Prima pagina del Chayyè Yehudà (Vita di Yehudà), autobiografia di
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Prima pagina del Chayyè Yehudà (Vita di Yehudà), autobiografia di
Prima pagina del Chayyè Yehudà (Vita di Yehudà), autobiografia di Leon Modena Chayyè Yehudà (Vita di Yehudà) Autobiografia del rabbino Leon Modena “Questa è la biografia di Yehudà ’Ariè, figlio del nobile e credente signor Yitzchàq… Pochi e cattivi sono stati i giorni degli anni della mia vita su questa terra”. Leon Modena iniziò a scrivere la sua autobiografia nel 1618, a 47 anni, dopo la morte immatura del proprio figlio Angelo, e riprese la sua scrittura ogni sei mesi, fino agli ultimi giorni della sua vita, per concludere il manoscritto con il proprio testamento. Il testo rimase inedito fino ai primi anni del Novecento e da allora ebbe varie edizioni e fu oggetto di molti studi. Con il Chayyè Yehudà di Leon Modena il genere autobiografico entra a pieno diritto nella produzione ebraica italiana. Giudicata da molti solo per il suo valore documentario, utile per la conoscenza della vita del grande rabbino e degli eventi del ghetto veneziano, la Vita di Yehudà si rivela, al contrario, a un’analisi più attenta, come una vera e propria confessione retrospettiva del dramma interiore di un uomo, sempre tormentato dal contrasto tra la vita pubblica e la vita privata, tra il suo essere e il vero dover essere. Struttura portante di tutto il testo, infatti, è la vistosa dicotomia esistente tra le vicende di un giovane prodigio, motivo di una ostante autocelebrazione; tra la severa immagine pubblica del grande predicatore e del maestro da tutti stimato e spesso consultato per la sua autorità nel campo normativo e, dall’altro lato, il profilo oscuro che Yehudà consegna alla scrittura tutta privata dell’area intima e riservata dell’io: sono i risvolti di una personalità inquieta, turbata da ossessioni ricorrenti e da sogni premonitori, che si sente vittima di un destino di ansia e di sofferenza, vissuto tra momenti di improvvisi entusiasmi e fasi di profonda depressione. L’exemplum vitae che Modena vuole affidare ai suoi figli e ai suoi allievi si delinea, nell’economia complessiva del racconto, come una sorta di riscontro, di metafora in sedicesimo, della condizione stessa dell’ebraismo diasporico, rivissuta, nello spazio privato dell’io, attraverso un diagramma di cadute e di peccati, di tentativi di redenzione e di avvilenti sconfitte, inconfessabili a un mondo esterno, ma rivelati, pur con attenta selettività, al contesto riservato della propria discendenza. Conosco l’empietà del mio cuore le mie grandi colpe e i più lievi torti. So che merito il fuoco infernale. Desidero per mia disgrazia il vizio che ci attira con false lusinghe, perciò mi presento davanti a Te, o Signore, chiedendo aiuto contro il morso del serpente. scrive nella sua preghiera per la vigilia del novilunio, indicando proprio nel vizio del gioco il nemico che lo ha costantemente sconfitto, portandolo alla miseria. Ed è quasi il modo di trascrivere il suo interiore tormento, già confessato nell’incipit stesso della sua scrittura, a indicare le coordinate interpretative dell’intera narrazione: “Pochi e cattivi sono stati i giorni degli anni della mia vita su questa terra” (Gen., XLVII, 9). Questa sensibilità contrastata, segnata forse dalle ombre di una mentalità seicentesca, porta a rileggere l’intero arco di un vita come un percorso di penitenza, segnato dalla perdita dei figli, nel continuo alternarsi di sventure e di risarcimenti, di cadute e di tentativi di redenzione, inutili tutti, perché incapaci di confortare l’amaro del peccato, contro il quale nulla sembra potere la volontà dell’uomo. Rivestiti i panni di un novello Giobbe, sostenuto dalle risorse di una consolidata abilità retorica, Modena sembra strutturare, allora, nella sua scrittura, la più celebre predica della sua carriera, dall’exordium d’apertura, nel racconto di una fanciullezza e di una giovinezza dagli eventi eccezionali; alla narratio centrale, scandita dai successi oratori e dalle disgrazie familiari, fino alle parole finali del proprio elogio funebre, che suonano come una vera e propria peroratio conclusiva: Si dica che non facevo parte degli ipocriti, che il mio interno è come il mio esterno; sono stato timorato di D-o, mi sono tenuto lontano dal male più in segreto che in palese e non ho avuto riguardi ad amico o a parente e neanche a me stesso o a ciò che mi poteva esser utile quando si trattava di quello che mi sembrava fosse la verità... Mettendo a nudo i meandri più nascosti della sua anima, il celebre rabbino consegna alle carte il profilo del dissidio di un uomo, profondamente timorato di D-o, ma tormentato sempre dai sensi di colpa di chi, per la propria incapacità di opporsi al male, non ha la costanza di aderire pienamente al sistema di vita nel quale crede con fermezza, per educazione e convinzione, e che la Torà, tante volte commentata e spiegata al pubblico, gli impone. Il Chayyè Yehudà, insomma, lungi dall’essere solo un insieme di aneddoti della vita del ghetto veneziano, è l’immagine di una personalità inquieta, che percepisce i profondi conflitti dell’individuo, ma li proietta, e, in qualche modo, li giustifica, sulla sfondo di una visione superiore e unificante: il diagramma segreto di un avvilente tormento che non sa né può placarsi, pur scorgendo la via della salvezza, lungo la quale però il cammino resta sempre incerto e malsicuro. Tratto da: U. Fortis, Letteratura e vita sociale nei ghetti. Secoli XIII-XX, Livorno, Belforte 2011. Museo Ebraico di Venezia