Il reporter del mare I favolosi viaggi di Rino Sgorbani
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Il reporter del mare I favolosi viaggi di Rino Sgorbani
54 Reportage LIBERTÀ Domenica 7 marzo 2010 L’immersione durò circa trenta minuti, quasi al limite della sopportazione Il reporter del mare I favolosi viaggi di Rino Sgorbani Un’esperienza al limite della sopportazione umana per Rino Sgorbani e per i suoi compagni,ma quanta soddisfazione Con la muta da sub Tra neve e ghiaccio “ Rino Sgorbani,nativo di Castelnuovo Fogliani di Alseno, ma da anni residente a Fiorenzuola,inizia ad andare sott’acqua negli anni settanta.Nel 1977 frequenta il corso sommozzatori Fips,nel 1981 frequenta il corso istruttori Fips a Nervi.Nel 1982 diventa Istruttore CMAS.Per dieci anni svolge l’attività di istruttore nella Scuola d’Immersione Piacenza; agli inizi degli anni novanta diventa istruttore PADI,arrivando al conseguimento di ben 11 Specialità.Verso la fine degli anni ottanta abbandona la pesca subacquea per dedicarsi completamente alla fotografia subacquea e poi alla videografia. Ha documentato i mari di Corsica, Mar rosso,Maldive,Malesia, Filippine,Indonesia,Thailandia, Papua nuova Guinea,Australia, Tasmania,Coco Island,Malpelo, Sud Africa,Bassa California, Carabi,Polinesia e nei Cenotes dello Yucatan in Messico. di RINO SGORBANI ultima volta che mi sono recato a Cavalaire, sulla Costa Azzurra in Francia, mi sono immerso con due amici svizzeri, Andrè e Yvan. Vado spesso a Cavalaire perché c’è un mare stupendo con relitti fantastici e pareti mozzafiato, e proprio su una di queste pareti verticali ricche di gorgonie e corallo ad oltre 100 metri di profondità che ho fatto l’immersione, nella metà di ottobre del 2008, insieme agli amici svizzeri. Dopo l’immersione a cena si parlò soprattutto dei particolari di quella nostra avventura, di quel tuffo nel blu profondo, delle cose che avevamo visto e che ci avevano entusiasmato, sicuramente le immersioni profonde regalano sempre grandi emozioni. E così mentre parlavamo André mi disse: «Vuoi provare un’avventura veramente estre- L’ ◗◗ André mi disse: «Vuoi provare un’avventura veramente estrema? Vuoi partecipare ad una spedizione di immersioni sotto i ghiacci? ». Gli risposi subito che la cosa mi interessava ma volevo conoscere tutti i particolari della spedizione ◗◗ I fori nel ghiaccio dovevano essere tre e posizionati a triangolo ad una distanza di circa quaranta metri da uno all’altro e con una apertura di circa un metro e mezzo, tre fori per avere una alternativa nel caso uno si fosse chiuso ◗◗ Appena misi la testa sott’acqua mi sentii come paralizzato dal freddo nei muscoli facciali, cercai di non pensarci e di godermi il panorama suggestivo che mi circondava ma? Vuoi partecipare ad una spedizione di immersioni sotto i ghiacci? ». Gli risposi subito che la cosa mi interessava ma volevo conoscere tutti i particolari della spedizione, per sapere se ero all’altezza sia fisicamente che tecnicamente come attrezzature. Si trattava di fare delle immersioni sotto i ghiacci nel Lago di Lioson nelle Prealpi svizzere ai piedi del Pic Chaussy, a circa duemila metri di altitudine, con partenza dal piccolo villaggio di Les Mosses. Data della spedizione verso la metà di febbraio. Non saremmo stati in alta montagna, ma sicuramente dovevamo essere tecnicamente equipaggiati per affrontare una camminata dal Col des Mosses fino alla baita vicino al Lago, attraverso un sentiero con oltre un metro di neve, e dove spesso la temperatura di notte scende a – 20. Le nostre ingombranti attrezzature subacquee le avrebbe portate su il “gatto delle nevi” seguendo una vecchia pista da sci: le attrezzature dovevano essere adatte ad immergerci in un acqua freddissima vicina agli zero gradi. Senza pensarci molto e con il mio solito spirito di avventura gli risposi: «Sì, voglio partecipare a questa spedizione e provare il brivido di un’immersione per certi versi no-limits». Di buon’ora caricai sul mio pickup tutta l’attrezzatura, rebreather inspiration, bombola di bailout, bombolino di argon, muta stagna, guanti stagni, sottomuta felpato, doppio cappuccio, ecc. poi tutta l’attrezzatura fotografica, faro, batteria, flash, macchina fotografica scafandrata, e tutto quello che serve per affrontare il freddo della montagna. Ad Alessandria avevo appuntamento con l’amico Aldo Ferrucci, che arrivava da Genova, anche lui aveva aderito alla spedizione. Per chi non lo conosces- se Aldo è un grande della subacquea internazionale, Regional Maneger TDI-SDI Italy, Instructor Trainer, Advanced Trimix OC/CCR. Arrivato all’appuntamento caricammo tutto l’equipaggiamento di Aldo, che non era poco, il pickup era stracarico ed abbiamo dovuto mettere un po’ di materiale all’interno sui sedili posteriori. Caricato tutto siamo partiti per la Svizzera, decidendo di passare per la Francia attraverso il Fréjus. Questa deviazione decisa all’ultimo momento fu dovuta dal fatto che dovevamo fermarci dall’amico Philipe per recuperare parte del materiale che ci sarebbe servito per la spedizione. Nel tardo pomeriggio arrivammo a Bourget dove c’era Philipe ad attenderci. Ci concedemmo un attimo di relax ed accettammo l’invito a cena a casa sua, dove la moglie ci aveva cucinato un’ottima tartiflette. Ripreso il viaggio dopo circa un’ora ci fermammo per la notte in un albergo ad Evian le Bain vicino al lago di Ginevra. Al mattino presto abbiamo ripreso la strada per Les Mosses, a poco più di un’ora da Evian. Appena attraversato il confine franco-svizzero la strada cominciava a salire ed il panorama era bianco di neve, e la neve aumentava sempre di più, tanto che ai bordi della strada arrivava oltre al metro. Raggiungemmo il villaggio Les Mosses, che si trova fra Bulle e Aigle, un villaggio bellissimo e meta per gli amanti dello sci. La gente ci guardava stupita, invece di avere attrezzature da sci sul nostro pickup avevamo attrezzature subacquee, la cosa avrebbe incuriosito chiunque. Dovendo prendere una stradina secondaria per raggiungere il Col des Mosses decidemmo di montare le catene, il che poi si rivelò un’ottima decisione. Nel frattempo cominciò a nevicare. Raggiunto il Colle trovammo gli altri componenti del team ad attenderci: baci e abbracci poi subito al lavoro per scaricare tutto il materiale dalle nostre auto e caricarlo sul “gatto delle nevi”. Sono serviti tre viaggi per portare tutto il materiale su alla baita. Sistemato tutto, e racchette ai piedi, cominciò l’avventura. Il sentiero in salita e la neve che cadeva non ci facilitò quella lunga ed interminabile camminata, ci vollero più di due ore per raggiungere la baita che si trova vicino al Lago di Lioson. Era da poco passato mezzogiorno quando giungemmo a destinazione, io ero distrutto, ma anche gli altri pur essendo più giovani di me non erano in condizioni tanto Reportage LIBERTÀ Domenica 7 marzo 2010 I fori praticati nel ghiaccio ad una distanza prefissata (fotoservizio Rino Sgorbani) Inizia l’avventura nel Lago di Lioson nelle Prealpi svizzere,ai piedi del Pic Chaussy,a circa duemila metri di altitudine migliori. Per fortuna che all’interno della baita ci attendevano con un buon pasto caldo. Rifocillati e riposati iniziammo i preparativi e la pianificazione dell’immersione del pomeriggio, nel frattempo il gruppo che era salito prima di noi cominciò a praticare i fori nella spessa calotta ghiacciata del lago. I fori dovevano essere tre e posizionati a triangolo ad una distanza di circa quaranta metri da uno all’altro e con una apertura di circa un metro e mezzo, tre fori per avere una alternativa nel caso uno si fosse chiuso o fosse impraticabile per l’uscita. L’immersione si sarebbe svolta in questo modo: tre in immersione e tre in superficie equipag- giati e pronti ad intervenire per una eventuale emergenza. Dei tre in immersione uno doveva essere “le chef de trou” come lo chiamano loro, cioè il capo del buco, colui che è sagolato e tiene i contatti con quelli in superficie tramite la fune. La raccomandazione era quella di stare sempre molto vicini per poter intervenire tempestivamente al verificarsi di qualsiasi problema. Nel nostro gruppo eravamo, io Aldo e André, André era le chef de trou, noi avevamo deciso di immergerci con il rebreather per diversi motivi, il primo e più importante è che la miscela respirata in un circuito chiuso come il rebreather è calda e asciutta, al contrario di un normale circuito aperto, il che ci avrebbe facilitato non poco viste le condizioni estreme in cui ci saremmo immersi. Secondo motivo era che dovendo fare fotografie la presenza di bolle di un circuito aperto mi avrebbe disturbato, scenograficamente parlando. Terzo motivo, con il rebreather si respira una miscela più ricca di ossigeno a basse profondità, per cui vista la nostra pianificazione secondo cui non saremmo scesi oltre i 15 metri, non poteva che esserci di vantaggio. Preparata l’attrezzatura, eseguito il test dei rebreathers incluse le tarature della pressione ambiente, taratura indispensabile essendo a duemila metri di quo- ta con pressione diversa rispetto al livello del mare, iniziammo a vestirci all’interno della baita. Poi, indossata tutta l’attrezzatura, ci aspettava un piccolo percorso di duecento metri per arrivare al primo foro sul ghiaccio. Non fu una cosa facile, e da quel momento capii subito che stavo facendo delle cose veramente incredibili, stavo camminando in mezzo alla neve vestito da sub con un pesante rebreather sulle spalle mentre la neve scendeva e soffiava un vento gelido dal nord. Giunti al primo foro c’erano già Yvan e il suo gruppo ad aspettarci, loro ci avrebbero fatto assistenza dalla superficie. André entrò per primo con la cima di sicurezza, io entrai per secondo, l’ acqua era gelida, appena due gradi, l’unica parte scoperta era una parte del viso, ricordo che appena misi la testa sott’acqua mi sentii come paralizzato dal freddo nei muscoli facciali, cercai di non pensarci e di godermi il panorama suggestivo che mi circondava. Appena entrato anche Aldo, cominciai a fare qualche foto, ma mi accorsi che la macchina fotografica non funzionava, diversi pulsanti di controllo erano bloccati, probabilmente dal freddo, ed i guanti stagni non mi facilitavano sicuramente le possibilità di manovre. Nel frattempo mi entrò un po’ di acqua nella maschera, non riuscivo a svuotarla, è incredibile che una 55 manovra così semplice come uno svuotamento maschera in un ambiente così estremo possa diventare un problema. Con calma riuscii a svuotare la maschera e ricominciai a manovrare sulla macchina fotografica, riuscii a farla funzionare in parte, cioè non potevo operare sui diaframmi ma solo sui tempi dell’otturatore, meglio di niente pensai, e così cominciai a scattare foto. L’ambiente che ci circondava era incredibilmente surreale, man mano che ci allontanavamo dal foro il buio intenso ci avvolgeva, la lastra di ghiaccio sopra di noi, illuminata dai nostri fari, mi faceva sentire come imprigionato in una morsa di freddo. Arrivati al secondo foro decidemmo di ritornare seguendo il nostro filo d’Arianna, il freddo pungente cominciava a farsi sentire specialmente sulle mani anche se avevo i guanti stagni. Giunti al foro uscii per ultimo per poter scattare qualche foto dei miei compagni durante la loro risalita: uno scenario veramente fantastico. La nostra immersione durò circa trenta minuti, per me fu quasi al limite della sopportazione, avevo talmente freddo alle mani che non riuscivo a chiudere il boccaglio del rebreather. Anche l’uscita da quel buco ghiacciato non fu facile, ricordo di essermi sentito goffo come una foca quando si trascina fuori dall’acqua. Durante il percorso per arrivare alla baita la muta bagnata cominciò a ghiacciare e pensai: vuoi vedere che rimango qui in mezzo rigido come un baccalà? Poi piano piano anche quell’ultima fatica fu superata, una volta all’interno della Baita tutto mi sembrò tornare alla normalità, e mentre ci spogliavamo io e Aldo ci siamo guardati ed abbiamo detto: «Bene, anche questa è fatta». Alla sera davanti al camino e ad un’ottima fonduta eravamo tutti contenti della nostra prima giornata di avventura, però non era ancora finita, ci aspettava un’altra giornata altrettanto dura e faticosa. Con Aldo avevamo programmato due immersioni, la prima per fare foto e la seconda per girare un video. Al mattino verso le nove iniziarono i preparativi per l’immersione, abbiamo dovuto riaprire i fori sul lago ghiacciato, perché la temperatura rigida della notte scesa a 23 gradi sotto zero li aveva parzialmente chiusi. La giornata era bella, fredda ma con il sole, la luce che entrava dai fori sotto la calotta ghiacciata formava uno scenario fantastico. Aldo con la sua ingombrante telecamera cercava di catturare quei giochi di luce, mentre io con un faro supplementare illuminavo la lastra di ghiaccio sopra di noi, dove in certi punti si erano formate delle bolle di ghiaccio completamente trasparenti. Nonostante quella scenografia naturale che aveva catturato tutta la nostra attenzione il freddo pungente ricominciava a farsi sentire, era giunto il momento di uscire. Sempre con le solite difficoltà siamo riusciti a portare a termine anche quell’ultima immersione, e ci aspettavano i faticosi preparativi per il rientro. La spedizione nel suo complesso è andata bene, naturalmente dobbiamo ringraziare gli amici svizzeri per l’ottima organizzazione, e personalmente credo che questa fantastica avventura resterà un ricordo indelebile dentro di me. www. rinosgorbani. com