Scoprendo Torben

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Scoprendo Torben
SoloVela
INTERVISTA
Scoprendo
Torben
Testo per misurare lo spazio
equivalente di 001 righe cartella.
Testo per misurare lo spazio
equivalente di 002 righe cartella
di Mauro Melandri
lasse 1960, Torben Grael è uno degli atleti più titolati nella storia della vela. Per lui parlano cinque
medaglie olimpiche – due ori, un argento e due
bronzi - una Louis Vuitton Cup, vinta nel 2000 con
Luna Rossa, l’affermazione nell’ultima Volvo Ocean Race
come skipper di Ericsson 4, la conquista di sette titoli iri-
C
luglio 2010
dati e di altri undici podi mondiali. A ciò si aggiungono
una serie infinita di successi in manifestazioni cosiddette
“minori”. Un campione a tutti gli effetti, considerato un
idolo per il popolo carioca che alle incontestabili doti tecniche, associa un carattere e una semplicità fuori dal comune. Particolari scoperti da SoloVela nel corso di un’intervista realizzata durante l’ultima tappa del Louis Vuitton
Trophy.
Come nasce il Torben Grael che tutti conosciamo oggi?
Da mio nonno: un ingegnere danese che arrivato in Brasile per motivi di lavoro ne è rimasto colpito al punto da non
tornare più indietro. Le prime nozioni di navigazione me le
ha trasmesse lui ed è con lui che io e mio fratello abbiamo
affrontato le prime uscite in barca, a bordo di Ailin, un 6
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Volvo Ocean Race
Metri che è ancora della nostra famiglia e
che sta per compiere cento anni.
Una barca storica…
Assolutamente: è una barca che ha vinto la
medaglia d’argento alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, anno in cui è stata costruita.
Terminato l’apprendistato con il nonno, com’è proseguita la tua “carriera”?
La passione per la vela era da parte della
famiglia di mia madre: i miei zii hanno preso
parte a due Olimpiadi e sono stati campioni
del mondo di Beccacino per tre volte. Mio
padre, invece, era un militare paracadutista
e, com’era solito dire, amava navigare a tre
dimensioni. Il suo lavoro ci ha permesso di
girare moltissimo. Ricordo che appena ricevuta in regalo dal nonno la prima barca
siamo andati a vivere ad Uruguaiana, nel
sud del Brasile. Lì non si poteva navigare e
così cominciai a giocare a tennis. Poi,
quando avevo tredici anni, mi sono trasferito a Brasilia e lì ho rimesso piede sulla
barca a vela ed ho affrontato le prime regate.
Con che barca navigavi allora?
Ho fatto diverse regate con il Pinguino: era
una deriva piuttosto diffusa nelle Americhe.
Ma le regate più serie erano quelle riservate
al Beccacino e al Laser.
Quando hai deciso che da grande avresti
fatto il velista?
Non è stata una cosa programmata. Allora
Un intenso prim
le cose erano molto diverse rispetto a oggi:
piano di Torben
i ragazzi vedono il percorso fatto dai proGrael; a sinistra,
impegnato a bordo
fessionisti e possono tentare di ripercordella sua Star con
rerne le orme. Ai miei tempi l’approccio era
Marcelo Ferreira
molto più amatoriale. Si cercava di dare il
nelle acque di
meglio ad ogni uscita in modo da muovere
Viareggio, dove ha
un piccolo passo avanti e approdare agli
preso parte al
Campionato
eventi più impegnativi.
Europeo di classe
Qual è stato il momento della svolta?
Attorno ai diciotto anni mi sono trasferito a
Rio de Janeiro per frequentare l’università ed ho cominciato ad uscire in barca con i miei zii gemelli, Axel ed Eric,
ai quali facevo il prodiere a bordo delle classi olimpiche.
Grazie a loro, che sono velisti fortissimi, ho imparato molto
dal punto di vista tecnico. Senza dubbio è stato un momento di grande crescita: il mio bagaglio si è arricchito di
nuove esperienze che mi sono servite molto negli anni a
venire.
E’ in quel periodo che hai iniziato a pensare alle Olimpiadi?
Anche in questo caso non si è trattato di una cosa programmata. C’era un Mondiale di Soling proprio a Rio de
Janeiro. I miei zii navigavano soprattutto con la Star e uno
di loro ha preso in prestito una barca per partecipare alle
regate. Era uno scafo vecchissimo e mal messo: il pro-
prietario lo utilizzava per pescare. L’abbiamo sistemato un
pò e siamo riusciti a cavarci la soddisfazione di un primo
di manche, finendo decimi in classifica generale. Era il
1978, anno in cui ho vinto il Mondiale Juniores Snipe. Poi,
sempre con il Soling, abbiamo vinto il Campionato Brasiliano e di conseguenza siamo andati al Mondiale in Svezia.
L’anno seguente mio zio mi ha lasciato il timone e da lì è
iniziata la mia avventura nelle classi d’interesse olimpico,
attività che alternavo alle uscite in Laser che, pur non essendo deriva olimpica, radunava tanta gente giovane.
A conti fatti passavi moltissimo tempo in acqua…
Davvero tanto. A quel tempo non si girava il mondo come
oggi. Gran parte delle regate le facevi sotto casa. Solo chi
vinceva il Campionato Brasiliano aveva l’onore di andare all’estero per una regata. E’ così che sono andato a fare il
Mondiale di Soling del 1979 di cui parlavo prima con uno
dei miei zii e la pre-olimpica in Star con l’altro.
Di anno in anno, siamo ormai arrivati ai tempi della prima
campagna olimpica…
Esatto. A partire dal 1982, dopo aver vinto la Sailing Olympic Week di Cork e il Campionato Nord Americano, abbiamo iniziato a fare le cose in modo serio, puntando ai
Giochi del 1984 dove ci abbiamo conquistato l’argento.
Dopo quella medaglia, problemi e impegni di altro genere
ci hanno impedito di allenarci come nel corso della campagna olimpica e i risultati sono iniziati a peggiorare. Dopo
un nuovo argento al Mondiale di Sarnia del 1985 siamo incappati in un pessimo risultato nel 1986, cui è seguito il decimo del 1987.
In quel periodo eri concentrato solo sulle classi olimpiche
o regatavi anche su altre barche?
Nonostante fossimo verso la fine degli anni ottanta il movimento olimpico in Brasile non era ancora ben sviluppato.
Io continuavo a regatare sul Beccacino, che era piuttosto
diffuso, e sul Soling. Il problema era che nelle acque di
casa gli avversari erano cinque o sei. Quando andavi all’estero incontravi flotte di cinquanta, sessanta barche.
Eravamo arrivati al 1987 e al decimo posto del Mondiale Soling. Nel 1988 sei stato bronzo a Seul nella Star. Cos’è successo in quell’anno?
Proprio nel 1987 erano in programma i Giochi Pan-americani. Io avevo già vinto le selezioni con il Beccacino e con
il Soling quando mi chiamò un amico per convin8
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Carlo Borlenghi
SoloVela
Carlo Borlenghi
Due immagini di
Torben Grael a
bordo di Luna
Rossa. Il
campionissimo
brasiliano è stato
tattico del
sindacato italiano
in occasione di
tutte e tre le sfide
lanciate da
Patrizio Bertelli
cermi a partecipare anche alle selezioni per la Star. C’erano
una ventina di barche iscritte e per noi, che avevamo già
deciso di partecipare ai Giochi con il Soling, si trattava di
un bell’allenamento in vista delle regate ufficiali. Gli avversari, quando hanno saputo che volevamo iscriverci anche
alle selezioni della Star, ci hanno ostacolato in tutti i modi
possibili. Ufficialmente ci hanno escluso perché essendo
quelle selezioni valide come Campionato di Distretto non
avevamo disputato almeno cinque regate nel corso della
stagione. E’ così che abbiamo deciso di buttarci nella
Star: volevamo dimostrare che meritavamo di partecipare
a quelle selezioni…
Come hai gestito il momento del passaggio dal Soling alla
Star?
Quasi contemporaneamente mi ha chiamato il mio prodiere del Soling e mi ha detto che aveva l’occasione di passare in equipaggio con Ze Paolo, un nostro grande avversario, e mi ha proposto di affrontare la preparazione
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olimpica sulla sua Star. Era la fine del 1987. Ai Giochi di
Seul mancava davvero pochissimo, ma la sfida mi attraeva molto e mi ci sono gettato a capo fitto. Tre mesi
prima dell’inizio delle Olimpiadi, assieme a Nelson Falcao,
il mio prodiere di allora, siamo andati al Mondiale in Argentina. Fu una trasferta incredibile: oltre tremilacinquecento chilometri con la barca al traino. Nonostante ciò finimmo quinti. Fu un risultato importante, che ci diede i
giusti stimoli per la trasferta di Seul, affrontata dopo aver
avuto la meglio sull’equipaggio di Gaston Brun.
…e a Seul è arrivata la seconda medaglia a cinque cerchi…
Fu un Olimpiade bellissima, con condizioni impegnative.
Abbiamo vinto il bronzo ma avremmo potuto fare meglio.
Di bolina non eravamo tra i più veloci, ma di lasco camminavamo bene. I nostri parziali erano buonissimi, poi, nella
sesta prova, abbiamo rotto una crocetta. Nonostante questo ci siamo presentati alla prova conclusiva attaccati a
Mark Reynolds, in lotta per l’oro. Reynolds ci ha marcato
strettissimi per tutta la regata, rallentandoci. Sul finire ha
rotto l’albero anche lui e ad approfittarne sono stati gli inglesi Michael McIntyre, un ex finnista, e Philip Vaile…
A Seul eri con Nelson Falcao, ma a livello olimpico il tuo
nome è legato a doppio filo a quello di Marcelo Ferreira. Un
binomio indissolubile in un ambiente dove gli equipaggi si
sfaldano piuttosto rapidamente…
Finiti i Giochi coreani Nelson, che era più vecchio di me e
aveva un lavoro normale, ha preferito ritirarsi e io mi sono
messo alla ricerca di un nuovo prodiere. Con Marcelo faccio coppia dal 1989. Le cose sono sempre andate alla
grande tra noi. Lui, oltre a essere un grande velista, è una
persona davvero unica, speciale. Andarci d’accordo è
cosa piuttosto facile. Insieme abbiamo vinto quasi subito
il Mondiale Star di Cleveland del 1990.
All’inizio degli anni novanta ti si sono aperte le porte della
grande altura…
Esatto. Attorno al 1991 sono stato chiamato a regatare a
bordo del Brava, la barca di Pasquale Landolfi. A fare da
tramite è stato Guido Soldano che era con l’equipaggio di
Francesco de Angelis e costruiva ottimi alberi per la Star.
Poco dopo il mio arrivo abbiamo vinto il Mondiale One Tonner di Skhovshoved. Era il 1992, anno dei Giochi di Barcellona e delle regate a bordo di Mandrake, un quindici metri di Giorgio Cairo di cui era skipper Francesco (de Angelis,
ndr).
Come fu imbattersi nel mondo dell’altura mediterranea
dopo aver dedicato gran parte del proprio lavoro al mondo
olimpico?
Impegnativo. Il livello era già altissimo. Certo, parliamo di
altri anni, ma fatti i dovuti rapporti si può tranquillamente affermare che rispetto ad oggi le differenze sono davvero poche.
1992, anno di Olimpiadi. Quelli di Barcellona sono stati gli
unici Giochi che ti hanno visto fuori dal podio…
A Barcellona abbiamo fatto davvero male: finimmo undicesimi. Il perché è presto detto: per pagarci la campagna
olimpica accettammo diversi ingaggi nell’altura e ci ritrovammo con poco tempo per allenarci. I materiali, poi, non
Volvo Ocean Race
erano adatti al campo di regata spagnolo. Durante l’evento
incontrammo vento leggero e il bordo era praticamente obbligato: non era certo il massimo.
Una delusione, quella di Barcellona, che hai smaltito ad
Atlanta nel 1996. Finalmente oro…
Fu un’Olimpiade davvero eccezionale per noi, preludio al
mio ingresso in Luna Rossa che avvenne nel 1997 grazie
a Francesco de Angelis. Doveva essere un equipaggio interamente italiano: io fui preso perché sapevo parlare bene
la lingua.
Al di là della vittoria nella Louis Vuitton Cup, che ricordo hai
di quella sfida?
I ricordi sono molti: fu una campagna davvero bellissima,
già a partire dagli allenamenti svolti a Punta Ala prima
della lunga trasferta in Nuova Zelanda. La cosa che non
tutti ricordano è che il team era stato strutturato in modo
da non avere due equipaggi completi. I velisti erano ventiquattro e i team venivano completati di volta in volta dagli allenatori come Rod Davis, che ci ha insegnato le basi
del match race, Don Cowie e Alan Smith. Era un team davvero molto unito, che incontrò l’appoggio del pubblico, anche di quello neozelandese. Durante la Louis Vuitton i kiwi
si schierarono con noi, specie nei match contro gli statunitensi.
Finita la Coppa del 2000 subito a fare la selezione con la Star
per i Giochi di Sydney. Ti eri allenato ad Auckland?
No, non mi ero allenato per niente, ma una settimana
dopo la finale contro i kiwi ero già in regata sulla Star. Ab-
Volvo Ocean Race
Volvo Ocean Race
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Ricordi di Volvo
Ocean Race.
Sopra, così
appariva Torben
Grael dopo
l’arrivo a
Qingdao nel
corso della
vittoriosa
partecipazione
con Ericsson 4; a
lato, con la
moglie Andrea e
con il figlio
Marco, entrambi
ottimi velisti
biamo fatto solo sei mesi di preparazione. Nonostante il
breve tempo a disposizione ci siamo potuti allenare bene
grazie alla sponsorizzazione di Prada, che poi ci ha supportato anche per il 2004. Certo, a Sydney non eravamo
al cento per cento: ci mancava un po’ di ritmo, ma
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SoloVela
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tenuto il miglior risultato possibile.
Arriviamo quindi alla prima Volvo Ocean
Race con Brasil One. Un’occasione nata per
caso o un sogno realizzato?
All’idea del giro del modo ci pensavo da
tempo. Fu un discorso iniziato durante la finale della Coppa del 2003. Poi, con la vittoria ai Giochi del 2004 è arrivata la spinta
Volvo Ocean Race
Sopra, due immagini della
Volvo Ocean Race 20052006, che Grael affrontò
come skipper di Brasil One;
sotto, il passaggio di Capo
Horn a bordo di Ericsson 4
di anticipo, togliendoci il problema dell’ultima prova che,
come avrete capito, pare portarmi male. A conti fatti credo
sia la vittoria più bella della mia carriera. Le condizioni
erano difficili, il vento molto instabile sia in angolo che in direzione.
Sino al 2000 i vari impegni hanno seguito binari distinti. Dal
2000 in avanti come hai fatto a scindere tra America’s Cup,
Olimpiadi e Volvo Ocean Race?
E’ stato molto difficile, specie perché molto spesso ho dovuto assumere scelte drastiche. Alcune volte, però, gli impegni si sono incastrati da soli, come nel caso di Atene
dove siamo arrivati ben preparati perché la Coppa del
2003 si era già conclusa da poco più di un anno.
Una Coppa, quella del 2003, avara di soddisfazioni. Cosa
salvi di quella esperienza?
Il principale problema era che la barca non andava. Questo ha creato attriti interni al team, nel quale già dal principio non si respirava la stessa aria del 2000. Con il mezzo
che avevamo a disposizione credo comunque sia stato otVOR
VOR
il livello raggiunto era più che accettabile.
Una campagna olimpica conclusa con la conquista di un
bronzo…
Anche lì avremmo potuto fare meglio. L’ultimo giorno eravamo in testa ma abbiamo buttato tutto al vento partendo
in anticipo. Tra l’altro quell’Olimpiade finì come mai
avremmo immaginato. Nel pre-start, infatti, avevamo spinto
fuori Mark Reynolds ed eravamo quasi sicuri dell’argento
nonostante la nostra partenza anticipata. Reynolds, contrariamente al bordo sulla sinistra, che su quel campo di regata era quasi obbligato, si è sparato tutto a destra, gli ha
detto bene e ha vinto l’oro. A noi è rimasto il bronzo.
Anche in questo caso, però, vi siete rifatti, vincendo l’oro ad
Atene nel 2004. Tra le varie medaglie olimpiche qual è quella
che ti ha dato la maggior soddisfazione?
Senza dubbio quella di Atene. Vuoi perché si regatava nella
terra che ha dato origine alle Olimpiadi, vuoi perché vincendo il secondo oro sono diventato il più importante
olimpionico brasiliano. E poi abbiamo vinto con una regata
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Un giovanissimo
Torben ritratto a
bordo di Ailin, il
glorioso 6 Metri S.I.
che ancora oggi è
di proprietà della
famiglia Grael
decisiva che ha fatto decollare il progetto.
Quali difficoltà hai incontrato nel gestire un team di Volvo
Ocean Race?
Mah, posso dirti che tutto dipende dal team. Con Brasil
One, ad esempio, partimmo tardi e avevamo i soldi appena
sufficienti per terminare l’impresa. Il vissuto quotidiano era
diverso da quello dell’Ericsson Racing Team. Lì siamo partiti per tempo. Ci siamo allenati a lungo a Lanzarote, con
due barche. Abbiamo potuto provare vele, assetti, fare test.
Insomma, è stata una campagna in piena regola, molto simile a quelle che si fanno per la Coppa America.
Nel corso delle due partecipazioni hai avuto modo di vivere
tanto l’emozione dell’Oceano Indiano, quanto navigare lungo
le rotte asiatiche. Quale dei percorsi ti è piaciuto di più?
Tutte e due mi hanno lasciato qualcosa. Il problema dell’ultima volta è che si è saliti troppo a nord. Arrivare in Cina
in pieno inverno non è stato semplice.
Dopo due giri del mondo credi che lo slogan dell’evento, Life
at the Extreme, sia corretto?
Direi proprio di si. Li si rischia davvero di lasciarci la pelle.
Specie quando sei skipper, e sai di essere responsabile
della vita del tuo equipaggio, ci pensi tutti i giorni. Ricordo
quando eravamo vicino a Capo Horn con Brasil One in
condizioni limite e abbiamo ricevuto il messaggio che annunciava l’avaria strutturale di Movistar. In quel momento
ti chiedi cosa fare: se rallenti tutti ti passano, ma d’altro
canto pensi che la barca gemella alla tua sta colando a
picco. Non è facile.
Ci sono mai stati momenti nei quali hai pensato di mollare?
Mollare no, ma ci sono stati istanti molto duri. Nella seconda tappa con Brasil One, ad esempio, dopo un’ottima
partenza abbiamo dovuto fare i conti con la rottura della
coperta. Siamo rientrati in Sudafrica, abbiamo riparato il
danno e siamo tornati in mare cinque giorni dopo gli altri.
Le sfortune non sono finite, perchè in mezzo all’Indiano abbiamo rotto l’albero. Dopo aver raggiunto la costa del-
Alcuni ritagli di giornale
riportanti notizia dei
successi del talento
carioca. Vincendo la
quinta medaglia
olimpica ad Atene,
Torben Grael è
diventato l’atleta
brasiliano più titolato
l’Australia sotto armo di fortuna siamo riusciti a recuperare
un po’ di gasolio da un peschereccio grazie al quale abbiamo portato la barca a Freemantle, dov’è stata alata e
trasportata a Melbourne in camion.
Come sono cambiati i VOR 70 da un’edizione all’altra?
Nel 2005 le differenze erano notevoli. Con Brasil One avevamo sofferto problemi alla chiglia prima dell’inizio della regata: questo ci ha permesso di risolverli per tempo. Nell’ultima edizione, invece, le prestazioni e l’affidabilità erano
molto più vicine.
Potendo iniziare domani, cosa rifaresti tra giro del mondo e
Coppa America?
Sono due regate molto diverse, impossibili da paragonare.
Il bello della Volvo Ocean Race è che si tratta di una conquista: per chi ama navigare non c’è niente che regga il
confronto. Volare a trenta e passa nodi in pieno Oceano è
qualcosa di unico. Con Ericsson 4 abbiamo fatto il record
di percorrenza nelle ventiquattro ore. Anche la Coppa ha
il suo fascino derivante dalla sua storia e da tutto ciò che
la circonda.
Tornando all’America’s Cup, nel 2007 eri ancora con Luna
Rossa…
In pratica non ho fatto in tempo a scendere da Brasil One
che già ero sull’aereo che mi portavo verso l’ACT di Valencia. Nonostante il mio ingresso in corsa mi sono integrato bene con il team: il feeling con James Spithill è stato
immediato. Di quella campagna conservo alcuni buoni ricordi. La semifinale con BMW Oracle Racing fu davvero
avvincente: li abbiamo battuti nonostante le loro barche
fossero leggermente più veloci e le condizioni meteo fossero favorevoli a loro.
Cosa c’è nel tuo futuro? Pensi a Londra 2012?
Mi piacerebbe tornare a girare il mondo, ma credo che la
prossima Volvo la salterò. Per quanto riguarda Londra
non ho progetti precisi. Per ora navigo in Star, perché mi
g
piace e perché mi aiuta a mantenermi in forma.
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