Inferno • Canto XV La lettura di Umberto Bosco
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Inferno • Canto XV La lettura di Umberto Bosco
1 Inferno • Canto XV La lettura di Umberto Bosco L a rievocazione affettuosa e riconoscente che Dante fa di Brunetto Latini, che egli considera un maestro, occupa quasi per intero il canto XV: basterebbe questa non consueta estensione dell’episodio a dirci l’importanza affettivo-poetica che il poeta annetteva a esso. Una rievocazione, peraltro, che sbocca nel ricordo dell’ingratitudine dei suoi concittadini e dell’esilio e nella riaffermazione in toni sdegnosi della propria dignità e incrollabilità morale. E dunque i toni della riconoscenza e quelli dell’amarezza e dello sdegno s’integrano reciprocamente, incentrandosi nella figura di Brunetto. Un maestro al quale Dante deve molto, oggetto per lui di ammirazione e reverenza non solo d’origine intellettuale, ma anche sentimentale e morale; ma un maestro che ora il poeta scopre colpevole d’un turpe vizio. Si badi che della sodomia di Brunetto non abbiamo altra notizia se non in questo canto; e dunque il poeta, nell’atto stesso in cui ne tramanda e raccomanda la figura ai posteri e immagina che il maestro stesso lo preghi di farlo, ne denunzia impietoso il vizio occulto. Tanto impietoso, da sdegnare persino il facile compromesso dell’ipotesi d’un pentimento in extremis, che lo avrebbe autorizzato a collocare la figura nell’Antipurgatorio, il cui tono generale sarebbe stato a essa più consono. Evidentemente il poeta voleva appunto stabilire questo contrasto, tra dignità e vizio da una parte, tra gratitudine e pietà e riconoscimento della giustizia divina dall’altra. I commentatori registrano per lo più il contrasto spiegandolo semplicemente con la ferma e coraggiosa imparzialità del poeta, altri tentano di tagliarlo alle radici e negano o la sodomia di Brunetto, o, come fanno alcuni più recenti, la riverenza e la pietà di Dante, il quale sarebbe dominato unicamente dal suo senso di religiosa giustizia. Operazioni l’una e l’altra impossibili, a chi non voglia forzare il testo in servigio d’un’inutile tesi: giacché la ragion poetica che Dante perseguiva, qui come altrove, era appunto nel contrasto tra l’austerità morale di Brunetto e la miseria del suo peccato, tra la debolezza di cui questo è conseguenza e la fortezza d’animo da lui dimostrata in vita, e specialmente nell’esilio che anche lui, come poi Dante, aveva sofferto per ragioni di parte; fortezza che impronta di sé il discorso al suo discepolo e la replica di questo, tonalmente concorde. Tutta una nobile vita non basta a cancellare, per la giustizia di Dio che Dante fa pienamente sua, anche una sola macchia: ma la macchia non può oscurare la nobiltà terrena, per il resto, d’un’intera vita: una nobiltà che dev’essere riconosciuta e celebrata, specialmente se tale debito, come nel caso di Brunetto, è anche debito di gratitudine personale. La tendenza, che abbiamo già notata, di parte della critica a eliminare ogni tono sentimentale e personale dell’opera di Dante per insistere sulle sue posizioni di teologia morale, non si vede quanto sia giustificata: riconoscere giusta una punizione e riprovevole il vizio cui essa si riferisce non importa necessariamente, lo abbiamo già detto, che si debba ignorare il fatto che il vizio è frutto di debolezza umana, e averne comprensione e pietà: soprattutto quando, come per Brunetto, la debolezza della carne si accompagna, senza incrinarla, alla fortezza dello spirito e ad alte virtù civili. Anche nel canto seguente la sodomia di cui i tre grandi Fiorentini si erano in vita macchiati e per la quale sono giustamente puniti non annulla in Dante personaggio l’ammirazione e la gratitudine per le loro benemerenze civili: il poeta fa che Virgilio stesso, simbolo della ragione, non solo giustifichi questi sentimenti di Dante, ma lo inciti a dimostrare loro la reverenza che egli nutre, deve nutrire, continua a nutrire nonostante il pecca- Inferno • Canto XV / La lettura di Umberto Bosco to. Anch’essi, come Brunetto, temono invece che la miseria del luogo infernale in cui si trovano e il senso della giustizia della loro punizione possa indurre Dante «in dispetto», a disprezzarli: il poeta risponde esplicitamente (If XVI 52-53): «Non dispetto, ma doglia / la vostra condizion dentro mi fisse». E si noti che il poeta, in coerenza con l’ammirazione, attribuisce sia a Brunetto sia ai tre Fiorentini un’umile e insieme dignitosa accettazione della punizione: il che li pone in contrasto con la grande maggioranza dei dannati, e soprattutto con la superbia non magnanima del contiguo Capaneo (If XIV). Occorre, d’altra parte, esattamente definire la natura dell’insegnamento di Brunetto, senza di che non si coglie la coerenza del disegno di tutto l’episodio. Se questo insegnamento fosse stato d’arte, questa avrebbe dovuto do- Attribuito a Giotto di Bondone, Brunetto Latini (al centro) e Dante Alighieri, particolare di affresco, inizi XIV secolo. Firenze, Cappella del Bargello. 2 minare il colloquio tra maestro e discepolo, che invece verte tutto su politica e moralità; più precisamente, su moralità e suoi effetti politici. D’altra parte, non si vede come Dante potesse considerar Brunetto maestro in letteratura, dal momento che nel De vulgari eloquentia (I xiii 1) lo poneva, insieme al suo perenne bersaglio, Guittone, tra i poeti lontani da quell’ideale «curiale» di poesia che egli in quel trattato vagheggia. Senza dire che Brunetto, che aveva scritto il suo Tresor in lingua d’oïl, non poteva esser ritenuto maestro letterario da chi aveva dedicato uno «speziale capitolo» del Convivio (I xi) «A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano». Infine, Brunetto dice che se non fosse morto troppo presto, avrebbe aiutato l’«opera» di Dante (vv. 58-60). Ora: il maestro morì nel 1294, e certo non era giovane: la morte è dunque intempestiva non in sé, ma rispetto a Dante. Ma questi nel 1294 aveva 29 anni e quindi aveva avuto tutto il tempo di assorbire gli ammaestramenti di Brunetto e di chiunque altro; della sua valentia letteraria aveva dato già splendide prove, in liriche e nella Vita Nuova. L’opera per la quale mancò l’aiuto di Brunetto doveva invece, nel 1294, essere agli inizi o non ancora cominciata: e l’azione politica cominciò proprio l’anno successivo, nel 1295. Cioè, Brunetto si rammarica dunque di non aver potuto, coi suoi insegnamenti politico-morali, giovare al discepolo durante la sua vita politica, e forse in particolare nelle dolorose vicende che ebbero il loro epilogo nell’esilio. Ciò naturalmente non esclude che tali insegnamenti giungessero al giovane attraverso le vie della letteratura e della retorica, la quale ultima nel Duecento comportava sempre, come osserva il Contini, «implicazioni civili». Due terzi del Tresor contenevano generalità filosofiche o teologiche, elementari notizie di storia sacra e profana, ingenue informazioni scientifiche, spiccioli consigli sull’arte di parlare in pubblico e sul modo come deve comportarsi un podestà. Tutto ciò non poteva interessare Dante; molto lo inte- Inferno • Canto XV / La lettura di Umberto Bosco ressava, invece, l’altro terzo dell’opera, che conteneva insegnamenti morali. Inoltre, le espressioni di sdegno per l’ingratitudine, le note d’intransigenza morale cui esso giunge, trovano antecedenti precisi nei testi di Brunetto. A Dante, Brunetto fu dunque modello di dignità morale specialmente nell’esilio sofferto da ambedue. Non per nulla l’esilio è tanta parte di questo episodio brunettiano. La coordinazione logica del discorso di Brunetto, cioè del poeta, importa dunque che dalla rievocazione affettuosa d’un tempo passato, in cui egli poteva concepire sul giovane amico e discepolo liete speranze (vv. 55-57), egli passi al rammarico di non essergli stato vicino quando mise in atto i suoi ammaestramenti (vv. 58-60), e immediatamente dopo all’indignata profezia (vv. 61-78) che i suoi consigli avrebbero dato a Dante frutti d’ingratitudine ben diversi dagli sperati. I Fiorentini, condannando il discepolo, avevano condannato il suo stesso insegnamento, i princìpi morali su cui questo si basava. I loro concittadini, dice Brunetto riprendendo la sentenza di Ciacco (If VI 74-75), sono gente «avara invidiosa e superba»: il discepolo deve guardarsi dai loro costumi. Un insegnamento, dunque, essenzialmente di moralità e di fermezza, che la risposta di Dante conferma: qualunque cosa accada, egli resterà fermo: La rectorica insegna a bene parlare, miniatura del Tesoro di Brunetto Latini, fol. 72, XIII-XIV sec, Biblioteca Medicea-Laurenziana, Plut. 42-19. «pur che mia coscïenza non mi garra, / … a la Fortuna, come vuol, son presto. / Non è nuova a li orecchi miei tal arra: / però giri Fortuna la sua rota / come le piace…». È stato detto che il Latini è un personaggio da Purgatorio. In questa figura si esprime infatti quel ritornare della nostalgia di Dante esule agli anni della sua giovinezza, che si svilupperà in tanti e tra loro coerenti episodi del Purgatorio, sì da costituire uno dei toni affettivi predominanti della cantica. E questi anni significano in primo luogo Firenze, insostituibile bene perduto, i maestri di vita e di poesia, gli amici, l’affacciarsi di Dante alla vita politica: un affacciarsi, allora, pieno di speranze, giacché la moralità sembrava unica via di azione e garanzia di successo. Speranze fallaci: sicché la nostalgia, che nel canto XVI sarà esplicitamente registrata (vv. 67-69: «cortesia e valor dì se dimora / ne la nostra città sì come suole, / o se del tutto se n’è gita fora»), sbocca naturalmente nello sdegno per l’ingratitudine e nella riconfermata esigenza di restar fedele, costi quel che costi, a sé stesso e al proprio compito civile. Una coordinazione d’idee e di sentimenti del tutto simile a quella dell’episodio di Brunetto si avrà nel Paradiso, nel più complesso episodio dell’incontro di Dante col suo avo Cacciaguida (XV-XVII). Esaurita col v. 99 la parte essenziale del suo colloquio con Dante, Brunetto, come Farinata e altri grandi personaggi (vedi La lettura di Umberto Bosco al canto X), resta ancora un po’ sulla scena per dirci chi siano i componenti della schiera di sodomiti di cui egli fa parte: e che furono tutti «cherci / e litterati grandi e di gran fama». Ne presenta rapidamente tre, uno dei quali, un vescovo, con sferzante disprezzo; quindi, all’avvicinarsi d’una nuova schiera nella quale gli è vietato mescolarsi, il vecchio maestro si stacca di corsa dal discepolo non senza avergli raccomandato il suo Tesoro, nel quale, egli dice, «io vivo ancora». Lo scopo del poeta è appunto questo, di tramandare alla posterità la figura e l’opera di Brunetto; e infatti, senza questo canto, esse sarebbero oggi certamente patrimonio di pochi eruditi. 3