creature operaie - Libertà Edizioni
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LibertàEdizioni Mauro Cicconetti CREATURE OPERAIE RACCONTI LibertàEdizioni A Filippo per l’amicizia A Geltrude per l’amore CREATURE OPERAIE PROLOGO Tutti coloro che cadono nella “rete” pensano sia per poco, che certamente avranno dalla sorte altre possibilità, non finiranno di sicuro i loro giorni rinchiusi in un capannone freddo e fatiscente, a combattere contro tutti e contro tutto e che, in fondo, l‟esperienza da operaio sarebbe stata uno sbiadito ricordo di una vita radiosa costellata da successo e benessere, utile al massimo come racconto notturno per spaventare nipotini a caccia di streghe. Permettetemi di dire che, purtroppo, le cose non stanno esattamente così, infatti, nel momento preciso in cui si varca fisicamente il “grande cancello”, cambia il corso della propria vita! Il tempo e lo spazio come li si conosce, non saranno più misurabili con gli elementi che hanno sempre accompagnato la nostra vita. Come la ruggine gratta il ferro, lo sfinisce, lo consuma, allo stesso modo la fabbrica ti prende, ti avvolge nella sua cortina di fumo impenetrabile, ti droga quotidianamente con il suo tepore malato. Ogni mattina il “grande cancello” si apre riproponendo sempre lo stesso copione di devastante apatia, poi ecco le grida strazianti di una povera sirena spiaggiata che urla le sue tragiche ore, scandendo i suoi rintocchi di morte. Si entra al mattino con il buio, si esce la sera con le tenebre che invadono tutto, sempre lì, pronte a divorare pensieri e sensazioni. Il rumore serafico del9 le serrature delle vetture dei poveri operai alla fine del turno, fa scattare la combinazione della libertà, la chiave di volta per tornare finalmente liberi di respirare, liberi di annusare il profumo inebriante delle proprie idee. Attenzione però, perché presto sarà nuovamente l‟alba, tutto ricomincerà e sarete ricacciati nelle vostre fabbriche, perché voi siete gli schiavi senza catene del terzo millennio, siete operai! Ma esiste in natura una definizione scientifica per descrivere l‟operaio? La risposta è no! Ma vediamo se sia possibile capirne di più con alcune riflessioni, necessarie a riassumerne le tipologie più diffuse e le stravaganze degenerative. L‟esposizione troppo prolungata dentro ad una fabbrica può causare profonde ferite mentali, che possono provocare vere e proprie spaccature all‟interno della calotta cranica, dando vita al famoso “fenomeno dei buchi neri”: zone dove la psiche devastata del povero operaio manifesta allucinazioni di ogni tipo, come megalomanie di potere, sdoppiamento della personalità, fino alle visioni più incredibili. Ed è proprio qui che la natura malata ha il suo giogo più perfido e meschino, mischiando realtà e fantasia, lucidità e follia, creando figure dagli aspetti più diversi, mostri di ogni estrazione socialepolitico-culturale e talvolta, nei casi estremi, anche esseri di altri mondi. Queste creature impalpabili, nel gergo comune della fabbrica, vengono da tutti chiamati “colleghi”. Nell‟immaginario collettivo, fino a qualche decennio fa, l‟operaio veniva catalogato ed analizzato dal “sistema” con caratteristiche ben precise, come la barba incolta di almeno una settimana, lo stuzzica10 denti 24 ore su 24 incastonato tra lingua e premolare, i più audaci ne tenevano una preziosa riserva nel taschino della camicia (quest‟ultima ovviamente di flanella), l‟alito misto carbonara-vino rosso, l‟appartenenza politico-sindacale dichiaratamente di sinistra, la puzza di grasso sempre addosso e per finire il linguaggio (per usare un eufemismo) molto colorito, del tipo tre bestemmie vinci una frase di senso compiuto. Ora le cose, con l‟avvento dell‟emancipazione sociale, la globalizzazione e l‟informazione mediatica diffusa anche negli angoli più remoti della Terra, hanno portato l‟operaio ad una situazione radicalmente cambiata. Il nuovo operaio si è staccato di dosso l‟etichetta che lo vedeva da generazioni marchiato come rozzo e privo di istruzione. Tecnologia, cultura, benessere, non sono più parole sconosciute e solo per pochi, hanno invaso le nostre case e il nostro modo di vivere, migliorando notevolmente il modo di approcciarsi al prossimo, senza tralasciare però l‟ambiente lavorativo ed in particolare la fabbrica, che resta comunque, seppur in modo diverso rispetto al passato, un mondo isolato, che raccoglie al suo interno tutto quanto può servire per sviluppare le esperienze più straordinarie e affascinanti. Perché oggi ogni singolo operaio del terzo millennio possiede caratteristiche strettamente personali (difetti degenerativi), veri e propri “marchi di fabbrica” utilissimi al datore di lavoro per catalogarne la specie di appartenenza e che, accentuati dal citato “fenomeno dei buchi neri”, lo rendono unico e indispensabile. Normalmente un individuo sviluppa un solo difetto, anche se in maniera molto marcata, rendendosi facilmente contrastabile nell‟eventualità di una perdi11 ta totale della ragione. Solo in alcuni casi lo schiavo proletario viene attaccato da difetti multipli; per questi il contratto nazionale del lavoro prevede la possibilità (da parte della proprietà) dell‟abbattimento immediato del soggetto e la sostituzione con un nuovo esemplare monodifetto. 12 LOTTERIA DEL PRECARIO (L’INTERINALE) Nata in questo ultimo decennio, quella dell‟interinale rappresenta una vera ricchezza per le industrie ed anche per i governi di tutto il mondo (escluso per i lavoratori, ma cosa importa!), garantendo lavoro a basso costo quando lo si richiede per eliminarlo ad emergenza finita, come una pallottola di carta buttata nel cestino dei rifiuti. La storia dell‟algerino Hamza Machot è l‟emblema di quello che può accadere quando si entra nel turbine dei contratti a tempo, quando cioè la nostra esistenza viene segnata dal marchio del precario. La signorina che lo ebbe “in cura” durante il suo primo colloquio all‟agenzia interinale fu molto gentile e disponibile. Come spesso avviene in questi punti di raccolta lavoro, gli chiese con squisita cortesia: «Allora, chi è il prossimo, avanti forza datevi una mossa.» Hamza avanzò lentamente e un po‟ impaurito, mentre la segretaria lo invitava cortesemente a presentarsi: «Nome, cognome, luogo e data di nascita e naturalmente il permesso di soggiorno, veloce.» Il povero algerino, che naturalmente non aveva capito nulla delle parole della ragazza, se la cavò abbastanza bene allungandole il suo prezioso permesso di soggiorno senza dire nulla. La signorina, dopo qualche minuto e dopo avere constatato l‟autenticità del pezzo di carta, riprese la simpatica conversazione con Hamza e gli disse: «Signor Machot, mi ascolti bene, ci sarebbe un posto di lavoro per lei, 13 naturalmente a tempo determinato alla Foster & Johnson, si occupano di impianti di refrigerazione; che fa, accetta?» chiese bruscamente la ragazza. Hamza, che ancora una volta non aveva capito nulla, rispose di sì, come gli avevano consigliato di fare al suo paese ogni volta che qualcuno gli poneva una domanda. Così cominciò l‟avventura lavorativa di Hamza Machot, extracomunitario come tanti, in un paese schifosamente retrogrado e razzista. Per dirla tutta, quel primo impiego non sarebbe dovuto durare poi tanto, visto che la ragazza gli aveva propinato un nuovo tipo di contratto, chiamato “contratto a cagata”, che entrava in scena in quei periodi dell‟anno nei quali le imprese hanno l‟esigenza di maggior manovalanza per un aumento improvviso del lavoro, dovendo per ovvi motivi fronteggiare anche l‟emergenza più breve, come quella della pausa caffè o la pausa cesso, in cui il malcapitato sostituto spariva in circostanze misteriose quando l‟operaio titolare tirava lo sciacquone del water per riprendere regolare servizio. Per Hamza le cose non andarono così, superò brillantemente quel primo esame ricco di insidie, riuscendo a lavorare per altri due mesi in quella prestigiosa multinazionale, cominciando così una lunga e tortuosa avventura nel precariato lavorativo. «Buongiorno Mascot, hai dormito bene stanotte?» gli disse amichevolmente il suo collega durante un‟esperienza lavorativa presso una famosa azienda dolciaria nei pressi di Torino. «Bene, grazie amico, ma io mi chiamo Machot» rispose un po‟ seccato l‟algerino, perché quella storia del nome storpiato andava avanti da quasi due mesi, finché una mattina l‟amico operaio, dopo aver ripassato per tutta la notte come uno scioglilingua di rara difficoltà 14 l‟intricato nome del collega, si presentò al lavoro con il sorriso stampato in faccia e la soddisfazione di aver finalmente imparato il nome correttamente. Si guardò un paio di volte in giro cercando l‟amico, ma non lo vide, chiese informazioni al suo superiore che lo liquidò frettolosamente dicendogli «Chi cerchi? Hamza Caciot? Gli è scaduto il contratto ieri, preparati che oggi comincia un ragazzo nuovo credo sia egiziano, o qualcosa del genere.» Il ragazzo guardò dritto negli occhi il suo superiore e visibilmente emozionato gli disse: «Si chiamava Hamza Machot.» L‟algerino, durante la sua lunga carriera lavorativa vissuta in giro per mezza Italia, fu anche fortunato protagonista di una vicenda finita sui giornali nazionali, infatti il proprietario di una fabbrica che produceva pasta fresca in cui rimase a servizio per diversi mesi, sfruttando a dovere le possibilità pressoché illimitate di attingere da quel pozzo inesauribile che sono i contratti a tempo determinato, si inventò con un‟operazione di marketing a dir poco pittoresca e lungimirante, il “contratto lotteria”. L‟imprenditore aveva organizzato per il 6 gennaio, attraverso la vendita di biglietti da 5 euro l‟uno, la “gran lotteria del precario”, ovvero sei mesi di contratto con durata continuativa chiaramente a tempo determinato, da effettuarsi nell‟anno a venire. In questo modo il Padrone, con una mossa astuta e senza precedenti, dava la possibilità di lavorare per qualche mese in più ad uno di questi poveracci senza nome, facendo pagare a loro le spese per lo stipendio, era davvero un premio di insana generosità. Naturalmente la prevendita andò a ruba, a tal punto che ci furono scontri e tafferugli tra i precari per accaparrarsi i preziosi tagliandi; le violenze furono sedate solo dall‟intervento della polizia a cavallo 15 che disperse i facinorosi. Inutile dire che nel giro di poche ore i biglietti furono completamente esauriti! Il 6 gennaio, alle 10 in punto del mattino, nel piazzale della fabbrica addobbata a festa per l‟occasione, avvenne l‟estrazione tanto attesa. Affacciato alla finestra del suo mega studio, che dava perfettamente sulla folla festante, prese la parola con l‟aiuto di un megafono rimediato in circostanze fortunose, il Dio Padrone in persona. Con voce forte e sicura, dapprima tenne un comizio politico sullo stato attuale del nostro paese, poi passò in rassegna l‟andamento generale della sua azienda, snocciolando dati che avrebbero fatto addormentare anche un cocainomane appena fatto, in seguito, prima di andare via, grazie al suggerimento di un tirapiedi, gli venne in mente il motivo per cui tutta quella gente era lì ad ascoltarlo sparare cazzate e, tagliando corto, disse: «Infine amici cari, in questo giorno di festa per tutti noi, sono lieto di annunciare il vincitore della prima edizione della “gran lotteria del precario”.» A questo punto ci fu da parte del Supremo un mescolio di palline che pareva non finire mai, seguito da quella folla speranzosa che oscillava la testa avanti e indietro, nello stesso modo in cui il Divino agitava le sfere colorate, finché, scelta la pallina vincente, guardò con perversa soddisfazione la folla ammutolita, la aprì, e finalmente disse: «Il numero vincente è il seguente AD45759003, complimenti al vincitore, arrivederci a tutti, ci vediamo lunedì mattina puntuali al lavoro» e se ne andò frettolosamente. Hamza controllò, ricontrollò, richiese la sequenza vincente a sette operai diversi poi, convintosi della vittoria, esultò composto, guardando verso il cielo ringraziando Allah, mentre la gente delusa si incamminava lentamente verso il parcheggio. Natu16 ralmente tutti guardavano il proprietario del fortunato biglietto con invidia e bramosia di vendetta, fulminandolo ripetutamente con sguardi colmi di odio. In seguito, grazie a quella botta di culo clamorosa, venne contattato addirittura da una piccola TV locale che, appassionatasi alla strana vicenda, lo volle in studio per parlare liberamente della controversa “lotteria”, che tanto scalpore aveva destato in tutta la provincia. Si presentò agli studi televisivi in perfetto orario, bianco come un lenzuolo e tremante di paura. Lo portarono ai camerini per il trucco e parrucco, dove venne dapprima incipriato abbondantemente rendendolo simile ad una bambola di porcellana, successivamente cosparso di polvere gialla, secca e puzzolente, che un tempo doveva essere probabilmente fondotinta, poi fu costretto a farsi cotonare, strappare, acconciare e malmenare i suoi poveri capelli. Profondamente a disagio per tutta quella gente che si occupava di lui, in preda a decine di tic orrendi, gli venne somministrato un sedativo. Ridotto ormai ad un ectoplasma imbalsamato, non potendo più muovere nessun muscolo della faccia perché bloccato dalla maschera di gesso, ebbe inizio la puntata dal titolo tutt‟altro che rassicurante “Extracomunitario o extraterrestre ?” Ospiti in studio, oltre naturalmente a Hamza Machot, ET l‟extraterrestre, Kunta Kinte (protagonista del kolossal Radici) e l‟oscuro signore di Guerre Stellari Dart Fener. Dopo una lunga attesa, e dopo essere stati catechizzati a dovere dalla conduttrice del programma su cosa potevano dire e soprattutto su cosa non potevano dire, ebbe inizio la trasmissione. Presero la parola per primi i suoi illustri colleghi che dissero, nelle rispettive lingue madri, più o meno le stesse cose (almeno credo, visto che nessuno capì mezza 17 parola, il budget del programma non prevedeva traduttori provenienti da altri pianeti). Poi venne il momento dell‟algerino che, in un italiano ormai affinato dai lunghi anni passati nel nostro paese, alla domanda della giornalista su una correlazione tra extracomunitari ed extraterrestri, prima riprese possesso della propria faccia che gli si sgretolò per via di una espressione contratta del viso, liberandolo definitivamente dalla colata di cemento che si era impossessata di lui, infine rispose, fregandosene completamente della domanda della presentatrice e del motivo per cui era stato invitato alla trasmissione, con un monologo destinato a lasciare il segno nella piccola emittente. Iniziò il suo sfogo liberatorio: «Ho visto cose che voi italiani non potete neanche immaginare: navi cargo cariche di precari scioperanti affondare al largo del Po, ho visto lo stesso operaio lavorare nella stessa ditta per tre anni, rinnovando il contratto ottocento volte; ho visto cinesi assunti con contratto a tempo indeterminato (molto pochi), ho visto precari talmente precari da essere costretti a morire su impalcature precarie, ho visto le scintille di una saldatrice balenare nella faccia di un precario napoletano (licenziato il giorno dopo). Sono tutte cose che andranno perdute per sempre, come scarti di pasta rigettati nell‟impastatrice. È tempo di migrare, domani mattina stessa partirò alla volta della Germania, sperando di avere più fortuna, in ambito lavorativo, di quella che ho avuto qui da voi.» Non so perché quel giorno prese la decisione di mollare tutto, forse quella stabilità che gli era sempre sfuggita era diventata un fardello troppo pesante, persino per un precario DOC come lui. Come diceva De André, “dai diamanti non nasce niente, dai precari nascono i fior”. 18 IL BALLO IN MASCHERA (IL DONNAIOLO) “Martedì 20 febbraio alle 21, i ragazzi del magazzino organizzano una festa mascherata alla fabbrica, con la musica del DJ Barletta, 15 euro a persona e consumazione illimitata, per prenotazioni rivolgersi a Spadino.” L‟annuncio era stato messo in bacheca già da qualche giorno e non aveva lasciato indifferenti gli operai a cui l‟idea solleticava parecchio, una bella serata senza mogli e fidanzate, perché l‟invito era solo per il personale addetto dell‟azienda. L‟organizzatore dell‟evento era naturalmente Spadino, un simpatico quarantenne che lavorava alla Ditta come addetto al “controllo qualità” e aveva l‟importante compito di verificare il buono stato della merce prima di finire stivata in magazzino. Fisicamente non era quello che possiamo definire una bellezza rara, aveva una statura medio bassa, capelli corti neri e cotonati, un viso piuttosto piccolo e rotondo ben curato, ma quello che stupiva erano gli occhi, uno verde ed uno azzurro, che attiravano le donne come due grossi magneti. Da ottimo menestrello qual era, durante la pausa pranzo era solito raccontare le vicende sentimentali che lo vedevano coinvolto nei weekend a caccia di “bella robetta”, termine con cui amava identificare da maschilista integerrimo qual‟era, il sesso debole. Come quando, durante una serata trascorsa in un famoso locale della riviera romagnola, riuscì a portare a segno il colpo della vita: si intrattenne infatti 19 in un famoso albergo nelle regali stanze di una Duchessa svedese, per poi scoprire con enorme imbarazzo che il Duca, suo marito, guardava l‟adulterio attraverso gli occhi di una finta Gioconda appesa alla parete. Naturalmente raccontava anche delle scappatelle avute all‟interno della fabbrica, come quando si fermò a fine turno per controllare della merce urgente in partenza l‟indomani mattina, finendo a controllare le enormi tette di una rappresentante dell‟azienda, della quale non fece il nome per galanteria. La ragazza venne comunque individuata da tutti, il seno, ma soprattutto il bollino verde dell‟accettazione sulla chiappa sinistra, erano prove inequivocabili dell‟avvenuto collaudo. In fabbrica, come dal parrucchiere, si viene a sapere tutto di tutti, in questo senso anche “il donnaiolo” non faceva eccezione, in contrapposizione ai successi sentimentali così ben decantati da Spadino, vi erano decine di testimonianze, spiate, appostamenti di operai invidiosi, uscite di gruppo con i colleghi, che raccontavano un altro aspetto significativo della vicenda, quello legato alle conquiste non proprio edificanti. Infatti, le vittime del nostro amateur, non erano sempre da copertina, tutt‟altro, chi lo aveva visto in azione raccontava di uno Spadino alle prese con una massa organica informe, forse di sesso femminile in evidente stato di decomposizione, o quando una sera era stato avvistato lungo l‟arenile di Rimini in compagnia di una “stecca” alta due metri, che non poteva pesare più di 25 chili e lui, nel tentativo di avvolgerla in un bacio passionale, strinse troppo la presa e le spezzò la schiena. Dopo qualche secondo di imbarazzo, decise di liberarsi del cadavere gettandola in mare, la donna andò a sbattere contro gli scogli frantumandosi in mille pezzi. 20 Ma il fatto più cruento e più nascosto della vita sessuale del nostro eroe avvenne qualche anno prima, in occasione della consueta asta di beneficenza che tutti gli anni la moglie del Signore Padrone indiceva, per raccogliere fondi alla “lotta contro il fisco”. Naturalmente erano stati invitati tutti, compresi gli operai, gradino più basso della catena alimentare. La donna, che in gioventù doveva essere stata una dama avvenente, all‟età di settant‟anni aveva ormai perso tutto il suo sex-appeal, il culo basso e largo, la pelle rugosa e bruciata dalle lampade, non formavano nel complesso un quadro positivo, ma si sa, spesso la paura e un po‟ di potere, possono fare molto. Fu così che la donna si invaghì al primo sguardo del seducente Spadino, che dapprima cercò di respingerla con galanteria poi, all‟insistenza della vecchia infoiata, provò a parlarle e a spiegarle che lui era un dipendente di suo marito e che si trovava in una posizione sfavorevole, ma la megera gli disse che se non si concedeva subito a lei, non avrebbe più avuto un datore di lavoro, e così si concesse nella toilette delle “signore” alla moglie del Padrone. Fu come una rapida galoppata con un cavallo zoppo, che per fortuna durò solo pochi minuti, “Jack Trapassa”, che era il nomignolo dell‟arnese del donnaiolo, ancora una volta aveva fatto il suo sporco lavoro, calmando con pochi colpi ben dosati le bollenti iniziative dell‟anziana porcella. Dopo quel fugace incontro, i due non ebbero più occasione di vedersi e l‟uomo custodì gelosamente quel drammatico ricordo dentro di se, finché… Il magazzino era stato ripulito, sgombrato, liberato, lavato e addobbato per la festa, Spadino aveva organizzato tutto nei minimi dettagli, al bar aveva messo i “fratelli Negroni”, che a dire il vero non 21 avevano nessuna parentela ma si vantavano di ubriacarsi insieme con regolarità da più di vent‟anni, conoscendo ogni tipo di superalcolico e le esatte miscele di tutti i cocktail. Al guardaroba era stata posizionata la rocciosa Veronica, un‟operaia della produzione, molto svelta e capace, con due cosce alla Rumenigge, utile per gli spostamenti laterali e la resistenza notturna, mentre alla cassa naturalmente c‟era lui, il donnaiolo, nella maschera che più gli si addiceva, quella di Rodolfo Valentino. Gli ospiti cominciarono ad arrivare numerosi, verso le 21 e 30 la sala era già quasi completamente esaurita, alle 22 e 15 gli organizzatori dovettero chiudere il “grande cancello” della fabbrica, tenendo fuori un esercito di Topolini e Paperini incazzati neri. All‟interno, le storie e le maschere più originali, si miscelavano fra loro in un intreccio di situazioni davvero bizzarre. Potevi trovare tranquillamente seduti ad un tavolino Gesù, con un inquietante kit fai da te per improvvisare una crocifissione, parlottare del più e del meno con un bel Lucifero rosso fiammante, che vaporizzava zolfo dal polsino della manica, oppure la bella Cenerentola ubriaca fradicia che limonava a testa in giù sopra ad un muletto, in compagnia di un bel Tarzan in evidente difficoltà con la sua liana, il tutto nel massimo riserbo possibile, perché per quella sera dovevano impersonare solo la loro maschera. Rodolfo Valentino si godeva la splendida serata, appoggiato al bancone del bar offriva da bere contemporaneamente alla bella Marilyn e ad una procace Maria Antonietta dal collo mozzato, intrattenendo una frizzante conversazione con le due dame. La prima si scolò in 20 minuti 5 Negroni (che era diventato il cocktail della serata), che la fecero precipitare al suolo in pieno coma etilico; due finti 22 barellieri la scortarono fuori dalla festa diretti verso un vero ospedale. La bella Maria Antonietta invece, colta da una dolorosissima “cervicale” derivata da quella strana postura a cui era costretta dal suo personaggio, si fece curare dal Doctor House che gli riscontrò due tumori maligni, una rara forma di cirrosi epatica e cinque ernie cervicali, il tutto facilmente curabile con due aspirine e un po‟ di riposo. Rodolfo era rimasto solo al bancone del bar, con il bicchiere a fargli compagnia; gli si avvicinò la Marchesa di Pompadour che gli chiese gentilmente se poteva sedere per bere qualcosa in sua compagnia, naturalmente il galante seduttore acconsentì. Fu una breve e divertente conversazione sulla buona riuscita della serata, la Dama si complimentò più volte con il bel Rodolfo, poi come un fulmine a ciel sereno, andando contro tutte le regole del gioco, la Marchesa si rivelò agli occhi del latin lover. L‟uomo impallidì, sotto le nobili vesti della Marchesa si celava il corpo appassito della vecchia consorte del Padrone; non sapendo come arginare quella furia selvatica, cercò di divincolarsi e di scappare dal bar, ma fu prontamente arpionato dalla donna che lo trascinò sotto al bancone, per consumare da vera predatrice il suo pasto carnale. La Marchesa aveva forse smarrito l‟antico fascino, ma non certamente le bramosie d‟amore e anche in quell‟occasione, non volendo essere da meno del suo giovane stallone, strappò via le vesti al povero Rodolfo che tornò Spadino, gli si buttò sopra e cominciò a cavalcarlo come una fantina furiosa, quando all‟improvviso, proprio in dirittura d‟arrivo, venne colta da un malore prepotente e fulmineo, ritrovandosi in pochi secondi disarcionata nelle verdi praterie dell‟aldilà. 23 L‟uomo, che sul principio non si era reso conto di nulla, osservò con enorme stupore il suo fedele “Jack Trapassa” spegnersi lentamente, spaventato dalla strana reazione, scosse la vecchia per trovare risposta ad una terribile sensazione che si era impadronita di lui. Sensazione avvalorata dai fatti, perché la Marchesa di Pompadour era morta sul colpo. Quando tirò fuori la testa da sotto il bancone, si rese subito conto che la festa era quasi finita, solo pochi irriducibili continuavano a ballare al centro della pista. Spadino, per non destar sospetti, si rimise alla meglio le sue vesti maltrattate, tornando ad indossare i panni di uno spennacchiato Valentino e, approfittando del fatto di non essere stato visto da nessuno, decise di liberarsi al più presto del cadavere. Ai fratelli Negroni, che fortunatamente dormivano ubriachi sopra il bancone del bar, sottrasse due grossi sacchi neri della spazzatura, che ritirò fuori solo a festa conclusa, vi mise dentro alla meglio la Marchesa e la caricò nel bagagliaio della sua macchina. Guidò per tutta la notte senza mai fermarsi, finché alle prime luci dell‟alba trovò nelle paludi di Comacchio il posto giusto dove seppellire la nobildonna. Scavò per tre ore con una piccola paletta da spiaggia rubata alla festa ad un bagnino distratto, infine, stremato, gettò il corpo senza vita della donna nella grossa buca e la coprì accuratamente, sperando che la melma di quei posti e un po‟ di pioggia battente avrebbero fatto il resto. La notizia della scomparsa della first lady ebbe naturalmente un immediato risalto mediatico, come sempre avviene in questi casi gli inquirenti che seguivano le indagini non vollero scartare nessuna pista plausibile, dal rapimento a scopo di estorsione, alla fuga d‟amore, al suicidio, all‟assassinio. Anche 24 in fabbrica si chiacchierava molto della vicenda, nessuno però fece mai un lontano collegamento tra Spadino e la vecchia signora, così, a poche settimane dalla scomparsa, fu lo stesso Padrone che, stanco e inconsolabile, attraverso un comunicato invitò la stampa, la giustizia e tutte le maestranze aziendali ad una lenta e progressiva archiviazione del caso, per poter riuscire a tornare a vivere serenamente. Ad onor del vero, l‟anziano Signore riuscì a smorzare quasi subito il suo dolore, facendosi accudire come un bambino capriccioso da due belle badanti russe, che riuscirono in breve tempo a sanargli le ferite. Tutti i mesi, nel giorno dell‟anniversario della scomparsa della moglie del Padrone, il povero Spadino, gonfio di rimorso, nei panni di Rodolfo Valentino prendeva una giornata di permesso dalla fabbrica per andare alle valli di Comacchio e deporre un gigantesco mazzo di fiori nel punto esatto dove era stata sepolta la Marchesa. Dopo pochi minuti l‟omaggio floreale veniva risucchiato dalla melma della palude, ma a Rodolfo piaceva pensare che fosse la Marchesa ad allungare le mani da sotto, gradendo il pensiero. 25 L’INSAZIABILE ( IL PLURIGENITORE ) Moglie a carico, figli di ogni età e animali domestici in serie, sono le semplici ma difficilissime caratteristiche per rientrare in questa categoria. Ermino Ridolfi era il tuttofare; stimato e ben voluto in fabbrica, rientrava perfettamente in questo quadro generale. Entrato in azienda ancora single, manifestò quasi subito il suo difetto degenerativo: con un eccesso di testosterone nel sangue cinque volte superiore alla media, aveva un‟attenzione molto particolare per il gentil sesso, inizialmente sfogata con normali rapporti sessuali occasionali, che con l‟andar del tempo diventarono manie ossessive. Cominciarono i viaggi in località di piacere, ogni tipo di vacanza era buona per prendere l‟aereo verso mete peccaminose e una volta, durante una forte crisi di astinenza, si finse malato, partì per la Thailandia e spedì il certificato medico direttamente da lì, mettendo come residenza, durante la malattia, la curativa Phuket. Naturalmente era anche assiduo frequentatore di localini notturni, dove poteva fare sempre nuove amicizie e nuove esperienze. Proprio in uno di questi centri del piacere avvenne il colpo di fulmine che centrò in pieno il giovane mandrillo. Durante una serata fra amici finita come sempre a puttane, si decise di chiudere la nottata, andando al “Grande Martello”, famoso nightclub della città. Mentre gli spettacolini si alternavano velocemente, Erminio incrociò accidentalmente lo sguardo con quella che 26 sarebbe diventata la madre dei sui figli, si trattava di una bella contorsionista nana peruviana, che era alle prese con un numero sensazionale, tentava infatti di entrare all‟interno di una carta del Pocket coffee per poi farsi richiudere e confezionare. Il numero riuscì perfettamente, scatenando nella testa profondamente segnata del ragazzo, incredibili sequenze sessuali difficilmente ripetibili. I due si conobbero a fine serata fuori dal locale e scattò immediatamente quel sacro fuoco che caratterizza tutte le vere storie d‟amore, per di più, la bella contorsionista era una ninfomane senza eguali e, non pensando alle conseguenze, si costringevano a vere maratone del sesso, certamente piacevoli, ma che lasciarono con gli anni effetti da girone dantesco. In soli sette anni di vita coniugale, i due inanellarono un filotto impressionante, nacquero, in sequenza, Matteo (asmatico), Tommaso (sano), Vittoria (affetta da nanismo), Gianluca (con i piedi palmati) e Anselmo (strabico), ultimo della covata. La madre, dopo quel quinto difficile parto, in via precauzionale si fece chiudere le tube e la coppia decise in seguito, anche per amore dei figli che crescevano vedendo costantemente i genitori fornicare dappertutto, di tentare la via della guarigione, attraverso un cammino difficile ed insidioso. Decisero quindi di affidare i propri problemi ad un esperto strizzacervelli che, dopo un percorso lungo, tortuoso e soprattutto costoso, portò la coppia ad un miglioramento netto e sostanziale. Ora, al povero operaio non rimaneva altro che il risultato del suo incedere così ardito, cioè problemi di ogni genere: affitto, bollette, scuola, asilo, la spesa quotidiana, erano solo alcune delle preoccupazioni che affliggevano tutti i giorni Erminio, che dal canto suo era costretto a lavorare in fabbrica, 27 anche fino a venti ore al giorno, senza mai dormire. Scene pietose si manifestavano normalmente alle porte del “grande cancello” con il plurigenitore che, seduto su un pezzo di cartone sulla soglia dello stabilimento, elemosinava qualche spiccio per sbarcare il lunario, oppure si organizzavano, tra i suoi colleghi più cari, lacrimevoli collette in suo favore, naturalmente nel tipico spirito della fabbrica, cioè con umana perfidia. In casa la situazione era anche peggio: i coniugi litigavano per denaro, ma anche per i bambini che presentavano problemi di ogni tipo e andavano guardati a vista, per evitare incidenti domestici che in passato avevano causato l‟intervento degli assistenti sociali. Come quella volta che la piccola (in ogni senso) Vittoria stava per affogare in un bicchiere d‟acqua lasciato accidentalmente sul tavolo dallo sbadato Tommaso o quando Gianluca, a causa dei fastidiosi piedi piatti, aveva sbattuto la testa, planando come una papera sul pavimento bagnato contro la vasca da bagno, procurandosi un violento trauma cranico. Erminio si rivolse anche all‟aiuto dei parenti, che dimostrandosi “veri serpenti” gli chiusero le porte in faccia. Per arginare la crisi economica, la famiglia chiese un prestito, che le banche concessero ad un tasso da usura, ottenendo in cambio: il quinto dello stipendio a vita, la liquidazione, la pensione fino a quel momento maturata, l‟utilitaria, il motorino e l‟unico figlio sano, venduto in seguito ad una famiglia benestante milanese. Completamente esaurito e con un nero futuro davanti, Erminio pensò anche di farla finita, senza mai trovare il coraggio per compiere l‟estremo gesto. Fu nell‟unico posto dove Erminio era veramente amato che trovò la forza e la motivazione per svol28 tare, la fabbrica. Conobbe infatti una transessuale brasiliana di nome Luana, una ragazza dalle abbondanti forme e molto bella, ma dalla voce roca e mascolina, che ad Erminio ricordava in maniera impressionante quella del suo Capo reparto, facendolo sentire perversamente spiato e controllato. Attratto da quella sensazione di peccato, si riprese completamente nel giro di pochi giorni, sentendosi nuovamente vivo. Luana era una delle tante “lucciole” che la sera andava a vendere l‟amore sui marciapiedi e arrotondava le spese con lavoretti saltuari, per questo motivo trovò quell‟impiego a tempo determinato in fabbrica, tre mesi che le permisero sia di rinnovare il permesso di soggiorno e guadagnarsi il diritto di rimanere in Italia, sia di adescare nuovi clienti per allargare il suo giro d‟affari, per la verità già piuttosto ricco. Al riguardo, quasi tutti gli operai si concessero una scappatella, cedendo al peccato carnale in nottate d‟amore con la bella trans, negando tutto l‟indomani ed evitando accuratamente Luana per non destare sospetti; solo Erminio, che aveva ripreso grazie a lei tutta la virilità di un tempo, aveva instaurato un rapporto sincero e amichevole anche al lavoro, affezionandosi pericolosamente a Luana. Una mattina, con la pioggia fredda e fastidiosa di una brutta giornata di marzo, ancora tipicamente invernale, sconsacrando quel santuario impenetrabile che è la fabbrica, irruppe con un‟onda di piena, tra lo stupore generale e completamente fradicia, la moglie di Erminio, che poco prima aveva ricevuto una misteriosa telefonata anonima da presunti “amici”. Dapprima si arrampicò faticosamente sul palmo della mano del marito, poi, visibilmente contrariata, gli disse: «Puttaniere schifoso, lavora qui vero la tua amichetta travestita? Chi è, chi è, dim29 melo o ti stacco una falange.» Ad Erminio non rimase altro da fare che confessare tutte le sue colpe, da vero signore però non coinvolse in quella sceneggiata napoletana la bella Luana, ma rispose alla moglie con dignità: «Mi sono innamorato di un‟altra donna, non so dove andrò, ma non tornerò più a casa con te.» La piccola donna, completamente fuori di sé per la rabbia, saltò giù dalla mano e, guardandolo negli occhi (almeno ci provò), riprese il discorso: «Il mio avvocato ti farà avere tutte le condizioni per il divorzio, ti farò lavorare solo per mantenere me e i nostri figli, senza lasciarti neanche un centesimo.» Gli sfasciò uno stinco con un calcio, poi scappò via in lacrime, surfando su una grossa foglia di castagno. La fabbrica era tutta un brulicare di risa e di commenti per quell‟insolito fuori programma. «Ha avuto quello che si meritava, ecco quello che capita a chi va con i travestiti» commentavano con unanime disprezzo e convinzione un gruppetto di operaiacci della peggior specie che il mese precedente, in soli quindici giorni, avevano dilapidato il loro stipendio andando a puttane. La sera, all‟uscita dal lavoro, senza un posto dove andare, il povero Erminio venne affiancato in macchina dalla bella Luana che, con tono sicuro e gladiatorio, gli disse: «Verrai a stare da me, da oggi sarai mio ospite, guadagno abbastanza da mantenere entrambi, e poi è anche colpa mia se ti trovi in questa situazione.» All‟uomo, che non aveva alternative, non rimase altro da fare che accettare l‟invito e, con un laconico «Grazie», montò sulla vettura del trans verso casa sua. Faticosamente, e attraverso mille privazioni, le cose per il plurigenitore tornarono in una condizione di precario equilibrio. La moglie, come gli aveva giu30 rato in fabbrica, mantenne la promessa, portando via quel poco che era rimasto da togliere all‟ormai ex marito e lasciandolo spoglio di tutto, tranne che della propria dignità. Luana, affezionatasi a lui dopo tutto il tempo condiviso insieme e con il permesso di soggiorno agli sgoccioli, decise di fargli una proposta e improvvisamente gli domandò: «Andiamo a vivere in Brasile, tu ed io.» Erminio trasalì, poi dopo un istante, illuminato da quella proposta così eccitante, sbattendosene delle conseguenze rispose con fermezza «Sì». E così, a un anno esatto dalla burrascosa rottura con la moglie, alle prese come allora con una giornata di pioggia torrenziale, fredda e verticale come a marzo non si ricordava da secoli, in pantaloncini e maglietta il fuggiasco Erminio giunse all‟aeroporto. Infreddolito ed emozionatissimo, scosso da spasmi di freddo che a stento riusciva a controllare, aspettava seduto e angosciato l‟amica, che dopo un‟attesa di quasi mezz‟ora sbucò in fondo alla sala d‟aspetto. Luana però non era sola, ma in compagnia della ex moglie di Erminio e a gran velocità si avvicinavano verso l‟uomo, in evidente imbarazzo. «Credo che voi due dobbiate parlare» disse il travestito allontanandosi rapidamente e offrendo loro la possibilità di un confronto civile e ragionevole. A tal proposito, la bella contorsionista tascabile cercò subito di catturare l‟attenzione di Erminio sfoderandogli una testata nelle palle, lui accusò il colpo e si sedette su una panchina ansimando pesantemente, mentre lei strappava una sedia dalle mani di un barbone mezzo addormentato e ci si arrampicava sopra, in un ultimo disperato tentativo di riprendersi il suo uomo. «Brutto bastardo, non puoi abbandonarci, almeno pensa ai tuoi figli, cosa diranno di un padre che li abbandona per un travestito, cosa 31 gli racconterò quando saranno grandi?» e gli sferrò un destro in piena bocca, facendolo barcollare. Poi riprese la pacata conversazione con l‟amato già abbondantemente insanguinato: «Proviamo a riprenderci quello che il destino ci ha tolto, pensa ai bei momenti trascorsi insieme, alle notti d‟amore, a quella volta che lo facemmo nel forno, io dentro e tu fuori o a quando lo facemmo sotto la doccia e tu mi salvasti mentre venivo inesorabilmente risucchiata dallo scarico, non buttare via tutto…» La donna si alzò dalla sedia e lo centrò alla bocca dello stomaco, facendolo cadere a terra, gli si gettò sopra e quasi strozzandolo gli domandò: «E adesso rispondi a questa semplice domanda, sei ancora innamorato di me o no?» Erminio se la scrollò di dosso, si girò strisciando come un verme verso di lei, la guardò dalla testa ai piedi (bastò poco), la prese, la buttò nel tunnel dello smistamento bagagli, le si gettò sopra e si cibò delle sue prelibatezze carnali. In un attimo la coppia ritrovò il suo antico amore, sfoderando a memoria le prime otto posizioni del Kamasutra. Durante la scorribanda sessuale, Erminio vide attraverso un pertugio di fortuna Luana, che si incamminava rapidamente verso il checkin. Avrebbe voluto salutarla per l‟ultima volta, avrebbe voluto stringerla forte e ringraziarla di tutto quello che aveva fatto per lui, ma poi pensò che forse era meglio così. Riprese la concentrazione a fatica e condusse la moglie verso la nona posizione del libro. 32 CANTICO DELL’AMATO SIGNORE (IL PADRONE) Non dovete sentirvi in difficoltà quando passo io non dovete chinare il capo e abbassare lo sguardo sentitevi in diritto di parlare, di chiedere, di pensare siete il cuore pulsante della mia economia siete il braccio armato che protegge il mio fortino siete la parte vivente delle mie aspirazioni sprigionate la vostra creatività per il mio benessere godete anche voi delle mie conquiste terrene abbeveratevi alla sorgente della mia generosità mangiate gratis alla mensa delle mie fabbriche siate sempre fedeli come bestie addomesticate io sono buono, sono giusto, sono il Padrone dominate i vostri istinti ribelli soffocate i vostri moti reazionari limitatevi a fare quello che vi si chiede di fare educatevi ad un comportamento giusto e passivo educatevi alla remissione e all‟obbedienza allontanate chi vuole corrompervi con delle idee diffidate di tutto quello che io non condivido usate la mia testa, con il vostro sudore usate la vostra precarietà, per la mia sicurezza fate tutto questo in nome del nostro Regno perché siete agnelli nelle mani di Dio 33 LA CALLA (IL GAY) Il suo nome di battesimo era Achille, ma tutti in fabbrica lo chiamavano “Calla”. Un matrimonio buttato alle spalle e un rapporto difficile con il suo unico figlio, era quanto gli rimaneva della sua prima vita, triste e mai voluta veramente. All‟inizio la convivenza con la moglie andò bene, pian piano però si rese conto che “amore e passione” (se mai erano esistiti) avevano lasciato il posto a “rassegnazione e noia”, trascinando avanti una relazione mai davvero desiderata. Alla continua ricerca della strada da percorrere, non sapendo ancora di non essere come tutti gli altri, aprì il suo cuore ad una forma di amore particolarmente difficile e facilmente condannabile, specie in un mondo superficiale come quello della fabbrica, chiuso, stereotipato e capace di rendere la vita un inferno. Achille aveva scoperto la propria via e il suo cammino, quello vero; la Calla era la conseguenza della metamorfosi che l‟aveva trasformato, in breve, in un fiore da cogliere. Incontrò Stanislao durante un picchettaggio selvaggio nella piazza della sua città, non lo aveva mai visto prima o forse era la prima volta che lo vedeva sotto quella luce vivida e chiara. Tutte le fabbriche della zona si erano riversate in strada per il tradizionale sciopero del venerdì, alcuni manifestavano per il disboscamento dell‟Amazzonia, altri per l‟assenza della maionese dalle mense o, come la Calla e Stanislao, per la mancata diretta TV del “ballo delle debuttanti”. La prima volta gli sguardi 34 si trovarono per un istante e, rapiti da un destino che li aveva voluti mettere alla prova, si cercarono disperatamente, scavalcando corpi che parevano inermi e superando distanze incolmabili, infine si centrarono in pieno procurandosi una ferita lacero contusa alla fronte. La polizia era schierata in tenuta antisommossa e il corteo dei manifestanti diretto verso “non si sa dove” cercava di forzare il blocco imposto dalle forze dell‟ordine. All‟inevitabile scontro, Stani (come lo aveva rapidamente ribattezzato l‟amica) e Calla cercavano di difendersi dai soprusi della gendarmeria prendendo a borsate chiunque gli passasse a tiro, in un frastuono di urla e di botte. Il bilancio della manifestazione fu terribile, a terra giacevano i corpi senza vita di decine di rossetti e specchietti, usati strenuamente come arma di difesa. Calla se la cavò con due unghie finte rotte e l‟amputazione di un collant, mentre Stani, che aveva difeso il suo germoglio d‟amore facendo scudo con il corpo, aveva subito la rottura di un jeans “Armani”, la frattura scomposta di un orecchino di brillanti e il distaccamento di numerose paillettes dalla maglietta. Quella situazione estrema e pericolosa, cementò da subito la loro unione, creando le basi per una relazione stabile e destinata a durare nel tempo. La coppia, che aveva preso a frequentarsi assiduamente al limite della convivenza, decise di trascorrere il “ponte” del primo maggio organizzando una bella gita al mare. Partirono di buon mattino in compagnia di altri colleghi ammogliati alla volta dei lidi ravennati, dove avevano prenotato ombrelloni e lettini al “Bagno Pucci”. Sotto un sole tiepidamente caldo, all‟insegna della tintarella e del divertimento, l‟allegra combriccola trascorse una giornata da sogno, abbozzando addi35 rittura, su di un mare calmo ed invitante, un timido bagno rinfrescante, per poi ripararsi nella morbida trama di un soffice asciugamano, ascoltando la risacca delle onde infrangersi tenue contro la battigia. Calla era vestita solo di un elegante perizoma leopardato griffato “D&G” mentre Stani, che era molto più articolato nei modi e nelle soluzioni, portava un micropantaloncino a vita bassa, infradito con frammenti di zirconi incastonati sul collo del piede e una canotta stretta in vita e aperta sul petto, facendo fuoriuscire uno stomaco abbondante e un pelo fitto e arruffato. Per trascorrere la notte, avevano prenotato una stanza nella piccola “Pensione da Titti”, due stelle, dieci camere in tutto e tanto buon umore, tipico di quelle parti. Dopo una cena frugale ma ben articolata, si regalarono il dessert in camera da letto, dandosi l‟amore a vicenda fermandosi a tutte le stazioni, come un trenino rapido e puntuale. Poi fu di nuovo fabbrica, con i suoi ritmi e le sue regole e a Calla questo non andava giù, non voleva stare lontano dal suo Stani nemmeno per un minuto. Anche se condividevano la mensa, visto che le loro rispettive aziende distavano poche centinaia di metri l‟una dall‟altra, a lei non bastava, gelosa e possessiva com‟era voleva avere l‟amato sempre sotto controllo, anche perché nubi nere si addensavano all‟orizzonte: già più volte aveva visto Stani parlottare con un suo collega, un certo Vladimiro, anch‟esso gay dichiarato… Apro una piccola parentesi e mi chiedo perché la stragrande maggioranza dei gay da fabbrica abbiano tutti nomi sovietici, come Palmiro, Vladimiro, Stanislao, Ivan, Igor ecc. Forse hanno pagato il “regime” casalingo dei loro padri comunisti? O sono solo casualità? Ma riprendiamo da dove erava36 mo rimasti: per non farsi sfuggire la preda conquistata con fatica, Calla organizzò una cenetta romantica a casa sua, perché, come disse al telefono al compagno, aveva delle comunicazioni urgenti che lo riguardavano. Gli servì la cena da vera regina di casa, stando attenta a tutti i dettagli, ma solo a fine serata confessò il vero motivo dell‟incontro e gli chiese senza mezzi termini: «Mi vuoi sposare?» Stani cadde dalla sedia spezzandosi un polso, più tardi rispose di sì. Quale posto migliore di Las Vegas, la patria della trasgressione, per suggellare il loro amore? Una settimana dopo avevano già organizzato il viaggio: un mese tutto per loro per girare l‟America. Era quanto erano riusciti a strappare con i denti ai loro rispettivi capi reparto, cioè quindici giorni di “matrimoniale” più altre due settimane di ferie fuori stagione, davvero il massimo. Naturalmente la prima tappa fu il Nevada, destinazione Las Vegas, dove scelsero per testimoni una coppia di ultra novantenni che, dopo un breve fidanzamento di settantatre anni si era decisa a fare il grande passo, poi affittarono a buon mercato, come funzionario di nozze, un obeso signore con un paio di baffi sottili vestito da Freddie Mercury, infine scelsero i Sex Pistols come gruppo musicale per intrattenere la coppia e qualche sagoma cartonata usata dagli organizzatori per fare atmosfera. Fu una cerimonia sobria e raffinata, poi folleggiarono tutta la notte nella stanza di Barbablu. L‟intera vacanza scivolò via troppo rapidamente e si ritrovarono sull‟aereo che gli avrebbe riportati a casa in un batter d‟occhio. Non sembravano esserci problemi di nessun tipo, l‟aereo appariva forte e ben tenuto, anche le condizioni climatiche sembravano favorevoli a un volo tranquillo, invece, dopo 37 pochi minuti dal decollo, iniziarono delle forti turbolenze. Tra i passeggeri fu il caos, si ritrovarono sottosopra, sballottati a destra e a sinistra, strapazzati e mescolati, agitati e shakerati, tutti tranne loro due, saldati in un abbraccio profondo. Qualche minuto più tardi il pilota si presentò ai passeggeri con la cloche in mano, ammettendo di aver forse perso il controllo dell‟aereo e consigliando ai presenti preghiere rapide e di facile presa. Tutti si accalcarono davanti ai finestrini per godersi la rapida discesa a terra e l‟immediata ascesa al Supremo; videro nel giro di pochi secondi spezzarsi come un grissino l‟ala destra, seguita a ruota dal motore sinistro, perdendo in fine quel poco che ancora rimaneva. Solo la fusoliera con i suoi ostaggi all‟interno resisteva, disposta a lottare fino alla fine con i passeggeri. A poche decine di chilometri dalla morte, Stani si liberò dalla morsa del compagno e, preso da un istinto primordiale, tirò fuori il cellulare, compose un numero e dall‟altra parte del mondo rispose Vladimiro. Ci fu una rapida (ovvio) conversazione in cui Stani salutò per l‟ultima volta l‟amico poi, prima dell‟impatto, trovò il tempo per un ultimo respiro e gli disse: «Saluta tutta la mia famiglia, dì loro che li ho sempre amati anche se non hanno mai accettato la mia condizione di “diverso”. Ringrazio il cielo per avermi permesso di conoscerti, addio.» La comunicazione si interruppe, era finito il credito e Stani si sentì tirare per il braccio da Calla che, visibilmente contrariata, disse: «No, scusa carino ci stiamo schiantando e tu telefoni ad un altro uomo, ci stiamo schiantando e tu ringrazi Dio per avertelo fatto conoscere, e poi te l‟avevo detto di fare una ricarica da 50 euro, invece sei il solito tirchiaccio, ci stiamo schiantando e tu non hai un solo pensiero carino per me, ci stiamo…» Puffff. 38 AMICO (IL VAGABONDO) Carluccio era alle “squadratici” da ormai troppi anni, assuefatto completamente dal suo iPod, usato clandestinamente come morfina per lenire la “fabbrica“, canticchiava quei motivetti con trasporto, lasciandosi andare ad esternazioni canore molto sentite, del tipo “ni-na-ne-ni-na-na”, anche perché le parole proprio non volevano entrare. Il giovane Doni, che quella mattina gli avevano affiancato per imparare il “lavoro”, gli disse scherzando: «Noto con piacere che anche tu parli il ninanese, lo sai che è la lingua più cantata in Italia?» Divertito dalla discussione, il “cantante” si lanciò in un assolo da rock star, usando la scopa come chitarra e il trapano come microfono, finendo quasi per sgozzarsi con il cavo elettrico, naturalmente in un “ninanese” quasi perfetto. Il ragazzo, simpatico e goliardico, aveva la capacità di divertire e, anche se ancora acerbo per la sua verde età, riscuoteva in mezzo agli operai un notevole successo; in quella landa senza pace di anime nere, era come manna dal cielo. Doni, col tempo, non solo divenne un brillante collega con cui condividere piacevolmente la giornata, ma rapidamente tutti capirono che nascondeva ben altre virtù, era infatti un “vagabondo” senza eguali. Mente diabolica e cervello fino, ne fecero di fatto il nemico giurato di tutto il patriziato aziendale. Entrato in fabbrica con l‟aiuto di qualche Capo reparto corrotto, inizialmente si nascose dietro ai panni di bravo ragazzo, diligente e capace, poi, una volta as39 sunto, cominciò a tessere una fitta ragnatela di astuzie e trabocchetti disseminati lungo il perimetro della fabbrica, facendo affiorare poco a poco i suoi piani criminosi, senza lasciare tracce che potessero comprometterlo. Altruista e magnanimo con i colleghi, ma soprattutto dotato di una grossa capacità intuitiva, Doni riuscì in poco tempo ad individuare nuovi adepti da traviare e coinvolgere nella rete dell‟ozio, scatenando contro di sé tutta la dirigenza, che aveva trovato in lui il cancro da estirpare con ogni mezzo a disposizione. Per questi pericolosi segnali destabilizzanti, la direzione decise di convocare per un primo confronto “conoscitivo” il giovane anarchico fancazzista. In una piccola saletta al primo piano, usata normalmente per ricevere rappresentanti o piccoli fornitori, al cospetto del suo Capo reparto e di un dirigente di basso livello, avvenne l‟incontro. Gli mostrarono un grafico che riproduceva la situazione produttiva prima e dopo il suo arrivo, a tal proposito prese la parola il dirigente per illustragli il problema nei dettagli: «Mi saprebbe spiegare il perché di un rallentamento produttivo così marcato dal momento in cui lei è stato assunto in questa ditta? Non solo, in questo ultimo periodo l‟aumento di infortuni e malattie da parte del personale è salito del 40% rispetto all‟anno passato, ha qualche spiegazione in proposito?» L‟operaio, per nulla intimorito dalle accuse del vassallo, rispose tranquillamente: «Non vedo come tutta questa vicenda possa riguardarmi, noi operai cerchiamo di svolgere sempre al meglio il nostro lavoro; per quanto riguarda la malattia, invece, le posso dire che l‟influenza quest‟anno è stata particolarmente “cattiva”, una vera epidemia, lo dice anche il telegiornale.» 40 «E gli infortuni?» lo incalzò il potente gerarca. «Beh, non volevo dirlo per non creare inutili polemiche, ma ci fate lavorare in condizioni tutt‟altro che confortevoli, manca praticamente tutto: dalla saletta ristoro, dove potersi sedere durante la pausa caffè, all‟illuminazione, che è assolutamente insufficiente; i riscaldamenti funzionano un giorno sì e un giorno no, l‟attrezzatura che ci passate è scadente e può diventare col tempo estremamente pericolosa, la carta igienica nei bagni è troppo ruvida, i pavimenti sono crepati e disconnessi, spesso le merendine nelle macchinette sono scadute, la scollatura della centralinista è troppo marcata, la TV della sala mensa trasmette solo Rete 4. Mi dica lei se in un quadro simile si può lavorare in sicurezza. In tutta onestà le posso dire che sono dovuto intervenire spesso per calmare gli animi turbolenti dei miei colleghi, stanchi di questa situazione; in futuro continuerò ad adoperarmi perché le cose vadano sempre nel modo migliore, come certamente saprà, ho molto a cuore le sorti di questa azienda.» Il dirigente e il suo delfino rimasero a bocca aperta. Presi per il culo in modo elegante e signorile da un giovane operaio nullafacente, le due prestigiose figure si resero conto del perché il ragazzo riscontrasse fra gli operai un simile successo. Poi, ritrovata la calma e la serenità tipicamente dirigenziali, l‟alto funzionario chiuse il breve incontro minacciando: «Avrebbe potuto sfruttare le sue doti in ben altro modo, ma non lo ha fatto, e ora pagherà. Voglio essere onesto con lei e dirle che lavora ancora qui solo perché non abbiamo prove sufficienti per sbatterla fuori, ma le garantisco che sarò io stesso a prendermi la soddisfazione di organizzare la sua resa con ogni mezzo, anche il più scorretto, perché sappiamo che è lei la mente di questo teatrino de41 stabilizzante, il burattinaio che muove i fili di un gioco molto pericoloso. Attiveremo tutti i nostri canali per attingere prove schiaccianti e mandarla a casa, ora torni pure a non far niente.» Quelle minacce, così dirette e precise, avevano ottenuto il solo risultato di far capire a Doni che il suo tempo alla fabbrica stava per finire. Avendo innescato una bomba ad orologeria che di lì a poco sarebbe esplosa, decise di continuare il percorso intrapreso mesi prima, cercando come sempre di divertirsi e di divertire gli altri, lavorando sempre meno, portando avanti la sua personale battaglia contro l‟impiego lavorativo e a favore della libertà, in perfetto stile anarchico. Fermare l‟opera del vagabondo era difficile, ma non impossibile, ogni uomo ha infatti il suo tallone d‟Achille e l‟azienda, che questo lo sapeva bene, decise di fare leva sugli operai più gretti e avidi. Cominciò a giocare sporco mettendo, come nel FarWest, delle vere e proprie “taglie” sotto forma di livelli e superminimi, convincendo senza troppi sforzi diversi proletari a collaborare. Avvalendosi di spiate, lamentele, testimonianze false e confessioni incisive e pressanti da parte di operai corrotti, la direzione decise di intervenire per la seconda volta, fissando, per il giorno seguente alle nove del mattino, un incontro con il giovane Doni nella sala “gold” dell‟ultimo piano. L‟indomani, alle 8 e 45, Doni venne prelevato di peso durante la prima pausa caffè da due enormi buttafuori e diretto verso l‟ascensore dell‟azienda. Cercò di fermare il sopruso intimando l‟alt ai due energumeni e spiegando che all‟incontro ci sarebbe andato, ma con la delegazione sindacale, in modo da tutelare la propria posizione. I due gorilla si mi42 sero a ridere, aumentando la presa e sollevando di peso il loro carcerato. «Fermatevi subito!» gridarono gli RSU che, attirati dalle urla del giovane, assistettero a tutta la scena minacciando conseguenze legali. I due bestioni, colti in flagrante come bambini con le mani nella marmellata, si bloccarono di scatto, facendo precipitare a terra il vagabondo. Fu solo grazie all‟intervento diplomatico di un alto dirigente che la situazione tornò alla normalità, ma non senza ripercussioni. Infatti, per quell‟eccesso di potere da parte dell‟azienda, la delegazione chiese ed ottenne, in cambio del silenzio, diverse agevolazioni durante l‟incontro del loro assistito. Anzitutto la possibilità di portare testimoni chiamati dalla difesa, analizzare e determinare l‟autenticità di eventuali prove, fermarsi nell‟ora di pranzo, mangiare al ristorante a spese della azienda e che la giornata, così stressante per il “vagabondo”, gli venisse calcolata come straordinario. Nella stanza ovale, quella del potere, alla presenza della santissima trinità, Padre Figlio e Amministratore Delegato, in fila sui rispettivi troni, ebbe inizio il secondo atto del processo ai danni del giovane. Vennero portate numerose prove ed anche diverse testimonianze di operai voltafaccia che gli scaricarono merda addosso, pensando di costringerlo in breve ad una resa drammatica ed incondizionata, ma non andò esattamente così. Dopo le varie deposizioni, in aula ci fu un clamoroso colpo di scena; dalla tasca interna della giacca, con fare plateale di una mossa studiata a tavolino, Doni estrasse teatralmente un piccolo registratore e disse: «Vostro Signore e Padrone, vorrei mettere agli atti questa prova schiacciante, che dimostrerà la mia buona fede e la trama ordita ai miei danni da un manipolo di 43 dirigentuncoli al fine di raggranellare prove sufficienti per allontanarmi dall‟azienda. Chiedo dunque al Presidente il permesso di ascoltare la registrazione.» Naturalmente, dall‟alto della sua equità e della sua amorevole benemerenza, il Divino acconsentì con un cenno del capo. Un Serafino ammaestrato, posizionato nell‟angolo della sala, prese il nastro dalle mani del vagabondo, svolazzò verso la parete opposta dove era collocato il registratore, vi inserì la cassetta e una musica celestiale risuonò nelle orecchie del giovane: «… le garantisco che sarò io stesso a prendermi la soddisfazione di organizzare la sua resa con ogni mezzo, anche il più scorretto, perché sappiamo che è lei la mente di questo teatrino destabilizzante, il burattinaio che muove i fili di un gioco molto pericoloso. Attiveremo tutti i nostri canali per attingere prove schiaccianti e mandarla a casa…» Il giovane, che aveva registrato l‟intera precedente conversazione, mise nel sacco con quella mossa astuta la “Sacra Famiglia” al completo. A quelle parole così nette e inequivocabili, l‟Amministratore Delegato crollò dal suo trono alto tre metri sfracellandosi al suolo, il Figlio fulminò il dirigente che si era macchiato di simile comportamento gettando le ceneri nel water, il Padre si bestemmiò addosso sgretolando le ali del Serafino e trasformandolo in un orrendo eunuco, mentre la piccola delegazione sindacale prese a masturbarsi avidamente nel vedere il simbolo del capitalismo in difficoltà. «Chieda quello che vuole, mi dica cosa le serve e sarà suo, ma non mi rovini» si scusò piagnucolando il Presidente. La scena fu memorabile, da una parte i nemici di sempre che gli leccavano il culo, implorando perdono, dall‟altra un ragazzo qualunque che aveva nelle mani la possibilità di colpire a morte 44 l‟odiato sistema e, per finire, i tre sindacalisti che arrivarono all‟orgasmo contemporaneamente, spruzzando a fontanella sopra le teste dei presenti un getto di piacevole delizia. «Basteranno 50.000 euro» rispose seccamente l‟errabondo. Il potente Signore prese atto della richiesta del giovane e, quasi deluso, gli disse: «Devo ammettere di essere dispiaciuto, i miei informatori l‟avevano descritta come un “michelaccio” estroverso e anticonformista, ma si sbagliavano di grosso, non è altro che un comunissimo operaio pidocchioso, se è soltanto una questione di soldi, gliene do 70.000, in cambio della registrazione originale e delle sue dimissioni firmate.» Poi tirò fuori dal cassetto della scrivania il suo blocchetto degli assegni di papiro con intarsi in madreperla, ne compilò uno e lo tirò addosso al giovane, che lo raccolse e lo intascò. Il ragazzo, prima di uscire, prese dalla tasca un foglietto unto e stropicciato, scritto di suo pugno la sera prima, dove in poche righe rassegnava le immediate dimissioni. Il mattino seguente una strana lettera appiccicata in bacheca richiamò l‟attenzione dei primi curiosi; pochi minuti più tardi l‟intera comunità operaia commentava impazzita il contenuto dell‟incredibile missiva, che recitava così: “Amici cari, è con profondo rammarico che devo annunciare le mie dimissioni irrevocabili. Malintesi e dissapori con le più alte cariche aziendali mi hanno spinto a questa sofferta decisione, posso affermare comunque che il mio compito si era ormai concluso da tempo, riuscendo (almeno spero) a portare una ventata di ottimismo e di speranza, cercando in tutti i modi di farvi capire che cambiare questo sistema chiuso e dispotico è possibile. Ed ora, prima di di45 venire patetico, voglio concludere questa lettera regalando a tutti un sentito e commosso abbraccio e, come segno tangibile delle mie parole, in perfetta armonia con le mie idee, ho lasciato a ognuno di voi, nei rispettivi armadietti, un contributo in denaro per una somma totale di 70.000 euro elargiti dalla proprietà, come risarcimento morale dei soprusi arrecati alle vostre maestranze in questi anni di tirannia, dando a me l‟onore di provvedere alla distribuzione equa ed omogenea del denaro. Augurandovi nuovamente tanta felicità, amorevolmente saluto. L‟operaio Doni.” 46 LA SACRA SINDONE (LA PUZZOLA) «Lavasecco, oggi darai una mano al Cabotti, dovete finire entro sera le cinquanta macchine per quel nuovo cliente, domani mattina abbiamo il camion pronto alle 8 per caricare» sentenziò il Capo reparto del montaggio ai due operai. Apparentemente la cosa sembrerebbe del tutto normale, se non fosse per un piccolo dettaglio: Lavasecco, lavoratore instancabile e affidabilissimo, era conosciuto da tutti come “la puzzola”. Il povero Cabotti ebbe un mancamento e fu letteralmente preso al volo dal Lavasecco, che per lo sforzo cominciò a colare sudore come un rubinetto aperto; Cabotti in un primo momento si riprese, poi, respirando l‟odore acido e malsano che fuoriusciva dal corpo della puzzola, stramazzò al suolo in preda a violente crisi epilettiche. Rinvenne miracolosamente poche ore dopo in ospedale, credendo di essere scampato ad un attacco terroristico effettuato con armi chimico-batteriologiche. Questo era solo l‟ultimo di una lunga serie di episodi che aveva visto coinvolto Lavasecco, costretto da quella dannata mutazione ormonale a portarsi addosso un fardello difficilmente sopportabile. Non era mai stata una questione di scarsa igiene, anzi, aveva dilapidato un‟autentica fortuna, i risparmi di una vita (in questo caso possiamo veramente parlare di soldi sudati) nell‟acquisto di profumi, deodoranti, creme per il corpo e ogni genere di prodotti di bellezza, il tutto naturalmente con il medesimo risultato, nessuno. 47 Da sempre il mese di luglio è per tutti gli operai quello più difficile da superare, vuoi per il caldo insopportabile, che in quegli ambienti è davvero disumano, vuoi per il traguardo delle ferie ormai prossime, ma che non vogliono arrivare (da uno studio eseguito da una famosa università americana, si è scoperto che una giornata qualunque del mese di luglio equivale a cinque giorni di lavoro in un normale periodo dell‟anno), ebbene quella fu l‟estate più torrida degli ultimi quarant‟anni. Dopo quel brutto episodio il Lavasecco venne isolato per parecchi giorni e, per evitare nuovi incidenti, tutti gli operai vennero dotati di una maschera antigas che dovevano obbligatoriamente indossare se si trovavano nelle vicinanze della puzzola, che riceveva ogni comunicazione a lui destinata attraverso l‟altoparlante della fabbrica. Tutto questo finché una perturbazione atlantica abbassò vertiginosamente le temperature, riportando la situazione alla normalità. Per qualche inspiegabile motivo, l‟abbigliamento aziendale, magliette, pantaloni, felpe, giubbotti e quant‟altro, viene consegnato sempre nei periodi dell‟anno meno indicati. Quella volta capitò verso la fine di luglio e fu l‟inizio del dramma. «Tutti in fila, coraggio, una felpa, un pantalone e due magliette, taglia unica, quindi prendetele pure da soli; naturalmente la Direzione obbliga tutti voi a mettere durante l‟orario di lavoro gli indumenti che vi sono appena stati consegnati, lasciandovi la libertà di indossarli anche all‟esterno» sbraitò il Responsabile di Stabilimento durante la consegna. Partirono dei «Grazie» sommessi e poco convinti, solo Coatti (il sovversivo del gruppo) ebbe la forza di rispondere per le rime al tiranno, dicendogli in tono ironico: «Proprio materiale di prim‟ordine, 48 100% pura plastica, e la dovremmo indossare anche fuori, nella vita privata… piuttosto vado in giro avvolto dai sacchetti della mondezza, che poi è la stessa cosa.» Partì qualche applauso di fortuna, stroncato subito dallo sguardo di ghiaccio del Responsabile che, rosso in volto e terribilmente incazzato, rispose: «Facciamo gli spiritosi, il materiale non è di vostro gradimento? Benissimo, l‟abbigliamento appena consegnato, che era destinato al prossimo autunno, deve obbligatoriamente essere indossato a partire da domani mattina. Chiunque venisse trovato sprovvisto, verrà immediatamente licenziato!» Nemmeno Coatti riuscì a rispondere a una simile affermazione, che suonava come una condanna a morte, ma dovette subito guardarsi le spalle perché gli sguardi dei suoi colleghi si facevano sempre più minacciosi. Capito il pericolo scappò rapidamente verso l‟uscita della fabbrica. La situazione precipitò subito di mano, a nessuno in realtà importava più di tanto di dover mettere qualche panno in più, in fondo mancavano solo pochi giorni alle ferie estive, ma erano tutti terrorizzati da cosa poteva scatenare tale punizione alla povera puzzola, che apparentemente prese la cosa con distacco poi, una volta metabolizzata la notizia, piombò in una profonda crisi d‟identità. Credendo di essere la reincarnazione del rivoluzionario francese Robespierre, si arrogò il diritto di vita o di morte sui dirigenti della fabbrica, sentenziando: «Compagni, il momento della nostra vittoria è vicino, le generazioni a venire parleranno a lungo delle nostre gesta, scrivendo di noi come degli eroi, capaci, con la sola forza delle nostre idee e del nostro coraggio, di sconfiggere in maniera rapida e definitiva tutta la nobiltà aziendale. Allestiremo al di fuori della grande piazza (il piazzale della fabbrica) 49 uno strumento di grande democrazia, la ghigliottina, giudicando in maniera imparziale e al di sopra di ogni ragionevole dubbio, tutto il patriziato industriale presente in questa dimora del peccato…» Completamente in preda al personaggio che magistralmente interpretava, prese carta e penna e cominciò a scrivere un inquietante elenco, che una volta completato andò a leggere alla folla impazzita: «Questa la lista delle persone che dovranno presentarsi alla sbarra per regolare processo: Direttore Industriale Rag. Carlo Vestioli, Direttore delle risorse umane Mauro Luigi Della Valle…» Fu interrotto bruscamente da un collega che lo schiaffeggiò violentemente per farlo riprendere; la pantomima era durata anche troppo, con il rischio che qualche pezzo grosso sentisse quei discorsi di pura follia mettendo seriamente nei guai tutto il personale. In seguito accompagnò a casa il Lavasecco, che era nel bel mezzo della sua arringa conclusiva nei confronti del Capo reparto della produzione. Il giorno seguente, al lavoro, si presentarono tutti con una certa puntualità; anche il Lavasecco, che tutti davano per sicuro “ammalato”, si presentò alle porte del “grande cancello” in perfetto orario. Alle 8 del mattino faceva già piuttosto caldo, la temperatura esterna misurava 33°, quella interna era stata rimossa anni prima, per evitare crisi di panico e malesseri degenerativi nei momenti più caldi e più freddi dell‟anno, ma doveva essere piuttosto alta, perché le borse termiche degli operai contenti il cibo del pranzo cominciavano minacciosamente a sfrigolare. Verso le 10 del mattino, con un caldo insopportabile tipo Sahara e nel bel mezzo di una tempesta di sabbia, Lavasecco cominciò a sprigionare sudore solido, sotto forma di lapilli di lava. Come una fon50 tanella zampillante, spruzzava magma incandescente e altamente tossico in un raggio di 20 metri, investendo praticamente tutta l‟area produttiva. Il fenomeno durò pochi secondi, poi all‟improvviso si arrestò, riportando tutto ad uno stato di apparente normalità. I poveri operai si trascinarono orribilmente fino al gracchiare stanco e affaticato della sirena del mezzogiorno, che conduceva tutto il gruppo proletario nello spogliatoio. Non potevano immaginare che di lì a poco sarebbero stati testimoni di uno dei fenomeni più straordinari e inspiegabili a cui si sia mai assistito, l‟apparizione della “Sacra Sindone”. Nel frattempo un temporale tipicamente estivo, intenso e repentino, aveva rinfrescato l‟ambiente e abbattuto violentemente le temperature riportando le condizioni lavorative in uno stato più che accettabile. Il Lavasecco, distrutto da quella mattinata infernale e provato dalle terribili esalazioni che egli stesso produceva, vista la situazione climatica profondamente cambiata tentò un ultimo sconsiderato gesto, il cambio della maglia. Già in passato per simili tentativi era dovuto ricorrere all‟intervento dei vigili del fuoco, che erano sempre riusciti a scrostare l‟indumento ossidato; questa volta però, con una strana espressione di beatitudine nel volto, s‟era convinto a fare tutto da solo e infatti avvenne il miracolo. Probabilmente per qualche alchimia prodotta dall‟aria così fresca e piacevole, il contatto diretto con la pelle provocò lo scollamento della maglia che, messa controluce in uno strano gioco di colori, evidenziò il sacro sudario dove venne avvolto Gesù Cristo. 51 La reliquia è tuttora esposta all‟interno del Duomo di Torino, al fianco della sua famosa gemella, mentre il Lavasecco dopo quegli episodi misticoreligiosi non manifestò più nessun problema di sudorazione (questo è stato il secondo miracolo della storia), risultando agli esperti che lo ebbero in cura per diversi mesi perfettamente guarito. 52 L’ABBANDONO (IL LECCHINO) Sarebbe banale e riduttivo descrivere la figura del lecchino limitandosi all‟aspetto legato al desiderio morboso di compiacere al diretto superiore, infatti la storia del “mulettista” Gargiulo merita un‟analisi più ampia e approfondita. Vari aspetti e particolari caratteristiche ne fanno un personaggio di ben altro spessore: dotato di un‟intelligenza perfida e sopraffina, in grado di emozionarsi se l‟esigenza lo richiede simulando comprensione e affetto, è come un angelo capace di sputare zolfo. Nato a Bergamo ma di origini meridionali, da anni era per tutti il “mulettista”, capace di guidare qualsiasi mezzo, dal triciclo per infanti fino al bilico da 100 metri, acquisendo nel tempo un‟esperienza invidiabile anche per un pilota di Formula 1. Quella della guida, però, non era la sua unica passione, da anni seguiva dei corsi serali in “lecchinaggio” con approfondimenti specifici in “devozione estrema e appagamento del superiore, dovere o piacere?” a cura del Prof. Emiliano Fedele. Sacrifici comunque ripagati, perché col tempo Gargiulo si era guadagnato le simpatie del proprio Responsabile, finendo per diventare il suo consigliere personale o, meglio, lo spione a cui rivolgersi per conoscere spaccati sulla vita di fabbrica di ogni operaio, ottenendo in cambio un briciolo di finta umanità e di riconoscenza dal proprio superiore. Odiato e temuto dai colleghi al punto di doversi guardare le spalle, i messaggi anonimi, divenuti minacce verbali neanche troppo velate, erano ormai 53 all‟ordine del giorno, ma lui, conscio del pericolo ma determinato ad adempiere alla sua missione, non rallentò nemmeno per un istante, convinto com‟era che l‟unica strada per il successo passasse da lì. In fondo comprenderne veramente pensieri e opinioni era impossibile, viveva una vita in prestito, respirava costantemente emozioni che non erano le sue, per un fine effimero e superficiale, ma che era tutta la sua vita, per poi gridare un giorno a tutto il mondo «Sì, sono un pezzo di merda, ma che conta qualcosa!» Fino a che, una sera piovosa di fine marzo, all‟ennesima “soffiata” del Gargiulo, questa volta su di un tornitore che si era assentato dalla produzione per partecipare a un‟importantissima finale di calcetto, scoppiò la rivolta. La mattina seguente infatti, dopo la decisione da parte della Commissione interna, composta dalla Santissima Trinità, di allontanare lo sventurato calciatore a tempo determinato, si scatenò una vera caccia all‟uomo. Circondato alle 10 del mattino, durante la pausa caffè, da un gruppetto di operai particolarmente focosi, fu prelevato, imbavagliato e trascinato nei cessi in fondo al corridoio della fabbrica, dove nessuno avrebbe dovuto sentire il suo “pentimento”. Sbattuto su una vecchia sedia, fino a quel momento utilizzata per cambiare qualche lampadina fulminata, ma che calzava a pennello per quella scena da film “pulp”, fu preso letteralmente a calci e pugni, umiliato e insultato violentemente. Il “pentimento” fu breve ma intenso, qualche minuto dopo, per sua fortuna, bussarono alla porta del bagno, erano le addette alle pulizie per le consuete faccende mattutine, che lo salvarono dal linciaggio. Dopo qualche secondo, ancora intorpidito dalle botte ricevute, Gargiulo riprese un briciolo di lucidità e decise di 54 scappare dalla finestrella del bagno in cui era stato rinchiuso, ma le sorprese per lui non erano ancora finite, al parcheggio trovò la sua auto con le quattro gomme bucate e la carrozzeria rigata da un poco rassicurante teschio sulla fiancata sinistra; terrorizzato scappò a tutta velocità. Per la prima volta dopo tanti anni di lavoro si mise in malattia, ripresentandosi in fabbrica dopo due settimane perfettamente guarito, senza segni e senza ecchimosi sul volto. Del fattaccio non si seppe mai nulla ufficialmente, ma tutti sapevano cos‟era successo; la paura e un profondo senso di omertà avevano definitivamente insabbiato la vicenda e anche il Gargiulo non rivelò alcunché dell‟episodio, nemmeno al suo amato Capo reparto. Dopo quella vicenda, il “lecchino” cambiò apparentemente tattica, come gli diceva sempre il suo professore durante le lunghe lezioni serali: «Se la strategia che avete adottato non funziona, non importa, l‟importante è non smettere mai di leccare!» Così fece, durante i mesi successivi al fattaccio elaborò diverse strategie alternative, trame complesse ed elaborate degne di un vero stratega militare, capaci di imbrigliare e di pizzicare chiunque fosse in fallo, stando attento però a non esporsi come in passato. Poi arrivò il colpo di genio che caratterizza tutti i più grandi fuoriclasse: apparentemente cambiato anche agli occhi degli operai che da tempo non riuscivano più a collegarlo a episodi di “spionaggio di fabbrica”, si fece passare per un grosso studioso e conoscitore in campo psichiatrico; in realtà le sue conoscenze non erano altro che qualche lettura rubata su alcune riviste specializzate e nozioni elementari ricavate da antichi fallimenti universitari. Aveva persino affisso in bacheca degli annunci che dicevano “Il Prof. Gargiulo riceve solo 55 su appuntamento, il sabato e la domenica, dalle 14 alle 18”, con tanto di tariffario. Scontato dire quanto” materiale” ci sia all‟interno di una fabbrica e di quanto bisogno abbiano questi sventurati di qualcuno che li ascolti; lui era riuscito nell‟impresa di unire l‟utile al dilettevole, incassava denaro per le sue prestazioni e spifferava furtivamente al suo capo i segreti più reconditi della vita dei suoi odiati colleghi. Finché ad agosto, indebolito dal caldo, dalle ferie che non si decidevano ad arrivare e soprattutto dal doppio lavoro che lo stava distruggendo fisicamente e mentalmente poiché durante le sedute di psicanalisi assorbiva tutti i problemi dei colleghi, fu colpito, come da un‟aquila in picchiata verso una preda facile e sicura, dal disturbo dell‟operaio. Nel caso del Gargiulo esso si manifestò, in maniera terrificante, con la “sindrome del cane da guardia”, ovvero finì con l‟assumere una vera e propria dipendenza fisica e morale per la persona che più amava al mondo, il suo Responsabile, perdendo di fatto ogni tipo di volontà sulla sua persona. Si presentò a casa del suo amato Capo in uno stato catatonico: «Gargiulo, cosa ci fai qui, oggi è domenica, dovresti essere a casa, a lavorare per me» gli disse preoccupato il superiore, ma non ricevette risposta, né in quel frangente, né in futuro. Gargiulo scostò leggermente il suo “nuovo padrone”, prese lo zerbino adagiato fuori dalla porta, lo scrollò dalla polvere e vi si appollaiò sopra, restando in quello stato per i giorni a venire, abbaiando giorno e notte su chiunque si avvicinasse al suo padrone. Non sapendo come risolvere la situazione e consapevole di avere ormai ottenuto il massimo dal povero Gargiulo, il Responsabile, in partenza per le vacanze al mare, lo caricò di peso in macchina con 56 il resto della famiglia, poi, dopo qualche chilometro in autostrada, fu costretto suo malgrado ad abbandonare il fedele quadrupede in una piazzola di sosta. Piangente ed impaurito, Gargiulo vagò per tutta la vita in cerca del suo padrone. 57 “MITRAGLIA” (IL CHIACCHIERONE) Gli operai della fabbrica erano tutti seriamente preoccupati, perché Gaetano, operaio qualificato in forza alla produzione, era tornato a lavorare dopo sei mesi di malattia, il “grande cancello” riapriva le sue vecchie braccia per accogliere il più grande “parlatore” che la storia moderna ricordi. La lunga assenza forzata dall‟azienda si era resa necessaria per curare la frattura scomposta di tibia e perone della gamba destra, riportata durante una banale caduta da cavallo. L‟operaio, appassionato di ippica e padrone di un bel puledro maculato, era solito cavalcarlo andando al piccolo trotto per cercare un po‟ di serenità lontano dal trantran cittadino e, forse esagerando un pochino, quella fatidica domenica parlò all‟orecchio dell‟animale per quattro ore consecutive, confidandogli i suoi segreti, le sue speranze e naturalmente le aspettative di vita, scatenando la belva inferocita in un galoppo forsennato, fino a disarcionare il fantino facendolo planare a 15 metri di distanza. All‟uomo, come detto, fu riscontrata la frattura della gamba, mentre all‟animale, oltre la lesione permanente del timpano, fu diagnosticata una rarissima forma di stress. Gaetano si diresse dal suo Capo reparto alle 8 e 5 minuti del mattino e lo salutò amichevolmente dicendogli, in modo molto sintetico: «Ciao Capo, finalmente sono tornato, ti sono mancato? Come vanno le cose qui? State facendo straordinario in questo periodo? Non ho problemi a fare qualche ora in più, qualche soldo extra in tasca fa sempre 58 comodo, se non sbaglio Matteo ha dato le dimissioni, se vuoi posso andare io a ricoprire il suo ruolo, tua moglie ha partorito? A proposito, ho notato che il Direttore ha cambiato auto, certo che quest‟anno la tua Juve non ti sta dando tante soddisfazioni; avete spostato la marcatempo dall‟altra parte della fabbrica, ottima scelta perché è più vicina al parcheggio; secondo il mio modestissimo parere dovresti cambiare pettinatura, perché questa ti invecchia parecchio, prova a fare come ho fatto io, tirati i capelli indietro e fatti una bella tintura nero corvino…» Alle 10 e 47, dopo vari tentativi di spegnere quello strano essere, cercando sotto il camice qualche tasto che indicasse la scritta “off”, il Responsabile scappò via in lacrime, lasciando l‟uomo nel bel mezzo di un discorso sugli alieni, ma tutti alla fabbrica avevano sempre pensato che il vero alieno non poteva che essere lui. Dopo una breve pausa caffè, dove Gaetano intavolò un acceso dibattito tra lui, il cucchiaino e un bicchiere di carta, sulla necessità di incentivare il riciclaggio per salvare quello che rimaneva del nostro pianeta e di una ricerca più assidua di materiali biodegradabili, per un uso sempre più limitato della plastica (per precisione dobbiamo dire che il cucchiaino e il bicchiere non erano dello stesso parere, rivendicando il loro diritto alla vita), alle 11 e 20, dopo aver salutato cordialmente la macchina del caffè, si diresse verso il vice Capo reparto per farsi assegnare da lui un nuovo incarico. Lo trovò nascosto dietro ad una fila di bancali, vicino all‟imballatrice, si salutarono da lontano e, prima che il vice potesse assegnarlo ad una postazione, fu bombardato di parole. 59 Agonizzante a terra dalle troppe ferite che il chiacchierone gli aveva inflitto, il vice riuscì a strappare un lembo di grembiule del nemico, tentò di scriverci sopra col suo sangue il nuovo incarico assegnatogli, ma suonarono a morte le campane del mezzogiorno. Gaetano raggiunse la mensa con la propria vettura, andò a sedersi a una tavolata di suoi colleghi, dove riuscì a mangiare primo, secondo e frutta senza mai smettere di parlare; gli altri operai, che non avevano le sue stesse doti, provarono ad assecondarlo annuendo ritmicamente con la testa per qualche minuto ma lui, indomito, continuava, incalzandoli sempre con nuove discussioni, finché, colpiti da una forte nausea, vomitarono a turno nel bagno l‟intero pranzo. Al rientro, attraverso il megafono, gli venne assegnata d‟ufficio la prima postazione della catena di montaggio, la più dura della fabbrica. Per quella mansione occorrevano attenzione e vigoria fisica, in quanto si assemblava la “carcassa” della macchina, voluminosa e pesantissima. Gaetano, che sopportava egregiamente la fatica, trovò anche il tempo per una litigata tremenda con il collega della seconda postazione, che lo attaccò dicendogli: «Guarda come mi consegni la macchina, mancano la metà delle viti, è normale, pensi solo a parlare!» Il chiacchierone, a cui non moriva certamente la lingua in bocca, gli rispose con un‟arringa di due ore, al termine delle quali l‟operaio l‟implorò in ginocchio di perdonarlo e di chiuderla lì. La sirena delle 18 decretò il triplice fischio su quella pesante giornata lavorativa e una marea operaia defluì dalle proprie prigioni in pochi minuti. Anche Gaetano si diresse verso il suo scooter, le giornate ancora piacevolmente tiepide di settembre regalavano quella tonificante sensazione di frescura sul 60 viso e, nel breve tragitto che lo separava da casa, non fece altro che parlare di come lo smog e l‟inquinamento avessero rovinato la sua bella città, andando incontro inevitabilmente ad un serrato attacco di insetti, mangiandosi fra gli altri due mosche, un‟ape e una cacca di piccione. «Ho preparato uno spuntino, tesoro» gli disse la moglie gioviale nel vederlo rincasare, «Grazie, ma ho già fatto un aperitivo al volo per strada» le rispose con una punta di disgusto. Più tardi, la sua brama di parole si spostò sulle figlie, volle sapere al dettaglio la loro giornata ( e lui naturalmente gli illustrò la sua), cosa avevano fatto a scuola, come avevano trascorso il pomeriggio e insieme diedero una lentissima occhiata ai compiti. Spolpate a dovere dal padre, alle 8 della sera dormivano entrambe profondamente. Ora non rimaneva che sistemare la moglie, la mise nel mirino intorno alle 20 e 30, l‟attaccò da terra e da mare, distruggendo ben presto le sue scarse difese. Costringendo la donna a ritirarsi sconfitta nelle proprie stanze, l‟uomo, rimasto finalmente solo, si mise comodamente in poltrona per seguire Il Processo di Biscardi in religioso silenzio. 61 LA SFIDA (IL SAPIENTINO) Ogni fabbrica, dalla più piccola alla più grande, dispone al suo interno di un tuttologo, un sapiente individuo capace di rispondere a tutte le domande a cui viene sottoposto; ad ogni argomento egli si riferisca, dallo sport alla politica, dalla religione alla meteorologia, lui non ha dubbi, ma solo certezze. Antonio Fiore, prestigioso magazziniere di punta della Grande Fabbrica, era per tutti “il Sapientino”; figura di spicco della Famiglia dei “saldatori”(clan fondato all‟interno della fabbrica negli anni ‟70), godeva di profondo rispetto e molti lo veneravano come una divinità, portandogli quotidianamente omaggi di ogni genere. Un paio di volte all‟anno, davanti ad un altare improvvisato nella saletta del caffè, venivano sacrificati animali di piccola taglia in suo onore ed era l‟unico operaio dello stabilimento ad avere una segretaria personale, dovendo far fronte a numerosi impegni e al pellegrinaggio continuo, che anche da altre aziende limitrofe lo vedeva costantemente protagonista. Tutti volevano sapere, tutti chiedevano informazioni meteo, nozioni di fisica, formazioni di calcio degli anni ‟80, informazioni sulle civiltà del passato, quesiti di matematica e consigli su quale credo politico fare affidamento (per la verità anche il Sapientino aveva difficoltà su questa domanda, limitandosi a un poco convincente «Ognuno segua il suo cuore»). Tutti chiedevano tutto, lui rispondeva con assoluta sicurezza, documentando ogni volta le sue affermazioni; ad esempio, alla domanda di un antijuventino 62 sadico e accecato dall‟odio, su quale fosse la formazione tragicamente sconfitta in Coppa dei campioni ad Atene nel 1983, lui rispondeva quasi in trance: «Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea, Bettega, Tardelli, Rossi, Platini, Boniek, “Gazzetta dello Sport”, 26-05-83». Così faceva su ogni argomento, destando ammirazione e rispetto, ma calamitandosi addosso l‟invidia e l‟insolenza dei “montatori”, il clan rivale, nato intorno alla metà degli anni ‟80 in contrapposizione a quello dei saldatori, con l‟unico scopo di distruggere il prestigio e il buon nome del gruppo. Emilio Scalori, detto “il Duca” perché vantava origini nobili, era il rampollo della Famiglia dei montatori. Giovane e abbastanza dotato intellettualmente, era considerato l‟alter ego del Sapientino, etichetta che lui non aveva mai accettato considerandosi al di sopra di chiunque, anche del Maestro, che odiava profondamente perché aveva più volte messo in discussione la sua metodologia di giudizio, spesso priva di documentazione, ma soprattutto il suo titolo nobiliare, che secondo il “tuttologo” era clamorosamente inventato. Fu alla fine di una lunga settimana lavorativa che il Duca prese coraggio e fece quello che il suo clan gli chiedeva da ormai troppo tempo, scatenare cioè una vera e propria faida, conquistando la leadership aziendale. L‟occasione venne alle porte del “grande cancello”, una mattina di metà ottobre dai colori tipicamente autunnali. I due si fermarono uno di fronte all‟altro poco prima di entrare, i loro sguardi si scontrarono per qualche istante che pareva eterno, con le foglie ormai secche e stanche che si staccavano ripetutamente dai castagni circostanti, andando sovente a morire sotto le scarpe dei due 63 duellanti, interrompendo per un attimo con l‟acuto scricchiolio il silenzio tangibile e surreale. «Ti sfido!» disse senza mezzi termini il Duca, togliendosi di dosso il macigno che l‟aveva tenuto sveglio la notte, «A freccette?» rispose divertito il Maestro. Il giovane sfidante, già notevolmente innervosito e disunito nei modi, lo aggredì verbalmente: «Non sei altro che un vecchio rimbambito, insolente e bugiardo, ti sfido apertamente ad un confronto definitivo tra te e me, in un vero e proprio faccia a faccia, cinque domande su vari argomenti scelti a caso da una giuria al di sopra delle parti, hai abbastanza fegato da accettare?» Punto nell‟orgoglio, ma sufficientemente esperto per non incorrere in queste provocazioni, lo ammonì un‟ultima volta: «Tu sai cosa succede a chi sfida apertamente il Sapientino, non è vero? In caso di sconfitta verresti subito classificato come “BLABLA-BLA” e poi costretto all‟esilio forzato, è davvero un rischio che vuoi correre?» Il giovane rivale si limitò a fissare luogo, data, ora e giudici-arbitri, poi disse: «Lunedì 27 ottobre, presso la sala mensa aziendale, durante la pausa pranzo; i giudici saranno Picchi, Vescoli e Lorenzi, farò comunque affiggere in bacheca un regolare comunicato, in modo che tutti possano assistere alla tua sconfitta» e se ne andò velocemente a lavorare. Al Sapientino non rimase altro da fare che prenderne atto e prepararsi alla sfida nel miglior modo possibile. Dopo un intenso weekend, trascorso dai due contendenti a preparare l‟evento ribattezzato da tutti in fabbrica come il “Monday morning”, arrivò lento ed impaziente il momento della verità; nella piccola saletta della mensa interna era stata allestita una graziosa scenografia da quiz televisivo, con tanto di procace valletta. Alla presenza dei tre giudici64 arbitri e di un numero imprecisato di spettatori che si accalcavano dentro e fuori la mensa, il giudice capo Matteo Lorenzi illustrò rapidamente il regolamento: «Vi farò scegliere nella consueta modalità delle tre buste: una domanda ciascuno, la domanda scelta sarà posta prima a uno, poi all‟altro concorrente, dopo cinque quesiti, chi avrà dato il maggior numero di risposte esatte avrà vinto la sfida. Non sono ammessi aiuti esterni di nessun tipo, pena la squalifica, non sono consentite pause durante la gara, né colpi sotto la cintura.» Ci furono subito degli alterchi tra le opposte fazioni su chi avrebbe dovuto cominciare, si tentò dapprima con BIRI-BIM-BUM-BAM, ma non prevalse alcuno, poi si passò ad AMBA-RABA-CICICOCO, ma anche qui non ci si mise d‟accordo, successivamente si passarono in rassegna altre quindici ignobili canzoncine e diciotto filastrocche, senza che la spuntasse nessuno; nella situazione di pericoloso stallo, arrivò la soluzione come per miracolo: il giudice Lorenzi, colto da folgorante intuizione, tirò fuori una monetina e disse contento e soddisfatto: «Testa o croce?» Per la verità anche qui si discusse parecchio su chi doveva essere testa e chi doveva essere croce, dopo mezz‟ora di accesi dibattiti si stabilì che o uno dei contendenti prendeva coraggio e sceglieva, oppure si sarebbe sorteggiato chi doveva essere testa o croce con un‟altra monetina, scivolando pericolosamente in un turbine senza fine. Mosso da un coraggio senza pari, il saggio Sapientino disse, con sofferenza, «Testa» e la matassa si sbrogliò immediatamente, riuscendo a stabilire verso le 3 del pomeriggio che fosse il Duca, vincitore del sorteggio, a ricevere la prima domanda. 65 Vista l‟ora e l‟incredibile interesse che si era creato attorno alla vicenda, la proprietà, con una mossa senza precedenti, decise di chiudere anticipatamente la fabbrica, lasciando a tutti la possibilità di assistere all‟evento. Alle 15 e 30 ora locale, davanti a 15000 spettatori giunti da tutta Italia, aggrappati in ogni angolo della stanza e in ogni pertugio della fabbrica come piante rampicanti, ebbe inizio la sfida del secolo. A Sapientino i giudici fecero indossare le cuffie per non ascoltare la domanda al “giovane sfidante”, sparandogli a tutto volume Whole lotta love dei Led Zeppelin e stordendolo; subito dopo l‟arbitro Lorenzi pose, con tono pacato ed imparziale, il primo quesito al Duca: «Chi fondò e in quale anno, il movimento metodista in Inghilterra?» Il ragazzo, disorientato e in evidente difficoltà, rispose con un leggero balbettio: «Credo sia John Wesley, la fonte è Il libro delle religioni, Neri Pozza Editore.» «Esatto» rispose il giudice privo di trasporto, dopo aver controllato le opzioni possibili. La fazione dei montatori, fedele al giovane rampollo, abbozzò una ola divertente ma mal gestita, metà degli spettatori finì per cadere dai propri alloggi di fortuna, ritardando ulteriormente lo svolgimento della gara, che riprese con fatica un‟ora più tardi. Arrivò finalmente anche il momento del “Maestro”, che rispose senza nessuna difficoltà al facile quesito, sollevando pochissimo interesse da parte del clan dei saldatori, già sicuro della vittoria. Si passò rapidamente alla seconda domanda: «Quante presenze e quante reti totalizzò Tomas Skuravy, forte attaccante del Genoa, durante la stagione calcistica ‟90-‟91?» Il Duca vomitò tre volte poi, con la febbre a 40, rispose: «Non sono convinto, ma credo siano 33 presenze e 15 gol, la fonte naturalmente Calciatori 66 Panini.» «Giusto» esclamò senza interesse il magistrato. Questa volta l‟entusiasmo troppo coinvolgente e il continuo saltellare al grido «Chi non salta saldatore è» fece crollare parte del soffitto della piccola mangiatoia, gettando nel panico il pubblico. Tre ore e quindici minuti più tardi, grazie all‟intervento dei vigili del fuoco e con una pesante sensazione di scampato pericolo alle spalle, fu la volta del Sapientino, che rispose ancora correttamente e senza indugi. La situazione di perfetto equilibrio si protrasse per le successive domande, quando alle 21 e 30, completamente al freddo e al buio, in una condizione quasi da terremotati a causa dei numerosi crolli derivati dalle precedenti risposte esatte, arrivò la svolta. Fu il giudice Vescoli a leggere l‟ultima domanda, in quanto i suoi due illustri colleghi erano stati portati in via precauzionale al pronto soccorso per le lievi ferite riportate dopo gli incidenti. Come sempre si rivolse per primo al Duca e gli chiese: «Chi ha scoperto e in quale anno l‟antimateria nucleare?» Il giovane sfidante, dimagrito in maniera spaventosa, aveva anche assunto la poco rassicurante “faccia da pecora”, sintomatologia tipica di un “quasi morto”, ma ancora abbastanza lucido per rispondere, disse con un filo di voce: «Antonio Zechila, il titolo del libro è Perché io credo in colui che ha fatto il mondo, edizioni Il Saggiatore, l‟anno purtroppo non me lo ricordo.» Resosi conto immediatamente della clamorosa svista e adirato per le risa che provenivano dal pubblico, non tanto per essersi dimenticato l‟anno della scoperta, quanto per aver confuso il nome di un importante scienziato con quello di una modesta comparsa televisiva, abbassò la testa e cominciò a piangere, sfogando tutto il suo dispiacere. Superato 67 quel difficile momento, la valletta tolse finalmente le cuffie al Sapientino, che nonostante fosse ancora rintronato dalla musica intuì subito che l‟avversario aveva sbagliato, infatti nessuno del pubblico esultava, inoltre vide il Duca, nella toilette della piccola mensa, lavarsi via le lacrime dal viso. Poco dopo il giudice ripeté la stessa domanda al Sapientino, chiedendogli: «Chi ha scoperto e in quale anno l‟antimateria nucleare?» In quell‟istante il Maestro, forse per eccesso di sicurezza o per quella paura che subentra sempre poco prima della vittoria, perse tutta la sua tranquillità, borbottando sottovoce possibili risposte, in evidente stato confusionale e madido di sudore, sprofondò in un sonno profondo. Tutti i presenti, basiti dagli incredibili eventi, rimasero con il fiato sospeso, nessuno sapeva come intervenire, finché dopo numerosi tentativi di rianimare l‟uomo, il potente sapiente si risvegliò a notte fonda; finalmente sereno e in armonia con se stesso rispose: «Scusate per lo spiacevole fuori programma, ma ora posso dire con assoluta sicurezza che si tratta di Antonino Zichichi, la mia fonte è il libro scritto dallo stesso scienziato, Perché io credo in colui che ha fatto il mondo, l‟anno della scoperta è il 1965.» Il pubblico, la valletta e persino il Duca rimasero attoniti da tanta sicurezza, e al giudice non rimase altro da fare che decretarlo vincitore: «Antonio Fiore per cinque risposte contro le quattro di Emilio Scalori si aggiudica la sfida e rimane a tutti gli effetti il nostro Sapientino.» Il vecchio, che sembrava Rocky durante il celebre finale dell‟omonimo film, era al centro del ring, con il volto tumefatto dai “colpi” subiti, sommerso da migliaia di fans in festa, coccolato e protetto fra le braccia della valletta che diceva di essersi innamorata pazzamente dell‟anziano sapiente, mentre il 68 giovane predicatore cominciava a scantonare pericolosamente, dicendo di essere un grande Profeta in grado di predicare il “verbo”. Venne allontanato dall‟azienda (come da regolamento), in seguito fu dichiarato pazzo ed internato in un famoso manicomio criminale. Dopo un‟assemblea straordinaria, voluta dallo stesso Sapientino, per evitare nuove crisi politiche e nuove faide interne si decise che, come per le più alte investiture terrene, anche la carica di Sapientino dovesse essere tramandata di padre in figlio, dando vita ad una vera e propria egemonia famigliare, seconda solo alle più alte cariche aziendali. 69 UNA STRAGE ANNUNCIATA (IL MATTO) Sguardo assente, di poche parole, Sabatino era sempre stato relegato per motivi di “sicurezza” a ruoli semplici e poco stressanti, per via di quella sua timidezza così grave e penalizzante, che aveva sfociato già qualche volta in violente crisi isteriche, facendo preoccupare non poco la direzione aziendale, per poi tornare rapidamente a chiudersi in un terribile silenzio tombale, gridando il suo disagio e il suo malumore con totale distacco da tutti. Da alcuni anni svolgeva il delicato incarico di “addetto allo smistamento e allo stoccaggio di imballaggi”, in parole povere era il “cartonaio” o lo “svuota bidoni”, come lo chiamavano sempre i suoi perfidi colleghi, ovvero la persona incaricata di passare per tutta la fabbrica a raccogliere il cartone scartato dalle varie lavorazioni e a svuotare con tempestività i bidoni sempre stracolmi dei vari reparti produttivi, stoccando tutto il materiale dentro appositi contenitori. «Sabatino, pulisci il bidoncino», gli era solito urlare in faccia il Merli, operaio generico di basso profilo, ormai prossimo alla pensione, che amava sempre bersagliare il povero sventurato con scherzi, sberleffi e burla. Poeta e attore parrocchiale di serie “c”, amava prendere di mira Sabatino davanti a tutti con queste battute poco eleganti, ma così tanto amate dai suoi colleghi senza scrupoli, che già dal primo mattino gli chiedevano, quasi fosse una star della TV, di cominciare il suo repertorio e lui, sen70 tendosi Benigni durante uno dei suoi famosi monologhi, lo attaccava velenosamente: «Sabatino, pulisci il bidoncino, una volta al mattino e una volta al tramontino». Poi lo prendeva e lo faceva salire sul “palco”, come si fa quando si sceglie una persona a caso dal pubblico, e cominciava il suo attacco verbale e fisico, fatto di battute poco brillanti e di sberle al poveretto, «per incendiare la folla», ripeteva sempre con schifoso cinismo; infatti partiva una gigantesca risata di gruppo, bastarda e sadica, poi da vero show-man, incalzante e prorompente infieriva: «Svuota il bidone, svuota il cassone, butta il cartone da vero merdone» e il pubblico tutto applaudiva soddisfatto con vibrante partecipazione, ringraziandolo per il simpatico intervallo. Metodico e maniacale nei suoi atteggiamenti come una poesia imparata a memoria, Sabatino era con gli anni diventato noioso e prevedibile. Considerato innocuo, gestibile in ogni suo aspetto e di pessima compagnia, era escluso da ogni attività extrafabbrica come feste, compleanni, cene aziendali e così via; veniva capito e stimolato a parlare solo dal magazziniere Stoppa, grosso studioso di psicologia, diciottesimo anno fuori corso, ma ancora fermamente convinto di terminare gli studi universitari, perché, come amava ripetere simpaticamente: «Ho solo Stoppa-to un po‟ con i libri per dedicarmi al lavoro sul campo, e qui vi garantisco che il materiale non manca.» Negli anni gli era sempre rimasto fedele, non aveva mai preso parte a queste vigliaccate di gruppo, né tanto meno aveva sfruttato a suo favore l‟imbarazzante timidezza dell‟amico collega, anzi si era sempre domandato cosa potesse bloccarlo dal di dentro e se mai avesse potuto fare qualcosa per migliorare veramente la propria esistenza. 71 Accadde tutto così in fretta… Era una mattina di fine novembre, con una nebbia fitta e pungente che non si vedeva praticamente nulla. Al grande parcheggio della fabbrica, le macchine cominciavano come ogni mattina a riempire gli spazi a loro destinati, come un gigantesco mosaico, quando arrivò Sabatino, che parcheggiò stranamente fuori dalle strisce di delimitazione. «Sabatino, è la prima volta in quindici anni che ti vedo parcheggiare fuori dalle strisce, oggi deve essere una giornata speciale», disse simpaticamente Stoppa, pensando anche che normalmente ci metteva venti minuti per parcheggiare la macchina, scendendo spesso a controllare la distanza tra le ruote e le strisce di demarcazione. Si incamminò quindi per varcare il “grande cancello”, senza aspettare una risposta dal Sabatino, che per ovvi motivi non arrivava mai, invece quella volta, con voce allegra e spensierata gli disse: «Ciao Stoppa, hai visto cosa ho combinato stamattina?» scoppiando in una risata fuori luogo, poi riprese ancora: «Tu sei l‟unico che in tutti questi anni mi ha dimostrato un briciolo di umanità in questo posto di merda, l‟unica persona che mi ha regalato un po‟ di serenità, oggi voglio farti io un regalo, vai a casa, non timbrare il cartellino, perché oggi sono sveglio, oggi voglio divertirmi, è tornato il sole nei miei pensieri, però devo fare presto perché non so quanto durerà e ti garantisco che non voglio più tornare quello di prima.» Stoppa rimase raggelato dalla situazione surreale, poi trasalì e, con un filo di voce trovato da qualche parte, tentò: «Non fare cazzate, vieni via con me…» non fece in tempo a finire la frase che venne colpito violentemente al capo dal calcio del fucile che Sabatino aveva estratto rapidamente dal bagagliaio dell‟utilitaria. Adagiò il suo amico-collega a 72 terra pensando «Almeno qui sarai al sicuro» e, accertatosi che nessuno avesse visto la scena, mise il fucile da caccia del padre in un grosso sacco nero ed entrò in fabbrica per l‟ultima volta. Emarginato come sempre, nessuno all‟ingresso lo degnò di uno sguardo, poi, arrivato al suo reparto, come ogni giorno si vide attaccare dal Merli: «Buongiorno merdone, cosa porti nel saccone?», Questa volta però fu lui a scoppiare in una gigantesca risata grassa e malata, lasciando il piccolo gruppetto di operai riunitosi nel frattempo intorno allo show-man senza parole. Rapido e veloce, Sabatino tirò fuori il fucile dal grosso sacco nero, guardò in faccia l‟odiato collega come non aveva osato fare mai e, con uno sguardo freddo e distaccato, parlò per l‟ultima volta: «Coraggio Merli, fai la battutina, tanto questa è la tua ultima mattina.» Felice per il regalo che il diavolo gli aveva concesso con un gesto di profonda ammirazione, capì che era venuto il momento di agire, di portare morte e tenebre nella squallida vita del suo aguzzino e dei suoi compiacenti colleghi; con un sorriso demoniaco carico di riconoscenza per quel meraviglioso finale, cominciò il suo canto d‟amore e di liberazione. 73 NATALE IN VETRINA (IL RESPONSABILE) Secondino, spione, lacchè, guardiano, sentinella, controllore, cane da guardia, sono solo alcuni dei simpatici epitaffi, con cui viene normalmente apostrofato Pino Silvestri, il Responsabile, gran servo del padrone, dai colleghi ribattezzato “schiuma” per via dell‟assonanza tra il suo nome e il famoso bagnoschiuma. Dopo aver salito repentinamente tutti i livelli gerarchici di basso profilo della fabbrica, aveva da alcuni anni guadagnato, non senza fatica, i galloni aziendali di “Responsabile di magazzino”, incarico importante e stimolante, ma anche difficilmente gestibile, occorrevano infatti qualità non comuni per “curare” il personale nel miglior modo possibile e la proprietà si attendeva da lui devozione e abnegazione all‟incarico accordatogli. «Caro Silvestri, arrivare dritti alla meta senza perdere mai di vista l‟obiettivo, anche a dispetto di qualche perdita lungo il cammino», gli ripeteva sempre il Direttore con tono spregevole, durante le riunioni di fine mese. Meschino, bieco, vischioso, ma rispettoso degli insegnamenti ricevuti, si comportava di conseguenza: come una spugna lui assorbiva lamentele e malumori direzionali, si imbeveva di gratificazioni e note di merito, trattenendo per sé considerazione e benessere e sputando sui sottoposti urla e violenza. Il Natale alle porte e un incremento degli ordini a programma imponente, avevano fatto scattare, fino alla fine dell‟anno, i tanto temuti “straordinari” per 74 riuscire a far fronte a tutte le richieste pervenute; con un comunicato di poche righe affisso in bacheca, la Direzione ordinava, a partire dal lunedì successivo, un‟ora in più al giorno e il sabato mattina lavorativo. Il lunedì seguente, Silvestri alle 6 del mattino era già sul posto di lavoro, in ordine come un soldatino rispettoso e ligio al dovere, si affannava nel rincorrere il suo “gregge” ancora addormentato e smarrito, «Tutti ai propri posti! Il padrone non vi paga per cazzeggiare, ma per lavorare!» ripeteva borioso e tronfio di quella paura così finta e superficiale che riusciva ad incutere tra gli operai. Poi, alla vigilia delle tanto agognate ferie, smaltito l‟imponente carico di lavoro, con gli operai spremuti come limoni ma contenti per l‟imminente riposo natalizio, il Direttore, con una mossa a sorpresa, convocò d‟urgenza il Silvestri e la delegazione sindacale interna per “comunicazioni urgenti”. La cosa gettò tutti nel panico e si rincorrevano notizie false e tendenziose; il mulettista Grassi raccontava segretamente al magazziniere Silipo: «Mi raccomando non dirlo a nessuno, ma è arrivato un ordine dalla Russia di mille macchine da evadere in quindici giorni, l‟ho sentito di sopra al “Commerciale”, dicono che le ferie quest‟anno non saranno accordate, che anzi dovremo lavorare anche a Natale e a Santo Stefano, ma che verrà pagato triplo perché la Proprietà, sempre attenta e generosa, capisce che il sacrificio richiesto è sicuramente molto grosso e va gestito con tutte le difficoltà del caso.» Naturalmente, la cosa si sparse a macchia d‟olio per tutta la fabbrica nel giro di pochi minuti. Sparizioni misteriose, finti infortuni, strane malattie tropicali, fino a suicidi collettivi, erano le contromisure vagliate dai patriarchi operai per contrastare que75 sto atto vile e catastrofico; infine la piccola delegazione tornò di sotto dopo l‟incontro e riunì tutto il magazzino nel piazzale della fabbrica. Prese la parola il Silvestri che, con voce sicura e sprezzante, disse: «L‟azienda, nella persona dell‟amato Direttore, comunica a tutti noi che grazie alla vostra, ma soprattutto alla mia capacità gestionale e alla mia intraprendenza organizzativa, è felice di annunciare che abbiamo tenuto fede ai nostri impegni, che tutte le commesse a cui tenevamo tanto sono state interamente sbrigate e pertanto la proprietà augura, a tutti noi e alle nostre famiglie, buone ferie!» Un boato assordante squarciò il cielo, come durante la finale dei mondiali di calcio del 2006 dopo il calcio di rigore della vittoria di Grosso, scene di ordinaria follia collettiva si manifestarono agli occhi di tutti, invidie e incomprensioni per un attimo svanirono, per dar vita a festeggiamenti che durarono per tutta la notte. Il Silvestri partecipò alla festa e fu preso da parte dal Direttore, che gli disse, con tono stranamente amichevole e benevolo: «Devo parlarti Silvestri, subito.» Il Responsabile cambiò espressione, capì che si trattava di qualcosa di molto, molto personale e nello stesso tempo terrificante, infatti, appartati dentro al cesso privato, il Direttore riprese prontamente il discorso: «Vedi caro Silvestri, il Nostro Signore e Padrone, nonostante il buon esito di questi ultimi affari, si è visto costretto, a causa di questa crisi settoriale devastante, ad apportare tagli laddove fosse possibile, pertanto, considerando la necessità di un guardiano per le vacanze e il costo elevatissimo che comporterebbe all‟azienda, si è stabilito di provvedere internamente scegliendo proprio te, che hai dimostrato in tutti questi anni un attaccamento quasi morboso all‟azienda, vigilando 76 costantemente giorno e notte lo Stabilimento con convinta devozione.» Poi, con una punta di leggero pentimento e la voce imbrigliata da un velo di timidezza, riprese tutto d‟un fiato: «Naturalmente il tutto segnato come straordinario, pagato doppio», come se questo potesse fregare qualcosa al pover‟uomo. Dal canto suo, il Silvestri, tramortito e impietrito come una statua di sale, si limitò a un emblematico: «Grazie di cuore per aver scelto me.» Così, durante le vacanze, quando l‟operaio si gode il meritato riposo, arrivò, come un regalo tutto da scartare, il momento della vendetta, fredda e spietata. Con un orrendo senso di piacere, la cricca degli operai più ostili al Silvestri si ritrovò alla fabbrica, ad ammirare il loro carnefice di tante sofferenze correre su e giù per lo stabilimento a caccia di fantasmi, con il volto rigato da lacrime di polvere, controllando che nessuno entri a profanare il suo amato tempio. I lavoratori in un primo momento gli gridarono di tutto, versandogli addosso tutta la rabbia di una vita, poi, quasi pentiti dal loro incedere, lo guardarono increduli dalle grandi vetrate, così piccolo e sottomesso e, per una volta nella vita, provarono verso di lui un senso di umanità e di misericordia, e pensarono a quanto fossero fortunati ad essere semplicemente operai. Con un leggero sentimento di vergogna e di imbarazzo, se ne andarono uno ad uno, senza proferire parola. 77 NON SOLO OPERAI 78 LA MENSA In ambito lavorativo esistono due tipi di mense, quella aziendale, all‟interno dello stabile e quella esterna, a pagamento e dislocata poco lontano dal centro industriale, per tutti i lavoratori che ne vogliano usufruire. Nel corso degli anni queste sono diventate due vere e proprie scuole di pensiero, con pregi e difetti che valuteremo attentamente. La mensa aziendale, come detto, viene definita così perché si trova all‟interno della fabbrica, ma nella maggior parte dei casi non è altro che uno stanzino minuscolo, con quattro panche di fortuna e un piccolo forno a microonde rimediato con una sanguinosa colletta organizzata dagli operai. Al grido della povera sirena del mezzogiorno, la mensa viene presa d‟assalto da un‟orda affamata e brulicante, pronta a tutto per impossessarsi del malcapitato fornello e scaldare la propria pietanza. Una grossa nube tossica si sprigiona immediatamente, appannando la piccola cella aziendale, poi gli operai cominciano le riesumazioni dei cadaveri, estraggono cioè, da ogni tipo di contenitore possibile, masse informi oramai fossilizzate, che fino a pochi secondi prima nessuno si sarebbe mai sognato di mangiare e che, per mezzo del potente e miracoloso elettrodomestico, riprendono forma e aspetto, facendo riaffiorare le loro antiche origini. La mensa esterna è solitamente facile da raggiungere, almeno in condizioni normali, perché nessuno vuole prendere la macchina, per evitare spese extra di benzina o l‟usura delle gomme, così finisce sem79 pre per rimetterci l‟operaio più buono e sottomesso, che viene costretto a traghettare con la propria vettura fino a dieci persone oppure, per non incorrere in sanzioni stradali, organizza una “navetta” gratuita per portare i commensali al loro meritato ristoro, con il rischio concreto di saltare il pasto. Le mense moderne, all‟apparenza, sembrano tutte graziose, sia esteriormente sia all‟interno, basta però frequentarle qualche giorno per rendersi conto che la realtà è decisamente un‟altra. Si estendono internamente per decine di chilometri quadrati, nessuno è mai riuscito a sapere quanti potessero essere i coperti di una mensa; una volta, un cameriere molto paziente si mise a contare la prima parte del salone, arrivò faticosamente alla cifra di 12500 posti e dovette arrendersi per raggiunti limiti di età. Anche l‟ambiente resta, almeno all‟apparenza, molto freddo: i muri bianchi, i tavolini bianchi, le sedie bianche e i pavimenti grigi con venature bianche rendono l‟ambiente asettico, quasi ospedaliero; spesso il povero operaio nel mettersi in fila, non sa se lo sta facendo per un pasto caldo o per una trasfusione di sangue. Vassoio, piatto, forchetta, coltello, bicchiere, tovagliolino di carta e naturalmente cibo, alla mensa paghi praticamente tutto, nulla è lasciato al caso; una volta una cassiera batté uno scontrino con aggiunto, per eccesso di zelo, 2 etti di aria = € 0,10. Il mangiare ti viene sempre servito fumante, peccato che poi passi almeno venti minuti in fila per il conto, ritrovandoti al tavolo con un blocco di granito imperforabile. Alcuni astuti operai mangiano durante la fila, appoggiando il vassoio sulla schiena del predecessore, in posizione supina, si gustano il pasto caldo e scambiano le posizioni a giorni alterni. 80 Il lavoratore deve stare attento ad un‟altra pericolosa imboscata che gli viene tesa dalla mensa, chiamata “trappola dell‟abbondanza”, dove il proletario viene spinto, dai prezzi molto bassi, ad accatastare nel vassoio decine di portate, con conseguenze terribili sia fisiche (il tasso di obesità nell‟operaio da mensa è altissimo), sia economiche (l‟operaio finisce per spendere più che ad un ristorante di lusso). 81 IL BUONO PASTO «Paga in contanti?» «No guardi, ho il buono pasto.» Chissà se almeno una volta nella vita avete sentito pronunciare queste semplici parole in una qualsiasi mensa, oppure in qualche supermercato, ebbene, grazie a compromessi aziendali, riunioni sindacali e scioperi selvaggi, l‟operaio moderno ha ottenuto uno strumento d‟inestimabile valore, il buono pasto. Denaro, sotto forma di simpatici e coloratissimi bigliettini di carta, apparentemente innocui, ma che nelle mani sbagliate possono trasformarsi in pericolosi ed ingestibili candelotti di dinamite. Usati da pochi con il loro vero significato (buono pasto = pranzare senza pagare), viene utilizzato per le iniziative più stravaganti, così può capitare che una donna paghi la parrucchiera con i buoni pasto o che un uomo, per non gravare sul bilancio famigliare, saldi il suo debito con una prostituta con i buoni pasto, che padri separati versino gli alimenti sotto forma di buoni pasto, oppure li si usi per pagare il pedaggio in autostrada; insomma, ogni scusa è buona per divorarli in pochi minuti, costringendo l‟operaio a pranzare a proprie spese, rimettendoci costantemente. 82 L’ASSEMBLEA SINDACALE La bacheca si illumina a festa, “la signorina delle buste paghe” ha appena attaccato il foglio della riunione sindacale, che per essere avallato dalla massa operaia deve riportare al suo interno diciture ben precise, la data e l‟ora dell‟incontro e l‟oggetto, che sappiamo in linea di massima essere così: RINNOVO DEL CCNL RICHIESTA DI FLESSIBILITA‟ DA PARTE DELL‟AZIENDA NUOVE NORMATIVE DI SICUREZZA SUL LAVORO VARIE ED EVENTUALI Seguono le firme delle tre delegazioni sindacali e per ultimo, ma non per importanza, il dogma fondamentale per avere tutto il personale presente L‟ASSEMBLEA È RETRIBUITA. Diffidate da tutto quello che si discosta da queste poche ma importanti regole, se ad esempio trovate affisso in bacheca un foglio poco illuminato, che ha come ordine del giorno: DISCUSSIONE SULLA PROPOSTA DELLA PROPRIETA‟ DI ADEGUAMENTO LIVELLI REFERENDUM PER L‟ABOLIZIONE DEL VENERDI‟ LAVORATIVO RICHIESTA DI AUMENTO BUONO PASTO CHI PIÙ NE HA PIÙ NE METTA LA DELEGAZIONE SINDACALE BIM-BUMBAM L‟ORA DI ASSEMBLEA VERRA‟ DEVOLUTA ALLA FONDAZIONE PER LA LOTTA CON83 TRO IL DISBOSCAMENTO DELLA FORESTA NERA (X INFO CHIAMA IL 332145889 CHIEDERE DI RAMONA LA CHIAPPONA) Dopo pochi minuti, quasi tutti gli operai capiscono che si tratta di una truffa o di uno scherzo idiota, perché quello non è il numero di Ramona! Nella stragrande maggioranza dei casi l‟ora prefissata per l‟incontro corrisponde all‟ultima lavorativa, nessuno in questo senso ha mai capito se bisogna timbrare il cartellino prima dell‟assemblea, dopo l‟assemblea o durante l‟assemblea; in enorme difficoltà, i lavoratori preferiscono, per non rischiare brutte sorprese, “marcare” ripetutamente in tutte le situazioni, consumando il cartellino e fondendo la marcatempo. Superato anche quel secondo difficile ostacolo, si stacca finalmente il biglietto per assistere alla visione dello spettacolo. Entrano tutti con fare spensierato e disinvolto di chi finalmente può godersi un po‟ di relax. Le file in fondo alla sala sono le più ambite, forse per eccesso di timidezza o per quel subconscio scolastico che ci protegge da un‟eventuale interrogazione, mentre gli RSU siedono in prima fila come alunni modello e cominciano subito ad alzare le mani per fare domande pertinenti ai delegati sindacali che, come professori seduti davanti alla cattedra, si apprestano ad iniziare la lezione. La scena che si presenta all‟interno della sala è la seguente: le ultime quattro file sono occupate da centocinquanta operai ammassati uno sopra l‟altro, che misurano le loro capacità circensi nel famoso numero della “piramide umana”, nel mezzo della sala il vuoto, davanti i sindacalisti, con gli RSU inginocchiati al loro pulpito. Dopo i dieci minuti necessari per riportare il silenzio e per liberare i “cieli” da aeroplanini, pallottole 84 di carta e sputacchi vari lanciati dalla “curva sud”, la riunione sindacale ha finalmente inizio. Apre sempre il dibattito il sindacalista con più iscritti, che tiene lo scettro del potere per tutto il tempo, lasciando alle altre delegazioni i titoli di coda, anche perché non riesce mai a terminare un discorso, venendo puntualmente interrotto dall‟inesorabile cellulare; alcuni maligni azzardano addirittura che non vi sia nessun interlocutore telefonico, ma che si tratti di una strategia voluta dal sindacato per offuscare le menti del povero operaio, per poi manipolarlo come un burattino, strappandogli la firma per la tessera sindacale. Esistono delle parole che non si devono mai dire durante una riunione sindacale, come ad esempio “padrone”, “aumento”, “rispetto”, “uguaglianza”, come non si devono pronunciare frasi di spiccato appoggio all‟azienda, tipo “qui ho trovato la mia seconda casa”, “bisogna lottare perché la fabbrica è anche la nostra”, “alla fabbrica sto meglio che a casa mia”; la “curva sud” sarebbe pronta a scatenare l‟inferno, con il rischio concreto di non riuscire più a riprendere in mano la riunione. Ma è proprio quando la discussione assume toni interessanti e di un certo contenuto che esplode prepotente la sirena della sera, e a nessuno interessa più nulla di straordinari, contratti di secondo livello, leggi antinfortunistica o quant‟altro, ciò che conta è scappare e mettersi in salvo, lasciando dietro di sé l‟aria fritta delle parole dei sindacalisti, qualche cartaccia sul pavimento e una bella scultura di sedie in fondo alla sala. 85 IL MICROCOSMO Anche la fabbrica è fonte di correlazione e di analogia tra “macrocosmo” e “microcosmo”. Possiamo affermare con la massima sicurezza che dietro ogni azienda esistente ci sia il lavoro un “microcosmo”, spesso invisibile e impercettibile, ma fondamentale per l‟equilibrio dell‟universo lavorativo. Spesso sono piccole meraviglie, visibili solo ad un occhio attento e scrupoloso e nel seguente capitolo analizzeremo questo micromondo sconosciuto. La tecnologia è parte integrante di un microcosmo spesso in antitesi con la proprietà, che giudica ciò che è giusto o sbagliato senza lasciare molti spazi di manovra, cercando di dividere quanto la scienza e la natura uniscono, affermando con comportamenti spesso paranoidi il proprio diritto al giudizio finale. Si capisce facilmente che all‟interno dell‟azienda riscontriamo un microcosmo diviso in due grosse categorie, quello accettato e condiviso dall‟azienda e quello assolutamente bandito e reputato intollerabile. 86 MICROCOSMO TECNOLOGICO CONDIVISO Chi svolge un normale lavoro di magazzino da dieci anni a questa parte, non può non essersi imbattuto nello strumento più sensazionale dell‟era moderna, “la pistola elettronica” o “computerino”. Nelle fabbriche del nuovo millennio tutto è automatizzato, per un minor spreco di tempo, un margine di errore più ridotto e un minor bisogno di forza lavoro. A questo proposito, ogni buon operaio possiede la sua pistola che tiene ben stretta in fondina, con essa dovrebbe stoccare il materiale attraverso il raggio laser, indi ubicare la merce nelle scaffalature. Ma nel mondo della cibernetica non sempre il virtuale può applicarsi alla realtà. Il computerino diventa sovente strumento di confusione e di liti furibonde, i tasti troppo piccoli e le funzioni troppo complicate mandano in crisi i lavoratori, che finiscono per rincorrersi lungo i corridoi in una battaglia di “laser game” senza esclusione di colpi. I muletti (anche se obiettivamente non sono proprio micro) di nuova generazione sono un altro fiore all‟occhiello della fabbrica: hanno un potenziale bellico pari a quello di un carrarmato, possono aprire varchi nei muri, perforare una macchina in corsa, servirsi della cloche per alzarsi in volo e, ancora, affettare una carota a julienne, stendere i panni, preparare il caffè, grattare la schiena e, grazie a due pale meccaniche poste davanti all‟abitacolo, sollevare bancali, ma solo quelli molto piccoli. 87 Si parla sempre troppo poco di “interfono ”, strumento in dotazione a quasi tutte le fabbriche da molti anni e d‟importanza vitale perché può permetterci di rintracciare chiunque in breve tempo, di solito però ci si chiama solo per delle sciocchezze, finendo per abusare del mezzo. Una volta sentii un collega annunciarne un altro per dodici volte in un minuto, l‟uomo lasciò il compagno di reparto con in mano una verga da 750 kg , si fece tutta la fabbrica di corsa saltando una pila di bancali alta 3 metri e, quasi agonizzante, si presentò ai suoi piedi chiedendo cosa fosse successo di tanto urgente, questo lo guardò e disse: «Oggi vieni in mensa con me?» Ma la cosa più bella sono proprio gli annunci, che vanno dal classico «Mario Rossi comunichi con il 250 grazie», al sensuale “Sono Verusca e chiamo dal 250, se Mario vuole adesso sono libera di essere contattata», dall‟incazzato «Mario, sono quattro volte che ti chiamo, cazzo rispondi!», al suicida «Volevo solo comunicarvi che l‟interno 250 non sarà più disponibile per il resto della vita», dal depresso «Qualcuno comunichi con me al 250», al sintetico «Mario chiama 250», all‟apprensivo «Ma dove sei 250, dove sei andato 250, cosa stai facendo 250, chiamami subito sono Ansia», eccetera. 88 MICROCOSMO TECNOLOGICO “BANDITO” Da quando è entrato a far parte delle nostre vite, il “cellulare” è forse lo strumento tecnologico più utilizzato in Italia e naturalmente anche l‟operaio ne è schiavo, finendo col non separarsi mai da questo potente mezzo di comunicazione, che spesso è causa di distrazioni e perdite di tempo, fattori che hanno spinto tutti i padroni del mondo a bandirlo dalle fabbriche, mediante una vera caccia al “telefonino”, minacciando sanzioni di ogni tipo se beccati in flagranza di reato. Le minacce verbali sono ancora le più frequenti del settore, con una vasta gamma a disposizione del datore di lavoro. Si va da quelle stravaganti, come «Se ti pesco col cellulare ti faccio tornare polvere» o ancora «Spaccia pure coca sulla catena di montaggio, ma metti via il cellulare», oppure «Butta via il cellulare oggi e mangi anche domani», fino ad arrivare a quelle più maligne e diaboliche «Peccato, proprio adesso che volevo darti l‟aumento, ti sei fatto trovare con le mani nella custodia», oppure «Con il cellulare in mano sembrate tutti dei pecoroni conciati allo stesso modo, senza siete pecoroni tutti diversi.» In una media o grande azienda il padrone non interviene mai in prima persona, se vede una situazione che non condivide o non tollera, non prende l‟iniziativa di dirtelo direttamente, ma lo segnala prontamente al tuo superiore, che ti rimprovererà a dovere. Questo è quello che può avvenire quando si perde tempo al distributore automatico (altro stru89 mento tecnologico non proprio micro che il padrone non sopporta), il tutto si svolge solitamente con questa dinamica: dopo pochi minuti dall‟inizio della giornata lavorativa comincia la processione alla macchinetta, un operaio inserisce la chiavetta, sceglie il prodotto che si incastra, l‟operaio scuote il distributore che va in tilt, dopo pochi secondi arriva un collega sicuro del fatto suo, che scrolla nuovamente la macchinetta e vengono giù quattordici tipi di merendine diverse, gli operai accorrono come locuste, la produzione si blocca e il padrone si incazza; il giorno dopo al posto del distributore automatico viene messa una pianta rampicante. Esistono molti altri piccoli elementi facenti parte del “microcosmo bandito”, che non considereremo essendo tuttora al vaglio della proprietà e non identificabili sotto alcuna classificazione di merito perché non se ne conoscono gli eventuali effetti collaterali, per esempio l‟iPod, il GSM, la Psp, i notebook e tanti altri piccoli gioielli destinati nel tempo a trovare la loro giusta collocazione. 90 IL VIAGGIO Fiato pesante dalla cena della sera prima, sguardo basso e incazzato, dita nel naso con l‟ausilio dello specchietto retrovisore, bestemmia da semaforo rosso e la lucida consapevolezza di avere sprecato un‟altra preziosa giornata di vita, ecco un altro operaio diretto verso la fabbrica, e pensare che Giancarlo aveva solo tolto la macchina dal garage. C‟erano dei rituali a cui il lavoratore non voleva proprio venir meno, la prima cosa che faceva dopo l‟accurata pulizia era recarsi al bar “da Gigino” per prendere l‟unico buon caffè della giornata, visto che gli altri era costretto a consumarli alla macchinetta in azienda, dopodiché passava in rassegna tutti i quotidiani sportivi, pagava il conto alla cassa e si recava sul luogo dell‟appuntamento aspettando i colleghi. Da parecchi anni divideva il costo del “viaggio” con altri due operai, per ammortizzare le spese e soprattutto per avere qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere; si avviarono verso la fabbrica, ignari che quello non sarebbe stato un viaggio come tutti gli altri. Alle 6 e 50 del mattino, in perfetto orario, imboccarono la tangenziale est direzione autostrada, dove beccarono subito un rosso da paura, 8 minuti fermi ad aspettare inermi. Vennero assaliti subito da una zingarella per l‟elemosina, in tre rimediarono 90 centesimi, scatenando le ire della nomade che, alterata, gli disse: «Straccioni italiani, 90 centesimi in tre? Ma per chi mi avete preso per una barbona, non sapete che il tetto minimo sindacale per 91 l‟accattonaggio da strada è di un euro a persona?» La zingarella prese il braccio di Carlo e gli diede indietro i suoi 90 centesimi più la mancia, un attimo dopo lui si accorse che con quel semplice gesto gli aveva sfilato l‟orologio. La cercò con lo sguardo dagli specchietti e la vide infilarsi frettolosamente in un vicolo, non riuscì nemmeno a provare rancore verso la ragazza, perché da così lontano gli sembrava una bellissima “bambola spagnola”, ricordo di famiglia. Il collega lato passeggero, velenoso come un cobra reale, gli chiese subito l‟ora, mandando Carlo su tutte le furie. Ma l‟avventura era solo all‟inizio, per arrivare vincitori al traguardo dovevano ancora superare numerose sfide, che avevano le concrete sembianze di tre semafori, una rotatoria, un passaggio a livello manuale e la classica scuola elementare all‟ora di punta, con annesso il vecchietto rimbambito (reperto comunale) all‟attraversamento pedonale. Il primo semaforo andò giù come bere un bicchiere d‟acqua, un verde forte e pieno illuminava la strada, riportando un po‟ di ottimismo nella truppa. Poi la rotatoria, che rappresentava l‟insidia maggiore poiché vi confluivano tutte le arterie stradali della città, superarla indenni voleva dire mettere una seria ipoteca sulla vittoria finale, ma se vi si rimaneva prigionieri si poteva anche lasciare la macchina in coda e andare a fare shopping in città. La fila, ormai in prossimità dell‟incrocio, si arrestò bruscamente, una “tartaruga” targata Foggia metteva regolarmente la testa fuori poi, proprio quando sembrava passare, ritraeva il collo, creando un pericoloso effetto fisarmonica che colpì le prime dieci auto che la seguivano, tra cui naturalmente quella dei nostri eroi. 92 Tutti i coinvolti scesero dalle rispettive vetture e fu il parapiglia: la tartaruga, una vecchina dall‟aspetto curato e i capelli blu cobalto, tirò finalmente fuori la testa, pose sul cofano una risma di fogli per far fronte alle numerose “constatazioni amichevoli”, montò un tavolino nel mezzo della rotatoria e, con una stufetta da campo, preparò il caffè. Innanzitutto bisognava far fronte ai casi di massima urgenza, un‟ambulanza rimasta bloccata nel maxi tamponamento trasportava un organo vitale per un trapianto, alcuni automobilisti impossibilitati a proseguire rubarono un tandem a una coppietta giapponese in viaggio di nozze, scappando a tutta velocità con il “cuore in mano” verso l‟ospedale; intanto un‟enorme palestrato risolse il problema sollevando di peso la propria vettura per appoggiarla sul lato opposto della strada, il resto della truppa dovette attendere i classici soccorsi e i tempi burocratici. Ci volle tutta la mattinata per sbloccare l‟ingorgo e riportare il traffico alla normalità. Vista l‟ora, i tre decisero di consumare il pasto in macchina; Carlo guidava un panino e mangiava il volante, mentre i passeggeri scaldavano la minestra sul tubo di scappamento, sbrodolando quasi tutto sui sedili posteriori, poi passarono a pane e salsiccia, depositando sui tappetini i resti del pranzo e alla fine del banchetto spuntavano già dalle feritoie della tappezzeria i primi funghi chiodini. Dopo aver tracannato dal thermos tre caffè gelidi aromatizzati alla salsiccia, l‟allegra brigata arrivò al passaggio a livello. Erano fermi da ormai venti minuti e le uniche creature che avevano attraversato i binari erano un formicaio al passo inseguito da un sanguinario formichiere, un groviglio di aghi di pino misti a lana e un arbitro di periferia inseguito da quattro giocatori; 93 spazientiti dall‟attesa urlarono al casellante: «Apri la sbarra tanto non passa nessunooooooo». Subito transitarono due treni passeggeri e un treno merci, lunghissimi e molto, molto lenti. Infine il casellante si alzò dalla poltrona, si aggiustò i gioielli di famiglia, squadrò i tre operai dalla testa ai piedi e, con il dito medio, azionò l‟interruttore per alzare la sbarra. Mancavano solo gli ultimi due semafori per agguantare la preda, il primo fu un rosso abbastanza rapido, infatti non c‟era nemmeno un lavavetri, ma un cartello attaccato allo spartitraffico: “Vista la durata limitata del semaforo siamo impossibilitati a svolgere al meglio la nostra professione, siete pertanto pregati di lasciare un obolo dentro la scatola, un nostro incaricato ritirerà le offerte a fine serata, grazie”. Il secondo semaforo fu una vera pugnalata al cuore, il suo arancione malandrino mise in scacco Carlo che cadde nella trappola, ritrovandosi alle prese con un rosso giuda traditore che li vendette alla polizia. La pattuglia li fece scendere dalla macchina, fece gli accertamenti del caso e comminò una multa di 400 euro; Carlo protestò vivacemente dicendo che quei soldi per un rosso erano troppi, il poliziotto gli rispose: «Guardi che la multa non è per contravvenzione stradale, ma per l‟allevamento clandestino di funghi chiodini sulla tappezzeria.» Infine il traguardo tanto atteso, si aprirono le porte del ”grande cancello”, due ali di folla acclamavano i cavalieri rientrati in patria dopo la dura crociata, ma con profondo dolore si accorsero che non erano lì per festeggiarli ma per andare a casa, la sirena della sera aveva cantato il suo pezzo migliore e ai tre disperati, insultati pesantemente dalla massa operaia, non rimase altro da fare che girare la macchina e tornare indietro. La giornata di festa fu conteggiata come permesso non retribuito. 94 IL CORRIERE ESPRESSO Il ricevimento merci è da sempre l‟anima e il cuore dell‟azienda, nelle giornate di punta assomiglia più al mercato rionale di Milano che a un parcheggio della merce in transito, qui confluisce tutto il materiale in entrata e in uscita, una parte finisce stivata in magazzino, un‟altra aspetta impaziente di essere rispedita nelle varie destinazioni ed è proprio qui che atterrano le “libellule dalle quattro ruote”, volgarmente conosciute come “corrieri espressi”. «Chiama un espresso» ordinò il capo-magazziniere alla segretaria fresca di assunzione, «Mi scusi devo urlare a un caffè?» chiese dubbiosa la ragazza. Il gendarme rischiò l‟esplosione, il viso color rosso tizzone infernale si contrasse in strane espressioni, poi all‟improvviso il deturpamento cessò, era appena entrato il grande Gerlando, che scoreggiava camminando. Gerlando era il corriere per definizione, lavorava da anni per la “Ruberini Corriere Espresso” e alla fabbrica era come uno di famiglia. Napoletano verace, dal famoso cuore partenopeo, non si tirava mai indietro davanti a nulla e se avevi qualcosa di veramente importante da destinare con la massima urgenza, affidarsi a lui era garanzia di successo. Come quella volta che gli chiesero di consegnare in Libia, entro le 19, un plico segretissimo nelle mani dell‟ambasciatore italiano; ebbene non solo riuscì nell‟impresa, ma alle 18 e 30 era già di ritorno con il cedolino firmato, una foto autografata che lo ritraeva insieme a Gheddafi e una dote scritta da un 95 capo villaggio locale dove si accordavano sul matrimonio di una delle sue figlie. Non lo faceva certamente per i soldi, il corriere espresso non è quello che possiamo definire una miniera d‟oro, orari massacranti e alzatacce mattutine completano un quadro tutt‟altro che positivo e anche Gerlando rientrava in pieno in questa categoria, sempre di corsa, perennemente sudato e sporco con la divisa di ordinanza unta e spiegazzata. Lo faceva per passione, lo faceva perché in vita sua non era mai riuscito a stare fermo, sin da quand‟era bambino, e allora avanti e indietro pronto a scendere ad ogni consegna, quando era in ritardo riusciva a guidare con i piedi e a consegnare la merce al volo dal finestrino, senza scendere dal furgone e, se si trattava di materiale voluminoso, lo espelleva fuori facendolo paracadutare, morbido, nelle mani del magazziniere. C‟era solo una cosa che non sopportava e non aveva mai accettato: la possibilità di sbagliare una consegna. Una volta gli telefonarono da una farmacia di Trinitapoli, in provincia di Barletta, dicendogli che aveva consegnato per errore un pacchettino che era destinato ad una farmacia di Cantù; non fecero particolari pressioni, avrebbero rispedito il pacco alla sede centrale che avrebbe provveduto all‟esatta consegna, ma lui, morso dalla tarantola, prese un giorno di ferie e si fece 2000 chilometri in sei ore per scoprire che la merce non era stata recapitata da lui ma da Marino, che tutti chiamavano “Nino” perché faceva una consegna esatta e un casino. Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, arrivò una strana telefonata dalla direzione, lo volevano lì per le due del pomeriggio, lui che era puntuale e preciso provò ad obbiettare qualcosa: «Scusi ma non ho ancora ultimato tutte le consegne.» Una 96 voce maschile di ghiaccio bollente gli rispose: «Alle due nel mio ufficio, è un ordine!» Nessuno aveva mai dato ordini al grande Gerlando, che faceva parte del club dei “piccoli padroncini”, teneva molto a specificare la sua indipendenza lavorativa, e anche per questo motivo non vedeva l‟ora di guardare negli occhi questo stronzo incravattato e dirgliene quattro. La sede, come sempre, era piena di furgoncini brulicanti che erano in attesa di caricare per riprendere il prima possibile la strada; Gerlando parcheggiò di traverso, occupando quattro posti, scese e si diresse verso gli uffici, dove lo fecero passare subito, lo aspettava il Capo, ma non un capo qualunque, un capo con la “C” maiuscola, Ruberini in persona, titolare dell‟omonima “Ruberini Corriere Espresso”. Era la prima volta che aveva l‟onore di interloquire con lui, fino a quel momento ne aveva solo sentito “sparlare”, tutti lo definivano come un individuo dai foschi contorni, che si diceva avere fatto fortuna nel ramo dei trasporti con dei giri poco puliti. Come solo le persone importanti sanno fare, venne al dunque saltando inutili convenevoli: «Signor Gerlando, i miei collaboratori la indicano come il corriere più bravo dell‟intera nazione, vedo dalle stime che lei ha all‟attivo 745.000 consegne andate a buon fine ed una sola non eseguita.» Con un po‟ di spavalderia venne bloccato dal padroncino che volle discolparsi subito: «Non per sembrarle scortese, ma la consegna non eseguita riportata dalle statistiche, si riferisce ad una storia di sette anni fa: erano le 22 dell‟antivigilia di Natale, dovevo consegnare a una famiglia di Malè, in provincia di Trento, che abitava lungo un‟impervia stradina di montagna, un grosso abete, regalo di un facoltoso avvocato single di Torino per il quale la famiglia 97 aveva lavorato fino ad autunno inoltrato. Avevano rifiutato tutti, un po‟ per la pericolosità della missione, ma principalmente perché in quelle giornate di festa volevano rimanere a casa con i propri cari. Recatomi sul posto individuai la casa in cima a un piccolo rilievo ricoperto di neve e ghiaccio, non ce l‟avrei mai fatta con il furgone, decisi quindi di proseguire a piedi trascinandomi dietro il pesante fardello. Faceva un freddo cane e avevo perso completamente l‟uso del pollice di entrambe le mani, quando all‟improvviso, nella notte gelida illuminata solo dalle stelle, mi venne incontro compassionevole il padrone di casa in mutande e canottiera e mi disse: “Suvvia non avrà mica freddo, dia qui che ci penso io” e tirò l‟estremità del grosso albero con violenza, facendomi scivolare all‟indietro. Trascinai in un attimo tutti a valle, creando anche un piccolo smottamento nella parete rocciosa. Fummo costretti, in attesa dei soccorsi, a passare la notte nel mio furgone, io con in braccio un infreddolito signore semi nudo ed un albero agonizzante al capezzale. La mattina seguente arrivarono i soccorsi, liberarono velocemente l‟area, permettendo al signore di tornare nella sua abitazione a scaldarsi (ma soprattutto a vestirsi) e a me di riprendere il viaggio di ritorno, non prima però di avere seppellito il defunto arbusto nel vicino “cimitero dei giusti”. Per ragioni che non dipendevano da me fui costretto a scrivere sul cedolino “non consegnato”.» Ruberini glissò sulla vicenda e riportò il corriere in “carreggiata”, dicendogli: «Deve partire subito per Rimini e consegnare per mio conto questo pacco. Fra tre ore esatte dovrà trovarsi sul posto, una persona di fiducia l‟attenderà sotto l‟Arco d‟Augusto e a consegna avvenuta le verranno accreditati 5.000 euro sul suo conto corrente, domande?» «Solo una, 98 cosa contiene il pacco?» chiese l‟uomo a bruciapelo. Il magnate delle consegne gli rispose ghignando «Qualcosa di molto, molto importante che deve essere conservato come una reliquia.» Dieci minuti dopo, Gerlando era già sulla A14 direzione Rimini, conosceva bene la città perché aveva passato molte volte le vacanze estive nella patria del divertimento, ma questa volta era diverso, era lavoro. Avrebbe tanto voluto sapere cosa conteneva il pacco, Ruberini era stato molto vago sulla questione, ma non poteva certo aprirlo, anche perché lui non era come tanti suoi colleghi che trafugano tutte le consegne come profanatori di tombe in cerca di materiale rivendibile. Alcuni addirittura svolgevano una doppia attività, avendo allestito all‟interno del camioncino un piccolo stand come se fossero venditori ambulanti. E se il pacco conteneva una bomba e lui fosse stato usato per i loschi fini di Ruberini? E se invece conteneva droga? Oppure un microchip che avrebbe potuto sconvolgere gli equilibri mondiali? Perché Ruberini non aveva detto il contenuto della scatola? Qualcosa non lo faceva stare tranquillo. A Bologna era sudato fradicio e tormentato dall‟angoscia, mai prima d‟ora aveva avuto un impulso così forte ad aprire una consegna, pensò anche di portare tutto alla polizia, alleggerendo notevolmente la sua posizione, ma poi Ruberini, che sicuramente aveva anche agganci mafiosi, gliel‟avrebbe fatta pagare. A Faenza rielaborò tutta la vicenda dal principio, giurando a se stesso che non avrebbe mai più accettato una spedizione senza sapere che tipo di merce trasportasse, prendendo comunque una decisione definitiva, il pacco andava consegnato al destinatario! 99 Lasciò l‟autostrada a Rimini Sud, poi si diresse verso il centro della città. «No cazzo, la polizia» disse il povero Gerlando soffocando l‟urlo in gola. La “pula” gli intimò di accostare a destra e di fermarsi nello spazio consentito, l‟uomo titubò solo per un istante, dove pensò anche di scappare, poi come un gatto addomesticato obbedì, aspettando l‟arrivo del gendarme. «Patente e libretto» chiese gentilmente il poliziotto, l‟uomo ribaltò mezzo furgone, infine tirò fuori reperti estinti qualche decennio prima: un preservativo fluorescente vinto alla lotteria di una Festa dell‟unità del „77, una BigBabol ancora incartata dell‟83 (che si mise in tasca), un raccoglitore de “La grande numismatica” con la serie completa delle monete del Vaticano in lire e un crocifisso sprovvisto di Gesù, con la scritta “Torno subito”; poco dopo gli venne in mente che poteva averli messi nel vano porta oggetti. Li consegnò al poliziotto, che tornò alla macchina e comunicò gli estremi alla Centrale, l‟autenticità ne fu verificata in pochi secondi, questi si diresse nuovamente verso Gerlando e gli disse: «Ok, tutto a posto, può andare.» Lui salutò educatamente e, prima che potesse mettere in moto, venne nuovamente freddato a bruciapelo dal gendarme: «Ah scusi, cosa trasporta?» «Niente, ho appena finito le consegne» buttò lì Gerlando lasciando trasparire un po‟ d‟esitazione «È sicuro? Mi apra il furgone per favore» disse il poliziotto con una punta di sospetto; l‟uomo a malincuore obbedì, riportando alla luce del sole il pacchetto. «E quello da dove scappa fuori, mi faccia vedere subito la bolla di accompagnamento» attaccò il poliziotto, mentre Gerlando rispose che non l‟aveva con sé. All‟uomo in divisa non rimase altro 100 da fare che sequestrare la merce e fare la multa al corriere. Gerlando, che già si vedeva sciolto nell‟acido in un casolare sperduto nelle radure dell‟agrigentino, fece quello che l‟istinto gli dettò di fare: tolse il pacco dalle mani del poliziotto e, come un animale braccato, scappò. In men che non si dica aveva già ripreso la strada che dal Ponte di Tiberio conduce all‟antica porta della città. Un furgone rosso fiammante, con l‟effigie “Ruberini Corriere Espresso” a caratteri cubitali sul tendone, sfrecciava a tutta velocità nelle strette strade cittadine inseguito da tre pattuglie; con una mossa astuta svoltò in un vicoletto a senso unico facendo perdere le proprie tracce, attese qualche minuto per far calmare le acque, poi riprese il breve percorso che lo separava dall‟Arco d‟Augusto guardandosi bene intorno, perché di sicuro aveva alzato un bel polverone. Arrivò all‟appuntamento col destino in perfetto orario, ma non vide nessuno andargli incontro, così si guardò intorno con fare circospetto, quando si sentì toccare alle spalle. Saltò come un capretto in amore, riprese al volo il cuore che gli era sbalzato fuori dallo spavento, si girò e vide alle sue spalle una bella donna avvolta da un foulard, con un grosso paio di occhiali che le coprivano quasi interamente il volto; con voce suadente gli chiese: «Lei ha qualcosa per me, vero?» Mentre in lontananza cominciavano a sentirsi le sirene spiegate della polizia che avevano intercettato il furgone fuggiasco, Gerlando affidò il piccolo pacchetto nelle mani della donna e, prima di consegnarsi alla giustizia, disse alla dama misteriosa: «So che non sono affari miei, ma ora rischio parecchio, mi dia almeno delle spiegazioni.» «È sicuro di voler sapere tutto?» gli chiese la donna, «Sì, ma 101 deve fare in fretta, perché presto saranno qui» e si sedettero insieme sul ciglio della strada. «Ci innamorammo su internet, ma non dell‟amore che può intendere lei, di un amore molto più profondo, fatto di dettagli e di piccole grandi sorprese. La prima volta fu cinque anni fa, di solito si comincia da ragazzi, ma ebbi un‟infanzia poco felice, mio padre era molto rigido nell‟educazione e quelle cose non le concepiva, le considerava frivolezze inutili. Ricordo perfettamente quel momento, ero andata in edicola a prendere le mie solite riviste di gossip, quando vidi un bambino che mi precedeva allontanarsi con una splendida bustina dorata di “YU-GIOH” e la mia vita cambiò completamente. In breve completai decine di raccoglitori e, grazie all‟aiuto di internet cominciai la ricerca delle carte rare, è li che lo conobbi. Pasquale Ruberini rappresentava e rappresenta tuttora il mio “trovatore” più affidabile e questo piccolo pacchetto suggella tutto il suo talento.» Fece un respiro profondo e cominciò a scartare il pacchetto, l‟aprì con molta cautela, levò il bocciolare di protezione, aprì la bustina dal tipico profumo colloso e finalmente arrivò l‟estasi. «Questa è la rarità delle rarità, la carta olografica del “Drago bianco dagli occhi blu”, introvabile, ed è mia» disse la donna esultando come una bambina di sette anni, mentre lui era sconcertato, allibito e non riusciva a dire una parola. Aveva attraversato mezza Italia con la polizia alle calcagna per portare ad una pazza squilibrata una carta di un cartone animato per bambini. Quando gli misero le manette per portarlo via, la donna si era già dileguata. Il poliziotto gli chiese dove avesse nascosto la refurtiva e quale prezioso segreto contenesse, lui rispose rassegnato: «Un rarissimo diamante bianco dai riflessi blu.» 102 LO SCIOPERO Pezzo pregiato della democrazia, colonna portante delle conquiste effettuate dai nostri padri durante il leggendario ‟68, ridotto oramai ad una triste farsa per pochi intimi, Tommaso ci credeva ancora. Tommaso diceva che un buon sindacalista era quello che avrebbe riportato l‟operaio in piazza per partecipare e non per fare compere nei negozi, Tommaso era un comunista. Non che fosse di quelle persone fanatiche, con cui non potevi parlare, però ci teneva a fare sapere a tutti la sua appartenenza politica, lavorò come impiegato statale per quattro anni, poi ebbe la vocazione e diventò sindacalista. All‟inizio fu molto dura, per vari aspetti, in primo luogo doveva capire la metodologia del nuovo lavoro, era come un “profeta” dell‟industria, aveva a disposizione la conoscenza e la volontà, gli bastava trovare il “contatto” giusto con la gente, come un adescatore di anime nere, un impegno molto, molto importante ma non impossibile. Riuscì presto a trovare la sua strada e fare breccia nei cuori dei lavoratori, tanto da spingere i responsabili regionali del suo sindacato ad affidargli l‟organizzazione locale dello sciopero generale in programma per il sabato successivo. Aveva seguito tutto nei minimi dettagli e teneva in particolar modo al successo della manifestazione, non era mancato ad una sola riunione sindacale, studiando minuziosamente i monologhi, i discorsi più accattivanti e coinvolgenti, cercando di fare ca- 103 pire a ogni singolo operaio di ogni singola azienda l‟importanza dello sciopero e la necessità di esserci. Purtroppo non tutti avevano recepito, molti il sabato avevano la partita di calcio, la fidanzata incazzata da portare a passeggio o qualche altro problema. Ognuno aveva il suo luogo comune per pararsi il culo, come Mario che non era andato “perché tanto non cambia niente” o Stefano che diceva “non posso scioperare perché lavoro a stretto contatto col Padrone”, un altro “non posso perché sennò non arrivo alla fine del mese” o Tizio che era “di destra”, Caio che odiava la politica e ripeteva sempre “anche il sindacato è politicizzato quindi sto a casa” o Sempronio “è proprio l‟unico sabato che non posso” e poi c‟era Dino che non poteva “perché si doveva alzare prestino” e Pino che “se era più vicino, ma Roma…” e così tanti, tanti altri, legati ognuno dalle proprie difficoltà di facciata. Per fortuna non erano tutti come loro e la delegazione locale riuscì ad organizzare tre pullman per la capitale. Il ritrovo era al vecchio campo sportivo alle 2 del mattino, sembrava di essere in Antartide, sopra ad un‟enorme banchisa, un freddo tagliente e orizzontale aveva quasi tagliato il collo a Tommaso, che cercava disperatamente un igloo, mentre tutti i manifestanti cominciavano a slittare sui propri bus. La prima corriera era stata occupata dai nonnetti delle fabbriche, che avevano già cominciato a tracannare vino e mangiare pane e mortadella sulle note dell‟immortale Bella ciao; la seconda corriera aveva preso le sembianze di una biblioteca ambulante, pseudo intellettuali occhialuti si tormentavano sulle differenze, esistenti fino a qualche decennio fa, tra lo stato laico e il regime dittatoriale fortemente legato alle tradizioni del Vaticano, convenendo che oggi, in un totalitarismo-democratico 104 dove tutto è concesso per venir tolto subito dopo, le cose vadano decisamente meglio. Sul terzo bus salirono, in ordine di condanne: “Unno”, “il Demonio”, “Raglio”, “Stura”, “Crocchio”, “il Doge”, “la Femmina”, più un‟altra ventina di teppistelli impuniti, che insieme formavano gli “Irriducibili”, un gruppetto di “ultrà” da fabbrica politicizzati, che al grido di «Hasta la victoria siempre» avevano già lanciato dai finestrini tutti i sedili e il viaggio non era ancora cominciato. Tommaso decise, per tenerli sotto controllo, di salire sull‟ultimo pullman. «Fatti una paglia con noi» disse un bambinetto che non poteva avere più di quattordici anni al sindacalista, che si girò e lo vide con in mano un “cannone” da mezzo chilo, aspirare come un‟idrovora i suoi potenti solventi di piacere, per poi scoppiare in una risata chimica. «Scusa, per che cosa si sciopera?» gli chiese “il Demonio” e lui, un po‟ spiazzato dalla domanda, esaudì frettolosamente la curiosità del ragazzo che, rapito dalla conversazione, rispose «Ah, bello.» Poi fu la volta del colossale “Unno”, che alla prima esperienza come partecipante ad una manifestazione di piazza chiese se dovevano distruggere la città tutti insieme o se ognuno poteva sfasciare per conto suo. Ma nonostante l‟apparenza e le domande un po‟ eccentriche, Tommaso in poche ore era riuscito ad addomesticare quegli animali selvatici, facendoli diventare semplici gattoni annoiati che facevano domande ingenue, figlie del loro vivere metropolitano. Piazza del Popolo era già stracolma di lavoratori in festa, bandiere e vessilli sventolavano fieri nel cielo limpido di Roma, mentre il gruppo di Tommaso si mischiava alla folla come gocce nel mare. I rispettivi segretari nazionali affilavano la lingua e le idee prima di entrare in azione, la vista dall‟alto era da 105 mozzare il fiato, un‟onda lunga camminava fiera verso una spiaggia di sabbia bianchissima per rovesciare tutta la sua potenza ribaltando ogni cosa; purtroppo non sempre le onde riescono a giungere a riva, spesso vengono ingoiate dal mare. I giornali e le televisioni avevano dato grosso risalto alla manifestazione, mandando sul posto decine di addetti ai lavori che non poterono far altro che constatare il successo dell‟evento, stimando in circa un milione e mezzo i partecipanti, secondo la polizia sì e no mezzo milione. Ma il balletto delle cifre non era finito, infatti per il sindacato erano più di tre milioni i lavoratori accorsi allo sciopero, con punte del cento per cento nelle fabbriche, mentre per Confindustria era un vero fiasco, contando in tutto 35 manifestanti tra cui 15 sindacalisti, 4 pensionati in gita con le mogli e un turista polacco disperso e concludendo che i servizi televisivi, voluti dal regime comunista, erano tratti da immagini di repertorio. A turno presero la parola tutti i segretari nazionali, che in perfetto “sindacalese” (anticamera del “politichese”) affrontarono i temi più importanti, senza fare capire nulla a nessuno, parole difficili, troppo complicate per gente semplice. Poi il ritorno, di nuovo chilometri, autostrada e macchine; Tommaso era contento della buona riuscita dello sciopero, era andato tutto come aveva sperato, ma nonostante questo sentiva sfuggirgli qualcosa, capiva che non tutto gli era stato svelato e la conferma giunse poco dopo dal fondo del bus. “Unno” disse al sindacalista: «Cazzo però, ho fatto dodici ore di pullman, ho perso la giornata di lavoro e non ho capito niente dei discorsi di quei signorotti sul palco, ma a loro cosa importa, con i soldi che prendono. La prossima volta sto a casa mia, tanto anche se manco io 106 non cambia niente.» Tutti i passeggeri del pullman concordavano con questa analisi. La doppietta di luoghi comuni e l‟approvazione a quelle parole di rassegnazione, avevano spento un po‟ l‟entusiasmo di Tommaso, ma gli fecero finalmente capire di essersi sempre sbagliato e che un buon sindacalista non è quello che porta la gente in piazza, ma quello che spiega le cose nel modo più semplice possibile, magari davanti a una tazza di caffè in centro, durante un‟assemblea sindacale, in pizzeria o al mare, insomma un vero e proprio apostolo sindacale che sappia condurre le masse alla comprensione. Tommaso finalmente capiva le persone, perché aveva imparato a parlare alle persone. 107 L’ULTIMA CENA Recapitai personalmente gli inviti nei rispettivi armadietti, volendo fare le cose in grande scrissi le epistole una ad una, usando la famosa penna d‟oca dell‟amanuense per far capire l‟importanza della cena. Io, Mauro Cicconetti, da dodici anni schiavo come Ulisse delle “Sirene Aziendali”, che mi tenevano prigioniero in quel mare denso e melmoso, impenetrabile e impercorribile, come un soldatino di piombo condannato al suo piedistallo. Dodici anni di aspettative, di speranze, di piccoli e inesorabili cambiamenti, che avevano portato la mia condizione lavorativa a uno stato di apparente tranquillità, fino a sfiorare il soglio impiegatizio senza mai riuscire a raggiungerlo in pieno, dividendo la mia giornata in azienda tra l‟inferno del magazzino e il paradiso dell‟ufficio, facendo deragliare la mia posizione fuori dai binari della normalità, creando solo per me una degenerazione atipica e crudele, esclusa da ogni categoria fin qui presentata, quella dell‟operimpiegato di fabbrica, un ibrido mal riuscito, metà operaio e metà impiegato, probabilmente in procinto di essere eliminato, perché catalogato come “non sicuro”. Queste furono le premesse che mi portarono alla decisione finale di invitare tutti i miei degeneramici, le uniche persone che negli anni si erano sempre dimostrate (ognuna a modo suo) leali e sincere con me, ad una cena indimenticabile a casa mia, per festeggiare qualcosa di molto, molto bello. 108 Scrissi di proposito agli invitati di non farmi sapere se avrebbero partecipato o meno, sapendo di provocare in loro un senso di istintivo disagio e una curiosità difficilmente controllabili, condannando tutti ad essere presenti. Confesso che ero molto emozionato, mi ero persino preso mezza giornata di permesso per preparare al meglio ogni singolo particolare, la mia era una compagnia esigente e se qualcosa non andava me lo avrebbe fatto notare subito, quindi preparai la tavola seguendo le manie di ognuno, stando attento anche alle più piccole sfumature. L‟assegnazione dei posti fu difficile, ma riuscii a incastrare il puzzle nel modo migliore. Il primo ad arrivare fu naturalmente Silvestri, il nostro Responsabile, appena tornato da una vacanza forzata in azienda. Prese subito il comando delle operazioni e si posizionò come capotavola a nord dell‟ingresso, dicendo di non aver capito quella pagliacciata, ma di aver accettato perché gli era stato imposto dalla Direzione di controllare la strana iniziativa e perché era la prima volta in tanti anni che qualcuno lo coinvolgeva in una iniziativa extra fabbrica. Da buon gerarca nazista idiota, ordinò da bere del vino rosso, per poi ribaltarsene metà sulla camicia. Spadino disse di esser stato trascinato lì con l‟inganno, sul biglietto d‟invito c‟era scritto che era una festa a tema sullo sport. Lui odiava lo sport, ma gli avevo scritto che una splendida biondona si sarebbe vestita da tennista e che di sicuro avrebbe gradito giocare in doppio con lui, stuzzicando così l‟appetito del donnaiolo. Con Gaetano usai lo stesso sistema che si usava in fabbrica, pochi minuti prima dell‟appuntamento gli mandai un SMS indicandogli il posto assegnato e specificando che all‟ingresso sarebbe stato munito 109 di un kit contro gli attacchi logorroici, per evitare inutili spargimenti di parole; infine si ritrovò seduto al fianco del donnaiolo, legato alla sedia e con una museruola allacciata alla nuca simile a quella di Annibal Lecter. Servii a tutti delle ottime fave con un buon bicchiere di Chianti, ma Gaetano sembrò non gradire. Il Sapientino naturalmente aveva capito tutto, sapeva perfettamente perché quella sera si trovavano tutti lì e lo pregai di non dirlo a nessuno per non rovinarmi la sorpresa. Con molto dolore acconsentì, andava matto per gli indovinelli ed esporre le soluzioni alla sua gente era il suo passatempo preferito. Quindi, da vero egoista, lo interpellai sul mio futuro, chiedendogli esplicitamente come sarebbero andati i miei sogni e le mie aspirazioni, ma lui non rispose, disse solo «In molti lo fanno, in pochi riescono.» Credo sia stato un modo elegante per dirmi che non sarebbe andata tanto bene. Si sedette come capotavola a sud dell‟ingresso, lievitando in meditazione. «Ciao Dragone, finalmente ti sei deciso, ho portato solo le cose essenziali per trascorrere la nostra prima notte insieme, le mie unghie finte e l‟impermeabile color cammello albino.» L‟ingresso della Calla me l‟ero immaginato così, poi mi sarebbe corsa incontro, palpandomi il sedere in un abbraccio caliente. Avrei tanto voluto averla vicina, magari non così vicina, la sciagura aerea che l‟aveva colpita aveva tolto a lei la vita e a noi una straordinaria compagna d‟avventura; ci toccammo il sedere a vicenda in memoria di lei, convinti che avrebbe gradito l‟omaggio. Qualche giorno fa, mentre prendevo un caffè in un bar del centro chiacchierando con un simpatico barista, vidi per caso un quotidiano aperto sulla pagi110 na delle curiosità e mi balzò davanti agli occhi un trafiletto a fondo pagina: “Va all‟algerino Hamza Machot il premio „precario d‟oro 2009‟, avendo contribuito in maniera concreta e decisiva alla crescita e all‟immagine della categoria. Domani sera, in occasione dei „World prize of all the precarious workers‟ a Boston, ritirerà il premio e la nomina ad ambasciatore dei „senza fisso lavoro‟ nel mondo.” Telefonai alla redazione del giornale per avere il recapito, feci qualche telefonata, e riuscii a mettermi in contatto con il mio famoso ex collega. Lo stanai in un paesino a nord di Belfast, in una miniera a 200 metri di profondità, era in pausa e stava sgranocchiando pane e catrame; gli esposi rapidamente la situazione e gli dissi che sarei stato contento di averlo al mio fianco, mi rispose che sarebbe passato prima di partire per Boston. Puntuale e preciso come sempre, aveva appena suonato al campanello, con valigia di cartone al seguito. Erminio era tornato quello di un tempo, tutto casa e sesso, prima di suonare alla porta cercò di avere un rapporto completo con la serratura del mio vicino, ma gli andò male perché fece scattare l‟allarme. L‟uomo, mortificato, entrò in casa e si sedette, dopo pochi minuti di quiete chiese di andare in bagno, da dove poco dopo cominciarono ad avvertirsi strani latrati, per senso del pudore non commentammo l‟episodio. Gargiulo entrò di corsa senza salutare nessuno, si guardò intorno smanioso, in cerca di qualcuno o qualcosa, finalmente lo trovò, il Responsabile era a capotavola e gli saltò al collo per fargli le feste, poi si calmò, scodinzolò contento e si accucciò ai suoi piedi. Tentammo in tutti i modi di staccarglielo di dosso, gli diedi un osso gigante di bufalo che a lui piaceva tanto, ma l‟animale non si mosse, allora 111 presi un bastone e lo tirai lontano, ma non lo guardò nemmeno, decidemmo insieme di addormentarlo con il vecchio trucco della polpetta avvelenata e finalmente capitolò; per evitare nuovi spiacevoli inconvenienti lo adagiammo fuori dalla porta, legandolo ben stretto al cancello di casa. Doveva scontare cinque ergastoli più un supplemento di centotrentaquattro anni di manicomio criminale, provai in tutti i modi a fargli avere almeno un permesso di qualche ora, ma fu impossibile, tentai con la carta della video conferenza dal carcere, ma non ottenni risposta, Sabatino aveva proprio combinato un bel casino. Dopo la strage in fabbrica fu rinchiuso in una cella di isolamento lontano da tutti e da tutto, per sentirlo vicino misi una sua fotografia e una miniatura del fucile della strage dove avrebbe dovuto sedersi. Lo avevamo sentito arrivare in fondo alla via, lo avevamo sentito scendere dalla macchina e lo avevamo sentito avvicinarsi alla porta, ma lui suonò lo stesso. Era il problema più grosso della serata, non sapevo come comportarmi, ma soprattutto non sapevo cosa fare di lui, ci tenevo tanto che fosse dei nostri, ma allo stesso tempo non volevo rischiare che rovinasse la serata agli altri ospiti; avrete sicuramente capito che era appena arrivato il Lavasecco in persona. Fu come al solito il Sapientino a risolvere la situazione, con poche mosse mirate, limitandosi ad invertire il suo posto con quello della puzzola, aprire leggermente la finestra alle sue spalle e fonare aria tiepida e continua contro il Lavasecco per liberarlo almeno provvisoriamente dalle sue terribili esalazioni. Non fu un caso se arrivò per ultimo, a lui ero e sono tuttora legato da un‟amicizia profonda e indissolubile, a lui devo la forza e il coraggio che mi per112 mettono, oggi, di essere qui a scrivere per voi. Il vagabondo si mise per forza di cose nell‟ultimo posto rimasto libero, accettò la cosa di buon grado, non aveva mai badato alla forma, il suo profondo senso di non appartenenza lo faceva stare a suo agio in qualsiasi situazione. Quando entrò l‟intera tavolata gli tributò un applauso spontaneo in ricordo delle sue gesta, era davvero una bella persona, a cui potevi chiedere davvero tutto, eccetto di lavorare. Erano arrivati tutti, andando contro le mie più rosee aspettative, decisi quindi, da perfetto padrone di casa, di dare inizio alla cena, non senza prima brindare ai miei amici più veri e fidati. Alzai il calice al cielo, invitandoli a fare altrettanto, presi la parola e dissi: «Grazie di cuore per aver accettato il mio invito, ora vi chiederete il perché di questa cena, ovviamente per condividere qualcosa di bello con le persone che più mi somigliano, pertanto vi chiedo ancora qualche minuto di pazienza, perché a breve l‟arcano mistero verrà svelato e la curiosità placata. Intanto prendete e mangiatene tutti, questo è l‟agnello che offro in sacrificio per voi, allo stesso modo potete prendere il vino e dissetare le vostre aride gole.» Mi presero in parola e spazzolarono tutto, Silvestri fece i complimenti alla moglie, gli dissi che non c‟era una moglie, allora fece i complimenti alla mamma, gli dissi che non c‟era una mamma, allora fece i complimenti allo chef, gli confessai che avevo fatto tutto da solo e rimase a bocca aperta per cinque minuti, poi sentimmo puzza di bruciato provenire dalla sua testa, un piccolo neurone gli spuntava dall‟orecchio e ci chiese disperatamente asilo politico. Sprofondammo negli abissi dei ricordi, ad una cena tra operai si finisce sempre per parlare del passato, 113 anzi, si parla solo di quello, ogni riferimento a fatti e persone, ogni discorso, ogni emozione sono legati alla fabbrica da un embrione malato e in continua espansione, storie che si intrecciano, personaggi che riaffiorano, sono come l‟eroina per un drogato o la linfa per le piante, ci servono, ci nutrono. Dopo cena ci spostammo nel salone, il Sapientino accese il camino con due stuzzicadenti e una manciata di ghiaia, poi ci mettemmo tutti intorno a lui come bambini in attesa di una storia di paura, e cominciò a raccontare aneddoti inediti, che risalivano ai tempi in cui ricevette le “tavole del sapere” dalle mani del padrone, che in cambio del prezioso dono lo condannò ad una vita di relegata sapienza da scontare nelle sue fabbriche. Gaetano ci voleva raccontare la sua storia lavorativa dagli inizi ad oggi, gli rimettemmo la museruola e gli legammo nuovamente le mani ben strette alla sedia; la puzzola, che per sicurezza avevamo posizionato fuori della porta, ci urlava di quella volta che tentarono di curarlo con un rimedio ormonale, il giorno dopo in fabbrica perdeva tutto il pelo e puzzava come un campo appena concimato. Passammo tutta la notte a raccontare spaccati di fabbrica, alcuni veri, altri concepiti da un groviglio di instabile follia, ma tutti utili a tenere vivo per sempre il ricordo del lavoro più straordinario del mondo, quello dell‟operaio. Richiamai l‟attenzione, chiesi gentilmente di tornare in sala da pranzo e di riaccomodarci a tavola. Ognuno trovò un pacchetto, che chiesi di non aprire finché non avessi finito di parlare, bevvi un sorso d‟acqua e ripresi prontamente il filo del discorso: «Amici cari, sono giorni che penso a questo momento, alle parole da usare, se mi sarei commosso, e soprattutto se avreste capito la sofferenza che 114 provo in un momento così bello della mia vita. Ho passato anni tremendamente felici alla fabbrica, ho conosciuto le stravaganze della natura e la cattiveria della gente, ho lavorato nella polvere e al freddo, ho imparato ad amare i diversi e a perdonare con i loro occhi. Ho sempre pensato che nessuno, una volta varcata la soglia, potesse scrollarsi di dosso il crudele piacere della pausa caffè, il rimbrotto di un superiore o il sapore sempre uguale della mensa, ebbene io, Mauro, per dodici anni operimpiegato alla fabbrica posso dire con sfrontata timidezza di avere chiuso per sempre dietro di me le porte del grande cancello, avendo appena legato il mio nome a quello di una grossa casa editrice, che crede fortemente nel libro che ho appena terminato, proponendomi un contratto da vero scrittore. Gli omaggi che avete di fronte a voi non sono altro che le copie inedite della mia opera, sarà per me motivo di orgoglio avervi come miei primi lettori, nella speranza che vi piaccia, che ritroviate nei personaggi almeno un po‟ delle vostre straordinarie virtù e di essere riuscito a descrivere tutte le fantastiche “creature operaie” che popolano l‟universo della fabbrica.» Infine presi il camice blu dell‟operaio, vi misi sopra il mio badge e gli ultimi tre buoni pasto che mi erano rimasti, lo appallottolai e lo gettai nel fuoco, chiamai a raccolta tutti i miei degeneramici, ci saldammo in un unico, ultimo abbraccio e, mentre le fiamme del camino portavano via il mio passato, giurammo che quella sarebbe stata la nostra ultima cena insieme. 115 INDICE 9 PROLOGO 13 LOTTERIA DEL PRECARIO (L‟INTERINALE) 19 IL BALLO IN MASCHERA (IL DONNAIOLO) 26 L‟INSAZIABILE (IL PLURIGENITORE) 33 CANTICO DELL‟AMATO SIGNORE (IL PADRONE) 34 LA CALLA (IL GAY) 39 AMICO (IL VAGABONDO) 47 LA SACRA SINDONE (LA PUZZOLA) 53 L‟ABBANDONO (IL LECCHINO) 58 “MITRAGLIA” (IL CHIACCHIERONE) 62 LA SFIDA (IL SAPIENTINO) 70 UNA STRAGE ANNUNCIATA (IL MATTO) 74 NATALE IN VETRINA (IL RESPONSABILE) 78 NON SOLO OPERAI 79 LA MENSA 82 IL BUONO PASTO 83 L‟ASSEMBLEA SINDACALE 86 IL MICROCOSMO 87 MICROCOSMO TECNOLOGICO CONDIVISO 89 MICROCOSMO TECONOLGICO “BANDITO” 91 IL VIAGGIO 95 IL CORRIERE ESPRESSO 103 LO SCIOPERO 108 L‟ULTIMA CENA Stampato in Italia nel febbraio 2011 per conto di LibertàEdizioni