una lunga settimana lavorativa che il
Duca prese coraggio e fece quello che il suo clan
gli chiedeva da ormai troppo tempo, scatenare cioè
una vera e propria faida, conquistando la leadership
aziendale. L‟occasione venne alle porte del “grande
cancello”, una mattina di metà ottobre dai colori tipicamente autunnali. I due si fermarono uno di
fronte all‟altro poco prima di entrare, i loro sguardi
si scontrarono per qualche istante che pareva eterno, con le foglie ormai secche e stanche che si staccavano ripetutamente dai castagni circostanti, andando sovente a morire sotto le scarpe dei due
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duellanti, interrompendo per un attimo con l‟acuto
scricchiolio il silenzio tangibile e surreale.
«Ti sfido!» disse senza mezzi termini il Duca, togliendosi di dosso il macigno che l‟aveva tenuto
sveglio la notte, «A freccette?» rispose divertito il
Maestro. Il giovane sfidante, già notevolmente innervosito e disunito nei modi, lo aggredì verbalmente: «Non sei altro che un vecchio rimbambito,
insolente e bugiardo, ti sfido apertamente ad un
confronto definitivo tra te e me, in un vero e proprio faccia a faccia, cinque domande su vari argomenti scelti a caso da una giuria al di sopra delle
parti, hai abbastanza fegato da accettare?»
Punto nell‟orgoglio, ma sufficientemente esperto
per non incorrere in queste provocazioni, lo ammonì un‟ultima volta: «Tu sai cosa succede a chi sfida
apertamente il Sapientino, non è vero? In caso di
sconfitta verresti subito classificato come “BLABLA-BLA” e poi costretto all‟esilio forzato, è davvero un rischio che vuoi correre?» Il giovane rivale
si limitò a fissare luogo, data, ora e giudici-arbitri,
poi disse: «Lunedì 27 ottobre, presso la sala mensa
aziendale, durante la pausa pranzo; i giudici saranno Picchi, Vescoli e Lorenzi, farò comunque affiggere in bacheca un regolare comunicato, in modo
che tutti possano assistere alla tua sconfitta» e se ne
andò velocemente a lavorare. Al Sapientino non
rimase altro da fare che prenderne atto e prepararsi
alla sfida nel miglior modo possibile.
Dopo un intenso weekend, trascorso dai due contendenti a preparare l‟evento ribattezzato da tutti in
fabbrica come il “Monday morning”, arrivò lento
ed impaziente il momento della verità; nella piccola saletta della mensa interna era stata allestita una
graziosa scenografia da quiz televisivo, con tanto di
procace valletta. Alla presenza dei tre giudici64
arbitri e di un numero imprecisato di spettatori che
si accalcavano dentro e fuori la mensa, il giudice
capo Matteo Lorenzi illustrò rapidamente il regolamento: «Vi farò scegliere nella consueta modalità
delle tre buste: una domanda ciascuno, la domanda
scelta sarà posta prima a uno, poi all‟altro concorrente, dopo cinque quesiti, chi avrà dato il maggior
numero di risposte esatte avrà vinto la sfida. Non
sono ammessi aiuti esterni di nessun tipo, pena la
squalifica, non sono consentite pause durante la gara, né colpi sotto la cintura.»
Ci furono subito degli alterchi tra le opposte fazioni
su chi avrebbe dovuto cominciare, si tentò dapprima con BIRI-BIM-BUM-BAM, ma non prevalse
alcuno, poi si passò ad AMBA-RABA-CICICOCO, ma anche qui non ci si mise d‟accordo,
successivamente si passarono in rassegna altre
quindici ignobili canzoncine e diciotto filastrocche,
senza che la spuntasse nessuno; nella situazione di
pericoloso stallo, arrivò la soluzione come per miracolo: il giudice Lorenzi, colto da folgorante intuizione, tirò fuori una monetina e disse contento e
soddisfatto: «Testa o croce?» Per la verità anche
qui si discusse parecchio su chi doveva essere testa
e chi doveva essere croce, dopo mezz‟ora di accesi
dibattiti si stabilì che o uno dei contendenti prendeva coraggio e sceglieva, oppure si sarebbe sorteggiato chi doveva essere testa o croce con un‟altra
monetina, scivolando pericolosamente in un turbine
senza fine. Mosso da un coraggio senza pari, il
saggio Sapientino disse, con sofferenza, «Testa» e
la matassa si sbrogliò immediatamente, riuscendo a
stabilire verso le 3 del pomeriggio che fosse il Duca, vincitore del sorteggio, a ricevere la prima domanda.
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Vista l‟ora e l‟incredibile interesse che si era creato
attorno alla vicenda, la proprietà, con una mossa
senza precedenti, decise di chiudere anticipatamente la fabbrica, lasciando a tutti la possibilità di assistere all‟evento. Alle 15 e 30 ora locale, davanti a
15000 spettatori giunti da tutta Italia, aggrappati in
ogni angolo della stanza e in ogni pertugio della
fabbrica come piante rampicanti, ebbe inizio la sfida del secolo.
A Sapientino i giudici fecero indossare le cuffie per
non ascoltare la domanda al “giovane sfidante”,
sparandogli a tutto volume Whole lotta love dei Led
Zeppelin e stordendolo; subito dopo l‟arbitro Lorenzi pose, con tono pacato ed imparziale, il primo
quesito al Duca: «Chi fondò e in quale anno, il movimento metodista in Inghilterra?» Il ragazzo, disorientato e in evidente difficoltà, rispose con un leggero balbettio: «Credo sia John Wesley, la fonte è
Il libro delle religioni, Neri Pozza Editore.»
«Esatto» rispose il giudice privo di trasporto, dopo
aver controllato le opzioni possibili. La fazione dei
montatori, fedele al giovane rampollo, abbozzò una
ola divertente ma mal gestita, metà degli spettatori
finì per cadere dai propri alloggi di fortuna, ritardando ulteriormente lo svolgimento della gara, che
riprese con fatica un‟ora più tardi. Arrivò finalmente anche il momento del “Maestro”, che rispose
senza nessuna difficoltà al facile quesito, sollevando pochissimo interesse da parte del clan dei saldatori, già sicuro della vittoria. Si passò rapidamente
alla seconda domanda: «Quante presenze e quante
reti totalizzò Tomas Skuravy, forte attaccante del
Genoa, durante la stagione calcistica ‟90-‟91?» Il
Duca vomitò tre volte poi, con la febbre a 40, rispose: «Non sono convinto, ma credo siano 33 presenze e 15 gol, la fonte naturalmente Calciatori
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Panini.» «Giusto» esclamò senza interesse il magistrato. Questa volta l‟entusiasmo troppo coinvolgente e il continuo saltellare al grido «Chi non salta
saldatore è» fece crollare parte del soffitto della
piccola mangiatoia, gettando nel panico il pubblico.
Tre ore e quindici minuti più tardi, grazie
all‟intervento dei vigili del fuoco e con una pesante
sensazione di scampato pericolo alle spalle, fu la
volta del Sapientino, che rispose ancora correttamente e senza indugi.
La situazione di perfetto equilibrio si protrasse per
le successive domande, quando alle 21 e 30, completamente al freddo e al buio, in una condizione
quasi da terremotati a causa dei numerosi crolli derivati dalle precedenti risposte esatte, arrivò la svolta.
Fu il giudice Vescoli a leggere l‟ultima domanda,
in quanto i suoi due illustri colleghi erano stati portati in via precauzionale al pronto soccorso per le
lievi ferite riportate dopo gli incidenti. Come sempre si rivolse per primo al Duca e gli chiese: «Chi
ha scoperto e in quale anno l‟antimateria nucleare?» Il giovane sfidante, dimagrito in maniera spaventosa, aveva anche assunto la poco rassicurante
“faccia da pecora”, sintomatologia tipica di un
“quasi morto”, ma ancora abbastanza lucido per rispondere, disse con un filo di voce: «Antonio Zechila, il titolo del libro è Perché io credo in colui
che ha fatto il mondo, edizioni Il Saggiatore, l‟anno
purtroppo non me lo ricordo.»
Resosi conto immediatamente della clamorosa svista e adirato per le risa che provenivano dal pubblico, non tanto per essersi dimenticato l‟anno della
scoperta, quanto per aver confuso il nome di un
importante scienziato con quello di una modesta
comparsa televisiva, abbassò la testa e cominciò a
piangere, sfogando tutto il suo dispiacere. Superato
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quel difficile momento, la valletta tolse finalmente
le cuffie al Sapientino, che nonostante fosse ancora
rintronato dalla musica intuì subito che l‟avversario
aveva sbagliato, infatti nessuno del pubblico esultava, inoltre vide il Duca, nella toilette della piccola
mensa, lavarsi via le lacrime dal viso.
Poco dopo il giudice ripeté la stessa domanda al
Sapientino, chiedendogli: «Chi ha scoperto e in
quale anno l‟antimateria nucleare?» In quell‟istante
il Maestro, forse per eccesso di sicurezza o per
quella paura che subentra sempre poco prima della
vittoria, perse tutta la sua tranquillità, borbottando
sottovoce possibili risposte, in evidente stato confusionale e madido di sudore, sprofondò in un sonno profondo. Tutti i presenti, basiti dagli incredibili
eventi, rimasero con il fiato sospeso, nessuno sapeva come intervenire, finché dopo numerosi tentativi
di rianimare l‟uomo, il potente sapiente si risvegliò
a notte fonda; finalmente sereno e in armonia con
se stesso rispose: «Scusate per lo spiacevole fuori
programma, ma ora posso dire con assoluta sicurezza che si tratta di Antonino Zichichi, la mia fonte è il libro scritto dallo stesso scienziato, Perché io
credo in colui che ha fatto il mondo, l‟anno della
scoperta è il 1965.» Il pubblico, la valletta e persino
il Duca rimasero attoniti da tanta sicurezza, e al
giudice non rimase altro da fare che decretarlo vincitore: «Antonio Fiore per cinque risposte contro le
quattro di Emilio Scalori si aggiudica la sfida e rimane a tutti gli effetti il nostro Sapientino.»
Il vecchio, che sembrava Rocky durante il celebre
finale dell‟omonimo film, era al centro del ring,
con il volto tumefatto dai “colpi” subiti, sommerso
da migliaia di fans in festa, coccolato e protetto fra
le braccia della valletta che diceva di essersi innamorata pazzamente dell‟anziano sapiente, mentre il
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giovane predicatore cominciava a scantonare pericolosamente, dicendo di essere un grande Profeta in
grado di predicare il “verbo”. Venne allontanato
dall‟azienda (come da regolamento), in seguito fu
dichiarato pazzo ed internato in un famoso manicomio criminale.
Dopo un‟assemblea straordinaria, voluta dallo stesso Sapientino, per evitare nuove crisi politiche e
nuove faide interne si decise che, come per le più
alte investiture terrene, anche la carica di Sapientino dovesse essere tramandata di padre in figlio,
dando vita ad una vera e propria egemonia famigliare, seconda solo alle più alte cariche aziendali.
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UNA STRAGE ANNUNCIATA
(IL MATTO)
Sguardo assente, di poche parole, Sabatino era
sempre stato relegato per motivi di “sicurezza” a
ruoli semplici e poco stressanti, per via di quella
sua timidezza così grave e penalizzante, che aveva
sfociato già qualche volta in violente crisi isteriche,
facendo preoccupare non poco la direzione aziendale, per poi tornare rapidamente a chiudersi in un
terribile silenzio tombale, gridando il suo disagio e
il suo malumore con totale distacco da tutti.
Da alcuni anni svolgeva il delicato incarico di “addetto allo smistamento e allo stoccaggio di imballaggi”, in parole povere era il “cartonaio” o lo
“svuota bidoni”, come lo chiamavano sempre i suoi
perfidi colleghi, ovvero la persona incaricata di
passare per tutta la fabbrica a raccogliere il cartone
scartato dalle varie lavorazioni e a svuotare con
tempestività i bidoni sempre stracolmi dei vari reparti produttivi, stoccando tutto il materiale dentro
appositi contenitori.
«Sabatino, pulisci il bidoncino», gli era solito urlare in faccia il Merli, operaio generico di basso profilo, ormai prossimo alla pensione, che amava sempre bersagliare il povero sventurato con scherzi,
sberleffi e burla. Poeta e attore parrocchiale di serie
“c”, amava prendere di mira Sabatino davanti a tutti con queste battute poco eleganti, ma così tanto
amate dai suoi colleghi senza scrupoli, che già dal
primo mattino gli chiedevano, quasi fosse una star
della TV, di cominciare il suo repertorio e lui, sen70
tendosi Benigni durante uno dei suoi famosi monologhi, lo attaccava velenosamente: «Sabatino, pulisci il bidoncino, una volta al mattino e una volta al
tramontino». Poi lo prendeva e lo faceva salire sul
“palco”, come si fa quando si sceglie una persona a
caso dal pubblico, e cominciava il suo attacco verbale e fisico, fatto di battute poco brillanti e di sberle al poveretto, «per incendiare la folla», ripeteva
sempre con schifoso cinismo; infatti partiva una gigantesca risata di gruppo, bastarda e sadica, poi da
vero show-man, incalzante e prorompente infieriva:
«Svuota il bidone, svuota il cassone, butta il cartone da vero merdone» e il pubblico tutto applaudiva
soddisfatto con vibrante partecipazione, ringraziandolo per il simpatico intervallo.
Metodico e maniacale nei suoi atteggiamenti come
una poesia imparata a memoria, Sabatino era con
gli anni diventato noioso e prevedibile. Considerato
innocuo, gestibile in ogni suo aspetto e di pessima
compagnia, era escluso da ogni attività extrafabbrica come feste, compleanni, cene aziendali e
così via; veniva capito e stimolato a parlare solo dal
magazziniere Stoppa, grosso studioso di psicologia,
diciottesimo anno fuori corso, ma ancora fermamente convinto di terminare gli studi universitari,
perché, come amava ripetere simpaticamente: «Ho
solo Stoppa-to un po‟ con i libri per dedicarmi al
lavoro sul campo, e qui vi garantisco che il materiale non manca.» Negli anni gli era sempre rimasto
fedele, non aveva mai preso parte a queste vigliaccate di gruppo, né tanto meno aveva sfruttato a suo
favore l‟imbarazzante timidezza dell‟amico collega, anzi si era sempre domandato cosa potesse
bloccarlo dal di dentro e se mai avesse potuto fare
qualcosa per migliorare veramente la propria esistenza.
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Accadde tutto così in fretta… Era una mattina di
fine novembre, con una nebbia fitta e pungente che
non si vedeva praticamente nulla. Al grande parcheggio della fabbrica, le macchine cominciavano
come ogni mattina a riempire gli spazi a loro destinati, come un gigantesco mosaico, quando arrivò
Sabatino, che parcheggiò stranamente fuori dalle
strisce di delimitazione. «Sabatino, è la prima volta
in quindici anni che ti vedo parcheggiare fuori dalle
strisce, oggi deve essere una giornata speciale»,
disse simpaticamente Stoppa, pensando anche che
normalmente ci metteva venti minuti per parcheggiare la macchina, scendendo spesso a controllare
la distanza tra le ruote e le strisce di demarcazione.
Si incamminò quindi per varcare il “grande cancello”, senza aspettare una risposta dal Sabatino, che
per ovvi motivi non arrivava mai, invece quella
volta, con voce allegra e spensierata gli disse:
«Ciao Stoppa, hai visto cosa ho combinato stamattina?» scoppiando in una risata fuori luogo, poi riprese ancora: «Tu sei l‟unico che in tutti questi anni
mi ha dimostrato un briciolo di umanità in questo
posto di merda, l‟unica persona che mi ha regalato
un po‟ di serenità, oggi voglio farti io un regalo, vai
a casa, non timbrare il cartellino, perché oggi sono
sveglio, oggi voglio divertirmi, è tornato il sole nei
miei pensieri, però devo fare presto perché non so
quanto durerà e ti garantisco che non voglio più
tornare quello di prima.»
Stoppa rimase raggelato dalla situazione surreale,
poi trasalì e, con un filo di voce trovato da qualche
parte, tentò: «Non fare cazzate, vieni via con
me…» non fece in tempo a finire la frase che venne
colpito violentemente al capo dal calcio del fucile
che Sabatino aveva estratto rapidamente dal bagagliaio dell‟utilitaria. Adagiò il suo amico-collega a
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terra pensando «Almeno qui sarai al sicuro» e, accertatosi che nessuno avesse visto la scena, mise il
fucile da caccia del padre in un grosso sacco nero
ed entrò in fabbrica per l‟ultima volta.
Emarginato come sempre, nessuno all‟ingresso lo
degnò di uno sguardo, poi, arrivato al suo reparto,
come ogni giorno si vide attaccare dal Merli:
«Buongiorno merdone, cosa porti nel saccone?»,
Questa volta però fu lui a scoppiare in una gigantesca risata grassa e malata, lasciando il piccolo
gruppetto di operai riunitosi nel frattempo intorno
allo show-man senza parole.
Rapido e veloce, Sabatino tirò fuori il fucile dal
grosso sacco nero, guardò in faccia l‟odiato collega
come non aveva osato fare mai e, con uno sguardo
freddo e distaccato, parlò per l‟ultima volta: «Coraggio Merli, fai la battutina, tanto questa è la tua
ultima mattina.» Felice per il regalo che il diavolo
gli aveva concesso con un gesto di profonda ammirazione, capì che era venuto il momento di agire, di
portare morte e tenebre nella squallida vita del suo
aguzzino e dei suoi compiacenti colleghi; con un
sorriso demoniaco carico di riconoscenza per quel
meraviglioso finale, cominciò il suo canto d‟amore
e di liberazione.
73
NATALE IN VETRINA
(IL RESPONSABILE)
Secondino, spione, lacchè, guardiano, sentinella,
controllore, cane da guardia, sono solo alcuni dei
simpatici epitaffi, con cui viene normalmente apostrofato Pino Silvestri, il Responsabile, gran servo
del padrone, dai colleghi ribattezzato “schiuma”
per via dell‟assonanza tra il suo nome e il famoso
bagnoschiuma.
Dopo aver salito repentinamente tutti i livelli gerarchici di basso profilo della fabbrica, aveva da alcuni anni guadagnato, non senza fatica, i galloni aziendali di “Responsabile di magazzino”, incarico
importante e stimolante, ma anche difficilmente gestibile, occorrevano infatti qualità non comuni per
“curare” il personale nel miglior modo possibile e
la proprietà si attendeva da lui devozione e abnegazione all‟incarico accordatogli. «Caro Silvestri, arrivare dritti alla meta senza perdere mai di vista
l‟obiettivo, anche a dispetto di qualche perdita lungo il cammino», gli ripeteva sempre il Direttore con
tono spregevole, durante le riunioni di fine mese.
Meschino, bieco, vischioso, ma rispettoso degli insegnamenti ricevuti, si comportava di conseguenza:
come una spugna lui assorbiva lamentele e malumori direzionali, si imbeveva di gratificazioni e note di merito, trattenendo per sé considerazione e
benessere e sputando sui sottoposti urla e violenza.
Il Natale alle porte e un incremento degli ordini a
programma imponente, avevano fatto scattare, fino
alla fine dell‟anno, i tanto temuti “straordinari” per
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riuscire a far fronte a tutte le richieste pervenute;
con un comunicato di poche righe affisso in bacheca, la Direzione ordinava, a partire dal lunedì successivo, un‟ora in più al giorno e il sabato mattina
lavorativo.
Il lunedì seguente, Silvestri alle 6 del mattino era
già sul posto di lavoro, in ordine come un soldatino
rispettoso e ligio al dovere, si affannava nel rincorrere il suo “gregge” ancora addormentato e smarrito, «Tutti ai propri posti! Il padrone non vi paga per
cazzeggiare, ma per lavorare!» ripeteva borioso e
tronfio di quella paura così finta e superficiale che
riusciva ad incutere tra gli operai.
Poi, alla vigilia delle tanto agognate ferie, smaltito
l‟imponente carico di lavoro, con gli operai spremuti come limoni ma contenti per l‟imminente riposo natalizio, il Direttore, con una mossa a sorpresa, convocò d‟urgenza il Silvestri e la delegazione
sindacale interna per “comunicazioni urgenti”. La
cosa gettò tutti nel panico e si rincorrevano notizie
false e tendenziose; il mulettista Grassi raccontava
segretamente al magazziniere Silipo: «Mi raccomando non dirlo a nessuno, ma è arrivato un ordine
dalla Russia di mille macchine da evadere in quindici giorni, l‟ho sentito di sopra al “Commerciale”,
dicono che le ferie quest‟anno non saranno accordate, che anzi dovremo lavorare anche a Natale e a
Santo Stefano, ma che verrà pagato triplo perché la
Proprietà, sempre attenta e generosa, capisce che il
sacrificio richiesto è sicuramente molto grosso e va
gestito con tutte le difficoltà del caso.»
Naturalmente, la cosa si sparse a macchia d‟olio
per tutta la fabbrica nel giro di pochi minuti. Sparizioni misteriose, finti infortuni, strane malattie tropicali, fino a suicidi collettivi, erano le contromisure vagliate dai patriarchi operai per contrastare que75
sto atto vile e catastrofico; infine la piccola delegazione tornò di sotto dopo l‟incontro e riunì tutto il
magazzino nel piazzale della fabbrica. Prese la parola il Silvestri che, con voce sicura e sprezzante,
disse: «L‟azienda, nella persona dell‟amato Direttore, comunica a tutti noi che grazie alla vostra, ma
soprattutto alla mia capacità gestionale e alla mia
intraprendenza organizzativa, è felice di annunciare
che abbiamo tenuto fede ai nostri impegni, che tutte
le commesse a cui tenevamo tanto sono state interamente sbrigate e pertanto la proprietà augura, a
tutti noi e alle nostre famiglie, buone ferie!»
Un boato assordante squarciò il cielo, come durante
la finale dei mondiali di calcio del 2006 dopo il
calcio di rigore della vittoria di Grosso, scene di
ordinaria follia collettiva si manifestarono agli occhi di tutti, invidie e incomprensioni per un attimo
svanirono, per dar vita a festeggiamenti che durarono per tutta la notte.
Il Silvestri partecipò alla festa e fu preso da parte
dal Direttore, che gli disse, con tono stranamente
amichevole e benevolo: «Devo parlarti Silvestri,
subito.» Il Responsabile cambiò espressione, capì
che si trattava di qualcosa di molto, molto personale e nello stesso tempo terrificante, infatti, appartati
dentro al cesso privato, il Direttore riprese prontamente il discorso: «Vedi caro Silvestri, il Nostro
Signore e Padrone, nonostante il buon esito di questi ultimi affari, si è visto costretto, a causa di questa crisi settoriale devastante, ad apportare tagli
laddove fosse possibile, pertanto, considerando la
necessità di un guardiano per le vacanze e il costo
elevatissimo che comporterebbe all‟azienda, si è
stabilito di provvedere internamente scegliendo
proprio te, che hai dimostrato in tutti questi anni un
attaccamento quasi morboso all‟azienda, vigilando
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costantemente giorno e notte lo Stabilimento con
convinta devozione.» Poi, con una punta di leggero
pentimento e la voce imbrigliata da un velo di timidezza, riprese tutto d‟un fiato: «Naturalmente il tutto segnato come straordinario, pagato doppio», come se questo potesse fregare qualcosa al pover‟uomo. Dal canto suo, il Silvestri, tramortito e
impietrito come una statua di sale, si limitò a un
emblematico: «Grazie di cuore per aver scelto me.»
Così, durante le vacanze, quando l‟operaio si gode
il meritato riposo, arrivò, come un regalo tutto da
scartare, il momento della vendetta, fredda e spietata. Con un orrendo senso di piacere, la cricca degli
operai più ostili al Silvestri si ritrovò alla fabbrica,
ad ammirare il loro carnefice di tante sofferenze
correre su e giù per lo stabilimento a caccia di fantasmi, con il volto rigato da lacrime di polvere,
controllando che nessuno entri a profanare il suo
amato tempio. I lavoratori in un primo momento gli
gridarono di tutto, versandogli addosso tutta la rabbia di una vita, poi, quasi pentiti dal loro incedere,
lo guardarono increduli dalle grandi vetrate, così
piccolo e sottomesso e, per una volta nella vita,
provarono verso di lui un senso di umanità e di misericordia, e pensarono a quanto fossero fortunati
ad essere semplicemente operai. Con un leggero
sentimento di vergogna e di imbarazzo, se ne andarono uno ad uno, senza proferire parola.
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NON SOLO OPERAI
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LA MENSA
In ambito lavorativo esistono due tipi di mense,
quella aziendale, all‟interno dello stabile e quella
esterna, a pagamento e dislocata poco lontano dal
centro industriale, per tutti i lavoratori che ne vogliano usufruire. Nel corso degli anni queste sono
diventate due vere e proprie scuole di pensiero, con
pregi e difetti che valuteremo attentamente.
La mensa aziendale, come detto, viene definita così
perché si trova all‟interno della fabbrica, ma nella
maggior parte dei casi non è altro che uno stanzino
minuscolo, con quattro panche di fortuna e un piccolo forno a microonde rimediato con una sanguinosa colletta organizzata dagli operai. Al grido della povera sirena del mezzogiorno, la mensa viene
presa d‟assalto da un‟orda affamata e brulicante,
pronta a tutto per impossessarsi del malcapitato
fornello e scaldare la propria pietanza. Una grossa
nube tossica si sprigiona immediatamente, appannando la piccola cella aziendale, poi gli operai cominciano le riesumazioni dei cadaveri, estraggono
cioè, da ogni tipo di contenitore possibile, masse
informi oramai fossilizzate, che fino a pochi secondi prima nessuno si sarebbe mai sognato di mangiare e che, per mezzo del potente e miracoloso elettrodomestico, riprendono forma e aspetto, facendo
riaffiorare le loro antiche origini.
La mensa esterna è solitamente facile da raggiungere, almeno in condizioni normali, perché nessuno
vuole prendere la macchina, per evitare spese extra
di benzina o l‟usura delle gomme, così finisce sem79
pre per rimetterci l‟operaio più buono e sottomesso,
che viene costretto a traghettare con la propria vettura fino a dieci persone oppure, per non incorrere
in sanzioni stradali, organizza una “navetta” gratuita per portare i commensali al loro meritato ristoro,
con il rischio concreto di saltare il pasto.
Le mense moderne, all‟apparenza, sembrano tutte
graziose, sia esteriormente sia all‟interno, basta però frequentarle qualche giorno per rendersi conto
che la realtà è decisamente un‟altra. Si estendono
internamente per decine di chilometri quadrati, nessuno è mai riuscito a sapere quanti potessero essere
i coperti di una mensa; una volta, un cameriere
molto paziente si mise a contare la prima parte del
salone, arrivò faticosamente alla cifra di 12500 posti e dovette arrendersi per raggiunti limiti di età.
Anche l‟ambiente resta, almeno all‟apparenza, molto freddo: i muri bianchi, i tavolini bianchi, le sedie
bianche e i pavimenti grigi con venature bianche
rendono l‟ambiente asettico, quasi ospedaliero;
spesso il povero operaio nel mettersi in fila, non sa
se lo sta facendo per un pasto caldo o per una trasfusione di sangue.
Vassoio, piatto, forchetta, coltello, bicchiere, tovagliolino di carta e naturalmente cibo, alla mensa
paghi praticamente tutto, nulla è lasciato al caso;
una volta una cassiera batté uno scontrino con aggiunto, per eccesso di zelo, 2 etti di aria = € 0,10.
Il mangiare ti viene sempre servito fumante, peccato che poi passi almeno venti minuti in fila per il
conto, ritrovandoti al tavolo con un blocco di granito imperforabile. Alcuni astuti operai mangiano durante la fila, appoggiando il vassoio sulla schiena
del predecessore, in posizione supina, si gustano il
pasto caldo e scambiano le posizioni a giorni alterni.
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Il lavoratore deve stare attento ad un‟altra pericolosa imboscata che gli viene tesa dalla mensa, chiamata “trappola dell‟abbondanza”, dove il proletario
viene spinto, dai prezzi molto bassi, ad accatastare
nel vassoio decine di portate, con conseguenze terribili sia fisiche (il tasso di obesità nell‟operaio da
mensa è altissimo), sia economiche (l‟operaio finisce per spendere più che ad un ristorante di lusso).
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IL BUONO PASTO
«Paga in contanti?» «No guardi, ho il buono pasto.»
Chissà se almeno una volta nella vita avete sentito
pronunciare queste semplici parole in una qualsiasi
mensa, oppure in qualche supermercato, ebbene,
grazie a compromessi aziendali, riunioni sindacali e
scioperi selvaggi, l‟operaio moderno ha ottenuto
uno strumento d‟inestimabile valore, il buono pasto.
Denaro, sotto forma di simpatici e coloratissimi bigliettini di carta, apparentemente innocui, ma che
nelle mani sbagliate possono trasformarsi in pericolosi ed ingestibili candelotti di dinamite.
Usati da pochi con il loro vero significato (buono
pasto = pranzare senza pagare), viene utilizzato per
le iniziative più stravaganti, così può capitare che
una donna paghi la parrucchiera con i buoni pasto o
che un uomo, per non gravare sul bilancio famigliare, saldi il suo debito con una prostituta con i buoni
pasto, che padri separati versino gli alimenti sotto
forma di buoni pasto, oppure li si usi per pagare il
pedaggio in autostrada; insomma, ogni scusa è
buona per divorarli in pochi minuti, costringendo
l‟operaio a pranzare a proprie spese, rimettendoci
costantemente.
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L’ASSEMBLEA SINDACALE
La bacheca si illumina a festa, “la signorina delle
buste paghe” ha appena attaccato il foglio della riunione sindacale, che per essere avallato dalla massa
operaia deve riportare al suo interno diciture ben
precise, la data e l‟ora dell‟incontro e l‟oggetto, che
sappiamo in linea di massima essere così:
RINNOVO DEL CCNL
RICHIESTA DI FLESSIBILITA‟ DA PARTE
DELL‟AZIENDA
NUOVE NORMATIVE DI SICUREZZA SUL
LAVORO
VARIE ED EVENTUALI
Seguono le firme delle tre delegazioni sindacali e
per ultimo, ma non per importanza, il dogma fondamentale per avere tutto il personale presente
L‟ASSEMBLEA È RETRIBUITA.
Diffidate da tutto quello che si discosta da queste
poche ma importanti regole, se ad esempio trovate
affisso in bacheca un foglio poco illuminato, che ha
come ordine del giorno:
DISCUSSIONE SULLA PROPOSTA DELLA
PROPRIETA‟ DI ADEGUAMENTO LIVELLI
REFERENDUM PER L‟ABOLIZIONE DEL VENERDI‟ LAVORATIVO
RICHIESTA DI AUMENTO BUONO PASTO
CHI PIÙ NE HA PIÙ NE METTA
LA DELEGAZIONE SINDACALE BIM-BUMBAM
L‟ORA DI ASSEMBLEA VERRA‟ DEVOLUTA
ALLA FONDAZIONE PER LA LOTTA CON83
TRO IL DISBOSCAMENTO DELLA FORESTA
NERA (X INFO CHIAMA IL 332145889 CHIEDERE DI RAMONA LA CHIAPPONA)
Dopo pochi minuti, quasi tutti gli operai capiscono
che si tratta di una truffa o di uno scherzo idiota,
perché quello non è il numero di Ramona!
Nella stragrande maggioranza dei casi l‟ora prefissata per l‟incontro corrisponde all‟ultima lavorativa, nessuno in questo senso ha mai capito se bisogna timbrare il cartellino prima dell‟assemblea, dopo l‟assemblea o durante l‟assemblea; in enorme
difficoltà, i lavoratori preferiscono, per non rischiare brutte sorprese, “marcare” ripetutamente in tutte
le situazioni, consumando il cartellino e fondendo
la marcatempo. Superato anche quel secondo difficile ostacolo, si stacca finalmente il biglietto per
assistere alla visione dello spettacolo.
Entrano tutti con fare spensierato e disinvolto di chi
finalmente può godersi un po‟ di relax. Le file in
fondo alla sala sono le più ambite, forse per eccesso
di timidezza o per quel subconscio scolastico che ci
protegge da un‟eventuale interrogazione, mentre gli
RSU siedono in prima fila come alunni modello e
cominciano subito ad alzare le mani per fare domande pertinenti ai delegati sindacali che, come
professori seduti davanti alla cattedra, si apprestano
ad iniziare la lezione.
La scena che si presenta all‟interno della sala è la
seguente: le ultime quattro file sono occupate da
centocinquanta operai ammassati uno sopra l‟altro,
che misurano le loro capacità circensi nel famoso
numero della “piramide umana”, nel mezzo della
sala il vuoto, davanti i sindacalisti, con gli RSU inginocchiati al loro pulpito.
Dopo i dieci minuti necessari per riportare il silenzio e per liberare i “cieli” da aeroplanini, pallottole
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di carta e sputacchi vari lanciati dalla “curva sud”,
la riunione sindacale ha finalmente inizio. Apre
sempre il dibattito il sindacalista con più iscritti,
che tiene lo scettro del potere per tutto il tempo, lasciando alle altre delegazioni i titoli di coda, anche
perché non riesce mai a terminare un discorso, venendo puntualmente interrotto dall‟inesorabile cellulare; alcuni maligni azzardano addirittura che non
vi sia nessun interlocutore telefonico, ma che si
tratti di una strategia voluta dal sindacato per offuscare le menti del povero operaio, per poi manipolarlo come un burattino, strappandogli la firma per
la tessera sindacale.
Esistono delle parole che non si devono mai dire
durante una riunione sindacale, come ad esempio
“padrone”, “aumento”, “rispetto”, “uguaglianza”,
come non si devono pronunciare frasi di spiccato
appoggio all‟azienda, tipo “qui ho trovato la mia
seconda casa”, “bisogna lottare perché la fabbrica è
anche la nostra”, “alla fabbrica sto meglio che a casa mia”; la “curva sud” sarebbe pronta a scatenare
l‟inferno, con il rischio concreto di non riuscire più
a riprendere in mano la riunione.
Ma è proprio quando la discussione assume toni interessanti e di un certo contenuto che esplode prepotente la sirena della sera, e a nessuno interessa
più nulla di straordinari, contratti di secondo livello, leggi antinfortunistica o quant‟altro, ciò che
conta è scappare e mettersi in salvo, lasciando dietro di sé l‟aria fritta delle parole dei sindacalisti,
qualche cartaccia sul pavimento e una bella scultura di sedie in fondo alla sala.
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IL MICROCOSMO
Anche la fabbrica è fonte di correlazione e di analogia tra “macrocosmo” e “microcosmo”. Possiamo
affermare con la massima sicurezza che dietro ogni
azienda esistente ci sia il lavoro un “microcosmo”,
spesso invisibile e impercettibile, ma fondamentale
per l‟equilibrio dell‟universo lavorativo. Spesso sono piccole meraviglie, visibili solo ad un occhio attento e scrupoloso e nel seguente capitolo analizzeremo questo micromondo sconosciuto.
La tecnologia è parte integrante di un microcosmo
spesso in antitesi con la proprietà, che giudica ciò
che è giusto o sbagliato senza lasciare molti spazi
di manovra, cercando di dividere quanto la scienza
e la natura uniscono, affermando con comportamenti spesso paranoidi il proprio diritto al giudizio
finale. Si capisce facilmente che all‟interno
dell‟azienda riscontriamo un microcosmo diviso in
due grosse categorie, quello accettato e condiviso
dall‟azienda e quello assolutamente bandito e reputato intollerabile.
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MICROCOSMO TECNOLOGICO
CONDIVISO
Chi svolge un normale lavoro di magazzino da dieci anni a questa parte, non può non essersi imbattuto nello strumento più sensazionale dell‟era moderna, “la pistola elettronica” o “computerino”. Nelle
fabbriche del nuovo millennio tutto è automatizzato, per un minor spreco di tempo, un margine di errore più ridotto e un minor bisogno di forza lavoro.
A questo proposito, ogni buon operaio possiede la
sua pistola che tiene ben stretta in fondina, con essa
dovrebbe stoccare il materiale attraverso il raggio
laser, indi ubicare la merce nelle scaffalature. Ma
nel mondo della cibernetica non sempre il virtuale
può applicarsi alla realtà. Il computerino diventa
sovente strumento di confusione e di liti furibonde,
i tasti troppo piccoli e le funzioni troppo complicate
mandano in crisi i lavoratori, che finiscono per rincorrersi lungo i corridoi in una battaglia di “laser
game” senza esclusione di colpi.
I muletti (anche se obiettivamente non sono proprio
micro) di nuova generazione sono un altro fiore
all‟occhiello della fabbrica: hanno un potenziale
bellico pari a quello di un carrarmato, possono aprire varchi nei muri, perforare una macchina in corsa,
servirsi della cloche per alzarsi in volo e, ancora,
affettare una carota a julienne, stendere i panni,
preparare il caffè, grattare la schiena e, grazie a due
pale meccaniche poste davanti all‟abitacolo, sollevare bancali, ma solo quelli molto piccoli.
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Si parla sempre troppo poco di “interfono ”, strumento in dotazione a quasi tutte le fabbriche da
molti anni e d‟importanza vitale perché può permetterci di rintracciare chiunque in breve tempo, di
solito però ci si chiama solo per delle sciocchezze,
finendo per abusare del mezzo. Una volta sentii un
collega annunciarne un altro per dodici volte in un
minuto, l‟uomo lasciò il compagno di reparto con
in mano una verga da 750 kg , si fece tutta la fabbrica di corsa saltando una pila di bancali alta 3
metri e, quasi agonizzante, si presentò ai suoi piedi
chiedendo cosa fosse successo di tanto urgente,
questo lo guardò e disse: «Oggi vieni in mensa con
me?»
Ma la cosa più bella sono proprio gli annunci, che
vanno dal classico «Mario Rossi comunichi con il
250 grazie», al sensuale “Sono Verusca e chiamo
dal 250, se Mario vuole adesso sono libera di essere
contattata», dall‟incazzato «Mario, sono quattro
volte che ti chiamo, cazzo rispondi!», al suicida
«Volevo solo comunicarvi che l‟interno 250 non
sarà più disponibile per il resto della vita», dal depresso «Qualcuno comunichi con me al 250», al
sintetico «Mario chiama 250», all‟apprensivo «Ma
dove sei 250, dove sei andato 250, cosa stai facendo 250, chiamami subito sono Ansia», eccetera.
88
MICROCOSMO TECNOLOGICO
“BANDITO”
Da quando è entrato a far parte delle nostre vite, il
“cellulare” è forse lo strumento tecnologico più utilizzato in Italia e naturalmente anche l‟operaio ne è
schiavo, finendo col non separarsi mai da questo
potente mezzo di comunicazione, che spesso è causa di distrazioni e perdite di tempo, fattori che hanno spinto tutti i padroni del mondo a bandirlo dalle
fabbriche, mediante una vera caccia al “telefonino”,
minacciando sanzioni di ogni tipo se beccati in flagranza di reato. Le minacce verbali sono ancora le
più frequenti del settore, con una vasta gamma a disposizione del datore di lavoro. Si va da quelle
stravaganti, come «Se ti pesco col cellulare ti faccio tornare polvere» o ancora «Spaccia pure coca
sulla catena di montaggio, ma metti via il cellulare», oppure «Butta via il cellulare oggi e mangi anche domani», fino ad arrivare a quelle più maligne
e diaboliche «Peccato, proprio adesso che volevo
darti l‟aumento, ti sei fatto trovare con le mani nella custodia», oppure «Con il cellulare in mano
sembrate tutti dei pecoroni conciati allo stesso modo, senza siete pecoroni tutti diversi.»
In una media o grande azienda il padrone non interviene mai in prima persona, se vede una situazione che non condivide o non tollera, non prende
l‟iniziativa di dirtelo direttamente, ma lo segnala
prontamente al tuo superiore, che ti rimprovererà a
dovere. Questo è quello che può avvenire quando si
perde tempo al distributore automatico (altro stru89
mento tecnologico non proprio micro che il padrone non sopporta), il tutto si svolge solitamente con
questa dinamica: dopo pochi minuti dall‟inizio della giornata lavorativa comincia la processione alla
macchinetta, un operaio inserisce la chiavetta, sceglie il prodotto che si incastra, l‟operaio scuote il
distributore che va in tilt, dopo pochi secondi arriva
un collega sicuro del fatto suo, che scrolla nuovamente la macchinetta e vengono giù quattordici tipi
di merendine diverse, gli operai accorrono come
locuste, la produzione si blocca e il padrone si incazza; il giorno dopo al posto del distributore automatico viene messa una pianta rampicante.
Esistono molti altri piccoli elementi facenti parte
del “microcosmo bandito”, che non considereremo
essendo tuttora al vaglio della proprietà e non identificabili sotto alcuna classificazione di merito perché non se ne conoscono gli eventuali effetti collaterali, per esempio l‟iPod, il GSM, la Psp, i
notebook e tanti altri piccoli gioielli destinati nel
tempo a trovare la loro giusta collocazione.
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IL VIAGGIO
Fiato pesante dalla cena della sera prima, sguardo
basso e incazzato, dita nel naso con l‟ausilio dello
specchietto retrovisore, bestemmia da semaforo
rosso e la lucida consapevolezza di avere sprecato
un‟altra preziosa giornata di vita, ecco un altro operaio diretto verso la fabbrica, e pensare che Giancarlo aveva solo tolto la macchina dal garage.
C‟erano dei rituali a cui il lavoratore non voleva
proprio venir meno, la prima cosa che faceva dopo
l‟accurata pulizia era recarsi al bar “da Gigino” per
prendere l‟unico buon caffè della giornata, visto
che gli altri era costretto a consumarli alla macchinetta in azienda, dopodiché passava in rassegna tutti i quotidiani sportivi, pagava il conto alla cassa e
si recava sul luogo dell‟appuntamento aspettando i
colleghi. Da parecchi anni divideva il costo del
“viaggio” con altri due operai, per ammortizzare le
spese e soprattutto per avere qualcuno con cui
scambiare quattro chiacchiere; si avviarono verso la
fabbrica, ignari che quello non sarebbe stato un viaggio come tutti gli altri.
Alle 6 e 50 del mattino, in perfetto orario, imboccarono la tangenziale est direzione autostrada, dove
beccarono subito un rosso da paura, 8 minuti fermi
ad aspettare inermi. Vennero assaliti subito da una
zingarella per l‟elemosina, in tre rimediarono 90
centesimi, scatenando le ire della nomade che, alterata, gli disse: «Straccioni italiani, 90 centesimi in
tre? Ma per chi mi avete preso per una barbona,
non sapete che il tetto minimo sindacale per
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l‟accattonaggio da strada è di un euro a persona?»
La zingarella prese il braccio di Carlo e gli diede
indietro i suoi 90 centesimi più la mancia, un attimo dopo lui si accorse che con quel semplice gesto
gli aveva sfilato l‟orologio. La cercò con lo sguardo
dagli specchietti e la vide infilarsi frettolosamente
in un vicolo, non riuscì nemmeno a provare rancore
verso la ragazza, perché da così lontano gli sembrava una bellissima “bambola spagnola”, ricordo
di famiglia.
Il collega lato passeggero, velenoso come un cobra
reale, gli chiese subito l‟ora, mandando Carlo su
tutte le furie. Ma l‟avventura era solo all‟inizio, per
arrivare vincitori al traguardo dovevano ancora superare numerose sfide, che avevano le concrete
sembianze di tre semafori, una rotatoria, un passaggio a livello manuale e la classica scuola elementare all‟ora di punta, con annesso il vecchietto
rimbambito (reperto comunale) all‟attraversamento
pedonale.
Il primo semaforo andò giù come bere un bicchiere
d‟acqua, un verde forte e pieno illuminava la strada, riportando un po‟ di ottimismo nella truppa. Poi
la rotatoria, che rappresentava l‟insidia maggiore
poiché vi confluivano tutte le arterie stradali della
città, superarla indenni voleva dire mettere una seria ipoteca sulla vittoria finale, ma se vi si rimaneva
prigionieri si poteva anche lasciare la macchina in
coda e andare a fare shopping in città.
La fila, ormai in prossimità dell‟incrocio, si arrestò
bruscamente, una “tartaruga” targata Foggia metteva regolarmente la testa fuori poi, proprio quando
sembrava passare, ritraeva il collo, creando un pericoloso effetto fisarmonica che colpì le prime dieci
auto che la seguivano, tra cui naturalmente quella
dei nostri eroi.
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Tutti i coinvolti scesero dalle rispettive vetture e fu
il parapiglia: la tartaruga, una vecchina dall‟aspetto
curato e i capelli blu cobalto, tirò finalmente fuori
la testa, pose sul cofano una risma di fogli per far
fronte alle numerose “constatazioni amichevoli”,
montò un tavolino nel mezzo della rotatoria e, con
una stufetta da campo, preparò il caffè. Innanzitutto
bisognava far fronte ai casi di massima urgenza,
un‟ambulanza rimasta bloccata nel maxi tamponamento trasportava un organo vitale per un trapianto,
alcuni automobilisti impossibilitati a proseguire rubarono un tandem a una coppietta giapponese in
viaggio di nozze, scappando a tutta velocità con il
“cuore in mano” verso l‟ospedale; intanto
un‟enorme palestrato risolse il problema sollevando
di peso la propria vettura per appoggiarla sul lato
opposto della strada, il resto della truppa dovette
attendere i classici soccorsi e i tempi burocratici. Ci
volle tutta la mattinata per sbloccare l‟ingorgo e riportare il traffico alla normalità.
Vista l‟ora, i tre decisero di consumare il pasto in
macchina; Carlo guidava un panino e mangiava il
volante, mentre i passeggeri scaldavano la minestra
sul tubo di scappamento, sbrodolando quasi tutto
sui sedili posteriori, poi passarono a pane e salsiccia, depositando sui tappetini i resti del pranzo e alla fine del banchetto spuntavano già dalle feritoie
della tappezzeria i primi funghi chiodini. Dopo aver
tracannato dal thermos tre caffè gelidi aromatizzati
alla salsiccia, l‟allegra brigata arrivò al passaggio a
livello.
Erano fermi da ormai venti minuti e le uniche creature che avevano attraversato i binari erano un formicaio al passo inseguito da un sanguinario formichiere, un groviglio di aghi di pino misti a lana e un
arbitro di periferia inseguito da quattro giocatori;
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spazientiti dall‟attesa urlarono al casellante: «Apri
la sbarra tanto non passa nessunooooooo». Subito
transitarono due treni passeggeri e un treno merci,
lunghissimi e molto, molto lenti. Infine il casellante
si alzò dalla poltrona, si aggiustò i gioielli di famiglia, squadrò i tre operai dalla testa ai piedi e, con il
dito medio, azionò l‟interruttore per alzare la sbarra.
Mancavano solo gli ultimi due semafori per agguantare la preda, il primo fu un rosso abbastanza
rapido, infatti non c‟era nemmeno un lavavetri, ma
un cartello attaccato allo spartitraffico: “Vista la
durata limitata del semaforo siamo impossibilitati a
svolgere al meglio la nostra professione, siete pertanto pregati di lasciare un obolo dentro la scatola,
un nostro incaricato ritirerà le offerte a fine serata,
grazie”. Il secondo semaforo fu una vera pugnalata
al cuore, il suo arancione malandrino mise in scacco Carlo che cadde nella trappola, ritrovandosi alle
prese con un rosso giuda traditore che li vendette
alla polizia. La pattuglia li fece scendere dalla macchina, fece gli accertamenti del caso e comminò
una multa di 400 euro; Carlo protestò vivacemente
dicendo che quei soldi per un rosso erano troppi, il
poliziotto gli rispose: «Guardi che la multa non è
per contravvenzione stradale, ma per l‟allevamento
clandestino di funghi chiodini sulla tappezzeria.»
Infine il traguardo tanto atteso, si aprirono le porte
del ”grande cancello”, due ali di folla acclamavano
i cavalieri rientrati in patria dopo la dura crociata,
ma con profondo dolore si accorsero che non erano
lì per festeggiarli ma per andare a casa, la sirena
della sera aveva cantato il suo pezzo migliore e ai
tre disperati, insultati pesantemente dalla massa operaia, non rimase altro da fare che girare la macchina e tornare indietro. La giornata di festa fu conteggiata come permesso non retribuito.
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IL CORRIERE ESPRESSO
Il ricevimento merci è da sempre l‟anima e il cuore
dell‟azienda, nelle giornate di punta assomiglia più
al mercato rionale di Milano che a un parcheggio
della merce in transito, qui confluisce tutto il materiale in entrata e in uscita, una parte finisce stivata
in magazzino, un‟altra aspetta impaziente di essere
rispedita nelle varie destinazioni ed è proprio qui
che atterrano le “libellule dalle quattro ruote”, volgarmente conosciute come “corrieri espressi”.
«Chiama un espresso» ordinò il capo-magazziniere
alla segretaria fresca di assunzione, «Mi scusi devo
urlare a un caffè?» chiese dubbiosa la ragazza. Il
gendarme rischiò l‟esplosione, il viso color rosso
tizzone infernale si contrasse in strane espressioni,
poi all‟improvviso il deturpamento cessò, era appena entrato il grande Gerlando, che scoreggiava
camminando.
Gerlando era il corriere per definizione, lavorava da
anni per la “Ruberini Corriere Espresso” e alla fabbrica era come uno di famiglia. Napoletano verace,
dal famoso cuore partenopeo, non si tirava mai indietro davanti a nulla e se avevi qualcosa di veramente importante da destinare con la massima urgenza, affidarsi a lui era garanzia di successo. Come quella volta che gli chiesero di consegnare in
Libia, entro le 19, un plico segretissimo nelle mani
dell‟ambasciatore italiano; ebbene non solo riuscì
nell‟impresa, ma alle 18 e 30 era già di ritorno con
il cedolino firmato, una foto autografata che lo ritraeva insieme a Gheddafi e una dote scritta da un
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capo villaggio locale dove si accordavano sul matrimonio di una delle sue figlie.
Non lo faceva certamente per i soldi, il corriere espresso non è quello che possiamo definire una miniera d‟oro, orari massacranti e alzatacce mattutine
completano un quadro tutt‟altro che positivo e anche Gerlando rientrava in pieno in questa categoria,
sempre di corsa, perennemente sudato e sporco con
la divisa di ordinanza unta e spiegazzata. Lo faceva
per passione, lo faceva perché in vita sua non era
mai riuscito a stare fermo, sin da quand‟era bambino, e allora avanti e indietro pronto a scendere ad
ogni consegna, quando era in ritardo riusciva a guidare con i piedi e a consegnare la merce al volo dal
finestrino, senza scendere dal furgone e, se si trattava di materiale voluminoso, lo espelleva fuori facendolo paracadutare, morbido, nelle mani del magazziniere.
C‟era solo una cosa che non sopportava e non aveva mai accettato: la possibilità di sbagliare una consegna. Una volta gli telefonarono da una farmacia
di Trinitapoli, in provincia di Barletta, dicendogli
che aveva consegnato per errore un pacchettino che
era destinato ad una farmacia di Cantù; non fecero
particolari pressioni, avrebbero rispedito il pacco
alla sede centrale che avrebbe provveduto all‟esatta
consegna, ma lui, morso dalla tarantola, prese un
giorno di ferie e si fece 2000 chilometri in sei ore
per scoprire che la merce non era stata recapitata da
lui ma da Marino, che tutti chiamavano “Nino”
perché faceva una consegna esatta e un casino.
Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno,
arrivò una strana telefonata dalla direzione, lo volevano lì per le due del pomeriggio, lui che era puntuale e preciso provò ad obbiettare qualcosa: «Scusi
ma non ho ancora ultimato tutte le consegne.» Una
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voce maschile di ghiaccio bollente gli rispose: «Alle due nel mio ufficio, è un ordine!» Nessuno aveva
mai dato ordini al grande Gerlando, che faceva parte del club dei “piccoli padroncini”, teneva molto a
specificare la sua indipendenza lavorativa, e anche
per questo motivo non vedeva l‟ora di guardare negli occhi questo stronzo incravattato e dirgliene
quattro.
La sede, come sempre, era piena di furgoncini brulicanti che erano in attesa di caricare per riprendere
il prima possibile la strada; Gerlando parcheggiò di
traverso, occupando quattro posti, scese e si diresse
verso gli uffici, dove lo fecero passare subito, lo
aspettava il Capo, ma non un capo qualunque, un
capo con la “C” maiuscola, Ruberini in persona, titolare dell‟omonima “Ruberini Corriere Espresso”.
Era la prima volta che aveva l‟onore di interloquire
con lui, fino a quel momento ne aveva solo sentito
“sparlare”, tutti lo definivano come un individuo
dai foschi contorni, che si diceva avere fatto fortuna nel ramo dei trasporti con dei giri poco puliti.
Come solo le persone importanti sanno fare, venne
al dunque saltando inutili convenevoli: «Signor
Gerlando, i miei collaboratori la indicano come il
corriere più bravo dell‟intera nazione, vedo dalle
stime che lei ha all‟attivo 745.000 consegne andate
a buon fine ed una sola non eseguita.» Con un po‟
di spavalderia venne bloccato dal padroncino che
volle discolparsi subito: «Non per sembrarle scortese, ma la consegna non eseguita riportata dalle statistiche, si riferisce ad una storia di sette anni fa:
erano le 22 dell‟antivigilia di Natale, dovevo consegnare a una famiglia di Malè, in provincia di
Trento, che abitava lungo un‟impervia stradina di
montagna, un grosso abete, regalo di un facoltoso
avvocato single di Torino per il quale la famiglia
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aveva lavorato fino ad autunno inoltrato. Avevano
rifiutato tutti, un po‟ per la pericolosità della missione, ma principalmente perché in quelle giornate
di festa volevano rimanere a casa con i propri cari.
Recatomi sul posto individuai la casa in cima a un
piccolo rilievo ricoperto di neve e ghiaccio, non ce
l‟avrei mai fatta con il furgone, decisi quindi di
proseguire a piedi trascinandomi dietro il pesante
fardello. Faceva un freddo cane e avevo perso
completamente l‟uso del pollice di entrambe le mani, quando all‟improvviso, nella notte gelida illuminata solo dalle stelle, mi venne incontro compassionevole il padrone di casa in mutande e canottiera
e mi disse: “Suvvia non avrà mica freddo, dia qui
che ci penso io” e tirò l‟estremità del grosso albero
con violenza, facendomi scivolare all‟indietro. Trascinai in un attimo tutti a valle, creando anche un
piccolo smottamento nella parete rocciosa. Fummo
costretti, in attesa dei soccorsi, a passare la notte
nel mio furgone, io con in braccio un infreddolito
signore semi nudo ed un albero agonizzante al capezzale. La mattina seguente arrivarono i soccorsi,
liberarono velocemente l‟area, permettendo al signore di tornare nella sua abitazione a scaldarsi (ma
soprattutto a vestirsi) e a me di riprendere il viaggio
di ritorno, non prima però di avere seppellito il defunto arbusto nel vicino “cimitero dei giusti”. Per
ragioni che non dipendevano da me fui costretto a
scrivere sul cedolino “non consegnato”.»
Ruberini glissò sulla vicenda e riportò il corriere in
“carreggiata”, dicendogli: «Deve partire subito per
Rimini e consegnare per mio conto questo pacco.
Fra tre ore esatte dovrà trovarsi sul posto, una persona di fiducia l‟attenderà sotto l‟Arco d‟Augusto e
a consegna avvenuta le verranno accreditati 5.000
euro sul suo conto corrente, domande?» «Solo una,
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cosa contiene il pacco?» chiese l‟uomo a bruciapelo. Il magnate delle consegne gli rispose ghignando
«Qualcosa di molto, molto importante che deve essere conservato come una reliquia.»
Dieci minuti dopo, Gerlando era già sulla A14 direzione Rimini, conosceva bene la città perché aveva passato molte volte le vacanze estive nella patria
del divertimento, ma questa volta era diverso, era
lavoro.
Avrebbe tanto voluto sapere cosa conteneva il pacco, Ruberini era stato molto vago sulla questione,
ma non poteva certo aprirlo, anche perché lui non
era come tanti suoi colleghi che trafugano tutte le
consegne come profanatori di tombe in cerca di
materiale rivendibile. Alcuni addirittura svolgevano
una doppia attività, avendo allestito all‟interno del
camioncino un piccolo stand come se fossero venditori ambulanti.
E se il pacco conteneva una bomba e lui fosse stato
usato per i loschi fini di Ruberini? E se invece conteneva droga? Oppure un microchip che avrebbe
potuto sconvolgere gli equilibri mondiali? Perché
Ruberini non aveva detto il contenuto della scatola?
Qualcosa non lo faceva stare tranquillo.
A Bologna era sudato fradicio e tormentato
dall‟angoscia, mai prima d‟ora aveva avuto un impulso così forte ad aprire una consegna, pensò anche di portare tutto alla polizia, alleggerendo notevolmente la sua posizione, ma poi Ruberini, che sicuramente aveva anche agganci mafiosi, gliel‟avrebbe
fatta pagare. A Faenza rielaborò tutta la vicenda dal
principio, giurando a se stesso che non avrebbe mai
più accettato una spedizione senza sapere che tipo
di merce trasportasse, prendendo comunque una
decisione definitiva, il pacco andava consegnato al
destinatario!
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Lasciò l‟autostrada a Rimini Sud, poi si diresse
verso il centro della città.
«No cazzo, la polizia» disse il povero Gerlando
soffocando l‟urlo in gola. La “pula” gli intimò di
accostare a destra e di fermarsi nello spazio consentito, l‟uomo titubò solo per un istante, dove pensò
anche di scappare, poi come un gatto addomesticato obbedì, aspettando l‟arrivo del gendarme. «Patente e libretto» chiese gentilmente il poliziotto,
l‟uomo ribaltò mezzo furgone, infine tirò fuori reperti estinti qualche decennio prima: un preservativo fluorescente vinto alla lotteria di una Festa
dell‟unità del „77, una BigBabol ancora incartata
dell‟83 (che si mise in tasca), un raccoglitore de
“La grande numismatica” con la serie completa
delle monete del Vaticano in lire e un crocifisso
sprovvisto di Gesù, con la scritta “Torno subito”;
poco dopo gli venne in mente che poteva averli
messi nel vano porta oggetti. Li consegnò al poliziotto, che tornò alla macchina e comunicò gli estremi alla Centrale, l‟autenticità ne fu verificata in
pochi secondi, questi si diresse nuovamente verso
Gerlando e gli disse: «Ok, tutto a posto, può andare.» Lui salutò educatamente e, prima che potesse
mettere in moto, venne nuovamente freddato a bruciapelo dal gendarme: «Ah scusi, cosa trasporta?»
«Niente, ho appena finito le consegne» buttò lì
Gerlando lasciando trasparire un po‟ d‟esitazione
«È sicuro? Mi apra il furgone per favore» disse il
poliziotto con una punta di sospetto; l‟uomo a malincuore obbedì, riportando alla luce del sole il pacchetto. «E quello da dove scappa fuori, mi faccia
vedere subito la bolla di accompagnamento» attaccò il poliziotto, mentre Gerlando rispose che non
l‟aveva con sé. All‟uomo in divisa non rimase altro
100
da fare che sequestrare la merce e fare la multa al
corriere.
Gerlando, che già si vedeva sciolto nell‟acido in un
casolare sperduto nelle radure dell‟agrigentino, fece
quello che l‟istinto gli dettò di fare: tolse il pacco
dalle mani del poliziotto e, come un animale braccato, scappò. In men che non si dica aveva già ripreso la strada che dal Ponte di Tiberio conduce
all‟antica porta della città. Un furgone rosso fiammante, con l‟effigie “Ruberini Corriere Espresso” a
caratteri cubitali sul tendone, sfrecciava a tutta velocità nelle strette strade cittadine inseguito da tre
pattuglie; con una mossa astuta svoltò in un vicoletto a senso unico facendo perdere le proprie tracce,
attese qualche minuto per far calmare le acque, poi
riprese il breve percorso che lo separava dall‟Arco
d‟Augusto guardandosi bene intorno, perché di sicuro aveva alzato un bel polverone.
Arrivò all‟appuntamento col destino in perfetto orario, ma non vide nessuno andargli incontro, così si
guardò intorno con fare circospetto, quando si sentì
toccare alle spalle. Saltò come un capretto in amore, riprese al volo il cuore che gli era sbalzato fuori
dallo spavento, si girò e vide alle sue spalle una
bella donna avvolta da un foulard, con un grosso
paio di occhiali che le coprivano quasi interamente
il volto; con voce suadente gli chiese: «Lei ha qualcosa per me, vero?»
Mentre in lontananza cominciavano a sentirsi le sirene spiegate della polizia che avevano intercettato
il furgone fuggiasco, Gerlando affidò il piccolo
pacchetto nelle mani della donna e, prima di consegnarsi alla giustizia, disse alla dama misteriosa:
«So che non sono affari miei, ma ora rischio parecchio, mi dia almeno delle spiegazioni.» «È sicuro di
voler sapere tutto?» gli chiese la donna, «Sì, ma
101
deve fare in fretta, perché presto saranno qui» e si
sedettero insieme sul ciglio della strada.
«Ci innamorammo su internet, ma non dell‟amore
che può intendere lei, di un amore molto più profondo, fatto di dettagli e di piccole grandi sorprese.
La prima volta fu cinque anni fa, di solito si comincia da ragazzi, ma ebbi un‟infanzia poco felice, mio
padre era molto rigido nell‟educazione e quelle cose non le concepiva, le considerava frivolezze inutili. Ricordo perfettamente quel momento, ero andata
in edicola a prendere le mie solite riviste di gossip,
quando vidi un bambino che mi precedeva allontanarsi con una splendida bustina dorata di “YU-GIOH” e la mia vita cambiò completamente. In breve
completai decine di raccoglitori e, grazie all‟aiuto
di internet cominciai la ricerca delle carte rare, è li
che lo conobbi. Pasquale Ruberini rappresentava e
rappresenta tuttora il mio “trovatore” più affidabile
e questo piccolo pacchetto suggella tutto il suo talento.» Fece un respiro profondo e cominciò a scartare il pacchetto, l‟aprì con molta cautela, levò il
bocciolare di protezione, aprì la bustina dal tipico
profumo colloso e finalmente arrivò l‟estasi.
«Questa è la rarità delle rarità, la carta olografica
del “Drago bianco dagli occhi blu”, introvabile, ed
è mia» disse la donna esultando come una bambina
di sette anni, mentre lui era sconcertato, allibito e
non riusciva a dire una parola. Aveva attraversato
mezza Italia con la polizia alle calcagna per portare
ad una pazza squilibrata una carta di un cartone animato per bambini.
Quando gli misero le manette per portarlo via, la
donna si era già dileguata. Il poliziotto gli chiese
dove avesse nascosto la refurtiva e quale prezioso
segreto contenesse, lui rispose rassegnato: «Un rarissimo diamante bianco dai riflessi blu.»
102
LO SCIOPERO
Pezzo pregiato della democrazia, colonna portante
delle conquiste effettuate dai nostri padri durante il
leggendario ‟68, ridotto oramai ad una triste farsa
per pochi intimi, Tommaso ci credeva ancora.
Tommaso diceva che un buon sindacalista era quello che avrebbe riportato l‟operaio in piazza per partecipare e non per fare compere nei negozi, Tommaso era un comunista. Non che fosse di quelle
persone fanatiche, con cui non potevi parlare, però
ci teneva a fare sapere a tutti la sua appartenenza
politica, lavorò come impiegato statale per quattro
anni, poi ebbe la vocazione e diventò sindacalista.
All‟inizio fu molto dura, per vari aspetti, in primo
luogo doveva capire la metodologia del nuovo lavoro, era come un “profeta” dell‟industria, aveva a
disposizione la conoscenza e la volontà, gli bastava
trovare il “contatto” giusto con la gente, come un
adescatore di anime nere, un impegno molto, molto
importante ma non impossibile. Riuscì presto a trovare la sua strada e fare breccia nei cuori dei lavoratori, tanto da spingere i responsabili regionali del
suo sindacato ad affidargli l‟organizzazione locale
dello sciopero generale in programma per il sabato
successivo.
Aveva seguito tutto nei minimi dettagli e teneva in
particolar modo al successo della manifestazione,
non era mancato ad una sola riunione sindacale,
studiando minuziosamente i monologhi, i discorsi
più accattivanti e coinvolgenti, cercando di fare ca-
103
pire a ogni singolo operaio di ogni singola azienda
l‟importanza dello sciopero e la necessità di esserci.
Purtroppo non tutti avevano recepito, molti il sabato avevano la partita di calcio, la fidanzata incazzata da portare a passeggio o qualche altro problema.
Ognuno aveva il suo luogo comune per pararsi il
culo, come Mario che non era andato “perché tanto
non cambia niente” o Stefano che diceva “non posso scioperare perché lavoro a stretto contatto col
Padrone”, un altro “non posso perché sennò non arrivo alla fine del mese” o Tizio che era “di destra”,
Caio che odiava la politica e ripeteva sempre “anche il sindacato è politicizzato quindi sto a casa” o
Sempronio “è proprio l‟unico sabato che non posso” e poi c‟era Dino che non poteva “perché si doveva alzare prestino” e Pino che “se era più vicino,
ma Roma…” e così tanti, tanti altri, legati ognuno
dalle proprie difficoltà di facciata.
Per fortuna non erano tutti come loro e la delegazione locale riuscì ad organizzare tre pullman per la
capitale. Il ritrovo era al vecchio campo sportivo
alle 2 del mattino, sembrava di essere in Antartide,
sopra ad un‟enorme banchisa, un freddo tagliente e
orizzontale aveva quasi tagliato il collo a Tommaso, che cercava disperatamente un igloo, mentre
tutti i manifestanti cominciavano a slittare sui propri bus. La prima corriera era stata occupata dai
nonnetti delle fabbriche, che avevano già cominciato a tracannare vino e mangiare pane e mortadella
sulle note dell‟immortale Bella ciao; la seconda
corriera aveva preso le sembianze di una biblioteca
ambulante, pseudo intellettuali occhialuti si tormentavano sulle differenze, esistenti fino a qualche
decennio fa, tra lo stato laico e il regime dittatoriale
fortemente legato alle tradizioni del Vaticano, convenendo che oggi, in un totalitarismo-democratico
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dove tutto è concesso per venir tolto subito dopo, le
cose vadano decisamente meglio. Sul terzo bus salirono, in ordine di condanne: “Unno”, “il Demonio”, “Raglio”, “Stura”, “Crocchio”, “il Doge”, “la
Femmina”, più un‟altra ventina di teppistelli impuniti, che insieme formavano gli “Irriducibili”, un
gruppetto di “ultrà” da fabbrica politicizzati, che al
grido di «Hasta la victoria siempre» avevano già
lanciato dai finestrini tutti i sedili e il viaggio non
era ancora cominciato. Tommaso decise, per tenerli
sotto controllo, di salire sull‟ultimo pullman.
«Fatti una paglia con noi» disse un bambinetto che
non poteva avere più di quattordici anni al sindacalista, che si girò e lo vide con in mano un “cannone” da mezzo chilo, aspirare come un‟idrovora i
suoi potenti solventi di piacere, per poi scoppiare in
una risata chimica. «Scusa, per che cosa si sciopera?» gli chiese “il Demonio” e lui, un po‟ spiazzato
dalla domanda, esaudì frettolosamente la curiosità
del ragazzo che, rapito dalla conversazione, rispose
«Ah, bello.» Poi fu la volta del colossale “Unno”,
che alla prima esperienza come partecipante ad una
manifestazione di piazza chiese se dovevano distruggere la città tutti insieme o se ognuno poteva
sfasciare per conto suo. Ma nonostante l‟apparenza
e le domande un po‟ eccentriche, Tommaso in poche ore era riuscito ad addomesticare quegli animali selvatici, facendoli diventare semplici gattoni annoiati che facevano domande ingenue, figlie del loro vivere metropolitano.
Piazza del Popolo era già stracolma di lavoratori in
festa, bandiere e vessilli sventolavano fieri nel cielo
limpido di Roma, mentre il gruppo di Tommaso si
mischiava alla folla come gocce nel mare. I rispettivi segretari nazionali affilavano la lingua e le idee
prima di entrare in azione, la vista dall‟alto era da
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mozzare il fiato, un‟onda lunga camminava fiera
verso una spiaggia di sabbia bianchissima per rovesciare tutta la sua potenza ribaltando ogni cosa;
purtroppo non sempre le onde riescono a giungere a
riva, spesso vengono ingoiate dal mare.
I giornali e le televisioni avevano dato grosso risalto alla manifestazione, mandando sul posto decine
di addetti ai lavori che non poterono far altro che
constatare il successo dell‟evento, stimando in circa
un milione e mezzo i partecipanti, secondo la polizia sì e no mezzo milione. Ma il balletto delle cifre
non era finito, infatti per il sindacato erano più di
tre milioni i lavoratori accorsi allo sciopero, con
punte del cento per cento nelle fabbriche, mentre
per Confindustria era un vero fiasco, contando in
tutto 35 manifestanti tra cui 15 sindacalisti, 4 pensionati in gita con le mogli e un turista polacco disperso e concludendo che i servizi televisivi, voluti
dal regime comunista, erano tratti da immagini di
repertorio.
A turno presero la parola tutti i segretari nazionali,
che in perfetto “sindacalese” (anticamera del “politichese”) affrontarono i temi più importanti, senza
fare capire nulla a nessuno, parole difficili, troppo
complicate per gente semplice. Poi il ritorno, di
nuovo chilometri, autostrada e macchine; Tommaso
era contento della buona riuscita dello sciopero, era
andato tutto come aveva sperato, ma nonostante
questo sentiva sfuggirgli qualcosa, capiva che non
tutto gli era stato svelato e la conferma giunse poco
dopo dal fondo del bus. “Unno” disse al sindacalista: «Cazzo però, ho fatto dodici ore di pullman, ho
perso la giornata di lavoro e non ho capito niente
dei discorsi di quei signorotti sul palco, ma a loro
cosa importa, con i soldi che prendono. La prossima volta sto a casa mia, tanto anche se manco io
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non cambia niente.» Tutti i passeggeri del pullman
concordavano con questa analisi. La doppietta di
luoghi comuni e l‟approvazione a quelle parole di
rassegnazione, avevano spento un po‟ l‟entusiasmo
di Tommaso, ma gli fecero finalmente capire di essersi sempre sbagliato e che un buon sindacalista
non è quello che porta la gente in piazza, ma quello
che spiega le cose nel modo più semplice possibile,
magari davanti a una tazza di caffè in centro, durante un‟assemblea sindacale, in pizzeria o al mare,
insomma un vero e proprio apostolo sindacale che
sappia condurre le masse alla comprensione.
Tommaso finalmente capiva le persone, perché aveva imparato a parlare alle persone.
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L’ULTIMA CENA
Recapitai personalmente gli inviti nei rispettivi armadietti, volendo fare le cose in grande scrissi le
epistole una ad una, usando la famosa penna d‟oca
dell‟amanuense per far capire l‟importanza della
cena.
Io, Mauro Cicconetti, da dodici anni schiavo come
Ulisse delle “Sirene Aziendali”, che mi tenevano
prigioniero in quel mare denso e melmoso, impenetrabile e impercorribile, come un soldatino di
piombo condannato al suo piedistallo. Dodici anni
di aspettative, di speranze, di piccoli e inesorabili
cambiamenti, che avevano portato la mia condizione lavorativa a uno stato di apparente tranquillità,
fino a sfiorare il soglio impiegatizio senza mai riuscire a raggiungerlo in pieno, dividendo la mia
giornata in azienda tra l‟inferno del magazzino e il
paradiso dell‟ufficio, facendo deragliare la mia posizione fuori dai binari della normalità, creando solo per me una degenerazione atipica e crudele, esclusa da ogni categoria fin qui presentata, quella
dell‟operimpiegato di fabbrica, un ibrido mal riuscito, metà operaio e metà impiegato, probabilmente in procinto di essere eliminato, perché catalogato
come “non sicuro”.
Queste furono le premesse che mi portarono alla
decisione finale di invitare tutti i miei degeneramici, le uniche persone che negli anni si erano sempre
dimostrate (ognuna a modo suo) leali e sincere con
me, ad una cena indimenticabile a casa mia, per festeggiare qualcosa di molto, molto bello.
108
Scrissi di proposito agli invitati di non farmi sapere
se avrebbero partecipato o meno, sapendo di provocare in loro un senso di istintivo disagio e una
curiosità difficilmente controllabili, condannando
tutti ad essere presenti.
Confesso che ero molto emozionato, mi ero persino
preso mezza giornata di permesso per preparare al
meglio ogni singolo particolare, la mia era una
compagnia esigente e se qualcosa non andava me lo
avrebbe fatto notare subito, quindi preparai la tavola seguendo le manie di ognuno, stando attento anche alle più piccole sfumature.
L‟assegnazione dei posti fu difficile, ma riuscii a
incastrare il puzzle nel modo migliore. Il primo ad
arrivare fu naturalmente Silvestri, il nostro Responsabile, appena tornato da una vacanza forzata in azienda. Prese subito il comando delle operazioni e
si posizionò come capotavola a nord dell‟ingresso,
dicendo di non aver capito quella pagliacciata, ma
di aver accettato perché gli era stato imposto dalla
Direzione di controllare la strana iniziativa e perché
era la prima volta in tanti anni che qualcuno lo
coinvolgeva in una iniziativa extra fabbrica. Da
buon gerarca nazista idiota, ordinò da bere del vino
rosso, per poi ribaltarsene metà sulla camicia.
Spadino disse di esser stato trascinato lì con
l‟inganno, sul biglietto d‟invito c‟era scritto che era
una festa a tema sullo sport. Lui odiava lo sport, ma
gli avevo scritto che una splendida biondona si sarebbe vestita da tennista e che di sicuro avrebbe
gradito giocare in doppio con lui, stuzzicando così
l‟appetito del donnaiolo.
Con Gaetano usai lo stesso sistema che si usava in
fabbrica, pochi minuti prima dell‟appuntamento gli
mandai un SMS indicandogli il posto assegnato e
specificando che all‟ingresso sarebbe stato munito
109
di un kit contro gli attacchi logorroici, per evitare
inutili spargimenti di parole; infine si ritrovò seduto
al fianco del donnaiolo, legato alla sedia e con una
museruola allacciata alla nuca simile a quella di
Annibal Lecter. Servii a tutti delle ottime fave con
un buon bicchiere di Chianti, ma Gaetano sembrò
non gradire.
Il Sapientino naturalmente aveva capito tutto, sapeva perfettamente perché quella sera si trovavano
tutti lì e lo pregai di non dirlo a nessuno per non
rovinarmi la sorpresa. Con molto dolore acconsentì,
andava matto per gli indovinelli ed esporre le soluzioni alla sua gente era il suo passatempo preferito.
Quindi, da vero egoista, lo interpellai sul mio futuro, chiedendogli esplicitamente come sarebbero andati i miei sogni e le mie aspirazioni, ma lui non rispose, disse solo «In molti lo fanno, in pochi riescono.» Credo sia stato un modo elegante per dirmi
che non sarebbe andata tanto bene. Si sedette come
capotavola a sud dell‟ingresso, lievitando in meditazione.
«Ciao Dragone, finalmente ti sei deciso, ho portato
solo le cose essenziali per trascorrere la nostra prima notte insieme, le mie unghie finte e
l‟impermeabile color cammello albino.» L‟ingresso
della Calla me l‟ero immaginato così, poi mi sarebbe corsa incontro, palpandomi il sedere in un abbraccio caliente. Avrei tanto voluto averla vicina,
magari non così vicina, la sciagura aerea che
l‟aveva colpita aveva tolto a lei la vita e a noi una
straordinaria compagna d‟avventura; ci toccammo
il sedere a vicenda in memoria di lei, convinti che
avrebbe gradito l‟omaggio.
Qualche giorno fa, mentre prendevo un caffè in un
bar del centro chiacchierando con un simpatico barista, vidi per caso un quotidiano aperto sulla pagi110
na delle curiosità e mi balzò davanti agli occhi un
trafiletto a fondo pagina: “Va all‟algerino Hamza
Machot il premio „precario d‟oro 2009‟, avendo
contribuito in maniera concreta e decisiva alla crescita e all‟immagine della categoria. Domani sera,
in occasione dei „World prize of all the precarious
workers‟ a Boston, ritirerà il premio e la nomina ad
ambasciatore dei „senza fisso lavoro‟ nel mondo.”
Telefonai alla redazione del giornale per avere il
recapito, feci qualche telefonata, e riuscii a mettermi in contatto con il mio famoso ex collega. Lo
stanai in un paesino a nord di Belfast, in una miniera a 200 metri di profondità, era in pausa e stava
sgranocchiando pane e catrame; gli esposi rapidamente la situazione e gli dissi che sarei stato contento di averlo al mio fianco, mi rispose che sarebbe passato prima di partire per Boston. Puntuale e
preciso come sempre, aveva appena suonato al
campanello, con valigia di cartone al seguito.
Erminio era tornato quello di un tempo, tutto casa e
sesso, prima di suonare alla porta cercò di avere un
rapporto completo con la serratura del mio vicino,
ma gli andò male perché fece scattare l‟allarme.
L‟uomo, mortificato, entrò in casa e si sedette, dopo pochi minuti di quiete chiese di andare in bagno,
da dove poco dopo cominciarono ad avvertirsi strani latrati, per senso del pudore non commentammo
l‟episodio.
Gargiulo entrò di corsa senza salutare nessuno, si
guardò intorno smanioso, in cerca di qualcuno o
qualcosa, finalmente lo trovò, il Responsabile era a
capotavola e gli saltò al collo per fargli le feste, poi
si calmò, scodinzolò contento e si accucciò ai suoi
piedi. Tentammo in tutti i modi di staccarglielo di
dosso, gli diedi un osso gigante di bufalo che a lui
piaceva tanto, ma l‟animale non si mosse, allora
111
presi un bastone e lo tirai lontano, ma non lo guardò nemmeno, decidemmo insieme di addormentarlo con il vecchio trucco della polpetta avvelenata e
finalmente capitolò; per evitare nuovi spiacevoli
inconvenienti lo adagiammo fuori dalla porta, legandolo ben stretto al cancello di casa.
Doveva scontare cinque ergastoli più un supplemento di centotrentaquattro anni di manicomio
criminale, provai in tutti i modi a fargli avere almeno un permesso di qualche ora, ma fu impossibile,
tentai con la carta della video conferenza dal carcere, ma non ottenni risposta, Sabatino aveva proprio
combinato un bel casino. Dopo la strage in fabbrica
fu rinchiuso in una cella di isolamento lontano da
tutti e da tutto, per sentirlo vicino misi una sua fotografia e una miniatura del fucile della strage dove
avrebbe dovuto sedersi.
Lo avevamo sentito arrivare in fondo alla via, lo
avevamo sentito scendere dalla macchina e lo avevamo sentito avvicinarsi alla porta, ma lui suonò lo
stesso. Era il problema più grosso della serata, non
sapevo come comportarmi, ma soprattutto non sapevo cosa fare di lui, ci tenevo tanto che fosse dei
nostri, ma allo stesso tempo non volevo rischiare
che rovinasse la serata agli altri ospiti; avrete sicuramente capito che era appena arrivato il Lavasecco
in persona. Fu come al solito il Sapientino a risolvere la situazione, con poche mosse mirate, limitandosi ad invertire il suo posto con quello della
puzzola, aprire leggermente la finestra alle sue
spalle e fonare aria tiepida e continua contro il Lavasecco per liberarlo almeno provvisoriamente dalle sue terribili esalazioni.
Non fu un caso se arrivò per ultimo, a lui ero e sono tuttora legato da un‟amicizia profonda e indissolubile, a lui devo la forza e il coraggio che mi per112
mettono, oggi, di essere qui a scrivere per voi. Il
vagabondo si mise per forza di cose nell‟ultimo posto rimasto libero, accettò la cosa di buon grado,
non aveva mai badato alla forma, il suo profondo
senso di non appartenenza lo faceva stare a suo agio in qualsiasi situazione. Quando entrò l‟intera
tavolata gli tributò un applauso spontaneo in ricordo delle sue gesta, era davvero una bella persona, a
cui potevi chiedere davvero tutto, eccetto di lavorare.
Erano arrivati tutti, andando contro le mie più rosee
aspettative, decisi quindi, da perfetto padrone di casa, di dare inizio alla cena, non senza prima brindare ai miei amici più veri e fidati. Alzai il calice al
cielo, invitandoli a fare altrettanto, presi la parola e
dissi: «Grazie di cuore per aver accettato il mio invito, ora vi chiederete il perché di questa cena, ovviamente per condividere qualcosa di bello con le
persone che più mi somigliano, pertanto vi chiedo
ancora qualche minuto di pazienza, perché a breve
l‟arcano mistero verrà svelato e la curiosità placata.
Intanto prendete e mangiatene tutti, questo è
l‟agnello che offro in sacrificio per voi, allo stesso
modo potete prendere il vino e dissetare le vostre
aride gole.»
Mi presero in parola e spazzolarono tutto, Silvestri
fece i complimenti alla moglie, gli dissi che non
c‟era una moglie, allora fece i complimenti alla
mamma, gli dissi che non c‟era una mamma, allora
fece i complimenti allo chef, gli confessai che avevo fatto tutto da solo e rimase a bocca aperta per
cinque minuti, poi sentimmo puzza di bruciato provenire dalla sua testa, un piccolo neurone gli spuntava dall‟orecchio e ci chiese disperatamente asilo
politico.
Sprofondammo negli abissi dei ricordi, ad una cena
tra operai si finisce sempre per parlare del passato,
113
anzi, si parla solo di quello, ogni riferimento a fatti
e persone, ogni discorso, ogni emozione sono legati
alla fabbrica da un embrione malato e in continua
espansione, storie che si intrecciano, personaggi
che riaffiorano, sono come l‟eroina per un drogato
o la linfa per le piante, ci servono, ci nutrono.
Dopo cena ci spostammo nel salone, il Sapientino
accese il camino con due stuzzicadenti e una manciata di ghiaia, poi ci mettemmo tutti intorno a lui
come bambini in attesa di una storia di paura, e
cominciò a raccontare aneddoti inediti, che risalivano ai tempi in cui ricevette le “tavole del sapere”
dalle mani del padrone, che in cambio del prezioso
dono lo condannò ad una vita di relegata sapienza
da scontare nelle sue fabbriche. Gaetano ci voleva
raccontare la sua storia lavorativa dagli inizi ad oggi, gli rimettemmo la museruola e gli legammo
nuovamente le mani ben strette alla sedia; la puzzola, che per sicurezza avevamo posizionato fuori
della porta, ci urlava di quella volta che tentarono
di curarlo con un rimedio ormonale, il giorno dopo
in fabbrica perdeva tutto il pelo e puzzava come un
campo appena concimato.
Passammo tutta la notte a raccontare spaccati di
fabbrica, alcuni veri, altri concepiti da un groviglio
di instabile follia, ma tutti utili a tenere vivo per
sempre il ricordo del lavoro più straordinario del
mondo, quello dell‟operaio.
Richiamai l‟attenzione, chiesi gentilmente di tornare in sala da pranzo e di riaccomodarci a tavola.
Ognuno trovò un pacchetto, che chiesi di non aprire
finché non avessi finito di parlare, bevvi un sorso
d‟acqua e ripresi prontamente il filo del discorso:
«Amici cari, sono giorni che penso a questo momento, alle parole da usare, se mi sarei commosso,
e soprattutto se avreste capito la sofferenza che
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provo in un momento così bello della mia vita. Ho
passato anni tremendamente felici alla fabbrica, ho
conosciuto le stravaganze della natura e la cattiveria della gente, ho lavorato nella polvere e al freddo, ho imparato ad amare i diversi e a perdonare
con i loro occhi. Ho sempre pensato che nessuno,
una volta varcata la soglia, potesse scrollarsi di
dosso il crudele piacere della pausa caffè, il rimbrotto di un superiore o il sapore sempre uguale
della mensa, ebbene io, Mauro, per dodici anni operimpiegato alla fabbrica posso dire con sfrontata
timidezza di avere chiuso per sempre dietro di me
le porte del grande cancello, avendo appena legato
il mio nome a quello di una grossa casa editrice,
che crede fortemente nel libro che ho appena terminato, proponendomi un contratto da vero scrittore. Gli omaggi che avete di fronte a voi non sono
altro che le copie inedite della mia opera, sarà per
me motivo di orgoglio avervi come miei primi lettori, nella speranza che vi piaccia, che ritroviate nei
personaggi almeno un po‟ delle vostre straordinarie
virtù e di essere riuscito a descrivere tutte le fantastiche “creature operaie” che popolano l‟universo
della fabbrica.»
Infine presi il camice blu dell‟operaio, vi misi sopra
il mio badge e gli ultimi tre buoni pasto che mi erano rimasti, lo appallottolai e lo gettai nel fuoco,
chiamai a raccolta tutti i miei degeneramici, ci saldammo in un unico, ultimo abbraccio e, mentre le
fiamme del camino portavano via il mio passato,
giurammo che quella sarebbe stata la nostra ultima
cena insieme.
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INDICE
9 PROLOGO
13 LOTTERIA DEL PRECARIO (L‟INTERINALE)
19 IL BALLO IN MASCHERA (IL DONNAIOLO)
26 L‟INSAZIABILE (IL PLURIGENITORE)
33 CANTICO DELL‟AMATO SIGNORE (IL PADRONE)
34 LA CALLA (IL GAY)
39 AMICO (IL VAGABONDO)
47 LA SACRA SINDONE (LA PUZZOLA)
53 L‟ABBANDONO (IL LECCHINO)
58 “MITRAGLIA” (IL CHIACCHIERONE)
62 LA SFIDA (IL SAPIENTINO)
70 UNA STRAGE ANNUNCIATA (IL MATTO)
74 NATALE IN VETRINA (IL RESPONSABILE)
78 NON SOLO OPERAI
79 LA MENSA
82 IL BUONO PASTO
83 L‟ASSEMBLEA SINDACALE
86 IL MICROCOSMO
87 MICROCOSMO TECNOLOGICO CONDIVISO
89 MICROCOSMO TECONOLGICO “BANDITO”
91 IL VIAGGIO
95 IL CORRIERE ESPRESSO
103
LO SCIOPERO
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L‟ULTIMA CENA
Stampato in Italia
nel febbraio 2011 per conto di
LibertàEdizioni